'68 Affrontare il tema del '68, a quarant'anni di distanza ... - Virgilio

NUOVA SERIE NUMERO 68 - MARZO 2008 (1. 2008) • Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, DCB (Como) • 5 EURO
idee per l’educazione MARZO 2008
L’Italia del presente: indietro senza memoria • Il cuore freddo
della legge • La crisi del multiculturalismo olandese •
«E poi insegno anche l’italiano…» • Arte di ascoltare e gestione
creativa dei conflitti • Le svolte della Storia • La
Costituzione ha sessant’anni • Elogio dell’ironia. In quanto
uomini • Russia: Chi scrive muore • Palestina: la terra
contesa • Divertirsi con la matematica • Cittadinanza attiva
per un mondo sostenibile • Sterotipia e permeabilità
• Moniti • Un vocabolario tutto per noi • Nuove bambine
e vecchi condizionamenti • Che genere di libri? • Second
Life e formazione • Risate intelligenti • La formazione degli
insegnanti in Europa
école numero 68 pagina 1
TEMA il ‘68 così vicino, così lontano

Redazione
via Magenta 13,
22100 Como
tel. 031.4491529
coecole@tin.it
www.ecolenet.it
Direttrice responsabile
Celeste Grossi
Vicedirettore
Andrea Bagni
Redattori
Bianca Dacomo
Annoni, Francesca
c o s t r u i r e l ’ u g u a g l i a n z a l i b e r a r e l e d i f f e r e n z e
NUMERO 68 MARZO 2008
Allegato a
questo numero
il CDiario
2007 200 che
contiene la
collezione
completa di
école, école
l’indice,
i cd tematci Laicità e
Letteratura per ragazzi e
ragazze.
(Il cd si avvia automaticamente, o
cliccando su inizio.htm)
Capelli, Paolo Chiappe,
Maurizio Disoteo,
Marisa Notarnicola,
Cesare Pianciola, Andrea
Rosso, Gianpaolo Rosso,
Giovanni Spena, Filippo
Trasatti, Stefano Vitale
Collaboratori
Giovanna Alborghetti,
Monica Andreucci, Guido
Armellini, Antonella
Baldi, Marta Baiardi,
Antonia Barone, Gabriele
Barrera, Annita Benassi,
Giorgio Bini, William
Bonapace, Franco
Calvetti, Andrea Canevaro,
Minny Cavallone, Edoardo
Chianura, Angelo
Chiattella, Rosalba
Conserva, Vita Cosentino,
Marina Di Bartolomeo,
Lella Di Marco, Mauro
Doglio, Lidia Gargiulo,
Maria Letizia Grossi,
Toni Gullusci, Monica
Lanfranco, Mariateresa
Lietti, Marco Lorenzini,
Franco Lorenzoni,
Francesca Manna,
Raffaele Mantegazza,
EDIT
3 L’Italia del presente: indietro senza memoria • CELESTE GROSSI
PRE
4 Il cuore freddo della legge • COSIMO SCARINZI
TEMA
6 Il ’68. Così vicino, così lontano • A cura di CELESTE GROSSI E CESARE PIANCIOLA
7 L’onda lunga del ‘68 • ARTURO MARTORELLI
8 Ripensare il ‘68 • ANDREA BAGNI
10 Ripensare la Scuola • MARIA LETIZIA GROSSI
11 Dal Sessantotto alla controriforma • ROBERTO PRATO
13 Le donne e la contestazione dei contestatori • MONICA LANFRANCO
15 Palazzo Campana, quarant’anni fa • CESARE PIANCIOLA
17 Il ’68 nel cinema • ARTURO MARTORELLI
19 Allora e oggi: qualche lettura • C.P.
IDEE PER L’EDUCAZIONE
20 La crisi del multiculturalismo olandese • MARISA NOTARNICOLA
22 «E poi insegno anche l’italiano…» • ALESSANDRA FERRARI
23 FACCIAMO PACE Arte di ascoltare e gestione creativa dei confl itti • CELESTE GROSSI
24 NUOVI ARRIVI Le svolte della Storia • LIDIA GARGIULO
25 LE LEGGI La Costituzione ha sessant’anni • CORRADO MAUCERI
26 NOTE IN CONDOTTA Elogio dell’ironia. In quanto uomini • ANDREA BAGNI
MAPPAMONDO
27 Chi scrive muore • MARCO BUTTINO
29 Palestina la terra contesa • CELESTE GROSSI
DE RERUM NATURA
30 Divertirsi con la matematica • FRANCESCA CAPELLI
31 Cittadinanza attiva per un mondo sostenibile • STEFANO VITALE
MODI E MEDIA
33 Sterotipia e permeabilità • SERENA DINELLI
35 Moniti • GIOVANNI SPENA
36 Un vocabolario tutto per noi • MONICA LANFRANCO
38 IL LIBRO Nuove bambine e vecchi condizionamenti • STEFANO VITALE
39 Libri • STEFANO VITALE
39 Cinema • STEFANO VITALE
40 Musica • MARIATERESA LIETTI
40 Teatro • CELESTE GROSSI
41 SCRIPT Che genere di libri? • MARIA LETIZIA GROSSI
41 WEB Second Life e formazione • EDOARDO CHIANURA
42 ANNI VERDI Risate intelligenti • STEFANO VITALE
TEXT
43 La formazione degli insegnanti in Europa • PINO PATRONCINI
48 TREND • LORENZO SANCHEZ
Corrado Mauceri, Cristina
Meirelles, Alberto Melis,
Luciana Mella, Bruno
Moretto, Giorgio Nebbia,
Filippo Nibbi, Enrico
Norelli, Laura Operti,
Carlo Ottino, Giuseppe
Panella, Pino Patroncini,
Vito Pileggi, Nevia
Plavsic, Rinaldo Rizzi,
Marcello Sala, Nanni
Salio, Antonia Sani,
Cosimo Scarinzi, Maria
Antonietta Selvaggio,
Angelo Semeraro,
Scipione Semeraro, Rezio
Sisini, Monica Specchia,
Marcello Vigli
Grafi ca e impaginazione
Natura e comunicazione
Como
(Andrea Rosso con Marco
Bracchi)
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di Como n. 1/2001 del 10
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Rosso, Filippo Trasatti
(presidente), Stefano
Vitale

c o s t r u i r e l ’ u g u a g l i a n z a l i b e r a r e l e d i f f e r e n z e
edit L’Italia
del presente:
indietro senza memoria
CELESTE GROSSI
Il Parlamento europeo «ritiene che i minori debbano avere accesso all’istruzione a prescindere
dal loro status e/o da quello dei loro genitori; sottolinea l’importanza di garantire tale
accesso ai figli dei migranti e/o rifugiati». Lo afferma la “Strategia dell’Unione Europea sui
diritti dei minori”, approvata il 16 gennaio. Letizia Moratti e il Consiglio comunale di Milano
la pensano diversamente. Pochi giorni prima in aula dai banchi della
maggioranza si sono sentite altre parole su bambine e bambini in
età di scuola dell’infanzia: «Se ne devono andare da Milano, dalla
Lombardia, dall’Italia. Sono clandestini come i loro genitori: via!».
La sindaca e il Consiglio comunale sono perfino disposti a rinunciare
ai finanziamenti statali (nel 2007 sono stati di circa 8 milioni).
Il ministro della Pubblica Istruzione, dopo un’inascoltata diffida, ha
deciso di revocare la parità delle scuole materne e di conseguenza
di tagliare completamente i finanziamenti. A Vittorio Sgarbi, assessore
alla Cultura, che ha dato ragione a Fioroni («è nel giusto, i figli
non hanno colpe per la condizione dei genitori») Matteo Salvini
della Lega Nord ha risposto: «Ormai c’è un clandestino in giunta». E
mentre la magistratura condanna il comune, Moratti non revoca l’ordinanza.
Così Milano si colloca fuori dall’Europa.
A proposito della decisione del Papa di non andare alla Sapienza per
l’inaugurazione dell’anno accademico, ambienti vaticani hanno riferito
che il Papa preferiva rinunciare a recarsi in visita presso una
«famiglia divisa». Il Presidente della Repubblica si è scusato con
il Pontefice. Noi non abbiamo gradito perché condividiamo quanto
scritto da Paolo Flores d’Arcais in una lettera aperta a Napolitano:
«Non vedo per quale ragione tu abbia ritenuto indispensabile, a
nome di tutta la nazione di cui rappresenti l’unità, porgere al Papa
quelle solenni scuse. Che ovviamente, data la tua autorità, hanno
fatto il giro del mondo. Se c’è qualcuno che aveva diritto a delle scuse,
semmai, è il gruppo di illustri docenti [“eredi dei brigatisti rossi”
li ha definiti Buttiglione, aggiungo io], tutti nomi di riconosciuta
statura internazionale nel mondo scientifico, e che tengono alto il
prestigio italiano nel mondo». Dopo la lettera, per confermarci che
non ci eravamo sbagliati sulla dipendenza dei politici italiani dalle
gerarchie ecclesiastiche, il presidente della Repubblica ha sentito il
bisogno sulla crisi di governo di intrattenersi per circa mezz’ora con
il cardinale Bertone.
Questi non sono i tempi del “date a Cesare quel che è di Cesare”.
La mancanza di memoria può portare perfino Umberto Eco ad affermare
che «Il ’68 ha prodotto anche il terrorismo». Ma la strage di
piazza Fontana non era stata una risposta all’autunno degli operai e
alla primavera degli studenti?
Nel ‘68 ci sono i fili di una trama che ci concerne e su cui è bene interrogarci,
senza intenti nostalgici e celebrativi ma anche senza rimozioni
e denigrazioni. Per questo abbiamo scelto di dedicargli il
tema di questo numero della nostra rivista.

pre
école numero 68 pagina 4
FINANZIARIA La scuola pubblica è
considerata dalla classe politica – di destra o
di sinistra, poco cambia – come una spesa da
ricondurre sotto controllo con gli effetti sulla
qualità del servizio. I tagli degli investimenti
sono spalmati su di un numero maggiore
di anni rispetto a quanto previsto dalla
Finanziaria 2007 ma crescono, nel complesso,
di oltre 900 milioni. Nella secondaria si
possono formare classi con 33 alunni. Una
domanda è lecita: come mai un’operazione di
questa gravità passa senza una significativa
opposizione? Alcune considerazioni sulla
trasformazione antropologica dei lavoratori
e delle lavoratrici della scuola Il cuore
freddo della legge COSIMO SCARINZI

Mentre scrivevo questi appunti sulla
ricaduta della Legge Finanziaria sulla scuola
proprio dall’indirizzo di posta elettronica di
école mi giungeva una lettera che ricordava
come l’Art. 5, comma 35 - Detrazione per spese
di aggiornamento ed autoformazione prevede
la possibilità di detrarre 500 euro all’anno
dalla dichiarazione dei redditi con un risparmio
sino a 95 euro all’anno.
Un’informazione, con ogni evidenza, utile e
che rende quasi plasticamente visibile come,
sulla base di un’attitudine concreta, le lavoratrici
ed i lavoratori della scuola siano attenti
a miglioramenti anche minimi della nostra
condizione.
D’altro canto vi sono stati soggetti sindacali
che hanno presentato questa detrazione
come una grande e gloriosa conquista degli
insegnanti sulla base della necessità per molti,
troppi, sindacati di dimostrare al buon popolo
che la loro azione, nonostante molti fatti
dimostrino il contrario, è di una qualche
utilità.
Ed effettivamente qualche cosa di buono, ci
mancherebbe, in Finanziaria c’è.
Penso, ad esempio, all’articolo 5 che prevede
di portare da 20.000 a 30.000 le assunzioni
di Ata nel triennio 2007-2009. Si tratta,
con ogni evidenza, di una correzione marginale
visto che i pensionamenti degli Ata sono
molti e che oltre un terzo di questo segmento
della categoria è precario ma sarebbe poco
serio negare che c’è, come è vero che migliora
la normativa sui diritti di chi adotta dei
bambini.
Il cuore freddo della legge, però, è l’Art. 50:
Rilancio dell’efficienza e dell’efficacia della
scuola. Un titolo che tende al surreale. Per
comprendere di che si tratta, bastano due tabelle.
La tabella 1 riporta i tagli previsti per
quanto riguarda le spese. È vero, infatti, che
i tagli degli investimenti per la scuola pubblica
sono spalmati su di un numero maggiore
di anni rispetto a quanto previsto dalla
Finanziaria 2007 ma crescono, nel complesso,
di oltre 900 milioni.
La scuola pubblica, in altri termini, è considerata
dalla classe politica, di destra o di
sinistra, poco cambia, come una spesa da ricondurre
sotto controllo con gli effetti sulla
qualità del servizio che è facile comprendere
leggendo la tabella sulla costituzione delle
classi (tabella 2).
Questo senza considerare i tagli previsti per
quanto riguarda gli insegnanti di sostegno.
Se chi legge ha memoria, come capita, per
triste privilegio dell’età, a chi scrive, del fatto
che, oltre trent’anni addietro, ci si batteva
per i 20 alunni per classe e per i 15 in
presenza di un alunno portatore di handicap,
appare evidente come i rapporti di forza nella
società e nella scuola sono cambiati e non
in meglio.
A questo punto una domanda è lecita: come
mai e fatto salvo lo sciopero, ahimé di mino-
Una domanda è lecita: come
mai, fatto salvo lo sciopero
del sindacalismo alternativo
del 9 novembre 2007,
un’operazione di questa
gravità passa senza una
significativa opposizione?
TABELLA 1 I tagli alla spesa
Finanziaria 2007 Finanziaria 2008
2007/8 448,20 mln -
2008/9 1.324,50 mln 535,00 mln
2009/10 1.402,20 mln 897,00 mln
2010/11 - 1.218,00 mln
Dal 2011 - 1.432,00 mln
Totale 3.174,90 mln 4.082,00 mln
TABELLA 2 I numeri per costituire le classi
scuola minimo norma massimo Deroga
(+ 10%) ex art. 9 dm 331
ranza, del sindacalismo alternativo del 9 novembre
2007, un’operazione di questa gravità
passa senza una significativa opposizione?
Propongo alcune riflessioni:
1. l’età media della categoria e l’elevato numero
di prepensionandi. La generazione politica
che ha retto le lotte dei bei tempi andati
se non è in pensione l’attende con, comprensibile,
impazienza e poco si cura di quanto
avviene nella terra che sta per lasciare;
2. l’elevato numero di precari che guardano
alle immissioni in ruolo, allo stato delle graduatorie,
alla nuova legislazione sul reclutamento
in fieri e non hanno energie e possibilità
di pesare su quest’ordine di questioni che
pure li riguarda direttamente;
Deroga
ex cm 19/2007
infanzia 15* 25 28 30 32
primaria 20** 25 25 27 29
Secondaria I grado 15 25 29*** 31 33
Secondaria II grado 20 25 29*** 31 33
* Ridotto a 10 per le sezioni uniche funzionanti nei comuni di montagna e nelle piccole isole.
** Le pluriclassi non possono superare i 12 alunni.
*** Il massimo, di norma, è 28 ma sale a 29 se per garantirlo è necessario sdoppiare la classe.
3. l’attitudine fidente della sinistra della categoria,
anche di chi non si è arruolato negli
staff di presidenza in quota CGIL, nei confronti
del governo di sinistra o, almeno, il timore
di fargli del male come se non se ne fosse
fatto, in misura straordinaria, da sé;
4. la feudalizzazione della scuola che porta
ogni singolo istituto, ogni dirigente, ogni
gruppo di potere a giocarsi la sua partita sull’organico
in un bellum omnium contra omnes
che lascia, per l’essenziale, le mani libere alle
controparti anche se può creare qualche problema
di gestione.
Una partita chiusa dunque? A mio avviso tutt’altro.
Ma, certo, una partita complicata.
école numero 68 pagina 5

TEMA
école numero 68 pagina 6
IL ’68. COSÌ VICINO,
COSÌ LONTANO
A CURA DI CELESTE GROSSI
E CESARE PIANCIOLA
A quarant’anni di di-
stanza si può parlare oggi
di un’eredità del ‘68? Quali
tracce hanno lasciato i mo-
vimenti e i fermenti di al-
lora nella società, nella
scuola, nell’università? Cosa rimane del rifiuto dello stato di cose esi-
stente, della critica dell’autoritarismo e della gerarchia che animò una
stagione di lotte? Che segni hanno lasciato la rivoluzione della men-
talità, il rovesciamento della prospettiva culturale, la ribellione giova-
nile contro l’educazione repressiva e contro i vincoli familiari? C’è sta-
ta continuità o discontinuità tra l’esperienza del ‘68 e il femminismo?
Quali effetti ha avuto nella vita quotidiana e nelle relazioni tra perso-
ne il vento tagliente e allo stesso tempo caldo e pieno di passione dei
movimenti femministi che contestarono i contestatori? Molti elementi
di grande rottura sono sopravvissuti trasformandosi, a volte deterio-
randosi, perdendo, comunque, la carica rivoluzionaria e totalizzante di
allora. Disperdendosi in mille rivoli. Nel Sessantotto ci sono i fili di una
trama che ci riguarda e su cui è bene interrogarci, senza intenti nostal-
gici e celebrativi ma anche senza rimozioni e denigrazioni.

L’onda lunga del ‘68 Affrontare il tema del ’68, a
quarant’anni di distanza, comporta un rischio: quello della
banalizzazione. Il rischio è duplice, da una parte quello
di riprendere “fili interrotti” senza ripensare criticamente
gli avvenimenti trascorsi, dall’altra quello di appiattire il
discorso su ricostruzioni già ampiamente diffuse e ormai di
comodo rivolte all’ampia platea dei consumatori legati al
circuito (o meglio circo?) mediatico ARTURO MARTORELLI *
Ancor oggi non si può parlare del ’68 se non si riconosce in quella datasimbolo
un punto di svolta della storia contemporanea, il culmine di un processo
di gestazione politico-culturale maturato nel corso degli anni Sessanta,
che portava in sé una forte spinta verso la modernità, verso la quale allo stesso
tempo si caricava (e incaricava) di un deciso atteggiamento critico. Dei processi
che di lì su scala mondiale si sarebbero sviluppati, le cui tensioni contenevano
tutte una istanza di “liberazione”, alcuni avrebbero trovato compimento
nel costume e nella società, soprattutto nella misura in cui assecondavano
tendenze in atto nello stesso mondo occidentale, mentre risultò per la maggior
parte disperso, inaridito, deviato per strade senza sbocchi o solo per aspetti
particolari tradotto in realtà quell’immenso patrimonio di elaborazione critica,
intellettuale e pratica che segnò quegli anni.
Se si afferma, da una parte, che oggi siamo tutti figli del Sessantotto e, allo
stesso tempo, che ne siamo tutti orfani, non si rischia la contraddizione. In
ogni caso, se si prescinde dagli esiti e dalle derive delle vicende politiche seguite
a quegli anni, è nel campo culturale che quella “rivoluzione” ha prodotto
effetti rilevanti, aprendo la strada a nuovi linguaggi ed esperienze. Depurata
della retorica alla quale spesso si associava e dei modelli ai quali talvolta si
ispirava (ad esempio, quello cinese o quello terzomondista), quella cultura rimanda
all’esigenza di evidenziare le contraddizioni di una modernità segnata
dalla ideologia unidimensionale (per dirla con Marcuse) e omologante (per dirla
con Pasolini).
Ciò che caratterizza i movimenti e i fermenti che si convogliano nel ’68 è il diffondersi
di uno spirito nuovo che pervade la gioventù del mondo occidentale
ed è in aperto contrasto con i valori della cultura di formazione. Lo spirito del ’68, se così si
può chiamare, è nel rifiuto dello stato di cose esistente, in una rivoluzione della mentalità (e
in un rovesciamento di prospettiva culturale) che si ribella contro il proprio passato (non solo
la propria storia personale, l’educazione repressiva, i vincoli familiari, ma quella della nazione
e del continente di appartenenza, delle sue false glorie, delle sue reali infamie). In questo
senso l’onda lunga del Sessantotto si è dispersa ma non esaurita.
* Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
école numero 68 pagina 7

Ripensare il ‘68 Intervista a Paul
Ginsborg ANDREA BAGNI
Oggi, a distanza di quasi venti anni
da quello che hai scritto in La storia d’Italia
dal dopoguerra ad oggi per Einaudi, se tu
dovessi parlarne a dei giovani, quali parolechiave
sceglieresti per raccontare il ‘68?
Direi due cose. L’antiautoritarismo, l’aspetto
più liberatorio del movimento, il rifiuto di accettare
come scontata l’autorità, la gerarchia.
E poi lo scarto generazionale – quello era un
movimento fatto da persone giovani, ed era
anche un momento di scontro generazionale.
È per questo forse che ne rimane così forte
il mito fra le nuove generazioni. È stato un
momento di protagonismo intenso dei giovani.
Ed è forse quello che ci manca oggi nella
dimensione politica... Oggi non c’è una massa
di giovani che si muove, che si mobilita e
protesta.
Negli ultimi anni in molte riflessioni il
Novecento appare come un periodo da cui
prendere congedo definitivamente e alla
svelta: come un secolo da oltrepassare, tutto
segnato da dimensione distruttiva, logica
strumentale, farsi stato della rivoluzione
– e stato oppressivo. Ma in quel secolo
tutto si può leggere così o alcune “storie”,
école numero 68 pagina 8
come quella del ‘68 o del femminismo, possono
disegnare un’altra possibilità e un altro
percorso rispetto a quella forma della
politica da cui si cerca di uscire adesso?
Domanda difficile. Penso che il pensiero leninista
del “rivoluzionario di professione” ha
davvero molto segnato la storia della sinistra
nel secolo passato. E ha condizionato anche
il ‘68. Quando si cercava di criticare il partito
comunista italiano, le organizzazioni politiche
che nascevano avevano comunque un
modello leninista. E a livello internazionale
quello che si muoveva si muoveva sempre
dentro le strutture di un partito monocratico.
Quell’imprinting è molto forte su tutto il
Novecento. Forse più che il ‘68, quello che era
dentro il secolo ma in un certo senso già fuori
del Novecento era il femminismo − perché
provava a dire un’altra cosa. Lo slogan “il personale
è politico” è una grandissima apertura
di orizzonti. Qualcosa che i maschi di tutti i
nuovi gruppi politici, Lotta Continua o altri,
non avevano neppure minimamente messo
in conto. C’era l’oggettivazione del percorso:
dobbiamo andare lì, arrivare a quell’obiettivo,
e non importa come siamo messi, come siamo
fatti, come sono le nostre famiglie, i nostri
Paul Ginsborg
rapporti. Il femminismo in questo senso non
era del ‘68, andava oltre il ‘68.
Pensandoci, posso dire che c’è un’altra esperienza
importante e nuova nel secolo. Il movimento
dei verdi. Se guardiamo i primi tentativi
dei verdi, vediamo non solo la precoce
segnalazione dei problemi di questo secolo
(allora davvero molto precoce) ma anche la
ricerca in Germania di inventare un’altra forma
di organizzazione politica, con attenzione
ad aspetti che adesso in molti, con molto
ritardo, cerchiamo di prendere in considerazione
(e ancora non passano nella maggioranza
della sinistra): l’intreccio fra personale
e politico di cui dicevo, la rotazione degli incarichi,
i pericoli del parlamentarismo, la necessità
del movimento di controllare le realizzazioni,
la combinazione della democrazia
rappresentativa con quella partecipata...
Ma qualcosa del genere, di critica della forma
organizzativa della politica, non c’era
in tutto il ‘68, oltre l’esperienza successiva
dei partitini? Qualcosa di esistenziale che
riguardava i rapporti, la famiglia...
In una prima fase sì, ma solo in una prima
fase. Diciamo nel ‘67-‘68. Anche per l’influenza
americana. Ma la critica della famiglia è successiva,
dei primi anni Settanta. Nel ‘68 c’era
la discussione, i litigi in famiglia, il desiderio
di andare via, ma non la teorizzazione, quella
è successiva. E quella degli anni Settanta è
tutta una storia veramente straordinaria che
aspetta ancora di essere raccontata dagli storici.
Si cercava in mille modi di dare vita ad
esperienze diverse: la democrazia dei quartieri,
la rivoluzione culturale delle 150 ore, l’autoriduzione...
Tanti movimenti che sono stati
lasciati senza un’adeguata riflessione storica.
A Firenze c’erano, estremamente significativi,
i comitati sorti spontaneamente subito dopo
l’alluvione, che saranno quelli che animeranno
gli anni Settanta.
Secondo te si può parlare oggi di un’eredità
del ‘68? Che cosa ne rimane, che senso
può avere oggi un riferimento a quel movimento...
Io ho fatto qualche anno fa un corso sul ‘68.
Ha avuto un successo strepitoso, nel senso
che è stato straordinariamente partecipato.
I ragazzi sono interessatissimi, è forse il corso
più popolare che si può proporre... Alla

fine ho fatto delle lezioni sulle interpretazioni
del ‘68. Io ero sulla posizione, credo di
onestà intellettuale – ma lo sostenevo anche
in quanto partecipante – che si è trattato di
un fallimento. Un fallimento totale rispetto a
quello che volevamo. Che sognavamo. Sia dal
punto di vista dei consumi, sia dal punto di
vista della famiglia, sia della democrazia, dei
rapporti fra donna e uomo... Dovunque guardi,
questa esperienza è stata sconfitta. Poi
dopo aver detto questo, con grande passione,
ho presentato le tesi di Tarrow, (Sidney G.
Tarrow, Democrazia e disordine, Movimenti di
protesta e politica in Italia 1965-75, Laterza).
Una tesi molto più rassicurante: tutto sommato
è vero che il ‘68 non ha corrisposto ai
sogni dei più “esaltati” – come tu ed io – ma
i movimenti di questo tipo sempre lasciano
una sedimentazione positiva. Non esattamente
la cosa che volevamo noi ma comunque
elementi di maggiore democraticità, la fine di
molte pratiche e realtà formalizzate, la crescita
della dimensione informale, più attori
che entrano sulla scena pubblica e politica,
le donne. Perfino nella famiglia (aggiungo io,
perché poi la lista di Tarrow non è che sia
gran che) qualcosa cambia: diventa una famiglia
negoziale, dove si “contratta”; genitori
e figli coabitano nello stesso spazio anche
fino ai trent’anni dei figli. Insomma tutta
una serie di sedimentazioni positive. Ma la
cosa più interessante è che gli studenti del
mio corso (malgrado la mia passione) sceglievano
spontaneamente quasi tutti, ma proprio
quasi tutti, questa interpretazione rassicurante.
Secondo loro il ‘68 non ha fatto magari “la
rivoluzione socialista”, non ha fatto questo
e non ha fatto quello, però ha aiutato moltissimo
il mondo moderno. Menomale che c’è
stato, dicevano. Ha rotto varie barriere, vari
muri. I miei studenti lo vedevano tutti così.
Questo è molto interessante...
Non ti pare però che nel tempo sia cresciuta
anche a sinistra una posizione che – magari
senza dirlo esplicitamente – è in dura polemica
con il ‘68, proprio per le cose di cui
parlavi. Per il modello negoziale, antiautoritario,
che è entrato nella famiglia come nella
scuola, ha messo in crisi il ruolo del professore,
ha minato la sua autorità, lo spinge
in un rapporto simmetrico nel quale non
rappresenta più qualcosa di significativo di
per sé per i giovani, ma deve conquistarsi
un ruolo da zero e allora oscilla, come scrive
Benasayag, fra seduzione e autoritarismo.
Secondo te esiste questa polemica con il ‘68
– anche nel richiamo alla fatica dello studio,
al senso del dovere. È quel movimento
in qualche modo uno dei responsabili della
famosa crisi dei padri?
Io non sento questa polemica con il ‘68 anche
perché l’università è molto diversa dalla scuola.
Nell’università c’è stata una vera e propria
restaurazione. Malgrado il desiderio di dare un
po’ di ragione a Tarrow, io penso che non ci
sia stata nessuna sedimentazione. C’è un rapporto
fra professori e studenti come fra patrono
e cliente, di grande gerarchia. Di notevo-
le autorità. Comandi lo stesso. Anzi comandi
molto più facilmente che negli anni Sessanta,
perché nessuno ti contesta nulla. L’autorità
del professore c’è, fortissima, non deve sedurre
né negoziare. Ha una posizione come quella
che aveva Franco Venturi nella Torino degli
anni Sessanta. Oggi i professori tornano ad
occupare la stessa posizione – beninteso anche
nel bene, non solo nel male – nella capacità
di guidare gli studenti, indirizzarli e anche
imporgli dei ritmi di lavoro, imporgli delle
ricerche approfondite. C’è anche un lato negativo,
tuttavia: l’assenteismo, il rapporto con il
“cliente”, il permesso che il professore ha di
comportarsi più o meno come vuole...
E nella famiglia, questa crisi dei padri di
cui tanti parlano, tu la vedi? L’educarsi dei
giovani più nel gruppo dei pari che nel rapporto
con l’adulto…
Una crisi dei padri è innegabile... ma non so
dirne molto: il livello di generalizzazione qui è
elevato e rischioso. Io tendo a vedere, soprattutto
in Italia, una modello di famiglia integrato
che in qualche modo corrisponde ai ritmi
della home living, della vita di casa, dei consumi
eccetera. I ragazzi di oggi, per tornare
al ‘68, non sono abituati a protestare per nulla,
anche se le segreterie dell’università non
funzionano per niente. Sono stati in qualche
modo anestetizzati rispetto alla protesta pubblica;
preferiscono – pure con grande dignità
– cercare sempre la soluzione individuale. Io
sono tentato allora di riportare questo anche
alle strutture della famiglia, dove vedo una
famiglia contrattuale i cui membri condividono
una strategia. Ed è una strategia che ha
molto a che fare con i passaggi familistici degli
anni Cinquanta e Sessanta, più che con le
idee del ‘68. Invece che praticare il conflitto
si cerca la soluzione, dentro e fuori. Nelle ricerche
che ho fatto sulle famiglie in Toscana,
a Poggibonsi, mi ha colpito tantissimo la solidità
di queste famiglie, la forza della loro contrattualità
interna ed esterna.
Era un movimento fatto
da persone giovani, ed
era anche un momento di
scontro generazionale. È
per questo forse che ne
rimane così forte il mito
fra le nuove generazioni.
È stato un momento di
protagonismo intenso dei
giovani. Ed è forse quello
che ci manca oggi nella
dimensione politica
Nella ricerca di forme nuove della democrazia,
di fronte alla crisi della democrazia
rappresentativa, delle forme novecentesche
e istituzionali del “politico”, c’è qualcosa
del ‘68 a cui possiamo fare riferimento?
Penso alle forme o ai tentativi di democrazia
diretta attraverso le assemblee, o al
coinvolgimento della politica nella vita − a
parte poi l’esito che hanno avuto i gruppi
extraparlamentari come si chiamavano allora.
Insomma c’è qualcosa a cui ci possiamo
richiamare?
Decisamente no. Assolutamente no. È stato
un modello deleterio. La democrazia assembleare
in un primo momento è esaltante
ma non è assolutamente duratura. Non
può essere un modello per chi cerca qualcosa
di nuovo. Anche nei momenti più alti del
‘68 francese, alla Sorbonne, c’erano presenti
forse il 10% degli studenti nelle assemblee.
Decidevano per una massa di studenti assenti.
Ma se c’è un elemento essenziale della democrazia
è che tutti partecipano − al voto o
in forma altra, diretta, secondo certi modelli.
Poi quando continuava l’assemblea veniva
controllata e dominata, il tavolo la presidenza
e tutto il resto, attraverso gruppetti. Le
assemblee sono importanti ma non è possibile
che da sole possano costituire un qualunque
modello di democrazia per il futuro.
È significativa l’esperienza dei consigli, ma
è tutta un’altra cosa dall’assemblearismo. I
consigli sono dentro una struttura democratica
abbastanza elaborata. Ci sono delegati,
c’è una rete, una continuità. Sui modelli di
democrazia del movimento studentesco, invece,
io sono molto, molto scettico. Non è
mai stato un movimento democratico. I nostri
modelli sono altri. E su questa questione
dell’innovazione democratica io sono molto
più ottimista che su altre. Mi sembra che
l’idea di lavorare verso una democrazia combinata,
fatta di rappresentanza e partecipazione,
sia una meta realizzabile. Una democrazia
possibile.
école numero 68 pagina 9

L’esplosione del ‘68 è cominciata con
la contestazione degli studenti delle università,
poi anche delle scuole superiori. Molti
insegnanti, soprattutto i giovani che iniziavano
allora, hanno vissuto intensamente la
forte svolta culturale e politica del ‘68 e ne
hanno fatto il fondamento del loro modo di
stare a scuola. Cosa è rimasto di tutto quel
fervore e di quel grande cambiamento, nella
scuola di oggi?
Verrebbe da dire: poco. Ma qualcosa è sopravvissuto,
il bisogno di ripensare il ruolo degli
insegnanti, che era uno dei capisaldi del ‘68,
il bisogno di ripensare il ruolo dell’istruzione,
il tema che l’istruzione ha una sua natura di
classe che va combattuta. Tuttavia, come altri
aspetti, questo elemento allora di grande
rottura è sopravvissuto solo trasformandosi,
perdendo la portata rivoluzionaria. È diventato
prima uno slogan, poi si è svuotato di senso
e si è rovesciato in una forma di sociologismo
(“Il ragazzo incontra molte difficoltà...”,
“viene da una famiglia...”), oppure di pietismo:
“aiutiamolo...”. È andata persa l’essenza
iniziale che era un ripensamento radicale della
scuola e dell’istruzione.
Ma è ancora più visibile un altro esito di quella
svolta: l’abolizione della distanza tra insegnanti
e studenti. Sino a metà degli anni
Sessanta gli insegnanti, ma anche tutti coloro
che avevano a che fare con la cultura,
erano inavvicinabili. Era un mondo in cui gli
scrittori non andavano nelle scuole a fare dibattiti
e conferenze, si potevano vedere, da
lontano, in occasioni consacrate e in luoghi
deputati, come le presentazioni di libri.
Più in generale questo valeva per tutti quelli
che avevano uno status pubblico, ad esempio
i politici. Nel ‘68 si diffonde il senso che
l’insegnante ha un ruolo perché io studente
ho delle domande da porre e l’insegnante mi
deve rispondere. Nella scuola (ma non nell’università)
molti insegnanti hanno mante-
école numero 68 pagina 10
Ripensare la scuola Un’intervista a
Domenico Starnone su quanto è rimasto del
‘68 nella scuola di oggi. Diverse cose sono
sopravvissute, tutte però degradandosi.
«Quello che si è perso è la spinta
innovatrice, la politicità di fondo. Tutto è
all’insegna della medietà» MARIA LETIZIA GROSSI
nuto questo rapporto meno distaccato, però
anche in questo caso modificandone profondamente
il senso originario. Adesso il docente
“alla mano” sta dalla parte degli studenti,
fa l’amicone, si diverte con loro. Allora non
si trattava di questo. Da parte degli studenti
c’era il bisogno di avvicinarsi a chi aveva
un’aura e di confrontarsi, bisogno che gli insegnanti
riconoscevano come fondante rispetto
al proprio ruolo e a cui rispondevano. Nel
‘68 e progressivamente in seguito, l’aura–autorità
si è sgretolata e non è stata sostituita
dall’autorevolezza.
Un’altra idea che è durata, anch’essa trasformandosi,
è stata l’esigenza e, direi, il dovere
Prima esecuzione
Chi accusa oggi il ‘68 di aver
impoverito e abbassato il livello
della scuola, dimentica come era
la scuola dei decenni precedenti.
Un’agenzia di controllo culturale,
politico, sociale, morale su
insegnanti e studenti e, attraverso
loro, sulle famiglie e la società, nelle
mani del potere democristiano,
che la utilizzava come serbatoio di
consenso elettorale
percepito allora dagli studenti di farsi sentire,
di protestare, per segnalare manchevolezze
e soprusi e pretendere che vi si ponesse rimedio.
Adesso c’è la protesta personalistica,
per trarre vantaggi privati (fino al ricorso al
TAR). Si è perso il senso della ribellione verso
un’istituzione che aveva caratteristiche autoritarie,
la forte spinta democratizzatrice è diventata
rissosità.
È cambiato quindi anche l’atteggiamento
degli studenti, benché dal ‘68 essi abbiano
ottenuto e mantenuto il diritto di protestare.
Fino alla metà degli anni Sessanta gli stu-
In questo ultimo romanzo (Feltrinelli, 2007, pp.142, euro 12) Domenico
Starnone torna a parlare di scuola, in modo molto diverso dai racconti degli
esordi. Il protagonista è un anziano professore in pensione che, incontrando
una ex allieva accusata di terrorismo, si interroga sugli esiti del suo insegnamento:
se l’aver insegnato a indignarsi può aver spinto la ragazza alla ribellione
violenta, mentre un altro antico studente è diventato un commissario di
polizia, forse anche lui sotto lo stimolo, trasmesso dall’insegnante, all’impegno
per una società più giusta.
Ma Prima esecuzione non allude solo ad un assassinio; il titolo polisemico
sta anche a indicare la prima stesura, l’abbozzo non rivisto, con tutti i tentativi,
i percorsi intrapresi e poi abbandonati e il finale che apre a due possibilità.
Continua dunque la riflessione sulla scrittura che era al centro di Labilità. Qui,
oltre al doppio dell’autore rappresentato dal protagonista, compare direttamente
lo scrittore con le sue osservazioni su quanto va scrivendo e sul sottile
intreccio tra creazione letteraria e esperienza esistenziale. [M.L.G.]

denti protestavano quasi sempre inneggiando
alla restaurazione di qualche passata grandezza
patria, quindi sostanzialmente con intento
conservatore. Dal ‘68 in poi, e per tutti gli
anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, lo studente
fu sentito come una figura del rinnovamento.
Poi iniziò una mutazione. Ex cattedra,
diario dell’anno scolastico 1985-86, registra i
primi segni della crisi di questa rappresentazione,
crisi che è andata sempre più approfondendosi,
fino appunto ad approdare alla rivalsa
personalistica odierna.
Quanti degli insegnanti nel ‘68 diventarono
sessantottini?
La maggior parte degli insegnanti si arroccò.
Alcuni, soprattutto i giovani, si misero
in discussione e cercarono di capire gli studenti.
Ora questi ex giovani, questi ex sessantottini
sono la vecchia generazione, che,
finché ha potuto, ha mantenuto l’atteggiamento
antiautoritario e aperto alla relazione,
pur dovendo fronteggiare situazioni modificate.
Quando non c’è più stato un movimento
all’interno della scuola, quando la ventata
di cambiamento non ha più rappresentato
una volontà condivisa, questi docenti hanno
cercato di trovare degli spiragli, degli spazi
di agio, di relazioni e di lavoro proficuo
nel chiuso della classe. Alcuni provano ancora
il piacere di insegnare. Per le generazioni
che entrano ora nella scuola, il ‘68 rappresenta
il tempo di coloro che pensavano che
con la scuola si potesse cambiare il mondo,
idea oggi ritenuta non solo errata ma risibile.
Eppure anche tra questi insegnanti più giovani
di svariati decenni ci sono quelli che si
dicono contenti e orgogliosi del proprio lavoro.
È un motivo di speranza per la scuola
pubblica.
La critica revisionista sul ‘68 tocca anche
quello che allora successe nella scuola?
Soprattutto la professionalità dei docenti che
condivisero quel contesto culturale e politico
e lo vissero nella loro pratica di lavoro. Ora si
dice, in modo semplicistico e ingeneroso, che
andavano a insegnare non per fare scuola ma
per distruggerla o per rivoluzionarla e da qui
partire per rivoluzionare il mondo. In realtà
molti di noi hanno cominciato a insegnare
giovanissimi e ricordavano dolorosamente
la scuola che avevano subito da studenti.
Perciò cercammo, probabilmente per la prima
volta, di essere diversi dai nostri insegnanti.
Chi accusa oggi il ‘68 di aver impoverito
e abbassato il livello della scuola, dimentica
come era la scuola dei decenni precedenti.
Un’agenzia di controllo culturale, politico,
sociale, morale su insegnanti e studenti e, attraverso
loro, sulle famiglie e la società, nelle
mani del potere democristiano, che la utilizzava
come serbatoio di consenso elettorale.
Noi voltammo le spalle a quella scuola, perciò
rifiutammo ogni esercizio di potere sugli
studenti, preferendo guadagnarci, in conflitto
con l’istituzione scolastica, una autorevolezza
da utilizzare a fianco di ragazze e ragazzi
e non sopra di loro.
Dal Sessantotto alla controriforma
La scuola media tra cronaca
e memoria. Brevi note sulle
trasformazioni della scuola, a partire
dall’esperienza autobiografica di un
insegnante di
materie letterarie
nella scuola media
dell’obbligo al suo
40° anno scolastico
Per comodità e chiarezza ho deciso di
suddividere questo lungo percorso in tre segmenti
fondamentali, ciascuno con peculiarità
specifiche
Gli anni dell’”apprendistato”
Il primo periodo (dall’anno scolastico 1968/69
all’anno scolastico 1983/84 è costituito dagli
anni di insegnamento presso la piccola scuola
media di un comune di neppure 5.000 abitanti
della provincia di Biella, Mongrando, a
carattere misto industriale/agricolo. Sono gli
anni dell’”apprendistato”, ma anche, più in
generale, quelli dell’avvio di un primo rinnovamento
pedagogico-didattico (si ricordi che
la “nuova” scuola media unica è del ‘62).
Specialmente la lingua (con la nuova grammatica
e la storia della lingua), la storia (con
la comparsa della “storia materiale” nella
prospettiva della “lunga durata”), la matematica
(con l’insiemistica) conoscono una sensibile
trasformazione dei metodi di insegnamento.
Ma è soprattutto l’”onda lunga” del
Sessantotto che – specie a partire dalla metà
degli anni ‘70 – si fa sentire in molti modi.
Tra i lavoratori della scuola nasce (accanto
ai tradizionali sindacati corporativi) un primo
sindacalismo di classe (allora, inizio anni settanta,
Cgil Scuola), che, per la prima volta,
connette programmaticamente rivendicazioni
economiche e normative (a forte carattere
egualitario) con la lotta per il rinnovamento
generale della scuola.
Sono gli anni delle lotte contro la selezione e
l’abbandono scolastico, delle assemblee sindacali
in fabbrica sui problemi della scuola
e sulla condizione studentesca. Va ricordato
che è questa una linea di lotta che in segui-
ROBERTO PRATO *
to il sindacato Cgil (con la svolta dell’EUR del
‘77) ripudiò, e il nocciolo di classe sarà stabilmente
ripreso solo nel ‘92, con la fondazione
a Torino del Sindacato Scuola aderente alla
CUB (per iniziativa, cura e fatica del compagno
Cosimo Scarinzi).
Nella didattica, si afferma il metodo della ricerca
sul campo, specie attraverso la pratica
dell’intervista registrata. Chi scrive ricorda
le esperienze di recupero di memoria storica
(fonti orali registrate) di operai, contadini,
combattenti delle due guerre mondiali, partigiani.
Insomma scuola e società si pongono
in reciproca relazione ed interagiscono.
Le stesse istituzioni, a modo loro, ne devono
prendere atto: sono del ‘77 i cosiddetti “decreti
delegati”, che istituiscono la rappresentanza
da parte dei genitori all’interno della
scuola (oggi molto “ritualizzata” e svuotata),
nonché lo “stato giuridico” degli insegnanti
(oggi di fatto cancellato).
Sono gli anni in cui si sperimentano i giornalini
di classe e i primi cicli cinematografici
(memorabili – per chi scrive – il giornaletto
“il Giacobino” e il film “Nazarin” di Luis
Buñuel, che suscitarono, entrambi, le ire del
clero locale).
La “scuola degli stranieri”
Il secondo periodo (dal 1984/85 al 2003/04)
segna sia una svolta personale (il trasferimento
di chi scrive dal piccolo comune del
Biellese a Torino), sia un’importante innovazione
strutturale della Scuola Media (introduzione
del Tempo prolungato e la “compresenza”
tra docenti di differenti discipline),
nonché l’ingresso, sempre più rilevante, di
stranieri nella scuola italiana. Sono gli anni
école numero 68 pagina 11

(specie a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta) di
più intensa sperimentazione ed innovazione:
il Tempo prolungato e le compresenze interdisciplinari
stimolano ed insieme consentono
nuove esperienze, che vedono la collaborazione
e l’interazione tra insegnanti all’interno di
progetti laboratoriali, che durano un intero
anno scolastico e culminano – generalmente
– in complesse “macchine teatrali”.
Chi scrive si ritrovò dal settembre ‘84 alla
scuola media statale “Benedetto Croce” di
Corso Novara, in Barriera di Milano, a Torino
(ove insegna tutt’ora). Barriera di Milano è,
storicamente, il più antico quartiere industriale
(e dunque operaio) di Torino, ma radicalmente
devastato da una radicale crisi di deindustrializzazione,
che ha irrimediabilmente
compromesso il suo tessuto sociale (nonché
le sue antiche tradizioni sovversive). Il “nuovo”
proletariato di Barriera di Milano è oggi
largamente costituito dagli immigrati: dal
Nord Africa, dall’Africa sub-sahariana, dall’Europa
orientale, dall’Estremo Oriente, dal Sud
America.
È con questo nuovo soggetto che negli ultimi
vent’anni la “Media Croce” ha fatto i suoi
conti in modo crescente, diventando sempre
più – nel tempo – la “scuola degli stranieri”
(oggi siamo – sui tre plessi dell’Istituto:
Croce, Morelli, Verga – sul 54% circa di stranieri,
ma la percentuale è in continua crescita:
chi scrive, ad esempio, ha una nuova classe
1ª di 19 alunni di cui 15 stranieri).
La prima difficoltà di base, la conoscenza della
lingua italiana, è stata affrontata organizzando
corsi di alfabetizzazione (paralleli alle
ore curricolari) su più livelli, ma è stato fondamentale
– per gli insegnanti – riconoscere
il loro “analfabetismo culturale” rispetto alla
complessa realtà socio – culturale con cui venivano
a contatto. Così si è cercato di “rimediare”
con i corsi tenuti da volenterosi docenti
universitari presso la stessa scuola sulle
società araba e cinese (almeno quelle!).
Una scuola multietnica pone (tra gli altri) il
problema dell’identità nel senso storico – culturale.
Chi, come il sottoscritto, insegnando
école numero 68 pagina 12
storia, si sia sempre posto
tale questione, ha rapidamente
scoperto che (salvo
rarissime eccezioni) vi è –
per tutti, italiani e stranieri
– una drastica rimozione
della memoria. Perciò può
capitare, come al sottoscritto,
che avendo fornito ai
suoi alunni cinesi, in vista
dell’esame di terza media,
la traduzione italiana (con
testo cinese a fronte) degli
ultimi poeti cinesi (dalla
tragedia di Tien An Men in
poi), si vide proporre all’esame
“San Martino” di Giosuè
Carducci (sic).
Ma se l’identità non si è
mantenuta come memoria e
consapevolezza, si affaccia
talvolta come rivendicazione
grezza ed emotiva: allora è lo scontro, a volte
violento, che è giunto a manifestarsi tra studenti
anche non lontano dall’edificio scolastico.
Ma qui, a ben vedere le “razze” non sono
che “maschere” di ben altro: c’è un disagio sociale
profondo, il senso percepito dell’emarginazione,
la deprivazione culturale diffusa.
Naturalmente vanno operate nette distinzioni
tra alunni di recente (o recentissima) immigrazione,
con tutti i problemi “di base” (a
partire dalla lingua) che ne scaturiscono, ed
alunni che hanno già alle spalle alcuni anni di
percorso scolastico in Italia. Per questi ultimi
l’esperienza scolastica in quanto tale presenta,
in generale, gli stessi problemi che coinvolgono
gli studenti italiani: in questo senso
(e in questi limiti) l’integrazione è un fatto
reale (almeno nell’esperienza concreta dello
scrivente alla “Media Croce” di Torino, anche
grazie al ruolo svolto, in questi ultimi anni, da
insegnanti di origine e madrelingua straniere
(nella fattispecie: araba e spagnola) e da insegnanti
italiani parlanti lingue dell’immigrazione
(nella fattispecie: cinese).
Ma proprio qui sta il punto, ossia qui si pongono
i problemi attuali più rilevanti per l’intero
mondo della scuola e, particolarmente, per
la fascia dell’obbligo.
La controriforma
E a questo punto prende le mosse il terzo periodo
(dal 2004/05 ad oggi) in cui si dispiega
(ben oltre le alterne vicende del quadro politico-governativo:
da Luigi Berlinguer a Moratti
a Fioroni) una vasta operazione di profondo
rimodellamento della scuola nel suo insieme,
ma che – non a caso – ha il suo fulcro nella
scuola media inferiore.
La portata della manovra – almeno nelle intenzioni
– è storica: è dunque del tutto legittimo
definirla in base ai contenuti che diremo
una controriforma (che, ovviamente, si
presenta – al solito – come “riforma”).
In sintesi: si tratta di passare da una scuola
dell’obbligo formativa (era questo il nocciolo
della riforma del ‘62, che istituiva la scuola
media unica, ultima erede della grande uto-
pia illuministico-giacobina – incarnata nella
legge dell’anno II della Repubblica – che acculturò
l’Europa negli ultimi due secoli) ad
una scuola istruttivo-addestrativa per soggetti
subalterni.
Naturalmente l’operazione è presentata come
una necessaria – e dunque indiscutibile – modernizzazione
della istituzione scolastica. Di
qui, innanzitutto, l’adozione, in questi ultimi
anni, da parte del Ministero della Pubblica
Istruzione in tutti i suoi atti e manifestazioni
(fino alle circolari per il personale docente)
di una sorta di gigantesca “maschera” di
(pseudo) razionalità, espressa attraverso un
linguaggio criptico, che è la caricatura del
linguaggio scientifico.
Nella realtà, la fine del Tempo prolungato e
delle compresenze interdisciplinari ha comportato
un indebolimento delle materie curriculari
(con le ben note attuali difficoltà nei
campi della lingua e della matematica, pilastri
di ogni autentica formazione), a vantaggio
di una vasta (dis)articolazione di materie
“opzionali” strutturate in “laboratori” interclasse.
In tal modo vengono gravemente
compromesse la continuità docente e l’unità
del gruppo-classe (continuamente scomposta
e ricomposta), due condizioni oggi più che
mai necessarie per un processo di apprendimento
di forte sostanza.
Così la scuola pubblica si piega ad un ruolo
subalterno rispetto al sistema di potere dominante
e alle sue esigenze di riproduzione.
La scuola dell’obbligo ridiventa così, pienamente,
il luogo di addestramento delle classi
subalterne alla divisione capitalista del lavoro
e al dominio classista dello Stato.
Le classi dominanti, non a caso, vanno riorganizzando
i loro percorsi scolastici altrove,
nel potenziamento e nella riqualificazione di
già esistenti strutture private (non importa,
a questo punto, se laiche o religiose) e/
o nella creazione di nuove strutture scolastiche
globali (come la mega-istituzione di
Confindustria – dalla scuola materna alla specializzazione
post-universitaria in allestimento
a Roma).
A scuola si impara
Dal Sessantotto alla Controriforma: in 40 anni
questo mi sembra, in estrema sintesi, il senso
epocale dell’arco di tempo che ha attraversato
nella scuola (e fuori).
Andando a scuola, comunque, alla fine qualcosa
si impara. Ho faticosamente imparato
che, anche per garantire un minimo (e fragile)
spazio di libertà e cultura, non c’è alternativa
alla lotta. E mentre in Francia si proclama
forte l’obiettivo di cancellare, specie dalla
scuola, ogni traccia del Sessantotto, pare doversi
ragionevolmente concludere che proprio
la scuola (ma non solo) ha un gran bisogno
di un nuovo Sessantotto.
* Roberto Prato insegna alla scuola media
“Benedetto Croce” di Torino. L’articolo che ripubblichiamo
con il consenso dell’autore è già uscito
su Umanità Nova (n. 40 del 9 dicembre 2007,
anno 87).

Le donne e la contestazione dei contestatori
C’è continuità o discontinuità tra l’esperienza
del ‘68 e il femminismo? Cosa resta oggi del
movimento parallelo che rovesciò le priorità delle
vite individuali e delle visioni collettive dal ‘68 in
poi? MONICA LANFRANCO*
Per ironia della sorte i movimenti femministi
nacquero proprio in seno alla contestazione
del ‘68: le donne contestarono i
contestatori, perché dietro la facciata di aggressivo
anticonformismo, e dentro la critica
all’autoritarismo patriarcale dei maschi contestatori
in rivolta contro i loro “maggiori”
(padri, educatori, giudici, sacerdoti) quegli
stessi contestatori incarnavano nei confronti
delle donne che avevano al loro fianco lo
stesso identico modello patriarcale sessista,
svalutativo del femminile, riproducendo nello
stereotipo “dell’angelo del ciclostile” quello
precedente mai abbastanza disattivato dell’angelo
del focolare.
Sul rapporto tra il movimento del ‘68 e quello
femminista sono state scritte pagine eloquenti
da parte di studiose e protagoniste di
quegli anni. Ciò che è certo, e fatto storico
incontestabile è che molte donne hanno partecipato
alle vicende del ‘68, e molte di loro
hanno poi attraversato la fase dei collettivi
femministi. Ma questo rapporto non è così
scontato e il passaggio non riguarda un numero
così numeroso di donne come ci si potrebbe
aspettare.
Per Luisa Passerini (citata ampiamente nel
sito www.girodivite.it/sherazade/002/storia.
htm) autrice tra l’altro de “Il movimento delle
donne”, in La cultura e i luoghi del ‘68 (Franco
Angeli, Milano 1991), il ‘68 rappresenta per
certi versi una femminilizzazione nella storia
della nostra civiltà. Il movimento vede emergere
i temi della soggettività, dell’immaginale,
dell’emotivo, del singolare, dell’empirico.
Più esattamente Passerini parla di androginia.
L’androginia del movimento agli inizi si
esprime in immagini maschili. La partecipazione
delle donne al movimento degli studenti
è di «qualità e quantità inedita» e vi sono
«nuove immagini di dirigenti e di quadri intermedi»,
ma «il portato di questo non poteva
essere riconosciuto all’epoca, a causa dell’imperante
ideologia dell’uguaglianza».
Continuità o discontinuità quindi tra l’esperienza
del ‘68 e il femminismo, si chiede
Il ‘68 rappresenta
per certi versi una
femminilizzazione nella
storia della nostra
civiltà. Il movimento
vede emergere i temi
della soggettività,
dell’immaginale,
dell’emotivo, del
singolare, dell’empirico
Passerini? Il movimento delle donne ha insistito
soprattutto su quest’ultima. La tesi
di Luisa Passerini è però che il movimento
delle donne «vive rispetto al primo ‘68 momenti
fondamentali di discontinuità radicale,
essendo più antico e vertendo su una contraddizione
più antica; tuttavia gli è debitore
in quanto il ‘68 propone su scala allargata un
movimento di libertà che parte dalle proprie
condizioni di vita».
Tracce poco evidenti
È certo che esistano alcuni elementi di fondo
del messaggio di profondo e irrevocabile mutamento
che nella scuola, da allora ad oggi,
sono visibili. Per esempio il disvelamento di
una indiscussa superiorità didattica delle ragazze
sui ragazzi, e una certa valorizzazione
delle competenze femminili che ha fatto, in
particolare nel dibattito soprattutto d’oltralpe
in Francia e Inghilterra, ipotizzare alcuni
momenti di separatezza tra maschi e femmine
anche nelle scuole miste per consentire una
maggiore concentrazione e una migliore sessuazione
dei contenuti.
Ma a questa superiorità oggettiva del genere
femminile non è mai corrisposta una maggiore
valorizzazione nella scuola e nella didattica
dei saperi femminili prodotti in oltre
trent’anni di movimenti delle donne in Italia
école numero 68 pagina 13

e in Europa, e una attenzione alla narrazione
e alla declinazione, dal punto di vista femminile
dei contenuti proposti ai futuri cittadini
e cittadine che siedono sui banchi della
scuola.
Ci sono stati, è vero, lodevoli tentativi da
parte di gruppi di insegnanti e intellettuali
che in alcune scuole italiane hanno sperimentato
un diverso modo di insegnare e trasmettere
la cultura tradizionale rileggendola
dal punto di vista di genere: persino le discipline
scientifiche più apparentemente neutre,
quali la matematica o la fisica, hanno
avuto in alcuni casi una loro declinazione
sessuata, come nel caso del testo I pantaloni
di Pitagora. Ma si è trattato di una breve parentesi,
cancellata dal ventennio che, a partire
dagli anni ‘80, ha decretato la fine delle
speranze e delle aspirazioni contenute anche
in quel testo così amaramente attuale come
La Lettera di don Milani.
Ancora oggi siamo, infatti, inchiodate alle
“raccomandazioni” ministeriali che si sono
susseguite nel tempo da parte del dicaste-
école numero 68 pagina 14
ro delle Pari opportunità,
nelle quali si invita,
a partire dai primi anni
scolastici, a riflettere sugli
stereotipi sessisti e
sugli ostacoli generati
dalla segregazione sessista
che si interpongono
tra le ragazze e la libera
scelta scolastica e universitaria.
Non è un caso
A partire dall’uso del linguaggio,
siamo ancora lontane dal poter
annoverare come acquisita quella
che negli anni ‘70 sembrava essere
una svolta irreversibile: la raggiunta
parità di diritti tra donne e uomini
e l’inizio di un percorso dove la
differenza di genere determinasse,
a partire dal miglioramento delle
condizioni di vita delle donne, il
miglioramento delle condizioni di
vita di tutta la società
che, rispetto alla media
europea, le italiane siano
ancora le Cenerentole
nella ricerca scientifica e
nelle facoltà tecnologiche,
nonché le più sofferenti
sulle competenze e
la creatività nel web.
Il linguaggio sessuato
Un altro fattore di sconforto
riguarda la preparazione
del corpo
insegnante, in prevalenza femminile fino all’Università,
sui temi della differenza di genere,
con particolare riferimento al primo
gradino della comunicazione sessuata: il linguaggio
sessuato.
Ricordo come una rivelazione tristemente ancora
oggi attuale l’intervista che la filosofa
Adriana Cavarero mi rilasciò nel 1991, un
dialogo che riportai all’interno di Parole per
giovani donne - 18 femministe parlano alle
ragazze d’oggi.
Riferendosi alla responsabilità delle insegnanti
e alla loro complicità, sia nel linguaggio
sia nel passaggio di contenuti, con il
permanere di una cultura sessista anche all’interno
dell’università, Cavarero faceva notare:
«Mi rivolgo all’uditorio, durante le lezioni
all’università, dicendo “le studenti e gli
studenti” presenti. Non dico “il mondo è abitato
da uomini”, ma “da uomini e donne”.
Ogni volta che devo usare i pronomi adopero
quelli e quelle, ossia non uso il neutro universale.
Questo colpisce, e dopo un po’ ragazze
e ragazzi si rendono conto che non si
tratta solo di un vezzo, ma che il mio modo
di parlare ha delle corrispondenze nella modificazione
dell’ordine simbolico. Anche all’Università,
che dovrebbe essere il massimo
approdo del sapere, accadono fatti insensati:
spesso ci si trova davanti un uditorio prevalentemente
femminile, eppure ci si rivolge
usando solo il maschile, così come nelle circolari
si parla di “ragazzi” ignorando in modo
assolutamente assurdo che la popolazione
scolastica è mista, e che la nostra lingua
consente l’uso diversificato per sesso di pronomi,
nomi e aggettivi. Continuare a ignorare
questa ricchezza linguistica è un fatto insensato
e io sono particolarmente sensibile a
questa contraddizione. Come si può fare della
filosofia partendo dalle insensatezze?».
Sembrerebbero solo dettagli, ma non lo
sono.
A partire dall’uso del linguaggio, che è il primo
gradino per produrre senso, visioni, e
cittadinanza, nella scuola italiana mi pare
purtroppo di poter dire che siamo ancora
lontane dal poter annoverare come acquisita
quella che negli anni ‘70 sembrava essere
una svolta destinata a seminare, a permanere
e a formare le generazioni successive: la raggiunta
parità di diritti tra donne e uomini e
l’inizio di un percorso dove la differenza di
genere determinasse, a partire dal miglioramento
delle condizioni di vita delle donne, il
miglioramento delle condizioni di vita di tutta
la società e chi la abita.
Femminismo e scuola
Insomma, resta qualcosa oggi nella scuola di
quel vento tagliente e allo stesso tempo caldo
e pieno di passione che per brevità abbiamo
chiamato femminismo, che proprio in quegli
anni cominciò in Italia a prendere vita? È
bene porsi questa domanda in una giornata
di relativo ottimismo. Altrimenti il rischio è
quello di dare una risposta totalmente negativa.
A osservare, per esempio, la progressiva
e drammatica rottura del patto educativo
tra adulti (genitori da una parte e personale
scolastico dall’altra) che non solo comunicano
sempre meno, ma che addirittura devono
essere stimolati da un ministro per venire a
patti e colloquiare, ad esempio, circa l’opportunità
di far lasciare a casa i cellulari durante
le ore scolastiche mattutine.
Vorrei essere chiara: non ho alcuna intenzione
di offendere il lavoro di pregio e faticoso
che svolgono ogni giorno donne e uomini
insegnanti nella nostra scuola pubblica. Ma,
per diretta esperienza di genitrice di due figli
scolarizzati, di cui uno dislessico nella lettura
− e quindi un problema per la maggioranza
degli educatori fin qui incontrati, totalmente
impreparati su questo aspetto, anche se sempre
più diffuso − ho difficoltà a dire che il bilancio
è positivo.
Non mi sembra di riscontrare nella scuola i
frutti dell’eredità dei movimenti delle donne
che, appunto, germogliarono alla fine degli
anni ‘70.
* Direttora di Marea, trimestrale dei saperi delle
donne.

Palazzo Campana, quarant’anni fa Un buon uso
dei documenti del ‘68 deve guardarsi dagli stereotipi
e dai facili schemi: questa in sintesi la conclusione
di un’affollata assemblea nel vecchio palazzo delle
Facoltà umanistiche CESARE PIANCIOLA
Il 26 novembre 2007 si è svolta a Torino,
a Palazzo Campana, nel quarantennale dell’occupazione,
la presentazione dell’“Archivio
Marcello Vitale”, che raccoglie, presso il
Centro studi Piero Gobetti, un materiale vastissimo
sui movimenti e sulle lotte sociali
del ‘68 e degli anni successivi.
Marcello Vitale, nato nel 1951, fu militante
a Torino nel movimento studentesco e poi in
“Lotta Continua”. Studente di matematica all’Università,
scelse di prender parte direttamente
alla vita della classe operaia: nel settembre
del ‘73 fu assunto dalla Cromodora e
fu poi eletto nel consiglio di fabbrica. Fu travolto
e ucciso da un’auto nel 1976.
Leggendo il bel libro che è stato pubblicato
a trent’anni dalla sua scomparsa (Il mondo
di Marcello operaio per scelta nella Torino
del ‘68, a cura di Fabio Levi e di Alice Rolli,
Zamorani, Torino 2006), colpiscono la serietà
con cui, giovanissimo, affrontava la vita e
la politica, ma anche la capacità di non rinchiudersi
in schemi angustamente ideologici
(«È meglio un non marxista umano che un
marxista disumano», scriveva) e la complessità
delle riflessioni su di sé, sulle relazioni
con la sua compagna, gli amici, la famiglia.
Rimane, nella memoria di chi lo conobbe, una
luminosa figura di giovane del ‘68 impegnato
a calare nella realtà quotidiana una generosa
utopia di liberazione collettiva.
Nel corso della riunione hanno preso la parola
Marco Revelli, Fabio Levi, Silvana Barbalato
e Marco Scavino: tre storici e un’archivista.
Abbiamo trascritto e sintetizzato parte degli
interventi, che hanno messo in rilievo – al di
là dell’occasione specifica – alcuni aspetti del
‘68 e dell’uso dei documenti che si riferiscono
a quel periodo.
Marco Revelli: il ‘68 cambiò le vite
Qui, a Palazzo Campana, nell’aula magna di
Legge, verso le 17 di quarant’anni fa, il 27
novembre 1968, iniziò una grande assemblea,
con più di 500 persone stipate, che si concluse
con la decisione di occupare le Facoltà
umanistiche. Cominciò l’occupazione più lunga
che l’Università avesse conosciuto. Cinque
giorni prima, la riunione del Senato accademico,
che stava discutendo del trasferimento
delle Facoltà umanistiche alla Mandria di
Venaria, era stata invasa dagli studenti, che
avevano sfondato le porte. L’anno accademico
era cominciato nel solito modo. Il Magnifico
Rettore Mario Allara aveva concluso la sua
prolusione dicendo che l’Università aveva bisogno
che si discutesse di meno e si concludesse
di più. E lo stesso concetto aveva
ribadito il Rettore del Politecnico. Ma il 19
novembre l’Università Cattolica di Milano era
stata occupata e otto giorni dopo ci fu l’occupazione
a Torino. La Stampa titolava: Trenta
studenti occupano l’Università. Nell’occhiello:
«I giovani vogliono opporsi all’autorità della
scuola».
Successe una cosa imprevista: gli studenti
cominciarono a usare l’Università come strumento
di auto-organizzazione del loro sapere,
si divisero per commissioni e dettero vita
ai controcorsi. L’occupazione non era più solo
un mezzo di pressione, come era avvenuto a
febbraio, nelle agitazioni contro il progetto
di legge 2314. Lo spostamento alla Mandria
e il progetto di legge erano dichiarati effetto
dell’autoritarismo accademico, e si voleva
spostare l’obiettivo sui contenuti e sui metodi
di insegnamento. Il documento che aveva
preparato l’assemblea dichiarava: «Vogliamo
scegliere gli argomenti di cui vogliamo oc-
cuparci, il tipo di formazione e gli strumenti
didattici: i professori non devono essere i
nostri padroni ma devono partecipare ai seminari
e alle ricerche su un piano di parità».
Ricordiamo alcuni titoli dei controcorsi che
vennero organizzati: il Vietnam, l’America
Latina, la pedagogia del dissenso, psicoanalisi
e repressione, filosofia e sociologia della
scienza, i rapporti tra filosofia e cultura
(Marcuse), scuola e società, cinema e società,
giovani e protesta, gruppi minoritari, lo sviluppo
capitalistico in Italia dopo il 1960, la
divisione del lavoro, ecc.
Un elemento importante che colpisce come
novità è la “rivoluzione linguistica” tra l’inizio
del ‘67 e l’occupazione della fine dell’anno:
dalla terza persona si passa alla prima
persona, dall’impersonale del gergo dell’analisi
politica si passa a un discorso della quotidianità
e a un corpo a corpo diretto con la
controparte. A proposito del maggio francese
si è rilevato che si passò dall’on, dal si impersonale,
al tu: tu sei responsabile della situazione.
Prima si cercava l’alleanza con la parte
“progressista” del corpo accademico. Ora invece
la divisione separava orizzontalmente il
potere accademico e gli studenti. «I docenti
in genere se ne infischiano dell’università e
considerano le loro cattedre come un posto e
uno stipendio sicuro che permettesse loro di
coltivare affari privati», diceva un documento
che proseguiva facendo nomi e cognomi, con
una serie di imputazioni ad personam.
A quarant’anni di distanza è possibile andare
al di là degli stereotipi storiografici e politici,
per ricostruire percorsi personali che furono
in buona misura modificati da quell’evento.
Nessuno fece esattamente quello che pensava
che avrebbe fatto al momento dell’iscrizio-
école numero 68 pagina 15

ne all’Università. Il ‘68 modificò
le vite. Per questo sono importanti
gli archivi come il Fondo
Marcello Vitale che permettono
di ricostruire le biografie, le vite
vissute. Il Fondo è l’archivio di
una comunità che stava subendo
una mutazione antropologica,
nei suoi aspetti positivi e
anche in quelli negativi. Non è
infatti facile, come si vorrebbe
con un certo semplicismo, separare
nettamente il male e il bene
degli effetti di quella esperienza.
Fabio Levi: uscire dagli schematismi
e dagli stereotipi
Come storico ho acquisito una
certa dimestichezza con i documenti
come traccia e sedimento
delle azioni delle persone e vorrei
dire qualcosa su questo argomento.
Prima però propongo un’osservazione.
È doveroso assumere
un atteggiamento critico nei confronti di
quello che è stato il ‘68, evento che suscita
una naturale nostalgia in tutti noi che l’abbiamo
vissuto. È anche una nostalgia inevitabile
rispetto alla propria giovinezza. Ma il
fatto di esserci stati non significa che siamo
migliori o peggiori di tanti altri. E poi il
mondo in quarant’anni è profondamente cambiato.
Sono nati in tutto il mondo altri movimenti
con caratteristiche molto diverse dal
‘68. È quindi giusto collocare quell’episodio
in una prospettiva di lungo periodo, senza
sopravvalutazioni e senza sottovalutazioni.
Perché ho raccolto il materiale documentario
sul ‘68 che ho poi versato nel Fondo Marcello
Vitale? Non per motivi di studio, né per i posteri,
ai quali non pensavamo minimamente.
Ho tenuto le carte a cui ero legato affettivamente,
in senso positivo e negativo. Il ‘68 fu
per noi una rottura e quelle carte rappresentavano
un po’ la materializzazione di quello
che consideravamo un nuovo inizio.
In mezzo a quelle carte ci sono documenti
che sono legati strettamente al mio percorso
biografico, dal movimento studentesco a
Lotta Continua, e documenti che l’hanno toccato
solo marginalmente, per esempio quelli
di altre organizzazioni. Non bisogna trascurare
il senso di appartenenza che caratterizzava
la nostra esperienza; normalmente si parla
di “settarismo” e ricordiamo tutti episodi di
intolleranza tra settori del movimento e tra
gruppi. Ma credo che quel sentimento di appartenenza
fosse anche segno di un radicalismo
positivo e di una forte solidarietà con i
propri compagni.
Il movimento era fatto di persone concrete
che capitavano lì con storie molto diverse e
che nel corso della lotta – penso anche agli
scioperi alla Fiat nel 1969 – si arricchivano e
trasformavano a vicenda. Il mio è un appello
a guardarsi da schematismi e stereotipi.
Ancora un’osservazione a proposito del libro
école numero 68 pagina 16
Il mondo di Marcello operaio per scelta nella
Torino del ‘68. Raccogliendo i documenti per
scrivere la biografia di Marcello e inscriverla
nel mondo complesso e articolato di quegli
anni volevamo scrivere la storia di una persona,
ricostruita anche attraverso le lettere,
la descrizione della sua biblioteca, le annotazioni
ai libri che aveva letto, ecc. Certo c’erano
libri che tutti o quasi leggevano, ma c’erano
modi personali di rapportarsi alla lettura,
di rivolgersi a certi libri piuttosto che ad altri,
che occorre rilevare come aspetti significativi.
Ne traiamo una indicazione: non bisogna
prendere le carte di un archivio fermandosi
solo ai contenuti dichiarati, ma occorre capire
il significato che hanno avuto per le persone
che le hanno prodotte e per quelle che le
hanno raccolte.
Marco Scavino: l’enigma del “ventennio dei
movimenti”
Ormai da tempo i movimenti del ‘68 sono diventati
a pieno titolo oggetto di studio e di
riflessione storica. Nella ricorrenza del secondo
decennale la memoria storica era legata
essenzialmente alle testimonianze dei
protagonisti (emblematico, per esempio,
Formidabili quegli anni di Mario Capanna).
Ora siamo in possesso di un ricchissimo materiale
documentario depositato nei vari archivi,
alla Fondazione Feltrinelli, al Centro
Gobetti, ecc.
Revelli nella prefazione a Sindacato, PCI, movimenti
negli anni Sessanta di Cesco Chinello
(FrancoAngeli 1996) diceva: «La storia italiana
in quel ventennio cruciale che va grosso
modo dal luglio 1960 all’autunno 1980, dal risveglio
antifascista e operaio alla caduta alla
Fiat, è il prodotto del lavorio sotterraneo di
mille rivoli, di un reticolo fitto di esperienze
culturali e conflittuali irriducibile alla sintesi
di alcun gruppo dirigente, di alcun quadro
militante, di nessuna “voce”
tanto autorevole da pretendere
il monopolio della rappresentazione.
Per percepire quelle trasformazioni,
per ascoltare quel
lavorio, soprattutto per coglierne
l’intima dinamica, occorre
ascoltare i protagonisti là
dove essi si espressero, decodificarne
il linguaggio, ormai solo
in parte individuale, per molti
aspetti collettivo, interpretandone
le nuove inedite forme di
espressione. Occorre dunque
collezionare centinaia e migliaia
di volantini all’apparenza
tutti uguali, scandagliare i verbali
delle Commissioni interne
e poi dei Consigli di fabbrica,
scrutare tra le righe dei giornaletti
di officina o d’istituto, per
quanto riguarda gli studenti, e
poi trasferirsi negli archivi sindacali,
nelle fumose assemblee
delle Camere del lavoro o nelle
brucianti riunioni di Ateneo e
non temere la polifonia, né lo scontro tra linguaggi
sociali e gerghi d’organizzazione, ma
decodificare entrambi per coglierne il nucleo
a volte comune e i segni di una metamorfosi
radicale della politica».
Queste parole rendono bene lo spirito con cui
lavoriamo alla raccolta dei documenti nei fondi
come quello intitolato a Marcello Vitale.
L’interesse di molti studenti che fanno tesi
di laurea o di dottorato è per la varietà delle
culture politiche espresse dai movimenti. Per
esempio abbiamo i verbali delle riunioni operaie
degli anni Sessanta alla fabbrica tessile
Ermenegildo Zegna; il raffronto con il giornaletto
ciclostilato “Potere operaio” che essi
facevano è del massimo interesse. Così sono
da studiare a fondo i materiali sulle 150 ore e
quelli del dibattito interno ai primi movimenti
femministi italiani.
Quel “ventennio dei movimenti”, dagli anni
‘60 alla fine degli anni ‘70, dal punto di vista
storico è un enigma. Non si può non essere
colpiti dalla forza del riferimento alla “rivoluzione”.
Proprio una giovane, Alice Rolli, coautrice
del libro su Marcello Vitale, si chiedeva:
ma è possibile che studenti e operai davvero
credessero che quello che facevano si inscrivesse
in un processo rivoluzionario?
Rispetto a questo problema ci sono due atteggiamenti
diffusi: il primo è quello di liquidare
quella fiducia come un’illusione e una
ubriacatura ideologica; il secondo modo è di
dire che si usavano categorie vecchie, ma, se
guardiamo alla sostanza quei movimenti, essi
hanno “modernizzato” l’Italia, hanno liquidato
tradizionalismi e arcaismi. Entrambi questi
atteggiamenti sono insoddisfacenti. Se invece
ci caliamo nella mentalità del periodo e
delle persone, dobbiamo prendere sul serio il
modo di pensare dei soggetti di quel tempo e
capire in quali modi veniva declinato il concetto
di “rivoluzione” applicato a ambiti diversissimi.

Il ’68 nel cinema Il cinema non si
trova impreparato a rappresentare
e ad interpretare il “mondo”, e
spesso, anche nelle sue espressioni
di largo consumo, sembra già
anticipare, sin dagli anni Sessanta,
quelli che saranno i contenuti
propri dei movimenti del ‘68, il
rifiuto dell’autoritarismo e dei
rapporti familistici, la denuncia
della condizione femminile,
la rivendicazione delle libertà
personali, la coscienza dei rapporti
di classe, l’alienazione dell’uomo
moderno ARTURO MARTORELLI
In un certo senso si può attribuire alla diffusione
di una certa cultura cinematografica
nel corso degli anni Sessanta, l’accresciuta
sensibilità, nel mondo giovanile, verso
queste tematiche. Gli anni dell’“esplosione”
del cinema d’autore diffondono il nome e la
fama di quei maestri dell’inquietudine (da
Bergman a Bresson, da Bunuel a Visconti, da
Dreyer ad Antonioni) che stimolano all’indagine
interiore così come alla critica dell’esistente.
Sono, inoltre, i contemporanei della
Nouvelle Vague (Truffaut, Malle, Chabrol, ma
in particolare Godard) in Francia, quelli del
Free Cinema inglese (K. Reisz, L. Anderson,
T. Richardson), del cinema non conformista
dei paesi dell’ Est (il cecoslovacco M. Forman,
il russo A. Tarkovsky) del Cinema Novo brasiliano
(soprattutto G. Rocha) oltre a una
schiera di giovani e meno giovani cineasti
italiani (Pasolini, Ferreri, i fratelli Taviani,
G. Pontecorvo, E. Petri, M. Bellocchio, B.
Bertolucci e altri ancora) ad aprire la strada
ad un modo nuovo di leggere il presente e
la storia (un film come La battaglia di Algeri,
1966 di G. Pontecorvo non solo rappresenta
la lotta di liberazione di un popolo dall’oppressione
coloniale ma, mostrandone la presa
di coscienza, suggerisce riflessioni di più ampia
portata). Sono gli stessi anni che segnano
l’affermazione negli USA di registi che rivendicano
la loro indipendenza rispetto al sistema
e che tendono a rinnovare il cinema hollywoodiano,
quali A. Penn (La caccia, 1966,
Gangster story, 1967, Alice’s restaurant, 1969,
Piccolo grande uomo, 1970), M. Nichols, (Chi
ha paura di Virginia Woolf, 1966, Il laureato,
1967, Comma 22, 1970), R. Altman (Anche
gli uccelli uccidono, 1970, MASH, 1970) e J.
Schlesinger (Un uomo da marciapiede, 1969)
gli anni nei quali fanno le loro prime pro-
ve F. F. Coppola, M. Scorsese, B. De Palma,
D. Hopper (il cui Easy Rider, 1969, diventa
ben presto il manifesto della cultura alternativa
di quegli anni). Il tema della rivolta giovanile
è affrontato solo di rado direttamente
(Fragole e sangue, 1970, S.Hagmann), altrove
è evocato dalla ribellione dell’individuo al
potere che lo sovrasta (Punto zero, 1971, R.
Sarafian; Electra Glide, 1973, J. W. Guercio).
Lo stesso “genere” western esce rinnovato da
un totale rovesciamento di prospettiva, frutto
di un atteggiamento di rifiuto nei confronti
della guerra in Vietnam, proiettato nel
passato nei confronti delle guerre “indiane”
(Soldato blu, 1970, R. Nelson; Un uomo chiamato
cavallo, 1970, E. Silverstein).
L’immaginario giovanile
È un cinema che lascia una traccia profonda
nell’immaginario giovanile, in quanto, al di là
dei temi trattati (conflitti familiari e politici,
la crisi della coppia, i drammi esistenziali,
la guerra..), evidenzia contraddizioni presenti
in tutta la società occidentale, sottolineando
la precarietà dei modelli di vita e dei rapporti
istituzionali.
È lo stesso clima culturale che spinge il pubblico
giovanile alla riscoperta del cinema del
passato, in particolare i capolavori del cinema
muto (da quello sovietico a quello dell’espressionismo
tedesco), attraverso la rete
dei cineclub e dei circuiti d’essai. In essi rivivono
una seconda vita in Italia anche i vecchi
film di Totò la cui comicità irriverente incrocia
gli umori e le aspettative di un pubblico
felicemente disposto a recepirne la vena più
ferocemente trasgressiva.
In quello che fu definito “l’anno degli studenti”
gli studenti scoprivano il cinema e, a sua
volta, la stessa cinematografia di quegli anni
scopriva i giovani, interpretandone spesso
autenticamente le esigenze e le aspettative,
in altri casi cercando di sollecitarne gli umori,
in altri ancora di proporre soluzioni. Che
cosa accomuna, infatti, film di autori italiani
diversi per stile e linguaggi come Seduto
alla sua destra (’68, V. Zurlini), I cannibali
(‘69, L. Cavani), Sotto il segno dello scorpione
(’69, P. e V. Taviani), Il seme dell’uomo (’69,
M. Ferreri), inquietanti parabole sul destino
dell’uomo occidentale, ambientate in epoche
e luoghi “estranei” alla nostra civiltà, se
non la volontà di dare risposte, non sempre
lineari e decifrabili, agli interrogativi posti
dal proprio tempo? E qualche “lezione” rivolta
ai giovani viene non solo da film celebrati
come Queimada (’69, G. Pontecorvo, nel quale
la parte del protagonista è affidata a M.
Brando), ma addirittura da quelli del popolare
genere del western italiano, da Quien Sabe
(’67, D. Damiani) a Corri uomo corri (’68, S.
Sollima), a Tepepa (’69, G. Petroni, anche qui
c’è un altro “mostro sacro” come O. Welles),
nei quali i riferimenti politici sono più che
trasparenti.
Il cinema “d’autore” italiano
In senso più ampio, tutta la produzione cinematografica
di quegli anni, in Italia come in
école numero 68 pagina 17

In Italia come in Europa
e negli USA, il cinema
presta attenzione alla
repressione politica, alla
guerra imperialista, dai
conflitti generazionali alla
crisi del modello “borghese”
di famiglia. Anche gli autori
affermati sono più liberi di
esplicitare la loro carica
polemica e dissacratoria
nei confronti del sistema di
valori costituiti
Europa e negli USA, non può fare a meno di
prestare attenzione agli aspetti più drammatici
del proprio tempo, dalla repressione politica
alla guerra imperialista, dai conflitti generazionali
alla crisi del modello “borghese”
di famiglia, sì che ne è percorsa la stessa opera
di autori affermati, più liberi che nel passato
di esplicitare la loro carica polemica e
dissacratoria nei confronti del sistema di valori
costituiti.
Di questa carica è segnata gran parte del cinema
“d’autore” italiano di quegli anni: quello
di P. P. Pasolini (Teorema, 1968; Porcile,
1969), quello di M. Ferreri (Dillinger è morto,
1969; il già citato Il seme dell’uomo), quello
del giovane M. Bellocchio (rivelatosi sin
dal 1965 con I pugni in tasca, e poi con La
Cina è vicina, 1967; da segnalare come autore
dell’episodio “Discutiamo discutiamo” del
film Amore e rabbia, 1969, nel quale per la
prima volta è riprodotta, sia pure in chiave
grottesca, un’assemblea studentesca), quello
di B. Bertolucci (Partner, 1968; “Agonia”, altro
episodio di Amore e rabbia), quello di L.
Cavani (Galileo, 1968; L’ospite, 1971), quello
dei fratelli Taviani (percorso dagli stessi temi,
école numero 68 pagina 18
da Sovversivi, 1967 ad Allonsanfàn, 1974).
Su un diverso piano e orientato sul registro
del grottesco si pone il cinema di E.
Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di
ogni sospetto, 1970; La classe operaia va in
Paradiso, 1972), mentre dall’esperienza americana
Antonioni deriva un finale profetico
sulla civiltà dei consumi (Zabriskie Point,
1970).
Ancora frutto della “cultura” del ‘68 è la rilettura
del Risorgimento operata da F. Vancini
(Bronte, cronaca di un massacro, 1972); e una
forte carica polemica nei confronti delle vicende
storiche, ma con uno sguardo rivolto al
presente, ispira i film di G. Montaldo (Sacco e
Vanzetti, 1971, Giordano Bruno, 1973). Prove
isolate sono quelle di registi che in parte
cercano di stare al passo coi tempi, in parte
cercano di rimettere in discussione la propria
esperienza (L’alibi, 1969, di A. Celi, L.
Lucignani, V. Gassman), temi che coinvolgono
in parte anche la commedia italiana di
quegli anni (D. Risi, M. Monicelli, L. Zampa,
che dirige Contestazione generale, 1970, E.
Scola).
Il cinema “militante” europeo
Nell’orizzonte europeo continuano, in questi
anni, a prodursi fermenti e novità. Se, in
Francia, la scuola della “nouvelle vague” sembra
sciogliersi nell’affermazione a livello internazionale
delle sue maggiori personalità,
e solo J. L. Godard, da una parte, e la coppia
J. M. Straub e D. Huillet, su un altro registro,
portano avanti l’idea sessantottesca di
un cinema “militante”, è in Germania che il
clima di quegli anni produce gli esiti più interessanti.
Sono i giovani R. W. Fassbinder,
W. Herzog , V. Schlondorff, M. von Trotta, W.
Wenders a raccogliere i frutti di quel mutamento
culturale e a ricostruire dalle fondamenta
il cinema tedesco, con opere che ne
rinnovano linguaggio e tematiche, influenzando,
a loro volta, tutta la cinematografia
internazionale.
Rivisitazioni e rievocazioni
Ancora fino ai tardi anni Settanta l’onda lunga
del ‘68 produce i suoi effetti, a volte con
opere cariche di forti accenti civili, più spesso
di “maniera”, che, nel riprendere superficialmente
gli stessi temi, finiscono per alimentare
una sorta di retorica rovesciata. Di
lì partirà un altro fenomeno, non più quello
di un cinema che riflette il e sul proprio tempo,
ma che rivisita, e interpreta, il passato,
operazione che, inevitabilmente, si svolge più
alla luce e sotto la pressione dei problemi e
dell’angolazione del proprio tempo che non
da una prospettiva storica.
È appunto proprio dalla metà degli anni
Settanta in poi che lo sguardo del cinema sul
‘68 diventerà tanto più retrospettivo (e sempre
meno introspettivo) quanto più il mutato
clima culturale, volto al disimpegno se non
all’aperta restaurazione (esito anche di sconfitte
storiche e di fallimenti teorici dei cosiddetti
movimenti), finirà per prendere il sopravvento.
In Italia questo mutamento di clima è segnato
dal successo di un romanzo, Porci con le
ali (Rocco e Antonia, 1976), e dalla sua meno
fortunata trasposizione cinematografica (idem
P. Pietrangeli, 1977), la cui attenzione è ormai
tutta centrata sugli effetti che l’universo
ideologico del ’68 ha riversato sulla generazione
successiva, e in particolare sulle vite private.
Sono cominciati già quegli “anni di piombo”
(dal titolo di un bel film della von Trotta,
1977), le cui conseguenze saranno quelle di
attribuire ai movimenti la genesi del terrorismo
e di contribuire a “scaricare” il ’68 dalle
coscienze. La riflessione del cinema su quegli
anni si farà sempre più debole e si ridurrà a
rievocazioni sbiadite e parziali. Fanno eccezione
alcuni casi, come quello di Maledetti vi
amerò (1980, M. T. Giordana), commossa rivisitazione
di quegli anni e di quel clima, il
primo film sull’esperienza di quella generazione,
un tema al quale lo stesso regista ritornerà
anni dopo col più fortunato La meglio gioventù
(2003), nel quale al ’68 viene restituito
il ruolo di momento di formazione e di scelte
morali. Il ricordo di quell’esperienza accomuna
ancora, nel bene e nel male, i protagonisti
di Italia-Germania: 4-3 (A. Barzini, 1990), nel
quale la riflessione sul passato serve ad alimentare
la speranza nel presente.
Tra le produzioni documentaristiche, infine, la
più notevole è Trenta anni di oblio (S. Agosti,
1998), segno di un’attenzione ad un tema che
nel tempo è stato sempre più storicizzato.
Sul versante del Maggio francese (destinato a
diventare la data-simbolo di tutto il ’68), il
distacco ironico e la simpatia verso il protagonista
guidano una storia privata, quella di
Milou a maggio (L. Malle, 1989), tutta calata
nel clima di quell’anno.
Dove, invece, la forza di quegli avvenimenti
irrompe decisamente e decide delle vite private
è in The Dreamers (B. Bertolucci, 2003),il
cui clima claustrofobico è rotto dall’esplosione
della rivolta che divampa nelle strade.
Ma è forse negli USA che quell’anno ha segnato
più che altrove tutta la storia di un
paese.
Il ’68 non è solo l’anno della contestazione
studentesca, del movimento delle Black
Panthers e del rifiuto della guerra in Vietnam,
ma è l’anno del duplice assassinio di Martin
Luther King e di Robert Kennedy, la fine di un
clima di rinnovamento e di fiducia. Quel clima
è ben rievocato, col suo carico di speranze
e contraddizioni, nel film Bobby (E. Estevez,
2006), esemplare ricostruzione di ambienti,
personaggi ed atmosfere. A sottolineare che
l’interesse per quegli anni è ancora costante
negli USA c’è infine da segnalare la rievocazione,
in chiave semidocumentaristica (in parte è
animazione) di uno degli episodi più duri del
’68 americano, gli scontri tra pacifisti e polizia
alla Convention democratica di Chicago,
nel film Chicago 10 (B. Morgen, 2007) presentato
all’ultimo Festival di Locarno. La vitalità
della più recente generazione di cineasti e
documentaristi indipendenti USA (tra i quali
M. Moore) mostra che l’eredità della “cultura”
sorta in quegli non è affatto esaurita.

68
ALLORA E OGGI: QUALCHE LETTURA
Per un’amplissima bibliografia, ben strutturata in sezioni, che arriva fino ai saggi usciti nel trentennale (1998) e comprende
anche le riviste, rimandiamo al sito http://www.media68.net/ita/biblio/biblio.htm. Elenchiamo alcuni libri e opuscoli
in italiano o tradotti in italiano editi negli anni ‘67-’69. Aggiungiamo una lista di saggi e interviste usciti recentemente o
in corso di pubblicazione. [C.P.]
IL ‘68 NEL CONTESTO INTERNAZIONALE
Della miseria nell’ambiente studentesco [Università di Strasburgo, nov. 1966], Libreria Feltrinelli, Milano 1967.
Backhaus Giorgio (a cura di), Springer: la manipolazione delle masse, Einaudi, Torino 1968.
Bilancio di maggio, Dossier con interventi di Sartre, Malraux, Cohn-Bendit, Souvageot, Touraine, Viasson Ponté, Barjonet, Geismar,
Kastler, Truffaut, Mondadori, Milano 1968.
Chomski Noam, I nuovi mandarini, Einaudi, Torino 1968.
Collotti Pischel Enrica (a cura di), Il Vietnam vincerà. Politica, strategia, organizzazione, Einaudi, Torino 1968.
Dutschke Rudi. Bergmann Uwe, Lefevre Wolfgang, Rabehl Bernd, La ribellione degli studenti, ovvero La nuova opposizione, Feltrinelli,
Milano 1968.
Gli studenti e la nuova sinistra in America, introduzione di Noam Chomski, De Donato, Bari 1968.
Lipset Seymour Martin, Studenti e politica, De Donato, Bari 1968.
Magri Lucio, Considerazioni sui fatti di maggio, De Donato, Bari 1968.
Masi Edoarda, La contestazione cinese, Einaudi, Torino 1968.
Morin Edgar, Lefort Claude, Coudray Jean-Marc [Castoriadis C.]. La Comune di Parigi del maggio ‘68, Il Saggiatore, Milano 1968.
Pancaldi Augusto (a cura di), Manifesti della rivolta di maggio, Editori Riuniti, Roma 1968.
Aa. Vv., Documenti della rivolta studentesca francese, a cura del Centro di informazioni universitarie, Laterza, Bari 1969.
Aa. Vv., Contestazione a Varsavia, introduzione di Zygmund Bauman, Bompiani, Milano 1969.
Arendt Hannah, Sulla violenza [1969], in Id., Politica e menzogna, Sugar, Milano 1985 (riedito in volumetto a sé: Guanda, Parma
2001).
Cooper David (a cura di), Bateson Gregory, Carmichel Stokely, Goodman Paul, Marcuse Herbert, Sweezy Paul, e altri, Dialettica della liberazione,
pref. di Giovanni Jervis, Einaudi, Torino 1969.
Roszak Theodore, Nascita di una controcultura, Feltrinelli, Milano 1969.
Rosenberg Paul, Vivere in maggio, Einaudi, Torino 1969.
IL ‘68 IN ITALIA
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1967.
Chiarante Giuseppe, La rivolta degli studenti, Editori Riuniti, Roma 1968.
Contro la scuola di classe [il movimento degli studenti medi di Torino, Milano, Trento, Genova, Modena, Bologna, Pisa, Roma], Marsilio,
Padova 1968.
La scuola e gli studenti [documenti de Il potere operaio di Pisa], Libreria Feltrinelli, Milano 1968.
Occupazione del Parini, Milano 5-8 marzo, Libreria Feltrinelli, Milano 1968.
Ragghianti Carlo Ludovico, Università in prima linea, Vallecchi, Firenze 1968.
Rossanda Rossana, L’anno degli studenti, De Donato, Bari 1968.
Scalzone Oreste, Studenti, partiti ed elezioni politiche, Libreria Feltrinelli, Milano 1968.
Zangrandi Ruggero, Perché la rivolta degli studenti, Feltrinelli, Milano 1968.
Aa. Vv., L’autoritarismo nella scuola, Editori Riuniti, Roma 1969.
Bianchi Gianfranco, L’Italia del dissenso, Queriniana, Brescia 1969.
Bimbi Guido, Secchi Luciano, Viareggio dopo Avola. La grande menzogna, Jaca Book, Milano 1969.
Boato Marco (a cura di), Contro la Chiesa di classe, Marsilio, Padova 1969.
Cacciari Massimo, Ciclo capitalistico e lotte operaie. Montedison, Pirelli, Fiat, 1968, Marsilio, Padova 1969.
Catalano Franco, I movimenti studenteschi e la scuola in Italia, Il Saggiatore, Milano 1969
Falconi Carlo, La contestazione nella Chiesa. Storia e documenti del movimento cattolico antiautoritario in Italia e nel mondo, Feltrinelli,
Milano 1969.
I lavoratori studenti. Testimonianze raccolte a Torino, introduzione di Vittorio Foa, Einaudi, Torino 1969.
La situazione attuale e i compiti politici del Movimento Studentesco [Università statale di Milano], Sapere edizioni, Milano 1969.
Luperini Romano, Il PCI e il movimento studentesco, Jaca Book, Milano 1969.
Oliva Carlo, Rendi Aloisio, Il movimento studentesco e le sue lotte, Feltrinelli, Milano 1969.
LIBRI RECENTI
Bruno Trentin (intervista a cura di Guido Liguori), Autunno caldo. Il secondo biennio rosso (1968-1969), Editori Riuniti, Roma 1999.
Billi Fabrizio (a cura di), Gli anni della rivolta (1960-1980): prima, durante e dopo il ‘68, Edizioni Punto Rosso, Milano 2001.
Ceriani Massimo (a cura di), Che cosa rimane. Racconti dopo il Sessantotto, Jaca Book, Milano 2001.
Sansonetti Piero, Dal ‘68 ai no-global. Trent’anni di movimento, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2002.
Fasano Nicoletta, Renosio Mario (a cura di), I giovani e la politica. Il lungo ‘68, EGA, Torino 2002.
Aa. Vv., L’immaginazione e il potere. Idee, fatti e protagonisti del sessantotto europeo, Collana “Giorni di storia”, Suppl. a L’Unità, Roma
2003.
Flores Marcello, De Bernardi Alberto, Il Sessantotto, Il Mulino, Bologna 2003 (2a ed.).
Aa. Vv., Anno Domini 1968. L’immaginazione che voleva il potere, Manni, Lecce 2004.
Marino Giuseppe Carlo, Biografia del Sessantotto. Utopie, conquiste, sbandamenti, Bompiani, Milano 2004.
Orsina Giovanni, Quagliariello Gaetano, La crisi del sistema politico italiano e il Sessantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.
Berman Paul, Sessantotto. La generazione delle due utopie, Einaudi, Torino 2006.
Berman Paul, Idealisti e potere. La sinistra europea e l’eredità del Sessantotto, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.
Illuminati Augusto, Percorsi del ‘68. Il lato oscuro della forza, DeriveApprodi, Roma 2007.
PROSSIME USCITE
Aa. Vv., Enciclopedia del ‘68, Manifestolibri, Roma 2008.
Bernocchi Piero, Viva il sessantotto, Datanews, Roma 2008.
Capanna Mario, Il Sessantotto al futuro, Garzanti, Milano 2008.
Rossanda Rossana, La fine del mondo. Colloquio sul ‘68 a uso di un lettore di oggi, a cura di Severino Cesari, Einaudi, Torino 2008.
Veneziani Marcello, Rovesciare il Sessantotto, Mondadori, Milano 2008.
école numero 68 pagina 19

IDEE
per l’educazione
CONFLITTI Nel libro-inchiesta Assassinio ad
Amsterdam Jan Buruma, partendo dall’assassinio
di Theo Van Gogh, analizza i conflitti tra culture,
tradizioni, usi, costumi e valori diversi in un paese
che si era posto in Europa come un modello aperto e
illuminato La crisi del multiculturalismo
olandese MARISA NOTARNICOLA
Il 2 novembre del 2004 veniva assassinato
ad Amsterdam Theo Van Gogh, noto polemista
e cineasta olandese, per mano di Mohammed
Bouyeri, un giovane fondamentalista islamico
di origine marocchina.
A partire da questo evento prende l’avvio
l’avvincente libro-inchiesta Assassinio
ad Amsterdam (Einaudi, Stile libero, Torino
2007), scritto da Jan Buruma, giornalista
e saggista di origine olandese professore al
Bard college di New York.
Attraverso interviste a personaggi diversi che
si interrogano sui limiti di un modello multiculturale
che già da tempo aveva cominciato
a mostrare le sue crepe, l’autore ricostruisce
una fitta trama di fatti, comportamenti, idee
ed opinioni che hanno portato, tra l’altro, alla
richiesta di politiche restrittive nei confronti
degli immigrati.
L’assassinio di Theo Van Gogh aveva suscitato
nel paese molto turbamento ed emozioni amplificate
dai media e dai dibattiti degli intellettuali
che parlarono a lungo del caso. Non
colpiva solo il modo in cui egli era stato ucciso,
ma anche l’avvertimento minaccioso scritto
in una lettera infissa con un coltello sul suo
corpo, nella quale si invocava la guerra santa
école numero 68 pagina 20
contro gli infedeli e la morte di una serie di
persone, tra cui Ayaan Irsi Ali, militante politica
di origine somala, nonché autrice della
sceneggiatura del cortometraggio di Theo Van
Gogh Submission, sulle vessazioni subite da
donne islamiche in nome del Corano.
Theo Van Gogh e Ayaan Irsi Ali facevano parte
di una larga schiera di persone di orientamenti
politici diversi che da tempo esprimevano
dubbi sul tipo di tolleranza legato al modello
multiculturalista.
Ciò era dovuto sia ad avvenimenti esterni (la
fatwa nei confronti di Salman Rushdie, l’attentato
alle torri gemelle dell’11 settembre
2001, quello di Madrid dell’11 marzo 2004...),
sia interni. L’Olanda vantava una tradizione di
multiculturalismo, che era motivo di orgoglio
per lo spirito di tolleranza e per le politiche
di aiuti messi in atto nel paese. Ma, di fronte
ad atti di fanatismo da parte di musulmani,
ci si chiedeva fino a che punto questi ultimi
potevano accettare i principi di uno stato di
diritto, l’eguaglianza di genere, la libertà di
espressione.
Soprattutto i conservatori, tra cui Frits
Bolkestein ex ministro della Commisione parlamentare
europea, denunciavano il pericolo
Theo Van Gogh
Ayaan Irsi Ali
“islamico”, ma voci altrettanto allarmate si
levavano da parte di personaggi che avevano
fatto parte della sinistra. Afshin Ellian, docente
di diritto all’università di Leiden, fuggito
dall’Iran ai tempi della rivoluzione khomeinista,
riteneva l’Islam inconciliabile con la democrazia
ed il sociologo Paul Scheffer metteva
in guardia dai rischi connessi alla presenza di
comunità straniere ghettizzate e spaesate che
incrinavano la vita sociale con comportamenti
aggressivi e violenti.
Immigrati ai margini
Nell’inchiesta di Buruma emerge la marginalità
sociale della maggior parte degli immigrati
collocati nelle zone periferiche delle grandi

città, con difficoltà di inserimento
non tanto nei livelli occupazionali
più bassi, ma nell’accesso
a livelli più elevati di
istruzione che garantiscono una
maggiore mobilità ed una partecipazione
più attiva e più qualificata
alla vita sociale.
Alla stessa Ayaan Irsi Ali, figlia
di un noto linguista democratico
somalo, arrivata in Olanda come
profuga, quando richiese di imparare subito la
lingua olandese, venne offerta soltanto una
formazione professionale per l’inserimento immediato
in un qualche lavoro purchessia.
Secondo l’imam Ali Eddaoudi il vero problema,
in Olanda come in altri paesi di Europa,
è rappresentato dalla scarsa integrazione, in
quanto gli immigrati rimangono nei gradini
più bassi della scala sociale e la mobilità verso
i lavori più qualificati riguarda un ristretto
numero di persone. Per i giovani socialmente
e culturalmente più deprivati, l’Islam garantisce
l’identità, una sicurezza, un guscio protettivo
che mette al riparo dalle forze ostili della
società. La libertà di scelta, molto apprezzata
da persone con buoni strumenti culturali, per
i più deboli può essere fonte di frustrazione e
di disorientamento.
Bellari Said, uno psichiatra marocchino trasferitosi
nei Paesi Bassi dove si è laureato anche
in scienze politiche, afferma che specie
gli immigrati di seconda generazione sono
più esposti ai rischi di depressione rispetto ai
loro padri. Nati e vissuti in una società aperta
che contrasta con le tradizioni e le regole dell’Islam,
spesso vanno incontro a disturbi della
personalità, divisa tra la ricerca di un adattamento
alla realtà sociale e la rivendicazione
di una identità garantita dalla religione. Nelle
giovani musulmane, invece, spesso la società
aperta agisce come forza e motore di ribellione
alla sottomissione alle regole del Corano.
All’indomani dell’assassinio di Theo Van Gogh,
quando il governo tentò una inversione di rotta
e l’adozione di misure restrittive rispetto
all’immigrazione, non mancarono voci contrarie,
come quelle di Job Cohen, sindaco di
Amsterdam, e dello storico Geert Mak.
In particolare Geert Mak sostenne che bisogna
imparare a convivere con gli immigrati anche
se il processo di avvicinamento non è privo di
difficoltà e sofferenze e comporta tempi lunghi.
È chiara la inevitabilità dei conflitti tra
gente sradicata dalle campagne che inizia una
nuova vita nelle metropoli, ma il problema è
di far sentire gli immigrati “a casa propria”,
nel paese ospitante, favorendo un processo
dei integrazione e partecipazione attiva alla
vita sociale.
Ian Buruma rileva che per molto tempo il multiculturalismo
era stato l’ortodossia dei governi
non solo di sinistra, ma anche dei governi
di coalizione; ora invece in Olanda questo modello
è in crisi e varie voci si levano in difesa
dei valori dell’Illuminismo sentiti purtroppo
più come un segno identitario di appartenenza
alla cultura occidentale che per il loro universalismo.
INFO
Storie di comuni maestre
Quattro storie di maestre e un maestro,
quattro classi, quattro realtà scolastiche
riprese tra il 2005 e il 2007 a Milano,
Roma e Bologna. Il film documentario
mette in risalto quella parte invisibile
nei programmi didattici, quello scambio
umano così particolare e vivo nella
quotidianità, che fanno l’effettiva qualità
di una scuola, quella elementare italiana,
considerata nel mondo una delle migliori.
Il film L’amore che non scordo. Storie
di comuni maestre − scritto daVita
Cosentino, Maria Cristina Mecenero,
Daniela Ughetta, Manuela Vigorita; regia
di Daniela Ughetta, Manuela Vigorita,
produzione di Angelo Ferranti - TV Days
− sarà proiettato a Milano al cinema
Gnomo (via Lanzone, 30 tel. 02.804125)
dal 28 febbraio al 2 marzo 2008. Il 28
febbraio ci sarà un’unica proiezione alle
20.00 e la presentazione delle autrici,
della produzione e di alcune maestre
protagoniste. Il 29 febbraio due proiezioni
serali, alle 19.30 e alle 21.00. Il 1 marzo,
oltre alla proiezione delle 20.00, ce ne
sarà una pomeridiana alle 15.00 seguita
alle 16.30 dalla tavola rotonda “Ragioni e
qualità della scuola pubblica” durante la
quale autrici e protagoniste discuteranno
con esponenti del mondo della scuola e
della cultura. Il 2 marzo ci saranno due
proiezioni: pomeridiana alle 15.00 e serale
alle 20.00.
Annuario della pace 2007
Fare Pace: odio. Annuario geopolitico
della pace 2007 (a cura di L. Venturelli
e L. Kocci - Fondazione Venezia per la
ricerca sulla pace, Altreconomia - Terre
di Mezzo editore, 2007, pp. 200, euro 18
e con la collaborazione di Internazionale
e di PeaceLink) raccoglie contributi
(Giacomo Alessandroni, Angelo Baracca,
Giorgio Beretta, Giancarla Codrignani,
Antonella Cunico, Giovanni De Mauro,
Maria Giuseppina Di Rienzo, Fabrice
Olive Dubosc, Danilo Franchi, Luca Kocci,
Roberto Mander, Luisa Morgantini, Rubèn
Pardo, Laura Picchio Forlati, Giuliano
Pontara, Riccardo Troisi, Laura Venurelli,
Francesco Vignarca) su 12 mesi di azioni
di pace e di fatti di guerra, sui conflitti
cancellati, sui dopoguerra dimenticati,
sulla pace tentata e realizzata, sulle
violenze sulle donne, sulle questioni
di genere, sulla corsa al riarmo, sulle
campagne per il disarmo, sulla speranza
della nonviolenza.
Italia libera dalle armi nucleari
In Italia abbiamo 90 testate atomiche.
Non dovrebbero esserci. Nel 1975 l’Italia
ha infatti ratificato il Trattato di Non
Proliferazione nucleare impegnandosi (art.
2) a non produrre né ad accettare mai sul
proprio territorio armi nucleari. Secondo
il diritto internazionale, l’Italia le deve
rifiutare. Per questo oltre 50 associazioni
hanno lanciato una raccolta di firme (che
dovrà concludersi entro la fine di febbraio)
per una legge d’iniziativa popolare
affinché si dichiari l’Italia “Paese Libero
da Armi Nucleari”. Diventeremo, come
l’Austria, uno dei 106 Stati del mondo
dove le bombe atomiche non hanno diritto
di cittadinanza. Saremo la maggioranza,
nella buona compagnia di tutti gli Stati
dell’America centro-meridionale, dell’Africa,
del Pacifico, del sud-est asiatico. La
proposta di legge di iniziativa popolare
(Gazzetta Ufficiale n. 172, del 26 luglio
2007) è costituita da due articoli:
Articolo 1 - Obiettivi e finalità
1. Il territorio della Repubblica Italiana,
ivi compresi lo spazio aereo, il sottosuolo
e le acque territoriali, è ufficialmente
dichiarato “zona libera da armi nucleari”.
2. Il transito e il deposito, anche
temporaneo, di armi nucleari e di parti di
armi nucleari non è ammesso in nessuna
circostanza sul territorio della Repubblica,
così come individuato al comma 1.
3. Il Governo provvede ad adottare tutte
le misure necessarie, sia a livello nazionale
che internazionale, per assicurare la
piena applicazione del presente articolo
entro e non oltre il termine di sessanta
giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge.
Articolo 2 - Entrata in vigore
1. La presente legge entra in vigore il
giorno della sua pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale.
Per informazioni: tel. 349.5845895; segre
teria@unfuturosenzatomiche.org; http://
www.unfuturosenzatomiche.org/
Dispersione
Silvia Arnò, Fabrizio Brauzzi (a cura di),
La dispersione cade… nella rete, Armando
Editore, Roma 2007, pp 111, euro 9,50.
Un progetto significativo realizzato in
alcune scuole della periferia romana dove
i punti di criticità per gli abbandoni erano
particolarmente gravi, in attuazione della
legge 285/97. La dispersione cade…
nella rete rimanda all’idea di cattura
del fenomeno per circoscriverlo, ma
soprattutto al lavoro di cooperazione
e di messa in comune, tramite la rete
informatica, di competenze dentro e fuori
la scuola. Gli strumenti operativi hanno
tradotto in pratica i presupposti della
“Total Quality”: è importante lavorare
con una logica sistemica che vede
interconnesse capacità e competenze,
per programmare azioni adatte allo scopo
prefissato.
Nei quattro capitoli del libro sono
evidenziate le competenze e le capacità
di partenza, ma anche le possibilità di
arricchirle ed ampliarle.
Per i docenti, un supporto psicologico
nell’affrontare la gravità del disagio, per
i genitori il coinvolgimento nel percorso
di recupero, come altro polo della
cooperazione educativa, per gli allievi
“lo sportello d’ascolto” per l’accoglienza
del disagio; incontri individuali e nel
gruppo classe; attuazione di laboratori
(teatro, informatica, ceramica etc..) per
fare emergere attitudini, punti di forza,
nonché i vissuti emozionali della loro
esperienza.[M.N.]
école numero 68 pagina 21

école numero 68 pagina 22
ESPERIENZE La scuola – in particolare quella che ha per
protagonisti adulti migranti – è innanzi tutto un momento di incontro
e di scambio in cui le persone sono chiamate a interagire e per questo è
necessario concepirla come un luogo capace di ascolto e
di reciprocità. Anche per questo è necessario ripensare
la didattica e utilizzare gli strumenti più diversi per
lavorare con gli studenti. Un’esperienza di Italiano
Lingua 2 e teatro condotta con un gruppo di donne
immigrate nel Centro Territoriale Permanente per
l’Educazione e l’Istruzione in Età Adulta di Acqui Terme,
Ovada e Novi Ligure «E poi insegno anche
l’italiano…» ALESSANDRA FERRARI *
«E poi insegno anche l’italiano…».
Questa è spesso la risposta che
diamo quando ci chiedono informazioni
sul mestiere dell’alfabetizzatore nei
Centri Territoriali Permanenti per l’Educazione
e l’Istruzione in Età Adulta.
Lavorare con gli adulti che frequentano
i corsi di italiano non significa solo
orientare nell’acquisizione di una lingua
seconda ma presuppone una mediazione
tra i bisogni (a volte inespressi per mancanza
proprio di mezzi linguistici, a volte
“urlati” con un’urgenza e una forza che
impongono di essere ascoltate) di cui gli
studenti sono portatori e i problemi connessi
all’insegnamento delle lingue.
Il laboratorio
Per insegnare agli adulti il teatro è uno
strumento tra i più preziosi: permette
di sperimentare e scoprire diverse possibili
identità rompendo vecchi schemi,
di muoversi più liberamente nella lingua
straniera, di dare spazio all’oralità e allo
sviluppo della competenza automatizzata
senza dimenticare la valenza ludica e socializzante
di un “terreno di gioco” neutro.
Permette la visibilità e la rappresentazione
di forme culturali e di percorsi
personali, fatti di emozioni e riflessioni,
che altrimenti rimarrebbero inascoltati.
L’esperienza di laboratorio teatrale con
adulti stranieri si è tradotta in un evento
comunicativo, offerto alla città, che ha
potuto riconoscere nello spettacolo una
parte della propria storia di immigrazione
ed emigrazione.
Il progetto si è svolto con incontri setti-
manali di due ore, per quattro mesi, che hanno
coinvolto una docente che ha condotto un
laboratorio di narrazione autobiografica (con
traduzione e correzione dei testi) e esperti
teatrali che hanno tenuto lezioni di tecnica
su oralità e espressione corporea, collegamento
e drammatizzazione dei testi, messa
in scena).
Il percorso ha preso avvio con un laboratorio
di lettura interpretativa¹ al quale sono seguiti
un laboratorio di narrazione autobiografica
per il teatro², un momento collettivo di selezione
e adattamento dei testi (traduzione in
italiano e/o revisione, correzione), la messa
in scena (lezioni di tecnica teatrale, assegnazione
delle parti), e infine la presentazione
pubblica dello spettacolo.
La realizzazione teatrale è stata costruita mediante
l’intersecarsi dinamico delle narrazioni
e dei brani, non troppo lunghi e impegnativi,
recitati singolarmente o coralmente e sorretti
talvolta dall’uso appropriato di musiche
e danze.
La fontana del non ritorno
Il gruppo di lavoro era costituito da venti
donne straniere, diverse per età, provenienza,
scolarità nel paese d’origine, lingua madre,
competenza comunicativa e strumentale,
e che avevano in comune, oltre ad essere
donne e migranti, il fatto di lavorare in attività
di cura alla persona.
Nello spettacolo a cui hanno dato vita le donne
hanno proposto il tema del viaggio, soprattutto
i momenti vissuti durante la partenza,
il percorso e l’arrivo in Italia ed in
particolare a Novi Ligure. Ed è emersa la loro
forte curiosità verso la cosiddetta “novesità”,

La riflessione che nasce dalle
migranti (ma non si ferma a
loro) riguarda il riconoscimento
dell’essere “tra” nel percorso
migratorio: tra il qui e l’altrove,
tra il prima e il dopo, tra due
lingue, tra il possesso e la
mancanza. Essere tra luoghi,
tempo, culture, non vuol dire
solo sospensione, ma anche
attraversamento, l’essere “in
mezzo a” e quindi il “fruire di”. In
questo ci siamo riconosciuti tutte
e tutti, studenti e docenti
fino al valorizzare, proprio loro, alcune delle
consuetudini e credenze locali, una delle
quali appare fondamentale per il loro futuro:
la fontana del non ritorno. Si trova collocata
nella piazza più importante della città e si
dice che bevendone l’acqua non si potrà più
abbandonare Novi (per quasi tutte, la scelta è
stata quella d’ingurgitarne un sorso).
Gli spettatori hanno potuto confrontarsi con
uno “sguardo” inedito sulla “loro” città, frutto
delle trasformazioni in atto, ed è stato
così possibile smorzare la carica di alterità
che spesso viene attribuita ai migranti, scoprendo
che le storie degli altri sono anche
le nostre.
Il viaggio
L’idea chiave che ha animato il progetto ha riguardato
anche il piano antropologico, il rapporto
con lo spazio e il territorio. Legata a
queste tematiche, è la riflessione che nasce
dalle migranti (ma non si ferma a loro) sul
riconoscimento e la consapevolezza dell’essere
“tra” nel percorso migratorio: tra il qui
e l’altrove, tra il prima e il dopo, “tra” due
lingue, tra il possesso e la mancanza. Essere
“tra” luoghi, tempo, culture, non vuol dire
solo sospensione, ma anche attraversamento,
l’essere “in mezzo a” e quindi il “fruire di” e
in questo ci siamo riconosciuti tutte e tutti,
studenti e docenti. Ciò ci ha permesso non
solo di non etnicizzare storie e comportamen-
facciamo pace
ARTE DI ASCOLTARE E GESTIONE
CREATIVA DEI CONFLITTI
Simulazioni e giochi di ruolo per
insegnare/ imparare ad analizzare le
molteplici fonti di conflitto da prospettive
diverse, individuare risposte alternative,
uscire dalla logica amico/nemico
CELESTE GROSSI
«Per diventare adulti realizzati e competenti cittadini globali,
i giovani hanno l’esigenza di comprendere adeguatamente i
conflitti sociali, politici e personali, per poterli gestire con efficacia.
Le scuole […] rappresentano uno dei luoghi privilegiati dove
questa esigenza può trovare risposta.», dice Stadie Nicole Smith −
direttrice del Programma Workable Peace, pensato per la formazione
degli insegnanti e degli studenti di scuole superiori e università
e sperimentato da insegnanti nelle proprie classi con la supervisione
di docenti del Mit (Massachusset Institute of Technology) di
Boston e di Harvard.
Ora il programma del Consensus Building Institute (un’associazione
statunitense non profit attiva dal 1993) approda in Italia grazie a
Marianella Sclavi, la docente di Etnografia Urbana del Politecnico
di Milano.
Il libro Costruire una pace. Per imparare a non credere nella fatalità delle guerre
(Bruno Mondadori Editore, 2007, euro 20) si apre con una conversazione tra
Marianella Sclavi e Sergio Romano su simulazione e giochi di ruolo come strumenti
per imparare a non credere nella fatalità delle conclusioni; illustra le metodologie
e le pratiche del programma Workable Peace; propone giochi di ruolo su tre specifici
casi di conflitti: la guerra del Peloponneso del V secolo avanti Cristo, la questione
nord-irlandese e il conflitto israelo-palestinese, contestualizzati storicamente
da una presentazione. Su di essi gli studenti vengono chiamati a cimentarsi nella
creazione di vie di uscita nonviolente.
Secondo il Consensus Building Institute una particolare cura va posta nell’analizzare
le fonti del conflitto (identità, valori, interessi, emozioni) che vanno considerate
dal punto di vista di entrambi i contendenti, ponendosi in un’atteggiamento
di ascolto attivo, favorendo la moltiplicazione delle opzioni. Solo così posizioni
divergenti diventano risorse, l’alterità viene accolta e si impara che la convivenza
è possibile.
Riuscirà la scuola a raccogliere «la sfida di insegnare ai giovani, e dunque al mondo
futuro, a rileggere criticamente le grandi contese del passato e del presente
per imparare a gestire in modo innovativo (e meno cruento) i conflitti individuali
e collettivi»?
ti, ma anche di non cancellare le differenze,
in nome di una malintesa integrazione.
Una riflessione critica sull’esperienza ci ha
portato a far luce su un aspetto: l’attenzione
centrata sui migranti ci è parsa una prospettiva
non del tutto corretta ed esaustiva e
perciò, nel nuovo percorso, abbiamo spostato
decisamente il focus all’idea di noi stessi
come migranti, come persone dotate di una
identità “nomade” che si ridefinisce in continuazione,
talvolta in maniera globale, talvolta
in maniera più violenta e traumatica.
Il nuovo gruppo che si è messo in gioco è
quindi formato da tutti i “protagonisti” della
scuola (discenti, docenti, mediatori, bidelli,
etc.) e sta lavorando su questi temi con
il filo conduttore del viaggio come incontro,
cambiamento, attraversamento di uno spazio-territorio
non necessariamente fisico, sul-
la comunicazione non verbale e sulla natura
convenzionale dei suoi codici, cercando
di andare oltre l’idea di persona portatrice di
una presunta “cultura di origine”.
* Insegnante, laureata in Comunicazione interculturale
con una tesi sulla didattica dell’italiano L2.
NOTE
1. Abilità e competenze: lettura, espressione, conoscenza
di testi della narrativa italiana e teatrale
selezionati in base ai destinatari e all’utilità per i
successivi laboratori.
2. Abilità e competenze: parlare e scrivere del proprio
vissuto, in un percorso cognitivo ed emozionale
alla scoperta di sé e dell’altro.
BIBLIOGRAFIA
Diadori P. (a cura di), Insegnare italiano a stranieri,
Le Monnier, Firenze 2001.
Demetrio D. Raccontarsi. L’autobiografia come cura
di sé, Cortina, Milano 1995.
Guastalla C., Giocare con la letteratura, Alma
Edizioni, Firenze 2002.
école numero 68 pagina 23

LE SVOLTE
DELLA STORIA
Crescendo nel Primo Mondo,
Monica contribuisce a
ridisegnare la mappa
della terra dove, non più
separati e distinti come su
una tavolozza, i colori si
incontrano e si fondono.
“Terzo mondo”, “Primo
mondo”, migrazioni,
missioni, adozioni
LIDIA GARGIULO
nuovi arrivi
Sono sistemato nella
Missione di padre
Sebastiano, a pochi passi
da orfanotrofio, asilo,
scuola. Domani vado
a dare una mano. Ieri a
casa e stasera in Malawi,
Africa, e ho già tante
cose per la relazione al
prof di storia.
Annaida è una maestra
d’asilo in pensione, sta
qui da un mese e rientrerà
col mio gruppo.
Ha lavorato con padre
Sebastiano nel lebbrosario,
ogni estate per diciassette
anni. C’è anche
Monica, una bambina
africana che vive in
Italia. La sua mamma arrivò
dissanguata all’ospedale e dopo il parto
entrò in agonia. Il padre viveva già con un’altra
donna, non volle occuparsene; qui conta
di più la parentela materna, ma non si trovarono
parenti vivi della madre e la bambina era
orfana e sola. Annaida l’adottò.
L’adozione di Monica non è stato uno scherzo,
dicono Annaida e padre Sebastiano: pratiche
lunghe e complicate, “regali” a funzionari di
ambasciata e consolato (africani o italiani?
Forse tutti e due). Ma ora tutto è a posto,
afferma Annaida, non sono sposata ma sono
mamma, e lei è legalmente mia figlia. Con
quello che mi è costata.
Mia madre non mi ha mai coccolato ma non
l’ho mai sentita vantarsi di quello che fa per
me e per mia sorella. Annaida mi dà il nervoso,
sta sempre a raccontare e ripetere che lei
è la mamma di Monica, che è stata buona e
generosa a prendersi cura di un’orfana, a non
farla morire come muore tanta gente di qua.
(N.B. Se qualcuno per caso leggesse questo
diario, sappia che non era per essere letto,
era solo per me, per “rivedere” le cose e rifletterci,
a cercarne il senso. Tenga conto di
questo, se qualcuno leggesse).
école numero 68 pagina 24
Monica è affettuosa e intelligente per i suoi
otto anni (quasi dieci meno di me), ma è
un po’ antipatica quando fa le smorfiette
dei bambini viziati. Dice “papi” a padre
Sebastiano, e a lui fa piacere, in effetti è un
papà se pensiamo che l’ha curata fin dalla nascita.
Lei è nata sieropositiva ma sta guarendo,
in Italia va a scuola dove ha insegnato
Annaida, è brava, la maestra è contenta. E
ogni volta, tutti e due dicono insieme: «Da
noi è un’altra cosa».
Crescendo nel Primo Mondo, Monica contribuisce
a ridisegnare la
mappa della terra dove, non
più separati e distinti come
su una tavolozza, i colori
si incontrano e si fondono.
“Terzo mondo”, “Primo
mondo”, migrazioni, missioni:
questa è la Storia,
ed è anche Geografia, che
sempre accompagna la storia,
come dice il mio prof.
Secondo lui, il fenomeno
globale della migrazione
dei popoli, di cui tanto
si discute e polemizza,
tra qualche decennio sarà
appena appena nominato,
sarà solo un modo di dire che a furia di ripeterlo
nessuno si chiede più che cosa voglia
dire. Eppure quante vite e quante vicende, e
quanti miliardi di corpi sono inghiottiti, annullati,
nelle poche parole che segnalano una
svolta della storia! Pensieri così mi mettono
in crisi: a che serve studiare la storia se il
racconto della storia contiene così poco della
vita vissuta dagli uomini? Anche la storia
di Monica e della sua mamma nera si perderà,
sarà un granello di sabbia nell’onda di uno
tsunami. (Questo lo scriverò meglio quando
avrò più tempo).
Dopo pranzo. Sono corso in camera ad annotare
una cosa che mi ha colpito: il futuro di
Monica è già deciso, si farà suora e tornerà
in Malawi da missionaria. Padre Sebastiano e
mamma Annaida non fanno che ripeterlo a se
stessi, agli ospiti e alla bambina; lei sorride
senza parlare: chissà se perché le piace avere
un destino già pronto o perché tra sé e sé accarezza
pensieri diversi…
Sarei tentato di dire la mia, ma so bene che
non posso. Però mi diverto, quando parlano
così, a formulare le mie parole a bocca chiusa:
“Che diritto avete voi di decidere sulla
sua vita? L’avete salvata per impadronirvene?
Perché le togliete la cosa più bella di quando
si è giovani, di immaginare liberamente il
futuro, farlo e disfarlo a piacere?” A volte lo
penso con tanta forza che ho paura di essere
sentito anche senza parlare. Quasi quasi mi
farebbe piacere se uno di loro ficcasse il naso
in queste pagine.
Ci eravamo appena seduti a tavola quando
il cuoco è venuto a dire che c’era il nonno
di Monica. Fallo aspettare fuori, ha detto il
INFO
Intercultura
Teresa Grange Sergi, Antonella Nuzzaci
(a cura di), Interculturalità e processi
formativi, Armando Editore, Roma 2007,
pp. 175, euro 19.
Un testo sul superamento di modelli
teorici inadeguati: il modello
assimilazionista,
per il quale il
diverso deve
acquisire
un’identità sociale
conforme alla
cultura dominante
a scapito
della propria;
il paradigma
del pensiero
disgiuntivo, che
ha contribuito,
estendendo
all’identità umana
il criterio di “non
contraddizione”,
alla formazione
dello schema
mentale
diversità/minaccia; il riduzionismo,
che ha concorso alla formazione di
stereotipi e pregiudizi. Il paradigma
interculturale riconosce invece il diritto
alla differenza e sottolinea l’importanza,
nella costruzione della propria identità,
dell’incontro con l’altro. A scuola significa
sviluppare modelli di apprendimento
cooperativo, una professionalità docente
centrata su pratiche, metodi e strumenti
collettivamente condivisi. Nella seconda
parte del testo vengono indicati piste di
lavoro vicine alla cultura giovanile, come
il cinema, la musica, la letteratura (e in
particolare la letteratura comparata) che
attraverso l’analisi delle differenze di
linguaggi, registri, contenuti connessi a
contesti culturali e sociali diversi, educhi
alla “convivialità delle differenze”. [M. N.]
padre. Monica non si è mossa, non ha detto
niente, nessuno si è mosso. Non so gli altri
ma io per tutto il pranzo non ho potuto dimenticare
che fuori c’era il nonno ad aspettare.
Pensavo a quando viene a casa mio nonno
ed è festa per tutti. Ma questo è un nonno
africano di una bimba trapiantata, una radice
da dimenticare quando si va a vivere coi ricchi.
E anche questa è Storia, orribile storia
che chiede il prezzo per ogni svolta, per ogni
salto di qualità. A pranzo finito: Vai fuori e
torna presto, ha detto “papi” e la bambina
educatamente si è mossa. L’accompagno? Ho
domandato, e loro due, insieme: Lei la sa, la
strada. E nel pensiero li ho visti uno di qua
l’altra di là, ad occhi bassi, sbirciandoci di
tanto in tanto, senza parole. Mai come adesso
capisco il prof quando ci dice: Tenete gli occhi
aperti su quello che succede oggi, ascoltate
i discorsi della gente, questa è storia,
storia viva, storia di oggi. Vi aiuta a capire la
storia dei libri.

LA COSTITUZIONE
HA SESSANT’ANNI
Il 1° gennaio del 1948 è
entrata in vigore la Costituzione
Repubblicana; da più parti se ne
propone una “modernizzazione”;
in realtà però è una Costituzione
che soprattutto nei suoi principi
fondamentali indica un’idea di
società che per molti aspetti
rappresenta un punto di
riferimento sempre più attuale
CORRADO MAUCERI
La centralità del lavoro come diritto della persona
che la Repubblica deve rendere effettivo, il principio
dell’uguaglianza sostanziale che impone alla
Repubblica di promuovere tutte
le più opportune iniziative per
rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale; il principio
della parità di genere, il ripudio
della guerra che implica
anche scelte coerenti nella politica
internazionale, la libertà di
informazione che dovrebbe precludere
le forme di monopolio
oggi esistenti; il principio supremo
della laicità dello Stato ogni
giorno messo in discussione dalle
pesanti ingerenze delle gerarchie
cattoliche; il primato della
scuola statale e della sua funzione
istituzionale; la partecipazione democratica di tutti
alla determinazione della politica del Paese: sono tutti
principi oggi sempre più attuali, ma nel contempo
però poco attuati e spesso anche disattesi o violati.
Oggi però celebriamo il sessantesimo della Costituzione,
ma anziché ricordare
l’esigenza di
una piena attuazione
di essa ed assumere
impegni conseguenti
e coerenti,
si parla nuovamente
di riformarla per introdurre,
all’insegna
della “modernizzazione”,
forme di
“decisionismo” volte
di fatto a limitare
gli spazi di democrazia
partecipata ed a
reintrodurre modifiche, recentemente bocciate con il
referendum costituzionale del giugno 2006.
Molto opportunamente l’ex Presidente della Corte
Costituzione, Zagrebelski, intervenendo in un recente
convegno ha, provocatoriamente affermato: «La
vera riforma della Costituzione sarebbe l’abrogazione
di tutte le riforme fatte finora». Se si legge la riforma
del titolo V, tale affermazione apparirà poco provocatoria
e molto sensata.
le leggi
INFO
Bambini stranieri
A cura di Vinicio Ongini, Se la scuola
incontra il mondo. Esperienze, modelli e
materiali per l’educazione interculturale,
Idest, 2007, pp. 319, euro 15.
La presenza di bambini e ragazzi di origine
straniera può essere un’opportunità per
rinnovare i contenuti del sapere e scoprire
altre storie e altri punti di vista. Il libro
raccoglie gli interventi presentati al
convegno nazionale “Se la scuola incontra
il mondo” (Firenze nel 2004) e offre un
puntuale aggiornamento di riferimenti
bibliografici e legislativi.
Informazioni Idest srl, via Ombrone 1,
50013 Campi Bisenzio, tel. 055.8966577,
fax 055.8953344, idest@idest.net, www.
idest.net.
Le dita al posto del pennello
Il vecchio e il mare, regia di Aleksander
Petrov, DVD cartone animato + libro,
Medusa, 48’, 2007 (1999), euro 14,90
Aleksandr Petrov è il regista di questo
film d’animazione ispirato al capolavoro
di Hemingway, col quale vinse nel 2000
l’Oscar per il miglior cartone. Oggi viene
riproposto ed è una buona notizia. Petrov
ha dipinto 29.000 fotogrammi su pannelli
di vetro, facendo uso delle dita in luogo
del pennello. Il risultato è straordinario e
si rimane sopraffatti dalla bellezza e dalla
profondità di quest’opera in cui Petrov
ha saputo coniugare immaginazione,
creatività e tecnica. È lo stesso regista
ad aver fornito una chiave di lettura della
sua opera, spiegando che la pittura con
le dita «è la via più breve dal cuore al
cartone». Il Dvd è arricchito dal libro di
Hemingway e contiene anche il Making
of del cortometraggio ed un ritratto di
Hemingway. Uno strumento da usare in
classe ad occhi chiusi. [S.V.]
Musica e vita
Daniel Barenboim, La musica sveglia il
tempo, Feltrinelli, 2007, pp. 185 , euro 15
È «un libro per le menti curiose di scoprire
le corrispondenze fra musica e vita, e
la saggezza che diventa comprensibile
all’orecchio pensante» dice del suo
recente lavoro Daniel Barenboim, il
fondatore, insieme al palestinese Edward
Said della West-Eastern Divan Orchestra
(un’esperienza di convivenza, non solo
musicale, tra arabi e israeliani). La musica
sveglia il tempo è «il risultato di due anni
di lavoro e di molti anni di pensiero», a
partire dalle cinque Lectures tenute per la
Bbc e dalle Norton Lectures per l´Università
di Harvard. Per l’autore la musica non è
arte separata dalla vita. Infatti nel libro la
musica si intreccia con questioni politiche,
e fatti storici, ma anche con prese di
posizione esplicite contro dogmatismi e
fondamentalismi e contro l’occupazione
israeliana della Palestina. Per Barenboim,
dopo la guerra del ’67, valori di giustizia
e senso della moralità, tradizionali del
pensiero ebraico, si sono appannati. In
un’opera musicale il contrappunto tra
due voci legittima entrambe; se questo
fosse compreso il dialogo tra israeliani e
palestinesi diventerebbe subito possibile.
La musica è in grado di far comprendere
l’importanza dell’elemento tempo nelle
situazioni più varie («Sono convinto che
il processo di Oslo fosse destinato al
fallimento perché il rapporto fra contenuto
e tempo era sbagliato»). C.G.
Biblioteche per ragazzi 1
L’editoria per ragazzi vede una
concentrazione sempre maggiore dei
produttori e una omologazione dell’offerta.
Si fa zapping, si chatta, si scrive una
nuova lingua sintetica per stare nello
spazio scomodo di un sms, si infila il
libro nel carrello della spesa. Eppure, si
legge ancora. Eppure, ancora, l’attività di
promozione, educazione e formazione del
lettore non demorde e la lettura si ostina
a cercare lettori, nonostante un territorio
accidentato in cui isole felici e profonde
arretratezze debbono convivere. E ancora,
a leggere di più, sono bambini e ragazzi.
Biblioteche per ragazzi 2
Si tiene a Campi Bisenzio (31 gennaio -
1 febbraio 2008), il quinto convegno
nazionale delle biblioteche per ragazzi
“Nuovi segnali di lettura”. L’iniziativa è
promossa da Regione Toscana, Comune
di Campi Bisenzio, Centro regionale di
servizi per le biblioteche per ragazzi, con
il coordinamento della rivista LiBeR e la
collaborazione di Equilibri.
Per informazioni: Idest, via Ombrone
1, 50013 Campi Bisenzio (FI), tel.
055.8944307 – 055.8966577, fax
055. 8953344, convegni@idest.net,
idest@idest.net, www.idest.net.
Amico libro
Sul sito del Coordinamento Nazionale
Bibliotecari Scolastici (http://conbs.
altervista.org/) si può leggere la Lettera
aperta del CONBS al Ministro della
Pubblica Istruzione a proposito del
progetto “Amico Libro”.
Educazione di genere
A ottobre del 2007, anno europeo delle
pari opportunità, è stata presentata alla
Camera (prima firmataria Rosalba Benzoni,
benzalba@virgilio.it) la Proposta di legge
“Introduzione dell’educazione di genere
nelle attività didattiche delle scuole del
sistema di istruzione nazionale”. Finalità
della proposta è quella di «affrontare il
problema delle discriminazioni contro ogni
diversità, in particolare quella di genere,
e di combattere ogni forma di violenza
nei confronti dei soggetti che più vi sono
esposti, con provvedimenti che incidano
profondamente nella cultura delle nuove
generazioni, attraverso un’azione positiva
volta a sviluppare nella formazione degli
studenti il rispetto dei principi di parità e
di non discriminazione».
école numero 68 pagina 25

note in condotta
école numero 68 pagina 26
ELOGIO DELL’IRONIA.
IN QUANTO UOMINI
ANDREA BAGNI
In autunno mi è capitato di parlare con altri uomini in quanto uomini.
Ci si confrontava con la manifestazione contro la violenza sulle donne,
su una possibile “presa di parola” maschile sulla questione – visto
che la violenza sulle donne è di sicuro un problema degli uomini, anche
se lascia segni nei corpi vicini, quasi sempre nella tanto naturale famiglia.
Segno di un non saper esistere nel confronto con la libertà delle
donne, come soggetti parziali, cioè interi e umani.
Le parole scambiate in quanto uomini, però, hanno spesso qualcosa di
buffo, forse perché non siamo abituati e ci manca il tono o il lessico,
se non la grammatica. Potrebbe anche essere un bene a condizione che
si riesca ad inventare qualcosa di nuovo. Ma a partire da cosa decente
di noi stessi? Perché mica basta farsi carico della storia maschile, di
potere sopraffazione gerarchia, e sprofondare in un senso di colpa di
genere così generale da significare poco per i singoli; neppure imparare
dalla “differenza delle donne” per ripetere pari pari il loro discorso,
in modo che quasi scompare quella differenza, nell’imitazione. Invece
riconoscere il percorso e l’autorità femminile sarebbe bello che conducesse
a una riflessione su quello che siamo, che parta da noi per inaugurare
(per quanto possibile) un’altra storia, alternativa alla genealogia
del potere. E nostra.
Io vedo tutti i giorni a scuola ragazzi decisamente immersi in una crisi
scolastica, specificamente maschile. Sono in crisi con la propria identità
e non esclusivamente con i voti, ma non è facile parlargli solo di colpe
maschili: non credo si muova qualcosa di buono a partire solo dal negativo
di sé. Il punto di partenza potrebbe essere quello che si ha dentro
di autentico: paura rabbia debolezze, e però anche desideri e possibilità. Desideri di libertà
soprattutto. Libertà anche dagli stereotipi di potenza dei veri uomini. Forse la violenza maschile
è figlia del terrore del perdere potere – o della rabbia dell’averlo perduto – come anche
della paura dell’inventarsi fuori dalla gabbia dell’immaginario dominante e del dominio. Una
gabbia, per quanto di lusso per chi si pensa carceriere, comunque inchiodato a un ruolo miserabile.
Finisce che molti ragazzi appaiono schiacciati dall’incubo del non essere all’altezza.
E forse dal non ambire per niente dentro di sé a quell’altezza. Magari vorrebbero essere come
sono e basta. Però ci vuole coraggio. Hai un mare di paure e non le puoi dire, sei fragile e devi
apparire forte, soffri per amore e non sta bene. E se decidi di parlare scopri che ti mancano le
parole. Una lingua davvero comune. Come si fa a inventarsi, tentando di essere liberi, in questo
deserto di relazioni altre, maschili.
Però c’è qualcosa che mi piace nei gruppi di ragazzi a scuola. Intanto sono gruppi (mi sembra)
più protettivi di quelli femminili. Le ragazze, più serie ed impegnate, sono anche spesso molto
competitive e sofferenti della competizione. E poi sono spesso buffi i ragazzi. Per loro sarei
tentato di fare l’elogio dell’ironia. Le ragazze vivono crisi profonde, straordinariamente belle e
straordinariamente drammatiche. Aspirano all’assoluto. E se non possono essere le prime, perfette,
perfettamente adeguate alle richieste, spesso – nella società dell’abbondanza e dell’offerta
– scelgono l’astinenza del rifiuto. L’assoluto del nulla. Desiderano non desiderare. Si danno
malate alla vita e si sentono forti del controllo sulla propria assenza. Che finisce per essere il
modo paradossale e drammatico per esserci. Per i ragazzi lo stile è completamente diverso. Sarà
magari il nichilismo di cui scrive Galimberti o le passioni tristi di Benasayag, però il loro vuoto
mi sembra molto più leggero: qualcosa con cui si può convivere. Non una cosa bella, ovviamente,
però a me piace di alcuni l’ironia. Non sono belli, hanno corpi disarmonici e voci pure, non
sono bravi e non sono “ganzi”. Il peso del corrispondere a certi modelli lo sentono e lo soffrono.
Però non mi pare si prendano tanto sul serio e si difendono dal mondo della competizione
spietata con il loro supremo obiettivo del sei meno meno – massimo sei e mezzo. Di più sarebbe
da gente che ci tiene, che dà alla scuola qualcosa di profondo, di sé. Guai. Invece che il tutto
o niente dell’anoressia-bulimia, del consumare totalmente il nulla, scelgono di galleggiare in
gruppo sulle mezze misure, su quello che viene viene. È la scuola mica la vita. E anche la vita,
che sarà mai. Dai belli della scuola si difendono con le battute, per essere intimi fra loro sembrano
avere bisogno di oggetti esterni e si conoscono parlando sempre di altro da sé. Certo non
è l’ideale. Tuttavia, forse, non possedere la lingua giusta per i sentimenti può lasciare le parole
rare e preziose – può preservarle. Se volete provare l’orrore del linguaggio maschile “profondo”
leggete gli striscioni allo stadio quando c’è da rendere onore a qualcuno: per sempre nei nostri
cuori, guarda in alto verso il cielo, una stella eccetera. Dev’essere il “poetico” che apprendono a
scuola. Allora l’ironia mi pare per i ragazzi una strategia di autodifesa decente. Non ti manda in
pezzi. Non ti fa fare a pezzi gli altri. Le altre. Nell’attesa del trovare le parole, nuove e nostre.
INFO
Donne di frontiera
Due volumi in cui sono raccolte le
testimonianze di donne anziane, italiane,
slave, ebree,
un’americana,
vissute a Trieste,
in Istria, in
Slovenia, in
Croazia sulla
loro vita dalla
fine degli anni
‘30, durante
la guerra e nel
dopoguerra.
A cura di
Gabriella
Musetti, Silvana
Lampariello
Rosei, Marina
Rossi, Dunja
Nanut, Donne di frontiera. Vita società
cultura lotta politica nel territorio del
confine orientale italiano nei racconti
delle protagoniste, Il Ramo d’oro editore,
Trieste, 2006-2007, pp. 343 vol. I, pp. 393
vol. II, euro 20.
Per informazioni: www.ilramodoroeditore.
it, info@ilramodoroeditore.it.
Laicità della scuola
Per iniziativa dell’Associazione “Per la
Scuola della Repubblica”, del Comitato
Bolognese “Scuola e Costituzione”, della
Consulta Torinese per la laicità delle
istituzioni, della Federazione nazionale
degli insegnanti, dell’Associazione Scuola
e Diritti, dell’Associazione 31 ottobre,
e con l’adesione dell’Associazione
“Liberacittadinanza” è stato inoltrato un
ricorso al TAR del Lazio per contestare il
persistente finanziamento pubblico per le
scuole private (Il
testo del ricorso
è disponibile
all’indirizzo:
http://www.
comune.bologna.
it/iperbole/
coscost/irc/index.
htm).
Con il ricorso si
impugna il DM del
21 maggio 2007,
che riconosce alle
scuole private
paritarie una
funzione pubblica,
in attuazione della
legge finanziaria
del 2006 che ha
incrementato di 100 milioni i contributi
per le scuole private di ogni ordine e
grado. Lo Stato invece di rafforzare e
qualificare la scuola statale come luogo
di convivenza e di confronto aperto
a tutti, sottrae risorse finanziarie alle
scuole statali e sostiene finanziariamente
scuole private che riproducono le
differenze confessionali ed ideologiche di
appartenenza.
“Per la Scuola della Repubblica”,
tel. 06.3337437, telefax
06.3723742, scuolarep@tin.it, www.
scuolaecostituzione.it.

Mappamondo
RUSSIA La mancanza di diritti umani in Russia è dovuta
anche alla “pericolosa lontananza” in cui è stata lasciata. Il
potere fa ciò che vuole. La Russia di Putin e l’assassinio di Anna
Politkovskaja Chi scrive muore MARCO BUTTINO
Difficile dire chi l’ha uccisa. Perché questa
è la caratteristica della mafia. Basta dire
e sentire che esiste, che sono stati loro a fare
questo o quello, ma poi che ne sappiamo dav-
vero? È sicuro che con il suo lavoro in Cecenia
Anna Politkovskaja ha toccato interessi fortissimi
e intrecciati. In Cecenia entra in contatto
con volontari delle organizzazioni uma-
école numero 68 pagina 27

nitarie, ed entra in una realtà assolutamente
più grande di lei. Anna sente (e riferisce) di
persone prese nelle proprie case da emissari
della polizia, persone arrestate, portate in
questura e il giorno dopo trovate fatte a pezzi
in un campo. Non può scrivere su altro. I
suoi articoli sono concreti, privi di considerazioni
generali. Dice in maniera diretta che un
uomo è stato arrestato ieri in quel luogo, ed
è stato trovato ucciso in quel modo il giorno
dopo. Un giornalismo di nomi e cognomi, che
tocca interessi a molti livelli, dal soldato dell’ultima
caserma in Cecenia al generale trafficante
di armi o di persone, fino in qualche
modo a Putin. Ed è certo che la sua uccisione
sia stata un sollievo per i vertici del potere
russo. Certo, non è Putin a prendere il telefono
e chiamare due ceceni esperti di omicidi
per dire: «Toglietemi di torno questa rompiscatole».
Sembra più probabile una faccenda
che parte dal basso, se così si può dire, della
“macchina”. Una cosa in stile mafioso. Ma va
detto che nulla avviene senza che la “cupola”
lo voglia. E bisogna osservare che per i ceceni
non è facile compiere un omicidio proprio
qui, nel centro di Mosca.
Il clima attorno ai fatti
La Russia sta cambiando con una velocità
sbalorditiva. Negli ultimi 20 anni è cambiato
tutto. Sono cambiate le città, le culture delle
città, i rapporti con il resto del mondo, la
quotidianità, ciò che si compra nei negozi. È
cambiata l’informazione, la disinformazione,
la globalizzazione.
école numero 68 pagina 28
Le persone al potere oggi in Russia sono cinquantenni
cresciuti in epoca sovietica, che
ora si ritrovano di colpo in un altro mondo.
Una generazione che ha dovuto reinventarsi
un futuro a metà della propria vita, in un’epoca
di grandi possibilità. Soprattutto se aveva
a che fare con gli apparati dello Stato.
I vecchi funzionari “dismessi” lasciavano
posti in cui i nuovi hanno potuto facilmente
arricchirsi ai danni dello stato. Un grande
cambiamento, senza regole: “Oggi tutto è
possibile!” Ovvero “tutto è dettato dai rapporti
di forza”.
Il cambiamento che ha che fare con Putin
possiamo leggelo in due periodi distinti: dal
1989 al 1998, e dopo il 1999. I primi 10 anni
dopo la fine dell’URSS sono anni di grandi
trasformazioni in una situazione di grande
povertà generale. Il reddito nazionale diminuisce
del 45% con una economia che precipita
mentre il tasso di mortalità raddoppia.
Dal 1999, quando Putin inizia a governare il
paese, il reddito nazionale riprende a crescere
del 6-7% all’anno. Il bilancio dello stato viene
risanato. Naturalmente non è tutto merito
di Putin, molto del merito va al petrolio – la
base materiale del modello industriale russo
– il cui prezzo è più che raddoppiato dal
2000 a oggi. Al senso di sgomento dei primi
anni di “assenza di regole” e di crisi dello stato,
va dunque sostituendosi l’mmagine di uno
“Stato che si rafforza”.
La situazione cecena
Ma la questione di fondo, che accomuna in
maniera trasversale Putin, Anna Politkovskaja,
Anna Politkovskaja
è il fatto che lo Stato rimane una macchina
ingovernabile, come durante il regime sovietico.
E credo che l’URSS muoia proprio in conseguenza
della sua incapacità di “governo di
se stessa” e di “conoscenza di se stessa”.
Lo smantellamento dell’economia di stato avviene
in un clima culturale pesante, segnato
dalla corruzione e dalla lotta per bande.
Ed è questo il contesto in cui lavora Anna
Politkovskaja, una giornalista che cerca di
dare informazioni su quello che capita lì mentre
l’apparato cerca in qualche modo una ripresa
del potere dello Stato in senso autoritario
attraverso un fatto chiave: la guerra
in Cecenia. Una guerra che serve in qualche
modo a costruire un collante nel paese intorno
all’idea di Stato. La seconda guerra in
Cecenia inizia infatti durante la campagna
elettorale di Putin, e dopo le bombe a Mosca
(nessuno ci ha mai detto chi è stato): due
edifici distrutti, più di 200 morti. Si fa strada
nei cittadini l’idea di poter essere vittime di
un’entità esterna, un sentimento che si innesta
su una situazione di grande disagio economico
e culturale.
Dopo i fatti di Mosca Putin farà un discorso
alla nazione non lasciando dubbi sulla matrice
cecena. Una tesi che a Mosca trova credito
nel clima di odio anti-caucasico: i caucasici
sono “irregolari” che controllano i “mercati
illeciti”, sono “immigrati” che “stanno in
tanti in un alloggio”, fanno “lavori irregolari”,
delinquono.
Da “mafioso”, il ceceno diventa “terrorista“.
In qualche modo la faccenda funziona benissimo
e già in campagna elettorale iniziano i

ombardamenti a Grozny. La guerra in Cecenia
risalda la popolazione alla politica interna e
soprattutto alla figura del Presidente, che
compare in televisione e fa discorsi iperdecisionisti
e assume il ruolo di difensore della
patria dal terrorismo.
Padrini e padroni
Nel 2002 altro fatto terribile: la presa del teatro
Dubrovka da parte dei terroristi ceceni e
la carneficina che seguirà al blitz delle forze
antiterrorismo russe.
Nello stesso tempo c’è la lotta agli oligarchi,
quelli che si sono arricchiti grazie alle privatizzazioni,
legati fino a quel momento a Putin
ma che appunto rappresentano ora un ostacolo
allo stesso presidente per ristabilire il proprio
potere come “potere dello Stato”.
Finché lo stesso Putin non era ancora presidente
gli oligarchi gli facevano comodo,
ma ora egli stesso si pone come super-oligarca
che vuole controllare lo Stato (e dunque
il petrolio). Ecco perché mette in galera
Khodorkovsklj (seppure in modo simbolico) e
altri li spedisce all’estero.
In sostanza continua il suo “doppia faccia”:
forte sia rispetto ai terroristi ceceni, sia rispetto
ad un mondo degli affari considerato
antagonista, visto che molti degli oligarchi
sono ebrei ricchissimi e vengono rappresentati
come il male dell’economia russa.
Nel 2004 altri fatti: la scuola di Beslan, con
un’“operazione di polizia” riuscita così bene
da uccidere 386 persone (186 bambini), e
l’abolizione di una garanzia costituzionale
importante, l’elezione dei governatori degli
stati della Federazione Russa. Non passano
altri due anni che avviene l’assassinio della
Anna Stepanovna Politkovskaja.
Il ruolo del partito che sostiene il Presidente,
senza che egli ne sia parte, diventa molto
forte e Putin sta già pensando alla successione
(non è eleggibile per un terzo mandato).
E allora cosa fa? Un ulteriore passo verso
la “democrazia”: diventare il leader dell’attuale
partito forte, in grado di conquistare
la maggioranza assoluta e quindi il governo
del paese. E Putin stesso sarà il capo di questo
governo. E ciò porrà anche fine alle critiche
rispetto al presidenzialismo. In tutto
questo percorso di una “nuova governabilità
dello Stato” la Cecenia entra come elemento
importante della costruzione di consenso, di
mobilitazione attorno allo stato, all’esigenza
di ordine. In mezzo a tutto ciò c’è Anna
Politkovskaja e purtroppo non c’è un grande
giornalismo che ne possa raccogliere l’eredità.
Ai funerali della giornalista c’erano poche
migliaia di persone. Una rappresentanza della
ex intellighenzia di sinistra sopravvissuta al
tempo sovietico, non certo le masse dei cittadini
russi.
* Marco Buttino è professore di Storia dell’Europa
Orientale all’Università di Torino. L’articolo che
pubblichiamo è una sintesi del suo intervento al
convegno “Le parole non si uccidono. In memoria
di Anna Politkovskaja” che si è tenuto a Torino il
7 ottobre 2007 nell’ambito della Giornata nazionale
dei Cemea dedicata alla giornalista russa uccisa
nel 2006.
PALESTINA
LA TERRA CONTESA
Alcuni strumenti per capire, amare, indignarsi
e impegnarsi, perché la terra di palestinesi e
israeliani possa trovare pace
A cura di CELESTE GROSSI
Gianluca Solera, Muri, lacrime e za’tar. Storie di vita e voci dalla
Palestina, Nuova dimensione, Portogruaro 2007, pp. 437, euro
18.00
L’autore, responsabile del Network Fondazione Anna Lindh di
Alessandria d’Egitto racconta, i suoi incontri con le persone: esponenti
di Hamas, il pacifista israeliano Jeff Halper, madri di kamikaze,
profughi palestinesi, coloni israeliani, detenuti, soldati, politici.
Il diario di viaggio descrive una terra spaccata, dove continuano
a innalzarsi muri di cemento e muri virtuali. Ma questi muri sono
ancora attraversati da fessure di speranza. Il libro per Michel Sabbah,
patriarca della Chiesa latina di Gerusalemme è «un viaggio in Terra
Santa con il desiderio di fare parlare la gente che vive qui, gente di
fedi diverse, di sangue diverso, ma gente».
Estraneo a casa mia, Gerusalemme
Estraneo a casa mia, Gerusalemme è un film documentario girato per i 40 anni dalla
Guerra dei Sei Giorni, ma legato anche agli eventi della Nakba (Catastrofe, 1948). Ne sono
protagonisti otto palestinesi che vivevano nella zona Ovest, ebraica, di Gerusalemme, che
si videro cacciare via dalle proprie case quando gli israeliani entrarono in quella parte della
città, nel 1948. Nel documentario i palestinesi prima raccontano le loro vicende personali
nel 1967, quando Israele ha occupato anche
la zona Est della città, e dopo si recano
alle case di Gerusalemme Ovest da dove
furono espulsi. In alcuni casi si incontrano
e discutono con gli israeliani che ora
occupano quelle abitazioni. I colloqui offrono
interessanti spunti di riflessione. “Estraneo
a casa mia, Gerusalemme” La regista, Sahera
Dirbas, nata e cresciuta ad Haifa, risiede
a Gerusalemme, è laureata in storia ed è
specializzata in storia orale.
Frammenti di Palestina
“Frammenti di Palestina” non è solo uno
spettacolo teatrale e nemmeno solo un
semplice incontro di testimonianza. È il
tentativo del gruppo Diritorno di descrivere e
far vivere quanto saggiato sulla propria pelle
dagli autori-attori. La rappresentazione del
reale e la narrazione del vissuto personale
vengono espressi attraverso voce, corpo,
foto, video e musica che si fondono ed
intervallano per interagire con il pubblico e
ascoltare le emozioni suscitate dal racconto
dell’Occupazione israeliana e delle condizioni
di vita della popolazione palestinese.
Informazioni: diritorno@autistici.org.
Madri
Madri è il film di Barbara Cupisti sulle
testimonianze di donne israeliane e
palestinesi che hanno vissuto la tragica
esperienza di perdere un figlio. In 90 minuti
si susseguono narrazioni di vita quotidiana,
materiali di repertorio e spezzoni di video
familiari. Il film, particolarmente adatto alle
scuole, è un contributo di Arci e Ucca alla
comprensione della complessa situazione
in Israele e Palestina. Racconta conflitti e
drammi privati e condanna la violenza senza
nascondere ciò che la motiva.
Può essere richiesto alla segreteria dell’Ucca:
ucca@arci.it.
Ponte di note
Una scuola di musica nei Territori
palestinesi occupati.
La musica non è un privilegio: è un
diritto di tutti. Per garantire questo
diritto Ramzi Aburedwan, musicista
palestinese, nato ventotto anni fa
in un campo profughi alla periferia
di Ramallah, ha deciso di aprire,
nel 2005, una scuola di musica (Al
Kamandjati - www.alkamandjati.
com) nel centro storico della città
e di portare lo studio della viola,
del violino, della chitarra, della
fisarmonica, nei campi profughi e nei
centri urbani dei Territori Occupati.
La storia di Ramzi è esemplare: nel
1987 era un ragazzino che lanciava le
pietre contro i carri armati israeliani
(una foto diventata celebre lo ha
fatto diventare il simbolo della prima
Intifada), nel 1999 sedeva nella fila
della West-Eastern Divan Orchestra
fondata da Daniel Barenboim.
Ci sono già diversi musicisti che hanno
dato la loro disponibilità a collaborare
con la scuola “Al Kamandjati”
proponendosi come insegnanti per un
mese (almeno) nei campi profughi. Ma
perché il progetto possa partire nel
2008 servono ancora altri musicisti (ai
quali sarebbero rimborsate le spese di
viaggio e di permanenza), ma anche
altri fondi.
Per informazioni: assopace.
nazionale@assopace.org;
isabella.colonna@libero.it, tel.
347.1565119.
école numero 68 pagina 29

de rerum
natura
Innanzitutto, la matematica è sempre
una “condanna” per chi la deve studiare?
I bambini, fin da piccolissimi, si divertono
molto a scoprire il mondo e per farlo applicano
la matematica, ma non le formalizzazioni
del linguaggio matematico che vengono usate
dai “grandi”, e forse da qui nasce l’equivoco.
Il neonato identifica la mamma come
persona diversa dal papà, quindi sa che A
non è B. Capisce la differenza tra “c’è” e “non
école numero 68 pagina 30
INTERVISTA In matematica gli italiani sono al penultimo
posto nella classifica dei 24 paesi più industrializzati. Il problema parte
da lontano, spesso dai primi anni della scuola primaria, con l’idea che
ci siano alunni “negati per la matematica”. Ma davvero il “senso della
matematica” è una qualità di pochi spiriti superiori? Oppure è una
capacità che tutti i bambini e ragazzi possiedono? E come aiutarli, fin da
piccolissimi, a coltivare la passione per questa disciplina? Ne abbiamo
parlato con Ines Marazzani, del nucleo di ricerca in Didattica della
matematica al dipartimento di Matematica dell’Università di Bologna,
autrice di vari libri per insegnanti e supervisore tecnico al tirocinio
alla facoltà di Scienze della formazione all’Università di Bologna
Divertirsi con la matematica FRANCESCA CAPELLI
c’è”, tra nessuno (quando è solo), uno (quando
c’è la mamma e basta), due (quando vede
mamma e papà insieme) o “tanti” (per esempio
i nonni). I bambini al nido o alla scuola
d’infanzia – per dividersi i giochi – aggiungono,
sottraggono, moltiplicano e dividono
senza sapere che cos’è un’operazione.
E allora come sviluppare queste capacità
prima dell’ingresso alla scuola primaria?
Non chiediamo a un bambino di fare i calcoli,
almeno non con le modalità formali tipiche
della scuola, ma valorizziamo le esperienze
quotidiane. Negli anni della scuola
d’infanzia facciamogli notare che gli autobus
seguono percorsi diversi a seconda del
numero, che da una parte della strada le
case hanno numeri pari e dall’altra dispari.
Quando si prepara un’attività, coinvolgiamo
il bambino sul numero di oggetti da

predisporre sul tavolo. Sarà obbligato, senza
accorgersene, a far di conto. E risolverà il
problema in modo intuitivo. Durante un viaggio
in autostrada, chiediamogli di osservare i
cartelli che indicano i chilometri che mancano
alla meta. Oltretutto si sentirà importante
e valorizzato.
Mi sembra di capire che le attività che propone
siano sempre trasversali. Non si tratta
insomma di “fare matematica”, cioè di
mettersi a contare e a calcolare, ma di usare
i numeri in modo naturale e intuitivo.
Infatti. Faccio un altro esempio. La cucina,
verso i 5 anni, è un luogo perfetto per imparare
la matematica, perché gli ingredienti
vanno misurati, mescolati, trasformati. Si
può osservare insieme, per esempio, che la
farina e il latte si misurano con strumenti
diversi o che la lievitazione fa aumentare il
volume di una torta. Poi, dai 6-7 anni, il gioco
può essere complicato e reso più stimolante.
Si può partire da una ricetta che “non
va bene”, perché le persone a tavola sono il
doppio, il triplo o la metà di quelle indicate.
Il bambino dovrà moltiplicare o dividere
le quantità, per adattarle al numero effettivo
di persone.
Le sembra che la scuola, dalla primaria in
poi, abbia il coraggio di riconoscere queste
capacità dei bambini?
No. Mi viene in mente una volta in cui ho
sentito discutere due bambini di 4 anni su
quanti siano i numeri e concludere che sono
infiniti. E pensare che la scuola chiede a questi
bambini, una volta in prima, di colorare
un pulcino.
In che modo si possono rinnovare i metodi
didattici?
Si può smettere di pensare che per i bambini
sia indispensabile l’approccio con i numeri
piccoli, addirittura con le unità. I bambini
conoscono perfettamente la differenza tra
numeri grandi e piccoli. A 5 anni – a volte
a 4 – i bambini sanno già che un numero di
3 cifre è più grande di un numero che ne ha
2. E che 51 è maggiore di 32. Per questo, un
nuovo metodo didattico elaborato dal gruppo
di ricerca in Didattica della matematica dell’Università
di Bologna (di cui è responsabile
scientifico Bruno D’Amore), prevede di iniziare
lo studio dell’aritmetica, in prima elementare,
partendo dai numeri grandi.
Qual è il vantaggio?
I numeri grandi coinvolgono emotivamente i
bambini, li fanno sentire “grandi” a loro volta.
Si può anche partire dall’esperienza del
loro corpo: quanto sono alti – a questa età
superano già i 100 centimetri – o quanto pesano
tutti insieme. L’importante, insomma, è
partire da ciò che il bambino sa già di sé
e del mondo, per stimolarlo a scoprire cose
nuove. E chi insegna deve essere il primo a
divertirsi con la matematica.
Dal Madagascar − paese lacerato dallo
sfruttamento delle sue risorse naturali, caratterizzato
da una divaricazione tra l’ambiente
reale (quello urbano inquinato e sovrappopolato,
quello rurale ancora più povero) e ambiente
turistico (le foto patinate delle agenzie
di viaggio) − parte un messaggio che corrisponde
ad una sfida essenziale per il futuro di
noi tutti. Si tratta di una questione cruciale
affrontata non con sterili congressi, ma con la
realizzazione di pratiche quotidiane. Il Forum
aveva lo scopo di raccogliere e sintetizzare il
vasto patrimonio di esperienze in un quadro di
riferimento comune che rappresenti anche un
impegno concerto per le future politiche educative
del movimento nei confronti di tutte le
istanze, educative, istituzionali, economiche e
sociali. Riprendiamo alcune idee dall’intervento
finale di Jean Marie Michel, segretario generale
della Ficemea.
1. I progetti di Educazione alla Sostenibilità
devono proporre una visione globale, sostenuta
da un approccio sistemico che inclusa tutti
gli aspetti del problema, coinvolgendo tutti
gli attori e tenendo conto dell’insieme delle
relazioni che li collegano.
2. La realizzazione delle azioni deve essere
in stretto rapporto con le problematiche rea-
FORUM Oltre 100 rappresentanti
dei Cemea, movimento per l’educazione
attiva, provenienti da 40 paesi, si
sono incontrati ad Antananarive per
il Forum “Cittadinanza attiva per un
mondo sostenibile” (6-10 novembre
2007). L’iniziativa, organizzata dalla
Federazione Internazionale dei Cemea,
col sostegno dell’Unesco e dell’Istituto
per la Francofonia, concludeva un
“cantiere” internazionale che per
quattro anni ha promosso progetti
educativi e formativi nel mondo sul tema della
relazione tra educazione e sostenibilità ambientale
Cittadinanza attiva per un
mondo sostenibile STEFANO VITALE
li. L’Educazione alla Sostenibilità deve preoccuparsi
dei bisogni essenziali e concreti delle
popolazioni ed appoggiarsi su una lettura
della realtà. La pedagogia del progetto, sostenuta
dai Cemea (che comprende osservazione,
inventario ed analisi dei bisogni, negoziazione
partecipativa ed organizzazione
degli interventi, realizzazione e valutazione
dei cambiamenti..) deve garantitici la possibilità
di sviluppare dispositivi d’azione che
rispettino la partecipazione degli attori e la
complessità dei problemi.
3. Il progetto, ed i risultati del progetto, devono
essere a loro volta sostenibili e durevoli
nel tempo radicandosi nel quotidiano. Le
azioni per l’Educazione alla Sostenibilità non
sono degli “spot” ma una serie di azioni, una
catena di situazioni che modificano le abitudini
e determinano una «nuova normalità».
È centrale la motivazione dei partecipanti ed
il sostegno a tale motivazione è una funzione
importante che deve essere tenuta in debito
conto anche dagli amministratori e dai
decisori.
4. L’Educazione alla Sostenibilità mette in
gioco diversi attori sociali, economici e politici.
Le sinergie hanno un ruolo determinante.
Affinché riescano e divengano durevoli,
affinché i loro modelli siano trasferibili
école numero 68 pagina 31

devono fondarsi su un processo democratico
basato sui principi della partecipazione e della
trasparenza; il modo per giungervi è la responsabilità
condivisa.
5. L’Educazione alla Sostenibilità richiede un
processo trasformativo e dunque il progettarsi
nell’avvenire e di anticipare il corso delle
cose. Coltivare questa capacità di previsione
è fondamentale per dare una prospettiva al
principio di precauzione all’interno dell’educazione
attiva.
6. Occorre costruire progetti di sensibilizzazione,
coscientizzazione, informazione e formazione
partendo dai problemi reali della
comunità sforzandosi di costruire dei partenariati
positivi con le istituzioni.
7. Occorre generare spazi di dibattito e rappresentanza
in cui la cittadinanza possa esercitarsi
con reali possibilità d’influire sul corso
delle cose.
8. L’approccio alla sostenibilità deve produrre
competenze politiche, sviluppare il senso critico
per divenire cittadini attivi nei contesti
locali e globali. L’azione individuale ed i cambiamenti
dei modi di vita sono importanti ma
non sufficienti: vi è necessità di creare situazioni
in cui i cittadini possano organizzarsi
essi stessi, creare degli spazi per condividere
pratiche e progetti.
9. Questo processo deve includere la cura sociale
per la valutazione affinché la capitalizzazione
delle esperienze ed il tranfert delle
stesse sia un fatto reale.
10. L’Educazione alla Sostenibilità deve integrare
una dimensione di conoscenza della
propria cultura e di apertura verso la diversità
culturale. Gli strumenti dell’Educazione alla
Sostenibilità devono permettere alle culture
d’incontrarsi, rafforzarsi ed arricchirsi reciprocamente
e non produrre dinamiche di dominazione,
sopraffazione e distruzione.
11. Occorre lavorare sui fatti, a partire dai
vissuti delle persone. La situazione veramente
formatrice è quella che parte da problemi
ben determinati della comunità coinvolta in
maniera partecipata.
12. L’Educazione alla Sostenibilità può assumere
forme diverse: la complessità dei problemi
invita alla varietà delle azioni, alla
creatività delle iniziative pedagogiche.
13. L’Educazione alla Sostenibilità suppone
una pedagogia appropriata, ovvero una pedagogia
attiva in cui gli individui siano attori
del loro sviluppo, una pedagogia aperta,
plurale, che proponga strumenti didattici cocostruiti,
che rispondano a reali bisogni d’apprendimento,
che siano il frutto di una visione
più sostenibile del mondo.
Concludiamo con le parole di Edgar Morin:
«Per acquisire una coscienza dell’interdipendenza
economica, culturale, sociale, politica
ed ecologica nelle città e nelle campagne;
fornire a ciascuno l’opportunità d’acquisire i
saperi, i valori, le responsabilità e le capacità
necessarie per proteggere e migliorare l’ambiente,
creare dei nuovi modelli di comportamento
degli individui, dei gruppi e della società
nei confronti dell’ambiente».
école numero 68 pagina 32
INFO
Gregory Bateson
Un nuovo contributo alla conoscenza
del pensiero di Bateson, in stile
divulgativo e in una prospettiva
interdisciplinare e cronologica:
partendo dagli studi antropologici,
passando per le ricerche sulla
comunicazione sino alla definizione
dell’epistemologia del sacro (sulla
base di una visione radicalmente
ecologica del pensiero). Il libro
mette al centro il tentativo batesoniano
di “tenere insieme” diverse esperienze e
discipline senza mai “ridursi” ad una di
esse. La “struttura che connette” è per
De Biasi la “comunicazione” che integra
la teoria della conoscenza con la prassi
ecologica. La prospettiva olistica è la rotta
da seguire e l’autore è bravo a mettere in
rilievo l’ansia di Bateson di poter essere
frainteso da fazioni opposte. Interessante
il discorso sul sacro che viene risolto in
una dimensione di “non-comunicazione“,
una sorta di sospensione laica del giudizio
che apre verso la valorizzazione della
narrazione piuttosto che verso una deriva
ecumenico-religiosa, come avviene in altre
letture attuali.
Rocco De Biasi, Gregory Bateson.
Antropologia, comunicazione, ecologia.
Cortina Editore, Milano, 2007, pp.160,
euro 12.
Vivere il mare
“Pesca uno spot!” è la
sezione per le Scuole
secondarie di 2°
grado sui cambiamenti
climatici nell’ambito di
Vivere il mare un video
per l’ambiente: I bandi
di Concorso per il 2008
sono on line (http://
www.vivereilmare.it/
bandi/index.html). In
premio, per gli aspiranti filmakers autori
di spot e video sulla pesca e sul mare, c’è
la partecipazione alla Settimana azzurra
di vivere il mare 2008, un soggiorno
ecoturistico.
Gea Program, via Castelfidardo
26, 00185 Roma, tel./ fax
06.44292665, info@geaprogram.it,
concorsi@geaprogram.it.
Acqua 1
Acqua bene pubblico è un breve
video teatrale/ informativo (girato
da Francesco Ritondale, scritto e
interpretato da Saverio Tommasi,
www.saveriotommasi.it) con lo
scopo di contribuire alla conoscenza di
uno dei più grandi problemi dell’umanità:
l’emergenza acqua. L’autore motiva la sua
scelta dicendo: «Credo che “fare teatro”
significhi contribuire alla nascita di nuove
proposte e nuove parole che suscitino
dibattiti, accendendo speranze capaci di
contagiare l’agenda dei partiti, cambiando
mentalità e scelte politiche». Il filmato si
può vedere su Arcoiris (www.arcoiris.tv),
la televisione accessibile gratuitamente da
Internet.
Acqua 2
Ogni giorno 30.000 persone muoiono per
cause connesse alla scarsità d’acqua. Il
40% della popolazione umana (2,5 miliardi
di individui) vive in condizioni igieniche
precarie per carenza di acqua.
Il progetto educativo Giangukai (in
lingua wolof scuola), creato da Cesvi per
le scuole primarie (finora ha coinvolto
una cinquantina di classi), è costituito
Acquagame − un gioco per educare
bambini e bambine all’uso consapevole
dell’acqua e a modificare abitudini e
comportamenti − e da gemellaggi on line
− sul sito www.giangukai.org vengono
condivisi materiali di ricerca, opinioni e
proposte di consumo responsabile
Per informazioni: educazione@cesvi.org,
giangukai@cesvi.org, tel. 035.2058058,
www.cesvi.org.
Ecologia
della mente
Sul sito
del Circolo
Bateson (www.
circolobateson.
it) si possono leggere le relazioni tenute
al seminario “Ecologia della mente e limiti
dello sviluppo” (Roma, 15-16 dicembre
2007) da Francesco Farina (“Paesaggio
cognitivo, economia, paesamento”),
da Maurizio Giacobbe (“Emergenze,
conflitti, errori epistemologici e soluzioni
creative”), da Rosalba Conserva (“Vincoli
e libertà nell’epistemologia di Bateson”)
e un un articolo di Elena Liotta (“Il lato
oscuro della crescita. È possibile una
Decrescita felice?”), già pubblicato sulla
rivista Babele, n. 36, al quale è ispirato il
suo intervento al seminario.
Edgar Morin
«È in California, nel 1969-1970, che
degli amici scienziati dell’università
di Berkeley hanno risvegliato in me la
coscienza ecologica. Tre decenni più
tardi, dopo il prosciugamento del Mar
d’Aral, l’inquinamento del lago Baïkal, le
piogge acide, la catastrofe di Tchernobyl,
la contaminazione delle falde freatiche, il
buco nell’ozono nell’Antartico, l’uragano
Katrina a New Orleans,
l’emergenza è più
grande che mai».
(Edgar Morin). L’anno
I dell’era ecologica
raccoglie una serie di
saggi di ambientalisti,
scienziati e politici
su come intervenire
sulla crisi biofisica del
pianeta. Secondo Morin
per salvare il pianeta
è urgente passare da
una concezione riduzionistica della natura
umana, ad una conoscenza che recuperi
l’identità umana, cosmica e planetaria.
Edgar Morin, L’anno I dell’era ecologica.
Dialogo con Nicolas Hulot, Armando, 2007,
pp.128, euro 10.

modi
e media
Nello scorso numero
siamo entrati nel merito
di due motivi di questa
complessità: il termine
“media” oggi si riferisce
a una ricca gamma di canali,
strumenti e contenuti;
la barriera tra l’infanzia
e l’inizio di una sorta
di adolescenza si è spostata, perciò il completamento
della costruzione dell’identità di
genere è oggi precocemente sollecitato e affrontato
con una dotazione affettivo-cognitiva
ancora infantile. Ora ne vorremmo analizzare
alcuni altri.
Senza barriere
La TV ed Internet sono media aperti a tutti,
privi di confini netti tra ambienti. La tradizionale
socializzazione di genere si fondava
sull’accesso/esclusione rispetto a ambienti di
vita. Un maschio poteva arrivare alla giovi-
PSICOLOGIA Nelle rappresentazioni
e negli stereotipi di genere offerti dai
media è in corso una notevole mutazione,
per certi aspetti anche confusa e caotica,
con rischi involutivi specialmente per le
femmine, ma in termini che non sono un
mero ritorno al passato Sterotipia e
permeabilità SERENA DINELLI *
nezza senza aver mai visto una ragazza che
si trucca o si spoglia, cosa che ogni bambino
vede facilmente in TV; le femmine non partecipavano
ai riti maschili di gioco, come ad
esempio il calcio. Maschi e femmine non sapevano
cosa maschi e femmine si dicono tra
loro in un gruppo separato per genere, oggi
basta guardare una sit com per supporlo. Gli
esempi di barriere e recinti di genere caduti
potrebbero essere infiniti. Tutto ciò, insieme
alla coeducazione, fa sì che entrambi i sessi
siano continuamente esposti a modelli identificatori
di genere di entrambi i sessi, come non
è mai stato nella storia dell’umanità
1 . Ancora un esempio.
Se un compagno di classe “scafato”
esibisce la propria frequentazione
di materiale pornografico,
le ragazzine scafate
della classe possono andare a
vedere pornografia in Internet
per capire “cosa guardano i maschi”,
e trovare lì una certa immagine di se
stesse e delle altre donne. Ritengo che la pornografia
stia dando un contributo oggi molto
sottovalutato alla costruzione di stereotipi
di genere, in particolare in età evolutiva, con
effetti destinati a durare nel tempo.
Altro motivo di complessità è che le rappresentazioni
offerte dai media non sono completamente
univoche né solo stereotipate secondo
linee tradizionali.
L’ipotesi generale che avanzo è: le rappresentazioni
di genere sono nette, e insieme, contraddittoriamente,
molto complesse, non linea-
école numero 68 pagina 33

i. Tutti e due i poli (maschile e femminile)
hanno la caratteristica di poter essere permeabili,
porosi, con attribuzione ad un genere
di caratteri tradizionali dell’altro. Facciamo
alcuni esempi.
La vasta ricerca svolta nel ’99 da Marina
D’amato sui “Teleroi” 2 riscontrò che, come da
lunga tradizione, gli eroi erano il triplo delle
eroine; emergeva però anche il fenomeno interessante
delle coppie di eroi di entrambi i
sessi tra loro cooperanti.
I valori principali incarnati dagli eroi maschi
erano, per frequenza a calare: il coraggio, l’intraprendenza
e l’amicizia. I valori dominanti
delle eroine erano nell’ordine: l’amicizia, il
coraggio e, al posto dell’intraprendenza prevalente
negli eroi, la dedizione e la magia.
Quando gli eroi agivano in coppia mista ne
scaturiva un mix interessante e con valori in
parte nuovi: amicizia, intraprendenza, solidarietà,
allegria e intelligenza.
Una ricerca fatta dall’Osservatorio di Padova
nel 2001 ha invece analizzato le rappresentazioni
di genere nei Pokemon, guardati in
prevalenza dai maschietti, ma moltissimo anche
dalle bambine 3 . Nei primi anni della serie
i Pokemon non presentavano una distinzione
per sesso netta, solo successivamente introdotta.
Erano maschi sia il protagonista che
il professore suo maestro autorevole, c’erano
però anche importanti personaggi femminili.
Per anni tutti i Pokemon hanno avuto caratteri
tradizionali sia femminili che maschili allo
stesso tempo: dolcezza, tenerezza, cura degli
altri, commozione, emozioni intime, ritrazione
di fronte a una competizione troppo onerosa
(tipico tratto di buon senso femminile);
ma insieme aggressività, combattimento,
competizione, disciplina.
Fusioni di genere
Cosa può implicare questo? È stato un modo
di dire ai bambini “in ogni essere umano c’è
di tutto?” Oppure, visto che per la rigidità
della lingua tutti i personaggi sono chiamati
al maschile, è una fantasia che va verso l’androginia?
O che altro?
Il caso Pokemon non è unico: nei cartoni
giapponesi ci sono molte figure di protagonisti
che passano da un sesso all’altro: da
Ranma a Lady Oscar alla principessa Zaffiro.
Ma più in generale, va segnalato che nei media
lo stereotipo si è articolato e che i generi
non sono solo due, ma almeno tre ben delineati,
con un quarto appena accennato.
Accanto a stereotipi nettamente maschili e
femminili ci sono importanti suggestioni su
un terzo sesso a base maschile: il mondo dei
media è popolato di transgender, travestiti,
gay. Basti pensare a molti videoclips, a personaggi
come Platinette, ai “Magnifici cinque”
gay de La7.
Bisogna tenere presente che, per la permeabilità
degli ambiti nei media, queste figure esercitano
la loro suggestione identificatoria non
solo sui maschi ma anche sulle femmine. Nel
mio lavoro, in un contesto non clinico, casuale,
mi è capitato di sentire conversazioni
école numero 68 pagina 34
tra bambine di 9-10 anni che fantasticavano
di essere dei travestiti (e di essere violentate
da figure maschili).
Più vaghe, ma presenti, le suggestioni di figure
femminili sessualmente doppie o ambigue
(pensate alla recente pubblicità del Campari,
con due figure a base femminile ma altamente
ambigue).
Profili femminili
Veniamo ora alla fiction televisiva, studiata
in dettaglio nel 2001 dalla ricerca Cnel/
Osservatorio di Padova 4 . È emersa una gamma
di profili femminili piuttosto varia, con fenomeni
non scontati nelle fiction prodotte in
Italia, in particolare in Rai.
In molti programmi prevale una sorta di rimozione
delle differenze. C’è poi una consistente
quota di programmi in cui le donne sono
rappresentate con una capacità di decisione
e con una relativa indipendenza dagli uomini.
D’altronde resta forte lo stereotipo dell’uomo
che sa decidere ed è poco dipendente dalle
donne. Al contempo però, spesso i maschi
sono presentati in ruoli non solo lavorativi, ma
anche affettivo-relazionali.
Lo studio del tema del lavoro, sempre poco
presente nelle fiction, ha rivelato una situazione
interessante. Per esempio dei personaggi
donna di cui si poteva stabilire l’attività,
ben il 67% aveva un lavoro (contro il 79% dei
personaggi maschili): mentre nell’Italia reale
lavora meno della metà delle donne. C’era
anche un altro dato in contraddizione con la
realtà: gli uomini delle fiction apparivano più
colti e istruiti delle donne, mentre oggi nell’Italia
reale statisticamente è vero il contrario.
Inoltre le donne non occupate apparivano
più “buone” di quelle occupate, che apparivano
“cattive” in un quarto dei casi: tanto
spesso quanto gli uomini. Fatto rilevante,
tra i personaggi donna solo un quarto era madre.
Prevaleva insomma un modello di donna
che mette al centro della sua vita le relazioni
sentimentali e di coppia e la realizzazione nel
lavoro, con una attenzione al piacere e alla
cura dell’interiorità.
Sempre in questa ricerca emerge che quello
dell’intrattenimento è un mondo ferocemente
stereotipizzante. Lo studio qualitativo di popolarissime
trasmissioni (“Striscia la notizia”,
“Verissimo”, “Buona Domenica”, “Sarabanda
di Papi” e “Matricole”) – che dall’Auditel ri-
sultano molto seguite da bambine e bambini,
adolescenti e giovani adulte – mostra che
in esse, con modalità in parte diverse, c’è un
dato eclatante: il corpo femminile esibito, sottoposto
a uno sguardo continuo, insistente,
intrusivo, un corpo totalmente privato di soggettività.
Anche dove c’è un trattamento di
uomini e donne più paritario sullo sfondo si
aggira una massa di corpi femminili d’arredo
esibiti e privi di soggettività. Particolarmente
interessante il caso di “Matricole”, molto seguito
da bambini di ambo i sessi. Qui appariva
la storia degli inizi di carriera di uomini
e donne dello spettacolo. Gli uomini invitati
erano uomini arrivati e con un percorso verso
la fama chiaro, progettuale e coerente. Le testimonial
invece erano per lo più in posizione
“sospesa”, con una notorietà non consolidata
e con un progetto generico, legato alla
bellezza e soprattutto alla capacità di adattarsi
ai ruoli scelti per loro da altri. Le donne
come materia plasmabile: veniva messo in luce
il percorso di adattamento corporeo a certi canoni
di bellezza e desiderabilità, passando per
il controllo dei chili e dell’alimentazione, delle
misure, e per la chirurgia estetica.
Non ho da proporvi ricerche su un polo importantissimo
per la stereotipizzazione del maschile,
e quindi, implicitamente, del femminile:
tutto il mondo dello sport, dal calcio al
wrestling alla Formula Uno, mondo che domina
in un circuito intermediale e intercontestuale
di grande peso: dalla TV alla TV a
pagamento, a Internet (i siti delle squadre),
al Corriere dello Sport, alla pubblicità, alla
moda e al vestiario, fino a quegli “accessori
maschili” desiderabili che sono le moto, le
automobili, le barche. Non ho nemmeno ricerche
su rappresentazioni stereotipali relativi
all’uso della tecnologia da parte dei due
generi, tecnologia che è un importantissimo
aspetto caratterizzante del mondo maschile.
* Psicologa, Roma.
Un fotogramma
del film Little miss
Sunshine (Jonathan
Dayton, USA,
2006).
NOTE
1. Serena Dinelli, La macchina degli affetti. Dalla
televisione ad altre tecnologie dell’emozione, Franco
Angeli, 1999.
2. M. D’Amato, I teleroi. I personaggi, le storie, i
miti della TV dei ragazzi, Editori Riuniti, Roma,
1999.
3. Donne, lavoro, TV. La rappresentazione femminile
nei programmi televisivi, Documenti, Edizioni CNEL,
Roma 2002, pp 103 - 120.
4. Ibidem, parte prima, pp. 11 - 97.

STORIA Nella larga produzione del 2007 attorno
alla Shoah abbiamo scelto tre libri preganti e accurati
Moniti GIOVANNI SPENA
«Ci sono cose, nella vita, che non vanno
dimenticate, e non per un desiderio di
vendetta, ma perché la conoscenza del
passato è l’unico antidoto per la tutela dei
diritti umani». [Tullia Zevi]
Dice bene Annette Wieviorka allorquando
individua nel processo contro Adolf
Eichmann, celebrato nel 1961, l’inizio dell’“era
del testimone”. Successivamente, nel
decennio Ottanta, vi è uno stabilizzarsi ed
intensificarsi dei lasciti di memoria (nel 1981
fu costituita presso l’Università di Yale una
sezione il cui compito era quello di documentare
in video le testimonianze personali di
testimoni della Shoah e nel 1994 fu fondata
da Steven Spielberg la Shoah Foundation
con analogo scopo – da noi in Italia il 1982 è
l’anno del viaggio ad Auschwitz di Primo Levi
e del 1992 è la prima edizione di Il Libro della
Memoria di Liliana Fargion). Nel 2007 era
da attendersi che si facesse un bilancio, a più
di vent’anni, di quest’ultima fase dell’“era del
testimone” e che si formulasse l’interrogativo
“e dopo i testimoni?”.
Dopo i testimoni
Con la prima e la seconda istanza ora si misura
il recente volume a cura di Saul Meghnagi
Memoria della Shoah – Dopo i “testimoni” 1 .
È il curatore ad osservare: «il problema della
Shoah… va collocato nella complessa relazione
tra tradizioni di gruppi, di collettività,
di nazioni, di rapporti tra popoli, nel passaggio
incerto dal passato ad un presente che è
fonte di preoccupazione per la sopravvivenza
di un sistema di valori, la continuità di una
memoria, che si vorrebbe salvaguardare senza
soluzione di continuità». 2 In un presente
opaco in cui si ha tanta incertezza per il futuro
valori consolidati nella tradizione illu-
ministica non possono non essere rilanciati
e portati con noi. Tra essi il valore del ricordare,
vi è pertanto un motivo in più per tutelare
e preservare la Memoria della Shoah,
almeno sin quando ci staranno a cuore “i diritti
di tutti”. Sino a tal momento il monito
insito nei racconti dei testimoni della Shoha
‘il passato può ritornare’ è per noi guida nel
traggitto verso il futuro. Per questo occorre
sempre, e sempre intensamente, che singole
memorie di deportati interroghino ascoltatori
attenti e compartecipi, occorre sempre, e
sempre con accuratezza, che singole strutture
preposte alla preservazione e circolazione di
Memoria della Shoah operino innovando nei
modi e nelle forme della trasmissione delle
testimonianze della Shoah.
Il sale della memoria
Sui modi nuovi o comunque rinnovati del trasmettere
i moniti dei testimoni della Shoah si
interrogano gli autori dei contributi che compongono
il volume. Michele Battini registra
l’estrema solitudine della memoria ebraica
della Shoah susseguente al rimprovero di un
eccesso di ricordo che il mondo non ebraico
fa al mondo ebraico, auspica una storiografia
non monumentale capace di far da ponte
tra i due mondi ancora troppo distanti,
conclude con un ammonimento: «non so se
il Messia entrerà mai dalla piccola porta del-
la storiografia, ma è certo che Egli non arriverà
mai, se la storiografia avrà disperso e
dissipato il sale della memoria» 3 . Anna Rossi
Doria ritiene che vi sia un rischio da fugare,
quello della rappresentazione sgretolante
Memoria, individua esser messo bene a fuoco
tal rischio da Enzo Traverso allorquando scrive:
«non credo di essere il solo ad aver provato
un certo disagio guardando le immagini di
Dick Cheney, Tony Blair e Silvio Berlusconi ad
Auscwitz. La loro presenza sembrava inviarci
un messaggio rassicurante, ma in fondo apologetico,
che consisteva nel vedere il nazismo
come una legittimazione in negativo dell’occidente
liberale considerato come il migliore
dei mondi» 4 - condividendo l’osservazione
critica la Rossi-Doria si interroga sui modi di
ricomporre il conflitto tra storia e memoria,
trova modo efficace per superare rappresentazione
nell’accresciuto utilizzo delle immagini
filmiche dei testimoni. Renato Moro evidenzia
l’estraneità della Chiesa Cattolica alla
Memoria della Shoah ed auspica per il futuro
una compartecipazione tale che la Shoah “entri
a far parte della coscienza della Chiesa”.
Roberto della Rocca fa presente che per il
mondo ebraico all’imperativo zachor – ricorda
deve sempre accompagnarsi l’invito a shamor
– mantieni, ricorda cioè che la piccola porta
del futuro sarà aperta se gli ebrei avranno
memoria della loro tradizione, del che cosa
école numero 68 pagina 35

sono essenzialmente. Anna Foa, pure lei, paventa
rischio di ritualizzazione frantumante
Memoria della Shoah, pensa però che tal rischio
possa essere evitato attraverso l’estensione
delle Memorie: la memoria narrata della
Shoah ha introdotto l’attitudine al ricordo,
sarebbe bene che tal attitudine si estenda ad
altri contesti (il Ruanda ad esempio) ad altri
genocidi. Davide Bidussa infine segnala: «il
giorno della memoria riguarda un pezzo della
storia culturale dell’Europa con cui l’Europa
ha iniziato a confrontarsi, in ritardo e spesso
con disagio. Tenere fermo il rapporto tra
il giorno della memoria e processo fondativo
dell’identità europea oggi è fondamentale per
il destino stesso sia della cultura dell’Europa
che per il futuro del giorno della memoria» 5 .
Credo si rinvengano nel volume curato da
Saul Meghnagi tante delle inquietudini che
oggi ci assalgono e ci attraversano, al fondo
il futuro della Memoria della Shoah è dagli
autori connesso al superamento del blocco di
futuro che noi avvertiamo e temiamo. Il volume
è molto utile, proprio per le tensioni forti
che lo attraversano.
école numero 68 pagina 36
PAROLE Questa volta il
vocabolario che, attraverso
alcuni concetti chiave, ci
aiuta a ripercorrere (o a farlo
ex novo) la strada che nel
secolo appena passato hanno
tracciato i femminismi, qui e
altrove va dalla “L” di lesbica
alla “M” di maschile Un
vocabolario tutto
per noi MONICA LANFRANCO *
Futuro
Sul futuro della Memoria della Shoah riflette
anche Tullia Zevi nel dialogo con la nipote
Nathania Zevi. È un dialogo intensissimo,
penso che si debba essere grati alla Tullia
Zevi per i moniti che deposita non solo presso
la nipote ma più ancora presso tutti noi,
per il testimoniare l’Italia più bella e più traslucida.
La Zevi osserva: «viviamo un momento di
forte disagio perché da continente bianco e
monoculturale l’Europa sta diventando multirazziale
e popolata da diverse culture. Non
è ancora pronta a tutto questo come dimostrano
gli atteggiamenti di disprezzo e rigetto
verso lo straniero. E gli ebrei ricoprono
lo scomodo ruolo di cartina tornasole e coscienza
critica della democrazia» 6 . In questo
contesto Tullia Zevi va ancora una volta
alla condizione difficile delle minoranze: «la
Shoah è un documento storico dotato di una
propria unicità, ma in tutte le società esistono
minoranze identificabili che possono essere
oggetto di persecuzione… Quello che è
successo può succedere ancora e vi sono ana-
logie profonde e inquietanti tra la “soluzione
finale” del problema ebraico e le pulizie
etniche tuttora in atto nel mondo… E nuovi
campi di concentramento possono tornare a
esistere dovunque se i diritti di tutte le minoranze
non trovano un terreno fertile sul
quale attecchire» 7 . Sono parole su cui tornare
a meditare, anche noi qui in Italia ove nonostante
la nostra passata macchia razziale
in molti si affidano a recenti xenofobie.
Donne
Un terzo volume vorrei qui richiamare, quello
di Giovanna De Angelis Le donne e la Shoah.
A primo acchito è un volume centrato su vittime
femminili della persecuzione razziale
nazista, ma se si va alla Etty Hillesum, ricordata
da Anna Foa nella Prefazione il libro può
esser incontrato anche da un’altra prospettiva.
Hetty Hillesum scrisse «non si tratta di
conservare questa vita ad ogni costo, ma di
come la si conserva». È un monito sempre
valido ovunque anche in contesti lontanissimi
dall’universo concentrazionario.
La De Angelis rivà alla vicenda dell’interna-
LESBICA
Nonostante i balletti hard in prima serata, le pubblicità birichine e
ammiccanti che reclamizzano ogni genere di consumo l’omosessualità
fa paura, e quella femminile ancora di più: che razza di animale è una
donna senza uomo, che non lo desidera accanto e che rischia, quindi,
di essere pericolosamente incontrollabile e addirittura autosufficiente
in materia riproduttiva, se si fa inseminare artificialmente? Virago,
scherzo di natura, antipatica e forse cattiva: tranne che nel chiuso
delle cassette hard (dove è gradita) la lesbica è vissuta come una minacciosa
mina vagante, in grado di confondere e traviare le vere donne,
quelle etero che, già turbate dal femminismo, possono cambiare
rotta e perdersi per sempre. Sarebbe una bugia dire che nei movimenti
di liberazione la comparsa della figura della lesbica è stata accolta
come una sorella: per gli uomini è comunque un oggetto strano, e
per le donne, anche per le femministe, apre non poche contraddizioni.
Tant’è vero che è stato necessario, anche nel femminismo, aprire
luoghi di discussione specifici e conflittuali tra donne sull’argomento.
Istruttivo, per chi ancora non lo avesse visto, il film Women, in particolare
il secondo episodio.
Amiche, compagne, amanti, Danna Daniela, Mondadori.
Cuori nel deserto, Rule Jane, Edizioni Zoe.
Eva e Eva, Rossella Simone, Muzzio.
Favole per adultere, Maria G. Di Rienzo, Babilonia.
Il bacio della Medusa, Melania Mazzucco, Baldini e Castoldi.
Il pozzo della solitudine, Hall Radclyffe, Corbaccio.
Lesbismo per tutti, Eisenbach Helen, La Tartaruga.
M@iling Destre, A.A.V.V., Il Dito e la Luna.
Mamme e papà omosessuali, Monica Bonaccorso, Editori Riuniti.
Pomodori verdi fritti, Fannie Flagg, Sonzogno.
Un posto per noi, Patience e Sarah Miller Isabel, Edizioni Zoe.
LINGUAGGIO
Né puttane né madonne: solo donne, campeggiava in molti striscioni
delle manifestazioni del primo femminismo. L’uso di certe parole non
era, nei favolosi anni ’70, solo un fatto di marginale trasgressività: si

mento concentrazionario di Hetty Hillesum e
di Gertrud Kolmar, da questo lato tien desta
l’attenzione di genere inferita ai campi nazisti,
attenzione già rinvenibile nel volume
a cura di Dalia Ofer e Lenore J. Weitzman
Donne nell’Olocausto del 1998 (ma traduzione
italiana 2004). Vi è però un oltre che qui
vorrei evidenziare.
Della Hetty Hillesum e Gertrud Kolmar internate
la De Angelis ricostruisce il loro percorso
verso l’interna libertà interiore, tratteggia
il loro processo di acquisizione di una capacità
critica di giudizio e valutazione che
le rende resistenti al Lager ed ai suoi codici.
Scrive la De Angelis: «il corpo violato, e
la dissoluzione di un intero universo interiore
di riferimento che tale violazione evocava,
condusse paradossalmente all’attivarsi di
un ulteriore dimensione conoscitiva di sé e
del mondo, alla modificazione di uno sguardo
(interno, esterno) costretto a riformulare la
prassi e la logica del proprio esercizio» 8 . Sta
in ciò la maturazione di una resistenza all’universo
concentrazionario, alla spoliazione
di sé quale persona e quale donna. Anche noi
trattava di dare uno scossone al modo di guardare la realtà, partendo
dal forte impatto simbolico che il linguaggio ha nella comunicazione
umana. Nominare, essere nominate: se comunque in principio era il
verbo, allora che sia verbo segnato dalla sessualità di chi lo pronuncia.
Anche se suona male parlare di sessuazione del linguaggio, che
più semplicemente significa nominare maschile e femminile, rifiutando
il neutro, (non uomo intendendo genere umano, tanto per capirci:
se si vuol dire il genere umano sforzarsi di dire uomini e donne, please)
cercare di considerare che esistono donne e uomini è uno dei gradini
più importanti per popolare il mondo di due soggetti, e non di
uno solo che parla per tutti. Se un’insegnante entra in classe dove ci
sono due generi sessuati di persone e saluta con un miope: «Ciao ragazzi»,
per favore, fate notare che è un errore rosso. La ricchezza della
lingua italiana, e l’evidenza, vi soccorrono.
Il linguaggio della dea: mito e culto della dea madre nell’Europa
neolitica, Marija Gimbutas, Edizioni Neri Pozza.
La lingua materna: la condizione umana e il pensiero plurale,
Hannah Arendt, Mimesis.
Le parole per dirlo, Marie Cardinal, Bompiani.
Le parole delle donne, Rosa Rossi, Editori Riuniti.
MAMMA
«Il potere della madre ha due aspetti, scrive Adrenne Rich nel celebre,
e giustamente celebrato, Nato di donna: il potenziale biologico, e cioè
la capacità di generare e nutrire una vita, e il potere magico attribuito
alla donna dall’uomo, sia sotto forma di adorazione della divinità
femminile, sia sotto forma della paura di essere controllato e sopraffatto
dalla donna». Femmina si nasce, donna si diventa, ha detto il
femminismo, ma nel diventare donne l’essere anche potenzialmente
madre non è un passaggio automatico indolore. Per troppo tempo la
maternità è stata la prigione femminile, il destino che rendeva (e rende
ancora in molte parti del mondo) le donne schiave e inferiori. Su
un manifesto di qualche otto marzo fa, che ritraeva un particolare dal
dipinto Elogio del buon governo di Lorenzetti, nel quale alcune donne
danzano serene mentre attorno a loro la vita quotidiana si dispiega in
in un contesto profondamente diverso ed in
un tempo assai distante possiamo maturare
resistenza alle angustie del presente, possiamo
superare le strettoie dell’oggi. Anche noi
possiamo maturare quali singolarità critiche
proiettate al futuro, possiamo in tal modo
dare futuro a quei diritti sottratti a Hetty
Hillesum e Gertud Kolmar. Possiamo purchè ci
si attrezzi con accuratezza, la Memoria della
Shoah diviene dunque indispensabile.
NOTE
1. Saul Meghnagi (a cura di), Memoria della Shoah.
Dopo i “testimoni”, Donzelli Editore, Roma 2007.
2. Ibidem p. XXI.
3. Ibidem p. 14.
4. Ibidem p. 65, ma in Enzo Traverso, Il passato:
istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica,
Verona, Ombre Corte 2006, p. 80.
5. Saul Meghnagi (a cura di) op. cit., p. 114.
6. Tullia Zevi, Nathania Zevi, Ti raccontola mia
storia – Dialogo tra nonna e nipote sull’ebraismo,
Rizzoli, Milano, 2007, p. 127.
7. Ibidem pp. 122 - 123.
8. Giovanna De Angelis, Le donne e la Shoah, Roma,
Avagliano Editore 2007, p. 107.
pace e creatività, campeggiava una scritta che mi è rimasta impressa
perché cambia alla radice il concetto stesso di maternità: si nasce da
una donna perché lei sceglie. Mamma per scelta, e non perché donna e
quindi mamma. Sembra semplice, ma non lo è.
L’amore in più, Elisabeth Badinter, Tea Due.
Di madre in figlia, Lella Ravasi Belocchio, Cortina.
Figlie senza madre: alla ricerca dell’amore perduto, Hope
Edelman, Baldini e Castoldi.
Il mito della cattiva madre, Jane Swigart, Longanesi.
Mia madre, Doris Lessing, Bollati Boringhieri.
Mia madre, me stessa, Nancy Friday, Mondadori.
L’ordine simbolico della madre, Luisa Muraro, Editori Riuniti.
MASCHILE
Soltanto il contrario del femminile? Naaaaaa, figuriamoci. Maschile è
il metro e la misura di tutto, ancora oggi nel terzo millennio, femminile
è giusto un aggettivo, più spesso legato all’evocazione di leggiadria
e debolezza piuttosto che alla valutazione positiva di qualcosa.
Una prova? In qualunque campo le donne riescano ad eccellere ecco
che non sono brave e basta, ma brave come un uomo che è bravo e al
quale loro assomigliano, peccato che non sono maschi, sarebbero perfette.
Ma non bisogna dire che il maschile non ha subìto modificazioni
nel corso del tempo, perché nell’ultimo decennio qualche balbettio
di autocoscienza da parte di volenterosi si è udito, con l’avvento di
“men’s studies” e di gruppi, per ora piccoli ma di belle speranze, che
promettono elaborazioni critiche del maschile. Per ora resta l’amara
constatazione della solare Isabel Allende che liquida così la questione,
per bocca della sagace Eva Luna: «È meglio essere maschio, perché anche
il maschio più miserando ha una moglie cui comandare».
Bastonati, Susan Paludi, Lyra Libri.
Diventare uomini, Robert Bly, Mondadori.
Riscoprire la mascolinità, Victor Seidler, Editori Riuniti.
* Direttora di Marea, trimestrale dei saperi delle donne (www.monicalanfranco.
it, www.mareaonline.it).
école numero 68 pagina 37

NUOVE BAMBINE E VECCHI
CONDIZIONAMENTI
Un libro che rimette all’ordine del giorno
l’esigenza di riflettere su questioni troppo
a lungo trascurate o date per risolte e
invita a riprendere la battaglia contro la
discriminazione di genere
STEFANO VITALE
Loredana Lipperini, Ancora dalla parte
delle bambine. Feltrinelli, Milano, 2007,
pp. 284, euro 15
Un libro, in fondo, atteso da anni: qualcosa che proseguisse il discorso
di rottura di Elena Gianini Belotti. Ci sono voluti oltre trent’anni,
anni in cui i contributi alla coscienza critica della nozione di “genere”
non sono certo mancati, in cui la riflessione sulla condizione della donna
(pur nella sua versione “politicamente corretta” delle pari opportunità)
ha proposto interessanti contributi. Ma qui siamo di fronte a qualcosa
d’importante. Quali sono i modelli delle “nuove” bambine? Quali sono
i condizionamenti sociali e culturali operanti? Cosa
propongono televisione, media, educazione?
Loredana Lipperini svolge un’accurata indagine «sulla persistenza e addirittura
sul rafforzamento dei condizionamenti culturali al ruolo di genere delle
bambine» che coinvolge non solo i “tradizionali” canali quali i libri per l’infanzia,
i testi scolastici, giornali, fumetti, pubblicità e televisione, ma anche
Internet coi suoi blog, forum, siti, diari on line, videogiochi.
L’autrice è una giornalista che sa muoversi con disinvoltura e con cura in
questa selva di esperienze e di media e con ricchezza di materiali e di dati,
con esempi ed analisi attualissime, ci mostra come malgrado le apparenze
le cose non siano cambiate.
L’immaginario delle bambine resta un terreno occupato, almeno nelle intenzioni
del “potere”, dagli stereotipi sessisti che inchiodano la donna ai suoi
ruoli tradizionali. Anzi c’è come una ulteriore “recrudescenza” ed estremizzazione
dei ruoli di fata e strega in un’esasperata pressione porno-sexy da
un lato e nel banale della quotidianità dall’altro lato. Le bambine devono
essere belle, truccate, in minigonna e col tanga, bambole sexy il cui destino
è sculettare felici accanto ad un calciatore, modelle, veline, ballerine. Ed ovviamente
madri, sia sfruttando le potenzialità della vita moderna che restando
ben salda al mito della “famiglia perfetta” dove la donna madre e cuoca.
Ma il libro non si contenta di ribadire il ruolo del condizionamento culturale, esso entra anche
nel merito dei necessari processi di decostruzione e di analisi dei linguaggi, fornisce dati
a partire da ricerche nazionali ed internazionali, tocca problemi specifici come la violenza,
l’anoressia, le separazioni ed i conflitti familiari ed anche la scuola. Questa continua ad essere
un luogo dove appare normale che siano le donne ad occuparsi di bambini, dove sono vive
logiche autosegregazioniste da parte delle donne insegnanti stesse, dove i testi scolastici, le
relazioni con le famiglie, l’accesso alle tecnologie, i giudizi di merito sui bambini e le bambine
sono ampiamente condizionati da stereotipi sessisti discriminanti per le bambine. La scuola
sembra essere ancora immobile, disattenta verso i possibili messaggi educativi “alternativi”,
persino i più evidenti. Oggi è palese che nel mondo reale sono sempre di più le donne che lavorano
fuori casa, ma di questo non c’è quasi traccia nei testi scolastici. È come se continuasse
ad operare una gigantesca rimozione che propone la donna come legata alla casa ed all’attività
domestica. Molto interessante anche il capitolo dedicato alla nuova letteratura per ragazzi.
Che come sappiamo ha visto la moltiplicazione di eroine al femminile (Ermione Granger, Peggy
Sue, le elfe del ciclo di Shannara, ecc, ma che restano rinchiuse tra i due poli di una visione
magica, “altra”, e la prigionia del sentimentalismo e della gentilezza del proprio cuore. Quando
potranno, si chiede l’autrice, finalmente fare uso della propria intelligenza? E della propria volontà
animata autonomamente sul piano etico, al di là degli obblighi e degli stereotipi sociali
diciamo noi pensando alla bellissima figura della Ronja della Astrid Lindgren?
il libro
école numero 68 pagina 38
Un’accurata indagine
«sulla persistenza
e addirittura sul
rafforzamento dei
condizionamenti
culturali al ruolo
di genere delle
bambine» che
coinvolge libri per
l’infanzia, testi
scolastici, giornali,
fumetti, pubblicità,
televisione, e
naturalmente
Internet coi suoi
blog, forum, siti, diari
on line, videogiochi

Franco Cambi, Gianfranco Staccioli (a
cura di), Il gioco in Occidente. Storia,
teorie, pratiche, Armando Editore, Roma
2007, pp. 240, euro 20
Non si pensi a un libro fazioso. Semplicemente il titolo racchiude
l’ambizione di proporre una riflessione la più completa possibile
sul fenomeno del gioco nella cultura occidentale. Anzi, direi
che l’obiettivo è proprio quello di far capire come l’interpretazione e
la funzione del gioco nella nostra cultura sia appunto una delle possibili
vie di espressione ed esperienza del gioco.
Tre sono i passaggi affrontati: la storia, la teoria,
la didattica. Nel primo viaggiamo dalla società
romana antica sino alla modernità postmoderna
passando per l’esperienza della borghesia
dal medioevo al romanticismo. Qui si assiste
come ad uno svaporare della dimensione materiale
del gioco: dapprima legato al concreto, al
territorio, alla cultura popolare
poi costretto nei limiti
della virtualità e della
simulazione. Interessante
il saggio di Beniamino Sidoti, sul gioco postmoderno
caratterizzato dalla frammentazione,
dalla limitatezza degli scambi, ma dai
tempi ristretti, “interinali”, dove il gruppo
non è più fisicamente presente, ma “a distanza”.
Molto interessante poi la sintesi sulle
teorie che partendo dai classici contributi di
Huizinga e Caillois sviluppa nuove prospettive
con Bateson, Parlebas, Bruner. Qui il gioco
è compreso all’interno della dimensione della comunicazione e
dei modelli relazionali che propone sviluppando una critica delle
pratiche ludiche di massa e delle visioni che assimilano il gioco al
ludiforme o a pratiche “lavorative” opportunistiche. Interessante
anche il contributo “il gioco tra reale e virtuale” di Luca Giuliano
che sviluppa un’attenta analisi dei labirinti informatici proponendo
il concetto di “gioco di ruolo come fantasia socialmente condivisa”.
L’ultima parte dedicata alle pratiche è un po’ sacrificata, ma
troviamo spunti interessanti sotto il profilo storico. Chiude il libro
una riflessione di Cambi sulla felicità ed il gioco: forse forzando
un po’ persino se stesso, si riallaccia a Marcuse (Eros e Civiltà) restituendo
al gioco la sua natura utopica di struttura che anticipa
e regola un orizzonte di vita più nobile ed umano.
Ricca la bibliografia con elementi di sitografia. Un utile strumento
di sintesi che ha il merito di sistematizzare ricerche e saperi.
[STEFANO VITALE]
libri
Lettere da Iwo Jima, DVD, regia di Clint
Eastwood, durata: h 2.22, USA 2007
(2006), euro 9
Il racconto, girato in giapponese (qui disponibile anche in italiano)
della storica battaglia di Iwo Jima, durante la seconda guerra
mondiale dal punto di vista delle truppe giapponesi. La pellicola
è intrisa di empatia per un popolo sconfitto
(con le due atomiche su Hiroshima e Nagasaki).
Filo conduttore le tante lettere di soldati ritrovate
molti anni dopo, mai giunte a destinazione.
In particolare, il film si sofferma sulla figura
del generale Kuribayashi. L’uomo che, costruendo
una fitta rete di cunicoli e caverne, riuscì a costruire
una strategia difensiva con la quale tenere
testa alla più numerosa armata statunitense.
Considerato un folle dai suoi colleghi, il militare
fu invece un protagonista della battaglia Girato
con un colore tenuissimo che è quasi un bianco
e nero, Lettere da Iwo Jima è un esempio di
cinema ricco di umanità ed emozioni, ma senza
evitare i grandi interrogativi e le grandi contraddizioni.
Lettere da Iwo Jima prosegue il discorso
sull’uomo e la guerra iniziato da Flags of Our Fathers, ma qui si abbandona
la riflessione a livello societario e si approfondisce quella
sull’uomo, così che non troviamo più le bandiere dei nostri padri,
bensì le lettere, simbolo dell’interiorità umana, delle sensazioni e
della emozioni più personali. È vero che il film è dominato dal senso
del dovere che regola le azioni dei personaggi, quell’istinto stoico
proprio dei giapponesi ma, secondo
Eastwood, la guerra fa venir fuori la volontà
di vivere che è propria dell’essere
umano e più il conflitto si fa avanti
più l’uomo si tira indietro, la volontà di
vivere insita in lui prende il sopravvento
e egli non lotta più per difendere la
patria, ma per difendere se stesso, perché
egli vive, lotta e muore in quanto
uomo. Emerge così la consapevolezza
dell’inutilità della guerra, in ogni caso
e condizione, che la vita vale più della
gloria, soprattutto per chi questa vita
la ama. Una lezione di cinema e di vita.
[STEFANO VITALE]
cinema
école numero 68 pagina 39

école numero 68 pagina 40
Anna Nacci, Jesce
Fore. Un anno di
musica e parole
a Rebibbia con il
Tarantola Rubra
Ensemble, Roma
2007, con CD e DVD,
euro 20
Durante il 2006 il Tarantola
Rubra Ensemble (gruppo composto da Anna Nacci, Vincenzo
Gagliani e Gianluca Casadei), ha condotto, all’interno del carcere
maschile di Rebibbia, un laboratorio
musicale che ha coinvolto una decina
di detenuti comuni con condanna
definitiva.
Il progetto è scaturito dalla convinzione
di Anna Nacci, sociologa e musicista,
che alcune musiche siano in
grado di smuovere nel profondo e
produrre cambiamenti
e relazioni.
Ecco quindi la
scelta di utilizzare
per le attività la pizzica che, con il suo ritmo catartico
e iterativo, suscita coinvolgimento e partecipazione.
Ben noto è, a questo proposito, il
suo potere terapeutico che la pone al centro di
rituali popolari di cura ormai ampiamente documentati.
In una situazione di isolamento affettivo
e relazionale come quella di un carcere le
emozioni rischiano di atrofizzarsi, portando all’inaridimento
delle persone e al vuoto relazionale.
Smuovere le emozioni, riscoprirle, riuscire ad
esternarle per rompere l’isolamento riuscendo ad ascoltare e a farsi
ascoltare era quindi l’ambizioso obiettivo dell’attività.
Il Tarantola Rubra Ensemble si è avvicinato con rispetto alla realtà
dei carcerati riuscendo a vincere l’iniziale diffidenza. Le persone si
sono quindi lasciate coinvolgere, mettersi realmente in gioco per
dare vita a un vero e proprio gruppo con tutto quello che questo
termine comporta sul piano relazionale, e affettivo.
Dall’attività iniziale di sottolineatura del ritmo della pizzica con
l’uso di tamburi si è passati
all’espressione delle
proprie sensazioni e delle
proprie emozioni attraverso
i ritmi e i suoni,
dando vita a improvvisazioni
solistiche e di gruppo.
La rabbia iniziale, il
sentimento più diffuso
ed evidente, ha quindi lasciato
il posto anche alla
nostalgia, al rimpianto,
all’affetto, all’amore.
L’attività è sfociata nella realizzazione di un CD con la collaborazione
di musicisti quali Marcello Colasurdo, Teresa De Sio, Gabin
Dabirè, Sud Sound Sistem e molti altri, che hanno tenuto laboratori
di una giornata nel carcere e partecipato alla registrazione finale.
Il CD Jesce fore − che viene ora diffuso insieme a un libro e
un DVD che testimoniano momenti significativi del percorso − contiene
quattordici tracce eseguite dal Tarantola Rubre Ensemble, dal
gruppo di musicisti coinvolti e dal gruppo dei detenuti. Può essere
richiesto attraverso il sito www.tarantularubra.it. [MARIATERESA
LIETTI]
musica
ANTONIO GRAMSCI A
70 ANNI DALLA MORTE
A settant’anni dalla morte
Antonio Gramsci (1891-
1937) è tra gli autori
italiani contemporanei
uno dei più tradotti,
grazie soprattutto a
Lettere dal carcere e,
ancor di più, a Quaderni
del carcere. Non
stupisce dunque che nel
2007, molte sono state
le iniziative organizzate
per ricordarlo
teatro
Tra le diverse iniziative il progetto
Gramsci 2007 (www.gramsci2007.it, tel.
02.20404193, nino@gramsci2007.it), è una di quelle
maggiormente articolate. È costituito da una
mostra interattiva I luoghi di Nino − realizzata da
Anna Bodini ed Elena Lahe, in collaborazione con
la Fondazione Istituto Gramsci, raccoglie materiale
storico e documentario,
immagini fotografiche,
riproduzioni di ritratti
realizzati da alcuni artisti
del ‘900 −; una esposizione
a carattere più divulgativo
Nino 7047; due libri
Appunti su Antonio
Gramsci, a cura di Roberto
Rampi, e Cena con Gramsci
che, tra l’altro, presenta il
testo dello spettacolo teatrale
omonimo.
Finalità dello spettacolo
è attualizzare le idee di
«un uomo politico. In realtà
un filosofo. O forse sarebbe
meglio dire una persona
di buon senso con
un vita molto sfortunata».
Ma Cena con Gramsci
(di Davide Daolmi, regia di
Andrea Lisco) è anche l’occasione
per aprire gli occhi
sull’impoverimento culturale
della società di oggi.
Attraverso una serie di vicende quotidiane della vita
di Jacopo, uno studente universitario laureando in
filosofia con una tesi sul pensiero di Gramsci, e delle
persone che incontra occasionalmente, vengono ripercorse
tutte le tappe della vita di Antonio Gramsci
e vengono narrate le sue lotte politiche e i suoi disagi
personali.
Lo spettacolo lo scorso anno è stato rappresentato
in molte città italiane. Chi volesse proporlo
a scuola può contattare l’Associazione Culturale
ArteVOX che lo ha prodotto (http://www.artevox.
it, cordialmente@artevox.it, tel. 02.3655336402 –
02.45477789). [CELESTE GROSSI]

CHE GENERE DI LIBRI?
Usciamo un po’ fuori dal
canone delle “buone letture”.
Parliamo dei libri cosiddetti
di genere, gialli, fantascienza,
fantasy, che poi sono quelli
letti dal gruppo più numeroso
delle nostre e dei nostri
studenti, nonché dal vasto
pubblico “non colto”
MARIA LETIZIA GROSSI
Una parte di essi sono scritti bene, curati
nella forma, con trame avvincenti, ritmo veloce,
chiari, non necessariamente superficiali.
Ad esempio il giallo “d’autore” spesso introduce
un ritratto e in certi casi un’analisi della nostra
società, che può mancare in libri rivolti interamente
all’intimo dei personaggi. La fantascienza
può parlare per via metaforica
di tematiche importanti
(mi vengono in mente i robot
in cerca di identità). Il fantasy,
come tutte le fiabe, può
toccare per simboli domande
profonde e mettere in scena
percorsi di maturazione. Una
peculiarità della letteratura di
genere è che permette, stando
all’interno di un campo assolutamente
delimitato e separato
dalla vita “normale” e di
regole narrative più precise e
specifiche, di staccarsi maggiormente dal quotidiano,
consente quindi un maggior spazio di sosta,
non a caso si parla di letteratura d’evasione.
Ma, come abbiamo visto, se si tratta di libri validi,
faranno comunque riferimento a situazioni e
domande “umane”, perciò reali. E, dal punto di
vista della scrittura dei ragazzi, risulteranno stimolanti,
perché avvicineranno alla pagina scritta
a partire da un immaginario che essi riconoscono
come proprio e non imposto dagli adulti.
Teniamo conto che si tratta comunque di libri
e che quindi, rispetto ad altri mezzi di comunicazione
di massa, magari dello stesso filone,
spingono a una fruizione almeno in parte attiva,
lasciano un’area evocativa, che permette a
lettrici e lettori di continuare da sé il percorso.
Lavorandoci in classe, soprattutto facendo scrivere
dei racconti nell’ambito di un determinato
genere, l’insegnante potrà far sì che i ragazzi si
rendano conto della possibilità di più livelli di
fruizione e che uno di questi livelli sia più consapevole,
critico. Si affinerà in questo modo, anche
da parte dei giovani, la capacità di selezionare,
nel genere letterario preferito, libri ben scritti,
non sfornati per meri fini commerciali, come
spesso succede per la letteratura di genere. Ma
anche materiali in partenza banali e omologati
possono essere rielaborati e caricarsi nell’immaginario
personale degli adolescenti di sentimenti
ed emozioni tutt’altro che banali.
script
SECOND LIFE E FORMAZIONE
Nel rimescolamento delle tecnologie per apprendere
si è affacciato un “nuovo mondo”: Second Life.
Tanti entusiasmi per ora, ma i risultati? A che
punto siamo? Quale valore aggiunto vero per il
mondo della formazione e dell’apprendimento?
Siamo propri sicuri che non si tratti dell’ennesimo
fenomeno tecnologico pronto ad
estinguersi alla prima luce del
sole?
EDOARDO CHIANURA
Dando un’occhiata qua e la e prestando orecchio
a diversi personaggi1 cerchiamo di scoprire
qualcosa che vada oltre i trionfalismi o i pregiudizi
del caso.
Chi per ora fa qualcosa di serio sono gli americani.
Per cui scrutandoli e partecipando ad alcune loro attività si scopre che in Second
Life è possibile non solo ascoltare, ma anche scambiare conoscenze
fra Avatar di tutti i tipi e di tutte le parti del mondo.
Dunque Second Life come “luogo” possibile. Nessun vantaggio rispetto
alle formule più tradizionali di condivisione della conoscenza,
ma solo un nuovo meccanismo in grado di veicolare maggiore
livello di conoscenza, agendo per sé e, in maniera più “diffusa”,
per il gruppo.
Più difficile è un software, un programma, un contenuto di una
lezione, più tempo è necessario per l’apprendimento ed essendo
Second Life un ambiente non semplice, dove le regole e le azioni
richieste all’utente possono confondere e promuovere l’abbandono,
risulta fattore deterrente per una certa parte della popolazione sia
per questioni di tempo reale, sia per disponibilità tecnologica (alcuni
Pc, con scheda video di risoluzione bassa, possono non accedere
per questo diventano importanti le diverse appartenenze geografiche
dei partecipanti).
In ogni caso Second Life diventa tentativo di sviluppo alla capacità di stimolare e
creare apprendimento, ruotando attorno alla più schietta sperimentazione e all’uso
della tridimensionalità2 .
Infatti se è vero che si intravedono alcune potenzialità, si fatica a renderle concrete.
Si prova, senza ancora conferme né smentite, di farne un “ambiente usuale” di
apprendimento, ma forse per ora «Second Life non
è una tecnologia per l’oggi ma per il domani» 3 .
web
Per finire un messaggio e un domanda espressi nel
convegno “Aspetti educativi ed artistici di Second
Life, Cutura ed e-learning” 4 :
Come Second Life e altri ambienti simili possano
modificare la qualità dell’apprendimento non
è dato per ora sapere. Ci sono supposizioni, alcune
anche molto interessanti, e sicuramente da osservare
5 . Indubbiamente però sarebbe fallimentare
credere (come già lo fu per l’e-learning) che basti
semplicemente trasporre le odierne modalità operative
nel virtuale tridimensionale.
Ma dunque a “processi nuovi” sono necessari “nuovi strumenti”? o per “strumenti
nuovi” si predispongono “nuovi processi”?
NOTE
1. talo Losero (http://www.secondlearning.it); Natascia Esedra (http://www.secondlearning.
it); Mario Gerosa (http://www.secondlearning.it).
2. http://www.linkomm.net/cmz493-2386-11553/portfolio/Second_Life/meteo_
tridimensionale_su_second_life/a.html
3. Andrea Benassi (http://www.secondlearning.it).
4. http://www.festivaldellacreativita.it/intoscana/export/documents/1193064961456_
second_life_festival_04.pdf.
5. Repertorio di università già operative in Second Life (http://www.avatarc.
com/2007/10/01/e-learning-secondlife.-che-tipo-di-rivoluzione%3F).
école numero 68 pagina 41

Risate intelligenti
STEFANO VITALE
Una risata vi seppellirà. Già, la potenza dell’umorismo non finisce mai di provocare scompiglio.
Ricordate le feroci polemiche e le minacce per le vignette su Maometto? E la solidarietà della
nostra Santa Chiesa? Oppure l’ostracismo mediatico di Berlusconi verso Luttazzi, Sabina Guzzanti
ed altri comici? Ricordo, tanto tempo fa, di una mostra di vignette pubblicate su di un giornale
russo, mi pare si chiamasse “Il coccodrillo”, che sbeffeggiavano il potere stalinista e la burocrazia
sovietica. Gusto dello sberleffo che ritroviamo, sempre per restare in terra russa,
in Alelksandr Ikonnikov col suo Ultime notizie dal letamaio (Guanda, 2004) dove
ogni racconto è una perla di saggezza ironica e disincantata, tagliente come un
bisturi e divertente come una bella barzelletta, Racconti come “La gamba” (che
ricorda Bulgakov) o ”Steppa” sono da leggere ai ragazzi. Una gamba amputata
di cui la polizia non riesce a disfarsi, un uomo che si addormenta col suo carico
di cetrioli in una cassa da morte per finire poi in manicomio: si sta dentro ad un
mondo surreale di personaggi irresistibili ed umanissimi.
Anche a casa nostra c’è qualcosa di buono. Penso a Stefano Benni che è proprio
nel racconto che dà forse il meglio di sé. Il bar sotto il mare (Feltrinelli, 1987)
ci regala racconti come “La storia di Pronto Soccorso e Beauty Case”, “Achille ed
Ettore”, “La chitarra magica” – chicche umoristiche da gustare nei reading coi ragazzi
cui ogni insegnante dovrebbe cimentarsi. Anche il suo ultimo libro La grammatica
di Dio (Feltrinelli, 2007) ci offre qualcosa: penso a “Boomerang” dove la
fedeltà di un cane distrugge la vita del padrone, a “Una rosa rossa” dove il vecchio
imprenditore prende in giro gli acquirenti con una storia strappalacrime gustossima,
a “Pari e patta” in cui due ricchi borghesi si rinfacciano i reciproci tradimenti,
ad “Orlando furioso d’amore” dove un uomo viene abbandonato dalla moglie per
un suo divertente e sonoro difetto. È
vero che poi non c’è molto altro: prevale
la tristezza e la solitudine un po’
ripetitiva e stanca.
Chi non stanca mai è Roald Dalh, un
maestro assoluto dell’ironia infantile,
della risata spregiudicata, anarchica,
grottesca ma illuminata. Tutti abbiamo amato
Le streghe, Matilde, Furbo il signor Volpe, La magica
medicina dove la trasformazione della cattiva nonna
è così divertente che leggerlo ad alta voce senza ridere
è impossibile. E possiamo anche amare Il vicario,
cari voi (Salani, 2007). In questo racconto il giovane
vicario è afflitto dalla dislessia ed i suoi discorsi sono
strampalati e divertenti. I parrocchiani sono costretti
a sentire prediche tutt’altro che religiose come se la
malattia permettesse all’inconscio di irrompere sulla
scena. Irridente senza offendere, allegro senza volgarità
Roal Dalh ci regala un esempio di letteratura umoristica
da usare come modello anche nello studio del
genere. Dove dovrebbe avere uno spazio anche il libro
L’incredibile storia di Lavinia (Einaudi, 1995) di Bianca
Pitzorno in cui la protagonista riesce a vendicarsi della
sua povertà e delle prepotenze altrui trasformando
in cacca, grazie ad un anello magico, tutto ciò che le
conviene per raggiungere i suoi scopi. Non mancano le
buone azioni (Lavinia salva un bambino da un incendio
trasformando in letame il fuoco), ma le situazioni sono
divertentissime perché la “grande innominabile” ben
presente nei discorsi dei bambini una volta tanto, come cantava De Andrè, fa nascere i fiori.
Ed un fiore nel deserto è Il bambino sottovuoto di Christine Nostlinger (Salani, 1989). Tutti abbiamo
desiderato in classe un “bambino perfettino”, ben addestrato, che risponda sempre a tono alle
attese degli adulti. Marius è così, ma la sua vita non è sempre facile. Kitty, la signora Bartolotti,
Egon il farmacista cercheranno di riequilibrare le cose, di peggiorare un po’ le sue buone maniere in
una girandola di situazioni divertenti e cariche di trepidazione. Una bella riflessione sugli stereotipi
della stessa infanzia, sui meccanismi di inclusione ed esclusione.
anni verdi
école numero 68 pagina 42
Illustrazioni di Quentin
Blake per Matilda e altri
personaggi di Roald
Dahl.

TEXT
LA FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI IN EUROPA
PINO PATRONCINI *
È molto importante parlare di formazione degli insegnanti in generale ed in
particolare è importante fare un confronto tra la situazione italiana e quella
europea. È importante soprattutto perché su queste questioni è facile pensare
di avere soluzioni a portata di mano e poi ripetere invece i soliti vecchi errori.
Magari convinti che così si vada incontro al consenso dell’opinione pubblica, in
un settore in cui, come dimostrano anche altre vicende (ad esempio gli esami di
riparazione), non è detto che valga il detto “vox populi vox dei”
FORMAZIONE LUNGA E FORMAZIONE BREVE
Si parla spesso di insegnanti impreparati, ma è già più difficile dire in che cosa consista la
presunta impreparazione. Se per impreparazione si intende mancanza di cultura, di percorsi di
formazione approssimativa o poco approfondita, non mi pare che questo sia il caso italiano.
Se formazione approfondita significa avere una laurea o una formazione lunga, non è proprio il
caso italiano. Se guardiamo soprattutto ai docenti laureati, storicamente l’Italia ha i percorsi
più lunghi e la più alta percentuale di laureati (con laurea quadriennale) nel corpo docente:
sono più di 400.000 docenti di media e secondaria superiore su circa 800.000 totali. Parlo qui
di coloro che sono diventati docenti prima della riforma universitaria e dell’introduzione della
laurea anche per la scuola elementare e non considero i maestri elementari che si sono laureati
senza che ciò fosse loro richiesto. Ebbene è soprattutto su questi docenti laureati della secondaria
che di solito si appuntano le critiche maggiori dell’opinione pubblica.
Al contrario risultano molto più amati i maestri elementari i quali (prima della riforma che ha
introdotto la laurea) non solo studiavano meno dei loro colleghi della secondaria e, quindi
a rigor di logica avrebbero dovuto essere “più ignoranti”, ma studiavano addirittura meno di
qualunque altro diplomato (4 anni anziché 5). Non solo: la scuola elementare italiana risulta
molto più buona nelle stime internazionali di altre scuole elementari di altri paesi e della
scuola secondaria italiana.
école numero 68 pagina 43

C’è però una “piccola” differenza tra le due categorie di insegnanti: i primi hanno frequentato
un corso lungo ma non rivolto all’insegnamento, i secondi uno più breve ma rivolto
all’insegnamento. Il che la dice lunga su quali sono stati i paradossi e le carenze della formazione
degli insegnanti nel nostro paese. Noi per anni abbiamo avuto contemporaneamente
la più breve formazione degli insegnanti d’Europa (la scuola e l’istituto magistrali)
e la più lunga formazione culturale di professori senza alcuna formazione professionale degli
stessi.
Negli stessi anni (1945-1995), per fare un esempio, un maestro francese poteva cominciare
a insegnare a 20 anni di età contro i 18 dei nostri, mentre un professore francese poteva
cominciare a 21-22 anni contro i nostri 23-24 anni.
E anche oggi (ma forse proprio per questa storia) quando si parla di formazione degli insegnanti
la mente corre più spesso alla formazione culturale, curricolare, disciplinare più che
a quella professionale. Tanto più che noi abbiamo mediamente anche una scuola secondaria
che comporta un anno in più di studi (finiamo a 19 anni laddove in metà dei paesi d’Europa
si finisce a 18). Sicché oggi siamo nella situazione paradossale per cui un insegnante
elementare esce come minimo a 23 anni e un docente di secondaria come minimo a 26
(SSIS comprese). Per fare sempre l’esempio della Francia, nell’uno e nell’altro caso si può
insegnare a 23 anni. Ma in altri paesi nell’elementare si può insegnare a 21 anni e nella secondaria
superiore a 22.
Questa era ed è ancora una delle cose che ci distingue dal resto d’Europa, ad onta della pretesa
scarsa preparazione dei nostri insegnanti.
LA SCUOLA MEDIA
La seconda cosa che ci distingue dall’Europa, o da una sua gran parte, riguarda la causa che
ha prodotto per almeno metà del personale docente il ricorso al personale laureato: personale
“di laurea lunga”, 4 anni in passato, 5 (3+2) oggi. Questa causa consiste nel fatto
che noi, anche se adesso le cose sono ufficialmente cambiate, consideriamo la scuola media
come scuola secondaria, mentre quasi ovunque, la scuola media è inserita nel ciclo primario.
Non solo: negli altri paesi la scuola media è di solito più lunga della nostra (4 o 5 anni
contro i nostri 3). Questo comporta che altrove le figure “propriamente laureate” lavorano
quasi esclusivamente con gli alunni che vanno dai 16 (talvolta dai 15) anni ai 18 o ai 19,
mentre da noi lavorano su un arco di età che va dagli 11 ai 19 anni.
Anche in Spagna e in Francia la scuola media appartiene al ciclo secondario, ma in Spagna
nei primi due anni insegnano i maestri ed anche in Francia lo han-
no fatto nel passato in almeno il 50% dei casi: fino al 1975 c’erano
in Francia prima 5 poi 3 tipologie di scuole medie, e in alcune
di queste insegnavano i maestri, non i professori (di questi oggi
ne restano in servizio ancora 10.000).
Questo fa sì che praticamente in quasi tutti i sistemi scolastici
degli altri paesi si siano avute finora e si abbiano tuttora due diversi
tipi di formazione: una per i docenti che lavorano con alunni
dai 6 (dai 2 o 3 considerando anche i docenti di scuola materna)
ai 16 anni di età, prevalentemente non universitaria o solamente
parauniversitaria (almeno per il passato), l’altra per i docenti
che lavorano con alunni dai 16 ai 18 - 19 anni, prevalentemente
universitaria.
FORMAZIONE CONSECUTIVA O FORMAZIONE SIMULTANEA
Abbiamo quindi in Europa due tipi di formazione a seconda del
grado di scuola. E questa è la prima distinzione interna alla formazione
europea.
La seconda distinzione, che riguarda entrambi i tipi di formazione,
è se questa è consecutiva o simultanea. Vale a dire: se gli aspetti
più propriamente professionali (pedagogia, didattica, metodologia,
tirocinio ecc.) sono successivi all’acquisizione dei contenuti
delle discipline (come le nostre SISS per intenderci) o se sono contemporanei.
Nella maggior parte dei casi la formazione professionale
è simultanea a quella disciplinare.
école numero 68 pagina 44
Siamo nella situazione
paradossale per cui un
insegnante elementare esce
come minimo a 23 anni e
un docente di secondaria
come minimo a 26 (SSIS
comprese). Per fare sempre
l’esempio della Francia,
nell’uno e nell’altro caso si
può insegnare a 23 anni. Ma
in altri paesi nell’elementare
si può insegnare a 21 anni e
nella secondaria superiore a
22. Questa era ed è ancora una
delle cose che ci distingue dal
resto d’Europa, ad onta della
pretesa scarsa preparazione
dei nostri insegnanti.
LA SCUOLA ELEMENTARE
La formazione per il ciclo primario è ovunque simultanea. Ma in
certi casi (Francia e in parte Irlanda e Regno Unito) il tirocinio
inizia solo verso la fine del corso.
È oggi prevalentemente universitaria, ma in alcuni casi è rimasta non universitaria, anche se
per accedere occorre comunque un diploma di scuola secondaria superiore (quindi è parauniversitaria
di fatto, terziaria comunque).
È ancora una formazione non universitaria in 10 paesi (di cui 9 dell’Unione Europea): Belgio,
Danimarca, Lussemburgo, Austria, Liechtenstein, Ungheria, Lituania, Polonia, Romania e
Bulgaria. Lituania. Polonia, Romania e Bulgaria hanno, però, anche corsi universitari.
Universitaria o no, questa formazione dura: TEXT

- 2 anni in Romania (solo nel percorso universitario);
- 3 anni in 10 paesi (di cui 9 dell’Unione Europea): Belgio, Spagna, Irlanda, Lussemburgo,
Austria, Islanda, Bulgaria (non universitaria), Lituania, Ungheria, Polonia (quella non universitaria);
- 3 anni e mezzo in Svezia;
- 4 anni in 13 nazioni tutte dell’Unione Europea: Danimarca, Grecia, Italia, Olanda,
Portogallo (in parte, primo ciclo elementare), Regno Unito, Bulgaria (universitaria),
Repubblica Ceca, Estonia, Lituania (universitaria), Slovenia, Slovacchia e Cipro:
- 5 anni in 6 nazioni UE): Francia (prima laurea + seconda laurea abilitante), Portogallo
(secondo ciclo elementare), Finlandia, Lettonia, Polonia (universitaria), Romania (non
universitaria);
- 5 anni e mezzo in Germania, di cui tre e mezzo all’università e gli altri due di solo tirocinio.
LA SCUOLA MEDIA (O CICLO INFERIORE DELLA SECONDARIA)
La scuola media spesso ha un trattamento di formazione identico o simile all’elementare
all’incirca nel 50% dei casi. In 10 paesi europei non differisce come durata dalla formazione
per la scuola elementare e non è escluso che in qualche caso sia pure lo stesso
insegnante.
A Cipro però è una formazione solo disciplinare senza tirocinio e in Grecia il tirocinio è
previsto solo negli ultimi due anni.
In Portogallo è in parte identica al ciclo superiore delle elementari (4 anni: perché i due
cicli nascono dalla divisione della vecchia scuola media).
In Finlandia, Islanda, Norvegia, Repubblica Ceca, Lituania e Slovenia cambia (in durata)
solo per una parte degli insegnanti (in genere un anno in più). Solo in Romania dura un
anno in meno ma, a differenza di quella per la scuola elementare, è esclusivamente universitaria.
Dura generalmente 4 anni; un po’ di più nei seguenti paesi:
- 4 anni e mezzo in Svezia;
- 5 anni in Spagna e Slovacchia;
- 5 anni e mezzo in Germania (per le scuole medie tecniche e professionali);
- 6 anni e mezzo in Lussemburgo (3 e mezzo disciplinari all’universitari più tre di tirocinio,
consecutivi dunque) e in Germania (per il Gymnasium) di cui 4 e mezzo di università
e due di solo tirocinio.
Le differenze che si vedono in alcuni paesi sono dovute o ad una forte autonomia scolastica
(Regno Unito, Olanda, Irlanda) o a una forte segmentazione scolastica (la Germania).
LA SECONDARIA SUPERIORE
Nella secondaria superiore la formazione è tutta universitaria
con qualche eccezione per gli insegnanti tecnici. In alcuni casi
non prevede tirocinio e vera e propria preparazione professionale.
È il caso di Bulgaria e Cipro.
È prevalentemente simultanea ma ci sono alcuni casi sequenziali:
Lussemburgo, Lichtenstein, Belgio, Islanda, Ungheria,
Islanda, Norvegia e in alcuni casi la Slovenia e l’Irlanda.
La durata dei corsi (comprensivi di università e, nei casi citati,
abilitazione o tirocinio) è la seguente:
- 4 anni in 9 nazioni di cui 8 UE: Grecia, Irlanda, Regno Unito,
Islanda, Cechia (in parte), Lituania (in parte), Romania,
Slovenia (in parte) e Cipro;
- 4 anni e mezzo in Svezia (in parte) e Slovenia (in parte);
- 5 anni in 15 nazioni di cui 14 dell’Unione Europea: Belgio,
Danimarca, Spagna, Olanda, Portogallo, Finlandia, Ungheria,
Polonia, Slovacchia e Lettonia e parzialmente in Svezia,
Norvegia, Repubblica Ceca, Estonia e Lituania;
- 5 anni e mezzo in Austria di cui gli ultimi 6 mesi di solo tirocinio;
- 6 anni e mezzo in Germania di cui 2 anni di solo tirocinio;
- 7 anni in Lussemburgo (3 di tirocinio) e in Norvegia (1 con
tirocinio).
Consideriamo la scuola media
come scuola secondaria, mentre
quasi ovunque, la scuola media è
inserita nel ciclo primario. Non
solo: negli altri paesi la scuola
media è di solito più lunga della
nostra (4 o 5 anni contro i nostri
3). Questo comporta che altrove
le figure “propriamente laureate”
lavorano quasi esclusivamente con
gli alunni che vanno dai 16 (talvolta
dai 15) anni ai 18 o ai 19, mentre
da noi lavorano su un arco di età
che va dagli 11 ai 19 anni.
IL RECLUTAMENTO
Il reclutamento per concorso per esami e titoli non è necessariamente la forma più diffusa,
men che meno quello nazionale. Certo non è la forma più diffusa nell’Europa occidentale.
Concorsi regionali si svolgono in Spagna. In Germania si tengono due esami: uno per accedere
al tirocinio e uno per accedere al ruolo vero e proprio. In Francia dove vige il sistema di una
laurea triennale più un biennio di formazione magistrale (IUFM) il concorso viene fatto per
passare da un anno all’altro della formazione magistrale. Nei paesi scandinavi le assunzioni avvengono
direttamente da parte degli enti locali. Altrove l’assunzione avviene direttamente da
parte della scuola (Olanda ma anche gli ultimi paesi aggregati all’Unione Europea).
école numero 68 pagina 45TEXT

I CONTENUTI DELLA FORMAZIONE
I contenuti della formazione per la scuola elementare (e materna) non sono
molto diversi dai nostri attuali. Di solito sono divisi in tre parti più o meno
bilanciate: una parte curricolare e disciplinare (tutte le discipline fondamentali);
una parte professionale pedagogica; una parte socio-psicologica.
Quelli per la scuola media in alcuni paesi sono invece molto diversi dai nostri.
In alcuni paesi nella scuola media ci sono docenti che pur specializzati
in una disciplina o in un ambito disciplinare, possono insegnare anche altre
cose. Per esempio:
- In Belgio gli insegnanti delle lingue nazionali, ma anche quelli di lingua
straniera, insegnano anche storia e geografia (fin qui niente di strano). Ma
poi possono insegnare anche biologia e religione. Gli insegnanti di matematica
insegnano anche fisica e biologia, ma possono insegnare anche geografia
e religione ecc.;
- In Germania si può insegnare matematica ed educazione fisica, lettere ed
economia, lingua straniera e storia ecc.
Per la scuola secondaria superiore invece la formazione è più specialistica.
In Francia addirittura si insegna un disciplina sola (è in corso un dibattito sulla
possibilità di insegnare discipline affini).
In Germania e Austria due materie ma non con i vincoli stretti delle nostre
classi di concorso.
La preparazione disciplinare e curricolare è più forte, e sono più frequenti i
casi in cui la formazione professionale è consecutiva. In alcuni casi (pochi)
non esiste neppure una preparazione professionale. In Spagna ed in altri paesi
è molto breve: sei mesi o un anno per preparare l’esame per il Certificato di
Attitudine Professionale (CAP).
STAGE E TIROCINI PER LA PRIMARIA
Quasi sempre la formazione prevede stage e tirocini, che vengono svolti presso
le scuole di ciascun paese sotto l’occhio di direttori, tutor o docenti dei corsi
di formazione. Questi periodi variano di anno in anno:
- in Belgio sono crescenti: da 2 settimane nel primo anno a 16 nel terzo (circa
metà anno scolastico)
- in Danimarca coprono 28 settimane nella materna e 12 nell’elementare;
- in Francia l’ultimo anno dello IUFM è dedicato al tirocinio;
- in Irlanda viene dedicato circa il 40% dell’orario;
- in Portogallo il 25%;
- in Olanda si fa complessivamente un anno di stage;
- in Germania 2 anni consecutivi;
- in Spagna due volte due mesi (4 mesi in tutto il percorso).
STAGE E TIROCINI PER LA SECONDARIA SUPERIORE
Nella secondaria superiore sono un po’ di meno di solito le
ore di tirocinio e in qualche caso non ci sono. Ci sono in
Belgio (minimo un anno, alla fine il candidato deve tenere
due lezioni); in Danimarca (minimo 120 ore); in Francia
(ultimo anno dello IUFM); in Irlanda (minimo 100 ore); in
Lussemburgo (5 trimestri); in Germania (2 anni). In Spagna
c’è una norma per cui se un insegnante ha un anno di precariato
non deve fare il CAP.
GLI INSEGNANTI TECNICI
Un’attenzione a parte meritano gli insegnanti tecnici. In alcuni
casi questi non sempre hanno titolo specifico ma solo
una esperienza professionale. È il caso di Belgio, Danimarca
e Regno Unito. In questi paesi, però, essi sono per lo più obbligati
a sottoporsi a corsi di abilitazione all’insegnamento.
Anche questo caso dimostra ciò che si diceva all’inizio: per
molti paesi non esiste un problema di concorrenza con i nostri
livelli culturali, semmai esiste un problema di maggior
preparazione pedagogico-didattica e professionale, che è ciò
che principalmente manca o è mancato finora ai nostri docenti.
* Dall’intervento che Pino Patroncini ha svolto a Roma il 5 ottobre
2007 al Seminario di approfondimento: “Imparare/ insegnare ad
insegnare. Come e dove formare i nuovi docenti”, organizzato dal
Gruppo di Rifondazione Comunista - Sinistra Europea del Senato del-
la Repubblica. TEXT
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I contenuti della formazione
per la scuola elementare (e
materna) non sono molto
diversi dai nostri. Di solito sono
divisi in tre parti più o meno
bilanciate: una parte curricolare
e disciplinare (tutte le discipline
fondamentali); una parte
professionale pedagogica; una
parte socio-psicologica.
Quelli per la scuola media in
alcuni paesi sono invece molto
diversi dai nostri.

abb.
2008
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trend
All’inaugurazione dell’anno
accademico delle Pontificie
università ecclesiastiche
non mi hanno invitato.
Mi fa specie.