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SAPERIeSAPORIQuella del trinciare le carni è un’arte chepoggia su un’antica tradizione, cometestimoniano diversi trattati che a partire dalXVI secolo ne illustrano la tecnica e gli strumentiC’era una voltalo scalcodi Eugenio Medagliani6|For English text see page 76Qui sotto:alcune pagine del trattato“Il Trinciante”(1581)di Vincenzo Cervio.La parola scalco deriva dal gotico skalker(servo) ed è entrata nell’uso intorno al Trecento,quando designava la persona addettaa scalcare - ossia, a trinciare (tagliare) - lecarni, cucinate alla presenza dei convitati oppurein un ambiente di servizio detto scalcheria.Successivamente, nel XIV secolo, alloscalco fu dato il compito di soprintendereai servizi di cucina e della tavola.La mansione di trinciare le carni passòcosì al trinciante che, con lo scalco e il bottigliere,era considerato uno dei “tre principalidella bocca", benché allo scalco spettassesempre la parte di maggior responsabilità,tanto da essere elevato al grado di maestrodi casa e dignitario di corte.Sebbene l’arte del trinciare sia più antica,i primi testi che parlano della nobilearte del Trinciante risalgono al XVI secolo.In proposito, si citano la prima rarissimaedizione del Colle 1520 per passare poial più noto Cervio 1581, all’Evitascandolo1609, al Giegher 1621, al Molinari e alFrugoli. Di quest’ultimo, lucchese di nascita,vissuto tra il XVI e XVII secolo, è pervenutoun voluminoso trattato, Pratica e scalcarla(Roma 1631) che costituisce, tra l’altro,una nutrita enciclopedia del sapere gastronomicoche non ha rivali nel Seicento.Il Trinciante era un personaggio dinon umili natali che, alle mense diPrincipi e Signori, si occupava di tagliaregrossi pezzi di vivande, secondo regole assaiprecise tramandate da un’antica tradizionee da molteplici esperienze. Era suocompito la scelta dei bocconi migliori destinatial suo signore e agli invitati più importanti.Il già citato Evitascandolo, nel suoDialogo del Trinciante enumera diversi pregie qualità che deve possedere colui cheeserciti questi offici: “Per prima cosa dev’essergiovine, di bella presenza, ben vestito, di naturalgrazia, veloce nel servizio, pulito”. Deve essereanche forte e robusto, perché “fatica assaie avere un gallo d’India (tacchino) sopra laforcina (forchettone), e non posarlo sin tanto cheabbia finito di servire chi deve”.Era seguita, a quei tempi, l’altissimascuola del “Trinciante all’<strong>Italiana</strong>” che,tenendo sospeso nell’aria con l’appositaforchetta, un grosso pezzo di carne, un volatileintero o un pesce di notevole dimensioneoperava, con un coltello idoneo allo scopo,in modo da tagliare il pezzo secondo i dettamidell’antica arte, senza mai appoggiarsiné su un vassoio né su un tagliere.Il Trinciante portava al fianco lo spadinoche testimoniava l’importanza dellasua persona e di un’arte che non era servile.Si era abituato ad assumere il dignitosocomportamento e il gestire elegante, necessariper recitare la sua parte nella granderappresentazione scenica del banchettocinquecentesco. Aveva imparato, su testi specializzati,come tener fermi pezzi di carne oanimali interi da tranciare e da servire, i colpiprecisi e sicuri con i quali staccare i bocconi,secondo linee predeterminate che variavanoa seconda dei diversi animali.Il Trinciante aveva a disposizioneuna serie di ferri che, secondo l’Evitascandolo,doveva essere composta da seicoltelli, cinque forcine e un cucchiaio.Il Cervio, nel suo trattato, arriva addiritturaa indicare di quale tempra e di quale formadebbano essere forcine e coltelli, poichéogni vivanda richiede, per essere afferrata,di forcine con i denti più o menosottili.Oggi, per trinciare in sala, occorre chiederel’intervento del cuoco, pochissimi camerierie maîtres sono in grado di trinciareun carré, un cosciotto d’agnello o di sporzionareun grosso pesce davanti al cliente.Demerito, forse, del servizio al piatto che haridotto il compito di questi professionisti aquello di semplici “portapiatti”.

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