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La Polinesia esiste? Il grande volo La messa della ... - Orville Viaggi

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che, come tutti mercati dei tropici, sprigionava già a distanza il profumo <strong>della</strong> frutta e delle spezie e, qui in particolare,quello dolce e indimenticabile dei fiori di tiarè, colti nella notte e ancora bagnati di rugiada. Me ne misi subito una collanaal collo: e fu da quel profumo che mi sentii giunta in <strong>Polinesia</strong>.Col taxi avevo appuntamento due ore dopo, le nove del mattino, lungo il viale che costeggia il lungomare di Papeete:Boulevard Pomaré. Tenetelo a mente se capitate a Tahiti una domenica mattina, perché qui, esattamente nella chiesaprotestante di Paofai, Tahiti, più che altrove, è Tahiti. Da ogni angolo dell’isola i truks, piccoli bus di legno, portano a<strong>messa</strong> uomini, donne e bambini, tutti vestiti a festa, come se avesse luogo uno spettacolo.“Proseguiamo il tour?” chiede il tassista. “Restiamo qua” rispondo io.Le donne portano cappelli di fibra naturale ricamati e intrecciati di fiori freschi; indossano abiti con pizzi, cuciti su misura,di cotone stampato a tinte forti, policrome e spregiudicate: qui il rito religioso non allude al peccato, alla mortificazione oalla rinuncia ma esprime l’energia più vitale e sensuale dell’<strong>esiste</strong>nza. <strong>La</strong> <strong>messa</strong>, che dura due ore nella chiesa invasadal sole, è un canto polifonico quasi ininterrotto che rievoca la primitiva melodia <strong>della</strong> danza Tamuré.Chiudi gli occhi, e capisci perché l’ufficiale del Bounty Fletcher Christian, più famoso per il volto cinematografico diMarlon Brando, non seppe sottrarsi alla seduzione delle donne di Tahiti.Moorea e l'arte <strong>della</strong> fugaTahiti è il crocevia obbligato per spostarsi tra le isole polinesiane e Moorea è la più vicina: in sei minuti di aeroplano omezz’ora di battello siete già in un altro mondo.A me è successo ancora prima del decollo, quando sotto il piccolo Piper pronto a partire sulla pista, si presentò un uomoche non poteva passare inosservato. Alto, brizzolato, abito di lino écru, un panama in mano e, nei gesti, una classe euna discrezione d’altri tempi. Riempì il vano dell’aereo di vecchie valige Vuitton e, avvolto dall’alone di un personaggioda romanzo, salì a bordo. Non aveva certo l’aria del turista e non r<strong>esiste</strong>i, gli chiesi chi fosse. Si presentò con gentilezza:Patrice Bredel.<strong>Il</strong> nome forse non vi dirà niente, ma la sua avventura racconta un frammento di vera <strong>Polinesia</strong>: è la storia di un’evasione“moderna”. Bredel, parigino cinquantenne, conosciuto fin dagli anni ’70 nel circuito delle più importanti gallerie d’arte delmondo e <strong>grande</strong> estimatore dell’arte del Sud Pacifico, decide un giorno di cambiare vita e indirizzo. Dalla fine degli anni’80 la Galerie Api non si affaccia più su un boulevard parigino ma sulla spiaggia di Thanae, isola di Moorea: è un farépolinesiano, accessibile percorrendo un viottolo di corallo frantumato o direttamente via mare, da un basso fondalenavigabile solo su piroga a bilanciere.<strong>Il</strong> posto giusto per un mercante che a Tahiti ha scovato gli ultimi eredi polinesiani diGauguin, e che nella sua galleria possiede gli acquerelli originali con i quali idisegnatori imbarcati nelle navi di James Cook, documentavano i primi viaggi discoperta. Oltre a queste opere di valore inestimabile, Bredel raccoglie quelle dei piùquotati artisti contemporanei polinesiani e maori.<strong>La</strong> sua clientela non comprende solo turisti di passaggio ma si estende fino a quellaelitaria e blasonata d’oltreoceano. Una volta ogni due mesi Bredel, come se Christie’se Sotheby’s fossero lì a due passi, toglie l’inseparabile pareo, indossa lini e panama eprende il Piper per Tahiti, in orario utile per salire sul primo <strong>volo</strong> per New York.Ci sono Moorea, Raiatea o Bora-bora, isole con montagne coperte di giungla che si tuffano a strapiombo nello specchiodi lagune strepitose, oppure gli effimeri atolli corallini delle Tuamotu; e poi le isole lontane: le aspre e tormentateMarchesi e le dolci e selvagge Australi, o Tubuai – come talvolta vengono chiamate dalla popolazione locale. Ogniarcipelago ha caratteristiche peculiari irripetibili e il solo modo per rendersene conto è viaggiare in aree diverse, se si hail tempo per farlo, naturalmente.I trasporti aerei interni verso gli arcipelaghi lontani coprono solo alcune tratte, quasi esclusivamente quelle che colleganoTahiti alle isole e agli atolli abitati o agli alberghi. L’alternativa, per chi ha tempo e desiderio di avventura, è il viaggio incargo, un’esperienza che richiede un po’ di adattamento ma che rende accessibili i paradisi non ancora contaminati dalturismo. Raggiungere alcuni atolli delle Tuamotu, o delle più remote Marchesi e Australi, con i tempi dilatati di un viaggioin mare vi apre lo scenario di una <strong>Polinesia</strong> diversa e indimenticabile. Per chi ha a disposizione non più di due settimanedi tempo, forse non avrei dubbi nel suggerire la scelta: oltre Tahiti e le vicine Isole <strong>della</strong> Società, volerei alle Tuamotu:Rangiroa, Manihi o Tikehau, che definirei gli “assoluti tropicali”, sono a circa un’ora di <strong>volo</strong>.Rangiroa<strong>Il</strong> più esteso e spettacolare degli atolli dei Mari del Sud è una striscia di corallo stretta appena trecento metri ma tantolunga da non poterla mai vedere tutta: quasi duecento chilometri. Un anello sottile che emerge così poco dal blu intensodell’oceano, da farti sentire perduto, se non fosse per l’<strong>esiste</strong>nza di due villaggi di pescatori e dell’unico resort di capannee palafitte. Appena atterrata a Rangiroa, sono rimasta come stordita dai colori e dalla luce che s’irradiano dalla laguna;ma a questo ero preparata, o meglio: pretendevo che fosse così. Poi, la sera, dopo aver cenato a pesce nella pensione“Chez Glorine” – quattro tavoli di legno verniciato disposti su un pavimento soffice di sabbia – ho preso la biciclettaprestatami all’hotel e ho pedalato a ritroso, lungo il sentiero di sabbia che avevo percorso all’andata con il sole.


Perché vi racconto questo invece di parlarvi dei bassi fondali cristallini, degli squali apelo d’acqua o delle isole di sabbia e conchiglie, che nascono e muoiono in un’ora?Perché tutto ciò parla già da sé ed è così eclatante e spudoratamente bello che poiper raccontarlo infili inevitabilmente un superlativo dietro l’altro. Non c’è nessunaguida, invece, che ti prepari al buio emozionante di un atollo. Ed è forse in quelfrangente, quando le stelle sconosciute e innumerevoli dell’emisfero australe sonol’unica visibile presenza, che l’atollo comincia davvero a dominarti.Senti al tuo fianco il tuono inesorabile delle onde che si frangono sulla vicina spondaesterna dell’atollo, il punto dove il Pacifico precipita nel mistero <strong>della</strong> sua profondità. All’altro lato del sentiero, il mareimmobile <strong>della</strong> laguna: lo vedi soltanto perché rispecchia e moltiplica le stelle. E tu lì, a pedalare nella notte più buia delpianeta con lo stupore e il cuore in gola, come se quell’esigua e solitaria terra emersa fosse un miracolo, ovvero, la solapossibilità che all’uomo è data di camminare non veramente sulla terra, ma quasi sull’oceano.Manihi e le perle nereAltro atollo, stesso incanto; e poi questa storia delle perle nere dellemargheritifera, di cui l’atollo di Manihi concentra il maggior numero dilaguna è disseminata di palafitte, ogni palafitta è una fattoria e i polinesianimanghi o avocado ma perle: la loro terra è davvero il mare. <strong>La</strong> fattoria chelato meridionale dell’atollo, in fondo ad un lungo pontile. Come saprete laspontaneamente in natura solo quando all’interno dell’ostrica entracorpo estraneo, tipo un granello di sabbia. <strong>Il</strong> mollusco cerca allora didall’irritazione e, poco a poco, ricopre quel granello <strong>della</strong> stessa materiaguscio interno: la madreperla. Con il passare degli anni quel granellocoltivatori, dunque, non fanno altro che pescare le ostriche e inserirecorpo estraneo attraverso la fessura delle valve per poi ributtarle in mare,legate in grappoli che vengono lasciati a pochi metri di profondità perqualche anno.Arrivai alla fattoria durante la raccolta dei “frutti”, e fui accolta da due donne sedute di fronte acumuli di ostriche ancora grondanti di mare. Aprivano le conchiglie con una specie di forchetta eda ciascuna estraevano una perla che, a seconda <strong>della</strong> <strong>grande</strong>zza, veniva riposta in uno deivassoi al loro fianco. Una delle due, la più giovane, faceva tutto questo con dolce indolenza,mentre allattava al seno il suo neonato, su uno sfondo marino di celesti indimenticabili.<strong>La</strong> perla nera, che il mio compagno mi regalò al ritorno, comprata in un negozio di Tahiti, portacon sé anche la magia di quel momento: il ricordo di un atollo luminoso dove un bambino crescea latte, perle e profumo di mare.Tikehau, vivere l’atollo<strong>Il</strong> piccolo villaggio si allunga tra le palme da cocco e gli alberi di frangipane sullasponda sud <strong>della</strong> laguna e dall’altra parte un solo albergo cinque stelle appenainaugurato. Scelsi una pensione del villaggio, nominata su una piccola guida invendita a Tahiti: Logement chez l’abitant.Modesta ma pulita, a dieci metri dal mare e, soprattutto, nel cuore <strong>della</strong> vita semplicee quasi rarefatta di chi vive sugli atolli.Tuamotu, la Pinctada“farmes perlières”. <strong>La</strong>non vi coltivanoho visitato si trova sulperla si formaaccidentalmente unproteggersiche riveste il suodiventerà una perla. Idelicatamente unSulla strada di sabbia che taglia in due il villaggio c’è il forno dove le baguettelievitano nel primo pomeriggio e vengono sfornate alle cinque <strong>della</strong> sera; c’è l’ufficiopostale, col postino che si alterna tra lo sportello e la consegna in bici <strong>della</strong> posta. Ci sono due o tre spacci alimentari,dove m’innamorai di una <strong>grande</strong> scatola di latta: c’era scritto sopra “Biscuits Cabin” e conteneva cinque chili di gallettemade in Papua Nuova Guinea. Ingombrante ma così bella che la acquistai e poi regalai tutti i biscotti; nel <strong>volo</strong> di ritornoper l’Italia divenne il mio bagaglio a mano.Tra le case di Tikehau, di tanto in tanto c’è un campo di lavorazione <strong>della</strong> copra, la polpa di cocco: montagne di nociaperte che seccano ai raggi del sole e che man mano sono pronte da macinare o da spremere, per ricavarne olio. Lebarche da pesca sono tutte a riva la mattina: gli basta uscire un paio d’ore prima che sia notte, per ritornare poi inspiaggia cariche di pesce.Durante il giorno il sole è così forte che Tikehau sembra quasi addormentata, tranne che in un luogo: la scuolaelementare. Capitai all’ora di ricreazione quando un centinaio di bambini vestiti in grembiulino bianco giocavano nelcortile <strong>della</strong> scuola, ovvero un’ansa <strong>della</strong> spiaggia delimitata da un muretto giallo e blu. Chiesi il permesso e visitaiun’aula, seguita dall’intero gruppo di bambini.M’innamorai ancora, e non solo di quell’infanzia candida e solare, ma di una vecchia carta geografica appesa alla parete,quella del loro mondo. Due metri per due di mare, con la <strong>Polinesia</strong> intera, isola per isola. Mi chiesi allora cosa sognano ibambini in <strong>Polinesia</strong>, quando sognano di andare lontano.Tubuai


<strong>Il</strong> nome, che è quello di un’isola <strong>grande</strong> quanto Montecristo, designa anche l’interoarcipelago delle "<strong>Il</strong>es Australes", il meno conosciuto e il più remoto <strong>della</strong> <strong>Polinesia</strong>Francese. Una prerogativa, questa, che fu per me una tentazione irresistibile.Soltanto due delle cinque isole distribuite su un arco di mille chilometri sonoaccessibili dal cielo, Rurutu e Tubuai; le altre – Rapa, Raivavae e Rimatara – nonhanno mai visto un aeroplano: la sola possibilità di visitarle è un lungo viaggio incargo.Le isole Australi sono decisamente un’altra <strong>Polinesia</strong>: più pura, più semplice, piùstruggente. Isole verdi e immense lagune, ma senza alberghi, solo piccole pensionifamiliari, poche macchine e tanti cavalli.Atterrai a Tubuai e, come vuole la consuetudine in ogni isola polinesiana, mi ritrovai subito con una collana al collo, manon dei soliti fiori di tiaré: ero avvolta e inebriata da un ornamento fatto di gardenie e di zucchine, peperoni gialli e rossi,spicchi di pompelmo, foglie di timo e di basilico. Profumavo insomma, come un banco di frutta e verdura del mercato diPapeete: non me la sarei più tolta.Rurutu e l’ultimo cacciatore di baleneNella stagione degli amori, tra giugno e novembre, le balene arrivano a Rurutu acentinaia. Questa fu una ragione più che sufficiente per farmi arrivare fin laggiù. E lospettacolo, godibile persino dalla spiaggia, è uno di quegli incontri che non sidimenticano, ma non fu il solo.L’altro incontro fu con Teiarau Moeiau, 75 anni, l’ultimo cacciatore di balene <strong>della</strong><strong>Polinesia</strong>, protagonista e testimone di una cultura millenaria, conclusa da mezzosecolo. Lo incontrai di fronte alla sua casa, costruita con legno e vetroresina: il passoè incerto e stanco, ma gli occhi guardano ancora lontano; sono occhi di chi per unavita intera ha esplorato un orizzonte luminoso, in cerca di qualcosa.Negli anni Quaranta, quando Rurutu aveva 1000 abitanti (la metà di oggi), la comunità isolana, nonostante l’abbondanzadi balene, si imponeva di cacciare un solo esemplare all’anno, quanto bastava a tutta l’isola. Certo, la caccia eranecessariamente crudele ma i pescatori, come racconta Teiarau, tentavano per così dire di limitare il danno. “Cercavamodi evitare – mi spiegò – di cacciare una femmina con un cucciolo appena partorito, e per questo la scelta dell’esemplareda colpire comportava un’osservazione attenta per lunghi giorni; si aspettava quindi la fine <strong>della</strong> stagione, quando icuccioli sono svezzati, e si cacciava la balena all’apparenza più anziana del gruppo”.A Teiarau toccava il compito più arduo: in equilibrio sulla piroga doveva arpionare la balena al cuore, con un colpoenergico e deciso, affinché soffrisse il meno possibile.L’isola intera partecipava al traino del gigante esanime fino alla spiaggia, spingendo la carcassa sopra un mare tinto dirosso.Dal 1957 la caccia alle balene è fortunatamente chiusa; tuttavia bisogna dire che rispondeva ad una necessità primariain cui uomini e natura si appartenevano profondamente: quella <strong>Polinesia</strong> aveva la sua etica.Marchesi, indietro nel tempoDimenticate le spiagge bianche, le lagune radiose e le sdolcinatezze esotiche. Quella delleMarchesi è una <strong>Polinesia</strong> senza acque cristalline, senza atolli e senza coralli. E’ una<strong>Polinesia</strong> atavica e primordiale, avvolta nelle calde nuvole dei cieli equatoriali. Sei isoleimpervie, con montagne cupe e vallate profonde, dove corrono cavalli selvaggi, giungleimpenetrabili, cascate vorticose e spiagge nere, battute dalle incessanti onde dell’oceano.Cosa c’è dunque, di così irresistibile tra queste fortezze di roccia, eluse dal turismo dimassa, dalla rotta dei jet e dai luoghi comuni dell’esotismo? Perché Paul Gauguin, RobertLouis Stevenson, Jack London e, più tardi, Jacques Brel, ne furono rapiti? <strong>La</strong> risposta nonla trovai tanto nella drammatica bellezza di questa natura, ma soprattutto nella capacità diquesto luogo estremo di risvegliarmi nell’animo le suggestioni di una vita primitiva.Credo che non vi sia altro luogo al mondo più capace di questo; e – credetemi – èun’emozione che può valere la più abbagliante e cristallina immagine delle isole da spot.

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