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Ipertesto B – Periferie del mondo e globalizzazione - Sei

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<strong>Periferie</strong> <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>e <strong>globalizzazione</strong>ECONOMIA,DEMOGRAFIAE SOCIETÀIpErtEStOIl centro e la periferiaSecondo lo storico francese Fernand Brau<strong>del</strong>, perché un’economia di tipo capitalisticopossa svilupparsi appieno è necessario un vastissimo spazio geografico, caratterizzato dallapresenza di almeno tre aree, in stretto collegamento fra loro. Innanzi tutto, va ricordatoquello che Brau<strong>del</strong> chiama il «centro» <strong>del</strong>l’intero complesso (denominato, dallo stessoBrau<strong>del</strong>, «economia-<strong>mondo</strong>»); in passato, il centro era una città (come Venezia, nel Cinquecento,o come Amsterdam, nel <strong>Sei</strong>cento) verso la quale confluivano le merci più richiesteo più preziose, per poi essere redistribuite nei vari mercati. Oggi, in situazioni dimaggiore complessità, il centro è principalmente un grande polo finanziario, sede di unagrande Borsa, vero cuore pulsante <strong>del</strong>l’intero sistema economico.Intorno al centro si trovano poi – secondo Brau<strong>del</strong> – due fasce di territori, dislocate semprepiù lontano rispetto al centro stesso; mentre la fascia intermedia partecipa in modo significativo<strong>del</strong>la ricchezza <strong>del</strong> centro (con un fecondo e articolato gioco di importazioni ed esportazioni),la zona più periferica è sottosviluppata, cioè si caratterizza per il fatto di essere solo lagrande fornitrice di materie prime a basso costo, capaci di alimentare l’economia <strong>del</strong> centro.Quando Venezia era il centro di una complessa economia-<strong>mondo</strong>, vi affluivano i prodotti<strong>del</strong>l’Italia centro-settentrionale e <strong>del</strong>la Germania, terre che, a loro volta, erano gli acquirentiprivilegiati di quanto Venezia importava dall’Oriente (che Venezia, tuttavia, noncontrollava completamente, e quindi era già fuori dalla sua economia-<strong>mondo</strong>). La periferia,nel caso di Venezia, era rappresentata in primo luogo dalle sue isole nell’Egeo, già caratterizzatedalla monocoltura <strong>del</strong>la canna da zucchero o <strong>del</strong>la vigna, in quanto strettamenteasservite agli interessi dei grandi mercanti veneziani. Nel caso olandese, il meccanismoera analogo: mentre Amsterdam, intorno al 1650, era il nuovo centro, e l’interaEuropa occidentale era la fascia intermedia in diretto collegamento con esso, le grandi pianurepolacche produttrici di grano, le isole dei Caraibi produttrici di zucchero e alcuneisole orientali produttrici di spezie erano la sua estrema periferia.MODELLO TEORICO DI UN’ECONOMIA-MONDOIPERTESTO B1<strong>Periferie</strong> <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> e <strong>globalizzazione</strong>Trasforma le materieprime e distribuisceprodotti finitiCENTROI suoi abitanti godonodi un elevato livello dilibertà e di ricchezzaÈ in strettirapporti commercialicon il centroFASCIAINTERMEDIAI suoi abitanti vivonoin condizioni di libertàe ricchezza accettabiliFornisce materieprime al centroPERIFERIALa popolazione el’economia sono asservitealle esigenze <strong>del</strong> centroF.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012


IpErtEStO➔Londra e New YorkMan mano che ci si allontana dal centro, le condizioni di vita dei lavoratori tendono apeggiorare; utilizzando sempre un esempio relativo all’età moderna, possiamo dire che uncontadino o un lavoratore urbano olandese godeva di un regime alimentare molto più equilibratodi quello dei suoi equivalenti francesi o tedeschi: la sua maggior ricchezza e la disponibilitàpiù ampia di generi alimentari consentivano infatti una dieta sufficientemente variata.All’opposto, cioè all’estrema periferia, coloro che lavoravano per il centro <strong>del</strong>l’economia-<strong>mondo</strong>erano <strong>del</strong> tutto asserviti alle esigenze produttive olandesi e spietatamente sottoposti a esse.rispetto al sistema gravitante su Venezia, l’economia-<strong>mondo</strong> che ruotava intorno ad Amsterdampresentava una differenza fondamentale: le periferie olandesi erano molto più lontanenello spazio rispetto a quelle <strong>del</strong>la città lagunare, il che stava a significare che l’area occupatadall’economia-<strong>mondo</strong> egemonizzata dall’Olanda era molto più estesa di quella <strong>del</strong>l’economia-<strong>mondo</strong>veneziana. Nell’Ottocento, Londra e l’Inghilterra divennero il centro di uno spazioeconomico ancora più vasto, che comprendeva, come propria periferia, l’India, gran parte<strong>del</strong>l’Africa, <strong>del</strong>l’Asia e <strong>del</strong>l’America <strong>del</strong> Sud. Dopo la prima guerra mondiale, questo ruolocentrale fu assunto dagli Stati Uniti: la grande crisi <strong>del</strong> 1929 toccò tutto il <strong>mondo</strong> capitalistico,ma ebbe il suo atto iniziale nel collasso <strong>del</strong>la Borsa di Wall Street, a New York.UNITÀ XV2IL TEMPO DEL DISORDINESia in Africa sia inAmerica Latina, nellegrandi metropoli(nell’immagine unaveduta dei quartieripoveri di Lima,la capitale <strong>del</strong> Perù)le periferie sonodiventate estesiquartieri abitati inprevalenza da unamassa di diseredati, conun alto tassodi <strong>del</strong>inquenzae di mortalità.Africa e America Latina, periferiedegli Stati Unititrasferiti e applicati al Novecento, i concetti di economia-<strong>mondo</strong> e di periferia permettonodi capire, meglio di altre categorie interpretative, il posto specifico occupato nella storia<strong>del</strong> secolo scorso sia dal continente africano (e, più in particolare, dalle sue regioni nere,sub-sahariane), che dall’America Latina.Nel corso <strong>del</strong> Novecento, entrambi i continenti hanno registrato un cospicuo aumento<strong>del</strong>la popolazione; sia nell’America <strong>del</strong> Centro-Sud (negli anni Cinquanta e Sessanta),sia in Africa (negli anni Settanta), il tasso medio di incremento è stato a lungo <strong>del</strong> 3%.«Dai circa 60 milioni nel 1900 – scrive Manuel plana per l’America centro-meridionale– si è passati ai 360 milioni <strong>del</strong> 1980 e ai 570 milioni previsti per la fine degli anni Novantadalle proiezioni degli organismi internazionali, una crescita che appare in tutta lasua portata dirompente se si considera che nel corso <strong>del</strong> xIx secolo la popolazione latinoamericanaera poco più che raddoppiata mentre alla fine <strong>del</strong> Novecento essa sarà cresciutadieci volte rispetto all’inizio <strong>del</strong> secolo, con i relativi problemi sul piano <strong>del</strong>la strutturaeconomica e sociale».F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012


IpErtEStOUn’immagine chemeglio di mille parolechiarisce il concetto di<strong>globalizzazione</strong>: unanota bevanda vienetrasportata da alcuniambulanti africani inviaggio verso ilMozambico, atestimoniare cheil <strong>mondo</strong> è ormaidiventato un unicomercato universale.UNITÀ XV4IL TEMPO DEL DISORDINE➔Salari più bassie lavoro minorileè divenuta un fenomeno globale, che investe (e mantiene sotto il proprio controllo) tuttoil pianeta.Il termine <strong>globalizzazione</strong> serve proprio a indicare che, negli ultimi decenni <strong>del</strong> xx secolo,il <strong>mondo</strong> è diventato un unico ed enorme mercato universale. Il primo evidenterisultato di questo fenomeno è la presenza in tutti i paesi <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> degli stessi marchie dei medesimi prodotti: a Mosca, a rio de Janeiro e a tokyo, coma a Chicago o aparigi, è possibile utilizzare gli stessi software, vedere al cinema gli stessi film, bere la stessabevanda frizzante o mangiare i medesimi hamburger.D’altra parte, come ogni economia-<strong>mondo</strong> <strong>del</strong> passato, anche quella globale <strong>del</strong> xxI secolo hadei gravi risvolti. per ridurre i costi dei beni che smerciano in tutto il <strong>mondo</strong>, le grandi aziendemultinazionali (americane, giapponesi ed europee) tendono a decentrare la produzione,cioè impiantano filiali in paesi poveri e arretrati, in cui i lavoratori non godono né di pensionené di assistenza medica, e tanto meno sono tutelati da efficienti organizzazioni sindacali.In tali contesti spesso si riesce a sfruttare il lavoro minorile, severamente condannato inEuropa, in America e in Giappone. Oppure, è possibile inquinare l’ambiente in misura impensabilenei paesi industrializzati da tempo, ove l’opinione pubblica è molto sensibile alletematiche ecologiche e la legislazione obbliga le aziende a dotarsi di numerosi (e costosi) sistemidi prevenzione, per evitare intossicazioni dei lavoratori o vere e proprie catastrofi ecologiche(fuoriuscita di nubi tossiche, avvelenamento di fiumi ecc.).per questo motivo, il processo di <strong>globalizzazione</strong> è stato pesantemente criticato e avversatoda numerosi intellettuali e organizzazioni internazionali, che hanno sottolineato ilrischio di un aggravamento <strong>del</strong> divario economico tra il Nord <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>, ricco e industrializzato,e il Sud <strong>del</strong> pianeta, povero e sfruttato. Il primo vasto episodio di contestazione<strong>del</strong>la <strong>globalizzazione</strong> ebbe luogo nel 1999 a Seattle, negli Stati Uniti, quando idisordini scoppiati impedirono il regolare svolgimento di una conferenza internazionale,convocata per coordinare e regolare il commercio mondiale.proteste fortissime si sono verificate anche a Genova, nel luglio 2001, allorché la città italianaospitò l’incontro al vertice dei capi di Stato e di governo degli otto paesi economicamentepiù sviluppati <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> (i cosiddetti G8). In quell’occasione, gruppi di contestatoriviolenti compirono un gran numero di atti vandalici, distruggendo automobili,arredi urbani e vetrine di negozi. Nel corso <strong>del</strong>la guerriglia urbana che esplose e coinvolsediverse strade di Genova, uno dei contestatori violenti rimase ucciso da un carabiniere.Inoltre, preoccupata di riportare l’ordine a qualunque costo, la polizia colpì anchemolti manifestanti pacifici, che esercitavano il loro diritto di esprimere pubblicamente leproprie opinioni contrarie alla <strong>globalizzazione</strong>.F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012


Riferimenti storiografici1I problemi alimentari <strong>del</strong>l’AfricaLa popolazione africana, nel dopoguerra, aumentò a tassi sempre crescenti. Tuttavia, ai contadinifu consigliato di coltivare caffè, cacao, tabacco e altri prodotti destinati all’esportazione sui mercati deiPaesi capitalistici. Il risultato fu che i Paesi africani non poterono più soddisfare la domanda interna digeneri alimentari.Durante gli anni Settanta divenne evidente che, benché la stragrande maggioranza degliafricani di tutto il continente fossero agricoltori, sempre più paesi <strong>del</strong>l’Africa non riuscivanoa produrre alimenti sufficienti a nutrire la propria popolazione, e di conseguenza eranocostretti a spendere una parte dei proventi <strong>del</strong>le loro esportazioni in generi alimentari di importazione,diminuendo così, chiaramente, le loro possibilità di acquistare all’estero beni eservizi necessari ai loro programmi di sviluppo. Il motivo di base per cui ai paesi africani eraimpossibile produrre generi alimentari sufficienti era che, a partire da un certo periodo, la loropopolazione era aumentata a tassi sempre crescenti. Negli anni Settanta l’incremento naturale(cioè l’eccesso <strong>del</strong>le nascite sulle morti) in tutto il continente era di circa il 3% annuo.Un tasso così elevato dimostra che quasi ovunque ci si sarebbe potuti aspettare che le boccheda sfamare sarebbero raddoppiate in meno di un quarto di secolo. Questo avrebbe incisomolto meno sulla produzione alimentare in Africa se i programmi di sviluppo si fosseroconcentrati maggiormente sul miglioramento <strong>del</strong>la vita degli agricoltori, dotando le campagnedi migliori infrastrutture per l’istruzione, i servizi sanitari, gli approvvigionamenti di acquae altre cose di questo genere, e si fossero anche impegnati a incoraggiare la produzionee il miglioramento <strong>del</strong>la distribuzione di generi alimentari per il consumo interno. Ai contadinifu invece consigliato di coltivare quei raccolti che rendevano maggiormente nell’esportazione,e tra i prodotti africani più richiesti sui mercati mondiali vi erano il caffè, il cacao, iltè, il tabacco, il sisal ed il caucciù, che non potevano soddisfare la domanda interna di generialimentari. Come ci si rese conto, i guadagni ricavati dalle esportazioni dovevano es-Rifornimentialimentari italianigiungono sulla spiaggiadi Berbera in Somalianel 1986, per aiutareil Paese africanoduramente colpitoda una carestia inquel periodo.IpErtEStOIPERTESTO B5<strong>Periferie</strong> <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> e <strong>globalizzazione</strong>F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012


IpErtEStOUNITÀ XV6IL TEMPO DEL DISORDINEChe posto occupail fenomeno<strong>del</strong>l’urbanizzazione,in Africa, neldopoguerra?Quale fenomenonaturale intervennea complicare il giàdifficile quadrodemografico<strong>del</strong>l’Africa, a partiredal 1973?Le terribili condizionidi vita di alcune donnee bambini somalifotografati davanti allaloro abitazione.sere impiegati nei settori moderni <strong>del</strong>l’economia, nell’estrazione dei minerali richiesti sui mercatimondiali e soprattutto nello sviluppo <strong>del</strong>l’industria e nell’ampliamento <strong>del</strong>le città che ospitavanola manodopera e i servizi richiesti dall’industria e dal settore minerario. Non solo,quindi, si prestò un’attenzione, generalmente scarsa allo sviluppo rurale, ma la campagnae i contadini vennero tassati e sfruttati per ottenere mezzi necessari ad accrescere il settoreminerario, l’industria e le città.Mentre questi nuovi settori si sviluppavano, c’era sempre meno gente in grado di produrregeneri alimentari e sempre più persone che ne avevano bisogno. Dalle città fu sottrattolavoro alle campagne, dal momento che l’industria e le miniere offrivano salari relativamentepiù alti. [...] Nel breve periodo di trent’anni, dopo il 1945, il numero <strong>del</strong>le città africane conpiù di 100 000 abitanti crebbe da 49 a 120 e più. Era difficile trovare un solo paese che nonne avesse almeno una (e la Nigeria ne contava non meno di 32). Nel caso <strong>del</strong>l’Africa subsaharianafu calcolato che durante gli anni Sessanta e Settanta il numero <strong>del</strong>le persone chevivevano nelle città raddoppiasse, che nel 1980 più di un quinto <strong>del</strong>la popolazione abitassein città e che, se l’urbanizzazione fosse continuata a crescere a questa velocità, all’incircanegli anni Novanta ci si sarebbe potuti attendere che metà <strong>del</strong>la popolazione sarebbe vissutain città.Dal 1973 in poi, il problema di produrre alimentazione sufficiente a nutrire una popolazionein crescita e sempre più urbanizzata peggiorò molto, perché per alcuni anni le piogge,soprattutto nelle zone semidesertiche tra il 10 o ed il 30 o parallelo sia a nord che a sud <strong>del</strong>l’Equatorefurono molto inferiori alla media. Non vi furono raccolti e i pascoli si esaurirono,con il risultato che gli animali erbivori morivano o dovettero essere trasferiti in terre che finoa quel momento erano in grado di produrre raccolti o offrire un livello più alto di generi alimentari.Il risultato fu una serie di disastrose carestie, alle quali i paesi africani e i loro governinon poterono far fronte senza l’intervento di massicci aiuti stranieri. Essi mancavanodei fondi necessari per acquistare i generi alimentari in surplus prodotti dai paesi europei occidentalie dagli agricoltori nordamericani, e non possedevano i veicoli e l’organizzazione necessariaa distribuire una consistente quantità di cibo al grande numero di persone che finoa quel momento erano state autosufficienti. Prima morirono gli animali e poi milioni di persone,specialmente i malati, i giovanissimi o i più anziani. I sopravvissuti andarono ad aumentarela popolazione <strong>del</strong>le città o furono condotti nei campi-profughi, dotati di un minimoriparo o di servizi igienici di prima necessità, e qui poterono ricevere cibo e cure medicheofferte dagli enti di soccorso internazionali, in una quantità che si sperava fosse sufficienteper fare in modo che il maggior numero di persone possibile potesse sfuggire alla carestia,alle epidemie di diarrea infettiva, al morbillo, alla polmonite e alla tubercolosi che ad esse siaccompagnava.J.D. FAGE, Storia <strong>del</strong>l’Africa, SEI, torino 1995, pp. 490-494, a cura di A. BONOF.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012


2Caratteri <strong>del</strong>la <strong>globalizzazione</strong>La <strong>globalizzazione</strong> è un fenomeno complesso, emerso dopo la crisi dei sistemi comunisti in Cina ein URSS, che ha permesso la trasformazione <strong>del</strong>l’intero pianeta in un unico mercato globale. In secondoluogo, la <strong>globalizzazione</strong> è figlia <strong>del</strong>la rivoluzione informatica, che ha permesso il trasferimento didati, informazioni e denaro ad una velocità inconcepibile fino a pochi decenni fa.Il processo di <strong>globalizzazione</strong>, ovvero di un’internazionalizzazione <strong>del</strong>le relazioni economichetale da creare una «economia <strong>mondo</strong>», non era certamente un fatto nuovo e avevaanzi radici lontane, in quanto i suoi precedenti risalivano quanto meno all’epoca <strong>del</strong>legrandi scoperte geografiche. Ma era stato nel quarantennio precedente al 1914 che la <strong>globalizzazione</strong>aveva raggiunto un grado assai elevato di intensità e organicità. In seguito legrandi fratture che avevano caratterizzato le relazioni tra le grandi potenze tra la prima guerramondiale e il crollo <strong>del</strong>l’Unione Sovietica avevano reso impossibile lo sviluppo <strong>del</strong> processo,il quale dopo quest’ultimo evento aveva potuto riprendere il suo cammino. Senonché la <strong>globalizzazione</strong><strong>del</strong>l’ultimo decennio <strong>del</strong> Novecento ha poggiato su una serie di componenti chedavano a essa la sua tipicità e un’intensità in precedenza neppure pensabile, frutto <strong>del</strong>lacombinazione di fattori economici, tecnologici, sociali, politici e culturali <strong>del</strong> tutto nuovi, liberati,per così dire, dagli epocali mutamenti geo-politici. Occorre partire dal dato che tragli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta si assistette in tutti i Paesi sviluppati, con particolareintensità in America, a una forte riduzione <strong>del</strong> peso <strong>del</strong>la grande industria, soprattuttometalmeccanica e siderurgica e quindi anche di quello <strong>del</strong>la classe operaia, alla dilatazione<strong>del</strong> settore terziario [quei lavoratori impegnati non nell’agricoltura (settore primario,perché fornitore di cibo), non nell’industria (settore secondario, fornitore di beni di consumo),bensì nell’ambito <strong>del</strong>la fornitura di servizi, n.d.r.] (che nel 1995 comprendeva ormai negli StatiUniti oltre il 70% <strong>del</strong>la forza lavoro) e alla sempre maggiore automazione degli impianti. L’arretramento<strong>del</strong>la grande industria tradizionale, i cui cicli di vita erano in genere notevolmentelunghi, è andato di pari passo con la moltiplicazione di nuove imprese di piccole-medie dimensioni,basate su un tasso assai elevato di informatizzazione, tese a rispondere con rapiditàall’evoluzione <strong>del</strong>le tecnologie e alle richieste <strong>del</strong> mercato, destinate a nascere e a sparirespesso rapidamente, con la conseguenza di non assicurare più agli addetti un «lavoroper la vita», ma un’occupazione precaria.Tutto ciò si è accompagnato alla drastica diminuzione <strong>del</strong> ruolo <strong>del</strong>l’intervento nell’economia<strong>del</strong>lo Stato – che in molti Paesi specie europei aveva assunto la fisionomia diStato imprenditore – e a un ruolo corrispondentemente maggiore <strong>del</strong>la libera iniziativa. […]L’attacco si rivolse <strong>del</strong> pari contro il Welfare State, accusato di pesare in maniera insostenibilesulle finanze pubbliche e di abituare i suoi beneficiari all’inerzia e al parassitismo.Lo sviluppo<strong>del</strong>l’elettronicae <strong>del</strong>l’informaticaha contribuitonotevolmenteal processo di<strong>globalizzazione</strong>.IpErtEStOIPERTESTO B7<strong>Periferie</strong> <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> e <strong>globalizzazione</strong>F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012


IpErtEStOUNITÀ XV8IL TEMPO DEL DISORDINESpiega l’espressione«privatizzare almassimo l’economia».Che peso hanno gliStati, in un’economiasempre piùglobalizzata?Il benessere <strong>del</strong>le persone doveva essere invece affidato allo sviluppo spontaneo <strong>del</strong> mercatoe alle sue ricadute sull’insieme <strong>del</strong>la società. La <strong>globalizzazione</strong> trovò così la sua filosofianel neoliberismo conservatore. La parola d’ordine dominante divenne: privatizzareal massimo l’economia, smantellare mediante le liberalizzazioni la proprietà pubblica e ilsistema di dirigismo statalistico.La <strong>globalizzazione</strong> <strong>del</strong>la nostra epoca ha tra i suoi presupposti più importanti la rivoluzioneinformatica, la quale ha dato vita a una rete che avvolge il <strong>mondo</strong> intero. Le merci oggisi spostano da un continente all’altro con mezzi terrestri, navali e aerei che operano incessantementee sempre più fittamente; ma è la rete che rende possibile – in tempi pressochéimmediati – di trasmettere informazioni, far conoscere agli operatori finanziari e industriali quelche avviene in ogni luogo, muovere i capitali, investire o disinvestire, emettere direttive e comandi.Senza la rivoluzione informatica la <strong>globalizzazione</strong> non sarebbe stata tecnicamentepossibile e non avrebbe potuto assumere le proprie caratteristiche. Orbene, mentre gli ostacolidi spazio e di tempo all’interscambio globale venivano abbattuti dalla rivoluzione informaticasu un versante, l’ingresso a pieno titolo dei Paesi <strong>del</strong>l’ex-impero sovietico nell’area<strong>del</strong> capitalismo e quello <strong>del</strong>la Cina comunista nel mercato internazionale fecero cadere gliostacoli su un altro versante. […] La <strong>globalizzazione</strong> ha esaltato il potere dei maggiori centrifinanziari e industriali internazionali, lo ha collocato a un livello che ha reso via via più obsoletiil concetto e la realtà <strong>del</strong>le «economie nazionali» e ha dato luogo non soltanto a un«mercato globale», ma a un sistema globale, di cui le economie dei singoli Paesi costituiscono<strong>del</strong>le articolazioni, dei sottosistemi. Questi centri assumono essi in prima persona, aldi fuori di qualsivoglia legittimazione politica e democratica e mettendo in crisi la tradizionalesovranità degli Stati, le decisioni fondamentali circa la dislocazione, l’uso e le finalità diimmense risorse da cui dipende per tanta parte la vita dei popoli. A vedere pressoché annullatao quanto meno fortemente sminuita la propria sovranità sono soprattutto gli Stati piccolie medi. Oggi gli unici Stati in grado, se e quando lo vogliano, di resistere al potere <strong>del</strong>leoligarchie economiche sono i grandi Stati o le unioni di Stati: gli Stati Uniti, l’Unione europea,l’Unione Indiana e la Cina. Ma a tal proposito è da considerare che vi sono grandi Stati,come gli Stati Uniti, il Paese che è il più forte motore <strong>del</strong>la <strong>globalizzazione</strong> in quanto in essohanno sede i maggiori centri <strong>del</strong> potere economico mondiale, nel quale il connubio tra questicentri e il governo – è il caso tipico <strong>del</strong>l’amministrazione di G.W. Bush jr. – è arrivato alpunto da conferire ai primi il diretto controllo sul potere politico.M.L. SALVADOrI, Il <strong>mondo</strong> attuale e le sue contraddizioni, in La Storia. 15 Il <strong>mondo</strong> oggi,UtEt, torino 2004, pp. 18-223Globalizzazione: pro e controLa <strong>globalizzazione</strong> suscita grandi entusiasmi e altrettanto appassionati rifiuti. In realtà, si trattadi un fenomeno complesso, in cui i vantaggi e i problemi spesso si bilanciano, sia per regioni ricchecome l’Europa, sia per zone più povere come l’Asia. I veri esclusi dal processo sembrano i Paesiafricani, in cui l’emigrazione di massa pare l’ultima disperata risorsa per partecipare al benessere<strong>del</strong> resto <strong>del</strong> <strong>mondo</strong>.Se cerchiamo di definire il fenomeno attuale [la <strong>globalizzazione</strong> – n.d.r.], ci si accorgeche esso, almeno per un verso decisivo, ha una data di nascita che coincide con il crollo<strong>del</strong>l’Unione Sovietica. Venne in quel momento meno non solo un sistema politico e socialeche aveva marcato il secolo, ma un sistema economico che divideva il <strong>mondo</strong> in due mercatiben distinti. Da un lato la libera economia, dall’altro una pianificazione autoritaria, protezionisticae totalizzante in ogni settore, con prezzi e valori, compreso quello <strong>del</strong>la moneta,fissati non dal gioco <strong>del</strong>la domanda e <strong>del</strong>l’offerta ma dal potere amministrativo. Essoassicurava un pieno impiego improduttivo [garantiva l’assenza di disoccupazione, anchea costo di impiegare più lavoratori di quelli necessari, con ovvi risultati negativi per il bilancio<strong>del</strong>le aziende, tutte di Stato, n.d.r.] in un quadro di penuria permanente, di arretratezzatecnologica e di bassissimo tasso di sviluppo, con l’eccezione <strong>del</strong>l’industria pesantelegata agli armamenti. Gli scambi tra le due aree erano sostanzialmente regolati da accordipolitico-diplomatici. Alla fine il confronto divenne devastante per l’Est che crollò su sestesso, non per impulso esterno. Il sistema protezionistico-autoritario aveva, peraltro, fattoproseliti anche in molti paesi ex coloniali che si illusero di salvaguardare, mimando glischemi <strong>del</strong> socialismo reale, le proprie imprese e produzioni dalla concorrenza e dalle importazioni.Così facendo aggravarono, però, ancor più le condizioni di sottosviluppo. Gliossessionati critici <strong>del</strong>la <strong>globalizzazione</strong> non si rendono neppure conto che il rifiuto da essiproclamato <strong>del</strong>la libera economia di mercato – piena di difetti e non esente da crisi, ep-F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012


pur riproduttrice di continue potenzialità – avrebbe un solo logico sbocco: la riesumazionedi un sistema chiuso, autoritario, statalista, protezionistico, già ampiamente verificato neisuoi esiti disastrosi. La fine dei due mercati è, peraltro, solo uno dei presupposti <strong>del</strong>l’odierna<strong>globalizzazione</strong>. Essa ha assunto la dinamica dirompente che conosciamo in coincidenzacon un’altra di quelle casualità che la storia imprevedibilmente offre: la rivoluzioneinformatica che, attraverso il computer, Internet e quant’altro le nuove tecnologie offrono,ha unificato il <strong>mondo</strong> in tempo reale. Informazioni, notizie, capitali, saperi, comunicazioniindividuali e collettive, tutto si muove da un capo all’altro <strong>del</strong>la terra nello spazio temporaledi pochi impulsi elettronici.Gli effetti sono stati molteplici e in questo spazio non è possibile neppure catalogarli. Neelenco schematicamente i tre che mi paiono prioritari.1. La libera circolazione non solo dei capitali ma dei più vari strumenti finanziari ha assuntovelocità e dimensioni esponenziali mai verificatesi nel passato. La ricchezza si è moltiplicata,anche se con fortissimi squilibri e crisi tipiche dei periodi di decollo economico, quando la rapidità<strong>del</strong>l’indebitamento supera quella <strong>del</strong> rientro dei capitali investiti e degli interessi corrisposti[alle banche, n.d.r.] per le nuove allocazioni [i campi in cui i capitali presi a credito sono statiinvestiti, n.d.r.]. Ciò non ha impedito la dislocazione diffusissima di un’industrializzazioneavanzata e di reti finanziarie in zone <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> un tempo arcaiche o marginali.2. L’incrocio dei fattori sopra esposti,con la disponibilità di una manodoperaa costi bassi ma capace di rapido apprendimentotecnologico, ha dato allosviluppo di una parte <strong>del</strong> Terzo <strong>mondo</strong>caratteri <strong>del</strong> tutto imprevedibili. L’India,la Cina e quasi tutti i paesi asiatici,dalle Filippine alla Thailandia, sono diventaticoncorrenti diretti <strong>del</strong> Primo<strong>mondo</strong> anche in molte produzioni tecnologicamenteavanzate (basti pensarealla capacità informatica <strong>del</strong>l’India)oltre che in quelle tradizionali.L’approdo insperato al mercato mondialee alla concorrenza ha provocatofenomeni di disoccupazione neisettori statalmente protetti (ad esempioin Cina) ma ha contemporaneamentefavorito la creazione di milionidi nuovi posti di lavoro, anche sesottopagati in rapporto all’Occidentee privi di Welfare [di assistenza pubblica,n.d.r.].3. I paesi <strong>del</strong> Terzo Mondo, soprattuttoquelli africani, rimasti ai margini <strong>del</strong>la mondializzazione e <strong>del</strong>la rivoluzione informaticarisultano ancor più arretrati e impoveriti. Nessun aiuto sarà sufficiente al loro decollosenza il loro pieno inserimento nel mercato globale. Per ora esso si è verificato solo con l’accentuazione<strong>del</strong>la spinta migratoria verso l’Europa e gli Stati Uniti, resa più intensa a attrattivaproprio dal diffondersi <strong>del</strong>l’informazione e dal miraggio di mo<strong>del</strong>li di vita, percepibili attraversoi mass media in ogni parte <strong>del</strong> globo.Da questo quadro discende il paradosso di un movimento no-global che ha il suo fulcronei paesi avanzati, e ignora le ragioni di miliardi di esseri umani in marcia, faticosa maprorompente, verso la modernità. […] Questo spiega perché la protesta che ha incendiatole strade vada in scena in primo luogo sui palcoscenici <strong>del</strong>l’uomo bianco (da Seattle a Göteborg,da Salisburgo a Genova) e non sembri per ora sfiorare le metropoli e le campagnedegli altri continenti, da dove, se mai, arrivano richieste di più <strong>globalizzazione</strong>, nel senso dimaggiori investimenti, nuovi prestiti, più larghe possibilità di emigrazione.M. pIrANI, È scoppiata la terza guerra mondiale? Le democrazie tra pacifismo e difesa,Mondadori, Milano 2004, pp. 275-279Una manifestazione<strong>del</strong> movimentono global.IpErtEStOIPERTESTO B9<strong>Periferie</strong> <strong>del</strong> <strong>mondo</strong> e <strong>globalizzazione</strong>Spiega l’espressione «sistema protezionistico-autoritario», usata per descrivere il sistemasovietico.Spiega l’affermazione secondo cui la libera economia di mercato è «piena di difetti e non esenteda crisi, eppur riproduttrice di continue potenzialità».F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012

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