Ottobre 2001 - Ordine dei Giornalisti

Ottobre 2001 - Ordine dei Giornalisti Ottobre 2001 - Ordine dei Giornalisti

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I N O S T R I L U T T ICarlo Bo1911- 2001Carlo Bo giornalista,di Emilio PozziCarlo Bo giornalista: ecco un aspetto marginalema non minore della sua personalità. Èin questo contesto che lo voglio ricordare, sulfilo della memoria mia e di quella di EnricoMascilli Migliorini, che ha vissuto, accanto alDuca di Montefeltro, un bel gruzzolo di anni.Su questo tema, accantonando quelli specificamentelegati alla letteratura e all’Università,i nostri ricordi si sono incrociati, sovrapposti,completati, in una lunga conversazionetelefonica fra Milano e Napoli, costruendo,tra fatti, impressioni, battute, sensazioni,un ritratto, in dimensione giornalistica, di unotra i più significativi personaggi della societàitaliana degli ultimi sessant’anni. Carlo Boera iscritto all’Albo professionale, comepubblicista dal 1° ottobre 1946.Con Mascilli ci siamo trovati d’accordo subitosu una premessa deontologica: la tolleranza.Concettualmente era un cattolico liberale,diceva di sé “sono un aspirante cristiano”. Esubito dopo la tolleranza, l’umiltà, per quantoriguardava gli articoli per i giornali. Peculiaritàche consideriamo sempre, oltre la curiosità,il senso dell’attualità e l’attenzione perl’individuo, tra le doti principali di un buongiornalista. Era anche un divoratore di giornali.La mattina per Bo, a Urbino, cominciavacon il barbiere e la mazzetta dei giornali cheil buon Paolo Bigonzi, per anni, non gli hamai fatto mancare.Ovviamente al giornalismo, come professione,preferiva l’Università.Ricorda Mascilli: “Quando dalla direzionedella Sede Rai di Ancona fui trasferito a quelladi Firenze, andai a trovarlo per comunicargliche ritenevo di dover lasciare l’incaricouniversitario al quale ero stato chiamato treanni prima. Mi guardò con severità e,puntandomi minacciosamente il sigaro dirittoaddosso, sentenziò: ‘Un incarico universitarionon si lascia mai’. E così fu che, qualcheanno dopo lasciai la Rai e misi solide radicia Urbino”. E a tal proposito Mascilli Migliorinitiene a sottolineare come nei lunghi annidurante i quali ebbe la ventura di collaborarecon Carlo Bo, anche nelle specifiche funzionidi preside della facoltà di Sociologia e didirettore delle Scuole di giornalismo ‘nonebbi mai da lui un minimo accenno di richiestavolto a conoscere quale fosse l’orientamentopolitico di un qualsiasi candidato perl’insegnamento a Urbino bensì soltantodomande precise e rigorose che esigevanoaltrettanto precise, rigorose e documentaterisposte sulle effettive capacità culturali,professionali e didattiche. Per me che provenivodalla Rai, fu come vivere un’esperienzaviva e vitale che si configurò tra i motivi chemi legarono, per oltre trent’anni all’Uomo,alla sua eccezionale personalità e di conseguenzaalla istituzione universitaria urbinate.Bo non aveva però una visione corporativadel mondo universitario. Chi volesse ripercorrerein modo analitico la storia del giornalismoitaliano in due iniziative significative lotroverà protagonista.La prima: la nascita del primo Istituto superioredi studi giornalistici, nell’ambito degliindirizzi professionali attivati nella sedeuniversitaria.Dell’idea erano appassionati promotori ilprofessor Aldo Testa, autorevole docente aUrbino, il segretario del sindacato giornalistiinterregionale Emilia-Romagna MarcheAngiolo Berti, il generosissimo collegaGiuseppe Zeccaroni e l’allora presidentedella Federazione della Stampa LeonardoAzzarita.Il progetto era ambizioso: creare un corsoregolare di studi superiori rivolto a chi volesseintraprendere la professione giornalistica.Sulla formazione culturale e professionaledei giornalisti si era discusso animatamenteanche in sede di Commissione per la stesuradella nuova legge sulla stampa, il dibattitoera rimbalzato nell’aula di Montecitorio, insede di Costituente, quando si era affrontatol’articolo 21 della Costituzione, entrata invigore il 1 gennaio 1948. Il dibattito era poiproseguito, anche in campo sindacale o sullepagine dei giornali, nel confronto degliopinionisti. C’era chi era contrario alle scuole,perché sosteneva l’idea che giornalisti sidiventa sul campo, con la pratica, allevati neigiornali dai colleghi più anziani, altri temevanoil ripetersi dell’infelice esperimento dellascuola di Giornalismo, realizzata a Perugia,per breve tempo attorno agli anni Trenta, inpieno fascismo da Ermanno Amicucci (e cheebbe come motore un eccellente professionistacome Carlo Barbieri), con la nascita di‘fabbriche’ di giornalisti indottrinati, tuttateoria e niente pratica; altri ancora ritenevanoche avrebbero messo in pericolo un liberomercato. Erano momenti difficili per laprofessione. Soffiavano venti da ogni puntocardinale.Quella scuola con percorso parauniversitarioperò si fece, la Convenzione fra Università eCarlo Boè mortoin unaclinicadi Genova il21 luglioscorso.Era natoa SestriLevanteil 2 gennaio1911.(FotoOlympiadi GiovanniGiovannetti)Federazione della stampa fu firmata nel1949, e rimase in piedi (e lo è tuttora,frequentata, in particolare da studenti greci)ma senza sbocchi ufficiali. Con la nascitadell’Ordine dei giornalisti nel 1963 e con lacreazione delle Scuole biennali, a numerochiuso, riconosciute dall’Ordine, ed una èproprio a Urbino - e anche in questo casoanticipando i tempi della attuale riforma,l’università fu tra gli enti promotori, con lapossibilità dell’accesso dopo il praticantatoall’esame di Stato, quell’Istituto rimane comeun fiore all’occhiello, testimonianza di unafelice intuizione.La seconda. Sul piano delle iniziative giornalistiche,tuttavia, Carlo Bo, diede ancora unavolta il segno di intelligente conoscenza deiproblemi professionali, allorché alla fine deglianni Settanta, accolse di buon grado lapromozione di stages, brevi ma intensi, per igiovani colleghi che stavano per affrontarel’esame a Roma. Avevano sì completato20 (28) ORDINE 8 2001

ancheUn ricordonel segnodella didatticaA 40 giorni dalla morte, giovedì 30 agosto, allafacoltà di Sociologia di Urbino, durante il corsoestivo tenuto dal professor Vittorio Paolucci(docente di storia del giornalismo) si è tenuto unaffollatissimo seminario durante il quale è statapassata in rassegna la stampa italiana dei giorniimmediatamente successivi alla scomparsa diCarlo Bo per esaminare che cosa, quanto ecome era stato scritto su di lui. Il seminario èdiventato così una utile esercitazione didattica.La verità della letteraturadi Matteo ColluraORDINE 8 2001formalmente i rituali diciotto mesi di praticanei giornali, ma, quasi sempre, senza la rotazionenei previsti tre settori di lavoro e senzaun minimo di preparazione in alcune materiepreviste dall’esame.All’idea lavorammo sul piano progettuale eorganizzativo, il Presidente dell’OrdineBarbati e il direttore Viali, il professor MascilliMigliorini e il direttore amministrativo dell’UniversitàRossi e io. Al primo stage, svoltosinelle aule universitarie per una settimana,con prova finale simulata, parteciparonoaspiranti professionisti in parecchie centinaia:erano ospiti nei collegi universitari, inperiodi meno occupati dagli studenti, in unacornice ambientale e paesaggistica, almenoserena. L’esperienza fu altamente positiva eservì da esempio per iniziative simili, oggi, avent’anni, entrate nella routine e gestite siadirettamente dall’Ordine nazionale che dataluni Ordini interregionali e regionali.Come collaboratore di quotidiani (La Stampaprima e il Corriere della Sera poi) i suoi articolisia quelli destinati alle pagine letterarie(ah, la nostalgia per gli elzeviri della terzapagina) sia quelli a commento di fatti dibruciante attualità, di solito in corsivo, inprima pagina, erano esemplari. Nell’umiltàartigianale. Lo posso testimoniare in primapersona. Un grande avvenimento, tra i piùpalpitanti della società, suggerisce alla direzionedel Corriere di chiedergli un commento.Bo accetta. Deposta la cornetta del telefono,tira qualche boccata di sigaro e si mette ascrivere. A mano, su quei blocchi che unavolta venivano usati dagli stenografi. Unagrafia minuscola, ma chiara. Poche le cancellature,pochissime le correzioni. Riecco iltelefono. Dall’altra parte c’è il dimafonista.Carlo Bo detta personalmente, la voce èmeno esile del solito, rigoroso nella punteggiatura,improvvisando, del caso, qualchepiccola correzione al manoscritto, una parola,un aggettivo. Il testo è appoggiato sulleginocchia perché in una mano c’è la cornetta,nell’altra l’inseparabile sigaro. Mormoraun saluto, impercettibile, alla fine. E riprendela conversazione con l’interlocutore che hadi fronte, scusandosi per l’interruzione.La parentesi giornalistica è chiusa. L’indomanile sue riflessioni, sempre limpide, illuminantie coraggiose, faranno discutere. Glialtri. Così come negli anni furono gli scritticorsari di Pierpaolo Pasolini, di GiovanniTestori.Fino a poche ore prima della morte Bo haseguito, guardando la tv, nella stanza dellaclinica genovese, quello che stava succedendo,a pochi passi da lui. Il suo commentosu Genova non ci sarà nel volume che raccoglierài suoi articoli di prima pagina.Ecco, quasi un’idea, per ricordarlo comegiornalista, al di là di tutte le iniziative chesaranno prese per onorarlo a Urbino, a Milano,a Sestri Levante, a Genova, a Roma, edei volumi, già pubblicati (Sergio Pautasso èstato il curatore di una Antologia criticapreziosa) o in progetto.Una volta, mentre lo intervistavo nel decimoanniversario della morte di un caro amico,suo e mio, Diego Fabbri, per una pubblicazioneche si stava preparando per l’occasione,mi disse: “Solo se di una persona, scrittoreo no, ci si ricorda dieci anni dopo lamorte, vuol dire che ha contato qualcosa”.Sono convinto che, nel 2011, Carlo Bo saràricordato per almeno uno dei suoi meriti. Adesempio essere stato, in pieno fascismo, ilprimo traduttore in italiano di Federico GarciaLorca, “voce eterna che si spegne al di là deinostri confini”.P.S. - Ogni volta che ripenso a Bo non riescoad immaginarlo senza il suo sigaro. Nonsembri irriverente questo piccolo, affettuosopensiero: prima di entrare in Paradiso si saràgarantito che l’avrebbero lasciato fumare,per ricompensarlo di tutte le volte che, incerte circostanze umane, era stato costrettoa spegnerlo?“Letteratura come vita”: così Carlo Bo, alloraventisettenne, nel 1938 definì la sua ideadi letteratura; un’idea alla quale sarebberimasto sempre fedele. E dunque: non unasorta di slogan per lanciare, allora, la nuovapoetica dell’ermetismo, ma l’affermazionedi una condizione, di un modo di esserescrittore nella società. Non è soltanto unaquestione di etica, che in uno studioso dallareligiosità dichiarata e conclamata come Boè persino ovvia; è un modo di intendere la scrittura, l’attostesso dello scrivere, come atto morale.Per questo, all’indomani della sua morte, Carlo Bo puòapparire un reperto, ancorché illustre e autorevole, di un’epocalontanissima e alle nuove generazioni assolutamenteestraneo. Del resto, lui ne aveva piena consapevolezza. “Laletteratura è diventata una sorta di spettacolo, come la politica”,aveva detto in una delle sue ultime confessioni inpubblico. E non aveva perso l’occasione per criticare ancorauna volta la superficialità del dibattito culturale cui gli eradato assistere nella fase conclusiva della sua vita; un dibattitoin cui le idee – l’espressione non è sua, ma credo eglil’avrebbe condivisa – vengono usate come si fa per i trasferibilio nella compilazione degli slogan. “Siamo ormai abituatia dire tutto subito. Il diario potrebbe essere un rifugio, undeposito per lo scrittore. È un’ipotesi, una speranza”, avevaaggiunto, per poi spiegare: “Il diario come antidoto alla dissipazione,per dare un maggior risalto di verità a ciò che unoè e pensa, per opporsi a questo andazzo di pubblicizzaretutto e immediatamente e alla fine insensatamente, perchénon resta nulla”.Proprio per questo, per combattere contro la superficialitàdel pensiero e contro la dissipazione delle intelligenze, CarloBo, da giovane, tenne un diario che pubblicò nel 1945.Diario aperto e chiuso, s’intitola ed è lì a testimoniare della“dissipazione” cui neanche lui umanamente seppe sottrarsi;è lì, a dare conto del suo contraddittorio (essendo egli unintellettuale cattolico) scetticismo, del suo credere sempremeno nella “religione delle lettere” e tuttavia restarne legatocome all’unico nutrimento possibile.Umano, troppo umano, verrebbe da dire, ripercorrendo lasua straordinaria opera di critico letterario, la quale, nellasua interezza, si può considerare un’opera letteraria di persé, autonoma e sotto l’aspetto creativo, originale, rappresentativadi un’epoca, chiarificatrice dal punto di vista culturalee anche politico (per il ruolo che, nella società, gli intellettualihanno avuto nell’arco di tempo compreso tra gli anniTrenta del secolo scorso e quelli immediatamente successivialla fine della seconda guerra mondiale).Tanta attenzione per l’uomo, inteso nella sua spiritualità,colto nella sua panica ricerca di un segno divino (da qui lasua ammirata adesione al pensiero di Blaise Pascal, consideratoil suo maestro assieme a Sainte-Beuve), in pienoNovecento ne aveva fatto un pensatore già superato,“vecchio”, anche se monumentalizzato mentre era ancorain vita. E se ne può approfittare per dire che questo costruiremonumenti anzitempo è pratica diffusa nel mondo dellelettere per tenere a distanza coloro i quali con le loro opere,la loro presenza, il loro esempio rappresentano un modellodifficilmente raggiungibile, ma con il quale inevitabilmenteconfrontarsi. (Per la verità, con Bo la monumentalizzazionein vita riuscì a metà, e per il semplice fatto che l’uomo, intelligentecome pochi altri in una terra di furbi tutto sommatosprovveduti, palesemente servendosi del monumento, tolsead esso gran parte della sacralità, sottraendosi alla mummificazione).Circondato da uno spesso alone di “ufficialità” tanto daapparire una sorta di istituzione nazionale (Magnifico Rettoredell’Università di Urbino, senatore a vita per i suoi altimeriti culturali, presidente onorario, o a tutti gli effetti, di unaserie di fondazioni e premi…), egli tuttavia se ne stavaappartato, centellinando i suoi interventispontanei miranti a illuminare i punti oscuridel vivere civile, ad orientare il pensiero dicoloro i quali riteneva non avessero del tuttosmarrito la capacità di agire da creatureumane.Tutto questo è testimoniato dalla sua vastaproduzione giornalistica che GiovanniRaboni sul Corriere della Sera, ha definitodi “un’agilità espressiva prodigiosa, capacedi ospitare abissi di allusività e suggestionedentro formulari ritmico-lessicali di quasi provocatorianonchalance”. E a questo va aggiunto tutto quello che CarloBo ha, di fatto, suggerito ai giornalisti nelle innumerevoliinterviste. Burbero, austero, di poche parole, tuttavia eglinon ha mai negato di “partecipare” al lavoro del più giovanedei cronisti culturali.Avendo avuto l’opportunità di intervistarlo più volte, possoqui dire che Bo era uno di quegli interlocutori che ai giornalistifanno fare buona figura. Interrogato su un determinatoaspetto della letteratura italiana contemporanea o delpassato, o di quella francese o spagnola o di qualsivogliaaltra area geografico-culturale, dettava (letteralmente dettava)le risposte, complete della punteggiatura. E mai checonsultasse un libro, un appunto. Del resto, chi lo ha conosciuto,chi ha avuto modo di ascoltarlo in alcune delle suetante apparizioni in pubblico, sa bene che Bo era capace ditenere una conferenza – gli occhi bassi, il mozzicone disigaro spento in un angolo della bocca – senza mai servirsidi una scaletta, di una qualsiasi annotazione.Questa dimestichezza con i temi della cultura e della letteraturain particolare, gli veniva da un apprendistato chepossiamo definire straordinario. Uno “scrutatore di libri”, Bo,un metodico e affamato frequentatore di biblioteche (anchese spesso e soprattutto nell’ultima fase della sua vita, tuttoquanto delle biblioteche poteva servirgli gli giungeva incasa).“L’ultimo testimone della letteratura” è stato definito dopo lasua morte. E sono stati in tanti, disorientati dalla sua scomparsa,a domandarsi cosa rimane, cosa rimarrà del criticoletterario, cattolico liberale, Carlo Bo. Per scrivere questanota ho radunato alcuni suoi scritti da – andando a ritroso –Solitudine e carità del 1985 allo Scandalo della speranzadel 1957; da Letteratura come vita del 1938 (con questo titolo,nel 1994, la Rizzoli ha pubblicato un’antologia criticadell’opera di Carlo Bo, a cura di Sergio Pautasso e con testidi Jean Starobinski e Giancarlo Vigorelli) al saggio d’esordiosu Jacques Rivière.E già da questi titoli si può comprendere quali siano stati itemi e le emozioni umane e intellettuali alla base del suovasto lavoro critico. In tutta la sua vita, Bo sviluppò un incessanteesercizio di lettura e di rilettura suitesti classici e moderni di autori italiani,francesi, spagnoli, rintracciandone ed esaltandonele diverse radici e ragioni, maanche le loro comuni aspirazioni ed ispirazionieuropee.Da questo lavoro nacque la sua importanteriflessione critica e spirituale, condotta conarte di scrittore, sotto forma di saggi diampio respiro, recensioni e interventi occasionali,note diaristiche, scritti, questi ultimi,che testimoniano la sua affinità con la letteraturafrancese di cui fu uno dei massimi conoscitori.Alludendo alla sterminata produzione critica di Bo, GiancarloVigorelli, uno dei suoi più convinti sostenitori (e quiaggiungiamo dei suoi amici più cari) ha scritto (e ci sembrasia questo un modo degno per ricordarlo): “…Non è ad ognimodo la quantità, ma è la totalità dei libri letti a fare di Bo,direbbe oggi un cronista letterario da rotocalco, il ‘fenomenoBo’. È la qualità delle sue letture, ed è più ancora quel suoincessante invito alla lettura di libri di qualità che fa di lui,direttamente o indirettamente, l’anticipatore e il promotoredella ‘nuova critica’ italiana.Non per assegnare titoli, primati e primogeniture, ma conquella sua idea elitaria di lettura e il suo esempio, è incontestabileche Bo abbia determinato un sommovimento di terree di cieli nell’orbita obbligata della critica. No, non ha datovita ad un metodo, ad un sistema di critica; al contrario haviolato parecchie metodologie correnti, dimostrando al vivoche non esistono tecniche prefabbricate di indagine e,peggio, di giudizio. La critica non è che un atto di conoscenza,di doppia conoscenza disvelata tra chi ha scritto il libro echi leggendolo ne individua e condivide le verità, l’assolutaverità…”.La verità della letteratura, quella che illumina le opere diManzoni, di Borges, di Sciascia. E di Bo. E voglio ricordarloin quella fredda giornata di gennaio in cui andai a trovarlonella sua casa di Urbino, in occasione del suo novantesimocompleanno. “Non è un merito arrivare a questa età”, midisse. E indicandomi una ordinata pila di scatole di sigari,aggiunse: “Quelle sono le uniche cose che restano della miavita. Tutto quello che avevo da dire l’ho detto in un arco ditempo che arriva al 1945. Quel che è venuto dopo è stanchezza,delusione, erosione della fede nella letteratura”.Feci il calcolo.Nel 1945, Bo aveva trentaquattro anni, e dato che per suastessa ammissione il periodo più fertile e più bello della suavita era stato quello tra il 1934 e il 1938, ne ricavai che lagran parte di coloro che avrebbero letto il mio articolo suinovant’anni di Carlo Bo, quando egli viveva i suoi anni piùintensi, non erano ancora venuti al mondo. E allora, mi sonodetto, se si riflette su questo dato, tutto apparirà più naturalee lo scetticismo di Bo si scioglierà in buon senso, e sicomprenderà appieno l’umiltà del suo rammarico estremo:“Non ho studiato abbastanza”. In quelle ore che per lui dovevanoessere di festa, mentre a Urbino, a Roma, a Milano,nella sua Sestri Levante, gli amici e le autorità si preparavanoa rendergli omaggio, lui aveva trovato per sé questaformula, sconcertante e per certi versi inquietante: “Sono unaspirante cattolico”.21 (29)

I N O S T R I L U T T ICarlo Bo1911- <strong>2001</strong>Carlo Bo giornalista,di Emilio PozziCarlo Bo giornalista: ecco un aspetto marginalema non minore della sua personalità. Èin questo contesto che lo voglio ricordare, sulfilo della memoria mia e di quella di EnricoMascilli Migliorini, che ha vissuto, accanto alDuca di Montefeltro, un bel gruzzolo di anni.Su questo tema, accantonando quelli specificamentelegati alla letteratura e all’Università,i nostri ricordi si sono incrociati, sovrapposti,completati, in una lunga conversazionetelefonica fra Milano e Napoli, costruendo,tra fatti, impressioni, battute, sensazioni,un ritratto, in dimensione giornalistica, di unotra i più significativi personaggi della societàitaliana degli ultimi sessant’anni. Carlo Boera iscritto all’Albo professionale, comepubblicista dal 1° ottobre 1946.Con Mascilli ci siamo trovati d’accordo subitosu una premessa deontologica: la tolleranza.Concettualmente era un cattolico liberale,diceva di sé “sono un aspirante cristiano”. Esubito dopo la tolleranza, l’umiltà, per quantoriguardava gli articoli per i giornali. Peculiaritàche consideriamo sempre, oltre la curiosità,il senso dell’attualità e l’attenzione perl’individuo, tra le doti principali di un buongiornalista. Era anche un divoratore di giornali.La mattina per Bo, a Urbino, cominciavacon il barbiere e la mazzetta <strong>dei</strong> giornali cheil buon Paolo Bigonzi, per anni, non gli hamai fatto mancare.Ovviamente al giornalismo, come professione,preferiva l’Università.Ricorda Mascilli: “Quando dalla direzionedella Sede Rai di Ancona fui trasferito a quelladi Firenze, andai a trovarlo per comunicargliche ritenevo di dover lasciare l’incaricouniversitario al quale ero stato chiamato treanni prima. Mi guardò con severità e,puntandomi minacciosamente il sigaro dirittoaddosso, sentenziò: ‘Un incarico universitarionon si lascia mai’. E così fu che, qualcheanno dopo lasciai la Rai e misi solide radicia Urbino”. E a tal proposito Mascilli Migliorinitiene a sottolineare come nei lunghi annidurante i quali ebbe la ventura di collaborarecon Carlo Bo, anche nelle specifiche funzionidi preside della facoltà di Sociologia e didirettore delle Scuole di giornalismo ‘nonebbi mai da lui un minimo accenno di richiestavolto a conoscere quale fosse l’orientamentopolitico di un qualsiasi candidato perl’insegnamento a Urbino bensì soltantodomande precise e rigorose che esigevanoaltrettanto precise, rigorose e documentaterisposte sulle effettive capacità culturali,professionali e didattiche. Per me che provenivodalla Rai, fu come vivere un’esperienzaviva e vitale che si configurò tra i motivi chemi legarono, per oltre trent’anni all’Uomo,alla sua eccezionale personalità e di conseguenzaalla istituzione universitaria urbinate.Bo non aveva però una visione corporativadel mondo universitario. Chi volesse ripercorrerein modo analitico la storia del giornalismoitaliano in due iniziative significative lotroverà protagonista.La prima: la nascita del primo Istituto superioredi studi giornalistici, nell’ambito degliindirizzi professionali attivati nella sedeuniversitaria.Dell’idea erano appassionati promotori ilprofessor Aldo Testa, autorevole docente aUrbino, il segretario del sindacato giornalistiinterregionale Emilia-Romagna MarcheAngiolo Berti, il generosissimo collegaGiuseppe Zeccaroni e l’allora presidentedella Federazione della Stampa LeonardoAzzarita.Il progetto era ambizioso: creare un corsoregolare di studi superiori rivolto a chi volesseintraprendere la professione giornalistica.Sulla formazione culturale e professionale<strong>dei</strong> giornalisti si era discusso animatamenteanche in sede di Commissione per la stesuradella nuova legge sulla stampa, il dibattitoera rimbalzato nell’aula di Montecitorio, insede di Costituente, quando si era affrontatol’articolo 21 della Costituzione, entrata invigore il 1 gennaio 1948. Il dibattito era poiproseguito, anche in campo sindacale o sullepagine <strong>dei</strong> giornali, nel confronto degliopinionisti. C’era chi era contrario alle scuole,perché sosteneva l’idea che giornalisti sidiventa sul campo, con la pratica, allevati neigiornali dai colleghi più anziani, altri temevanoil ripetersi dell’infelice esperimento dellascuola di Giornalismo, realizzata a Perugia,per breve tempo attorno agli anni Trenta, inpieno fascismo da Ermanno Amicucci (e cheebbe come motore un eccellente professionistacome Carlo Barbieri), con la nascita di‘fabbriche’ di giornalisti indottrinati, tuttateoria e niente pratica; altri ancora ritenevanoche avrebbero messo in pericolo un liberomercato. Erano momenti difficili per laprofessione. Soffiavano venti da ogni puntocardinale.Quella scuola con percorso parauniversitarioperò si fece, la Convenzione fra Università eCarlo Boè mortoin unaclinicadi Genova il21 luglioscorso.Era natoa SestriLevanteil 2 gennaio1911.(FotoOlympiadi GiovanniGiovannetti)Federazione della stampa fu firmata nel1949, e rimase in piedi (e lo è tuttora,frequentata, in particolare da studenti greci)ma senza sbocchi ufficiali. Con la nascitadell’<strong>Ordine</strong> <strong>dei</strong> giornalisti nel 1963 e con lacreazione delle Scuole biennali, a numerochiuso, riconosciute dall’<strong>Ordine</strong>, ed una èproprio a Urbino - e anche in questo casoanticipando i tempi della attuale riforma,l’università fu tra gli enti promotori, con lapossibilità dell’accesso dopo il praticantatoall’esame di Stato, quell’Istituto rimane comeun fiore all’occhiello, testimonianza di unafelice intuizione.La seconda. Sul piano delle iniziative giornalistiche,tuttavia, Carlo Bo, diede ancora unavolta il segno di intelligente conoscenza <strong>dei</strong>problemi professionali, allorché alla fine deglianni Settanta, accolse di buon grado lapromozione di stages, brevi ma intensi, per igiovani colleghi che stavano per affrontarel’esame a Roma. Avevano sì completato20 (28) ORDINE 8 <strong>2001</strong>

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