Ottobre 2001 - Ordine dei Giornalisti

Ottobre 2001 - Ordine dei Giornalisti Ottobre 2001 - Ordine dei Giornalisti

11.07.2015 Views

Questo interventoè stato letto il 13luglio a Genova,alla Berc,Biennaledelle rivisteeuropee,all’internodella giornatadi Paola Pastacaldiconsigliere dell’Ordine dei giornalistidella LombardiaI media sono la globalità. La globalizzazionesenza i media non sarebbe esistita o sarebbestata tutt’altra cosa. È la parola stessa,diffusa in chiave globale, che rende globalioggetti, atti e pensieri.E non è un concetto tautologico. Il meccanismomediatico è una sorta di arcana creatricee insieme di icona della globalizzazione.Assistiamo stupefatti al suo affermarsi.Cercando di non diventare vittime delle sueillusioni. Nell’offrire il tema della riflessionesu media e globalizzazione, desideravomettere in luce le modalità con cui è statopresentato il G8 al cittadino comune, a coluiche per informarsi legge i giornali.“Sistemiinformativie comunicazionidi massa”e poi aggiornatocon i drammaticiavvenimentidelle settimanesuccessivesino alla mortedi Carlo Giuliani.Non comprendedunquele inchiestesuccessive,e in particolarequella suimedia, dellapoliziaFenomenologiadel G8 a GenovaCosa raccontanoi giornali?I media sono idealmente la struttura nervosadi una società, anzi il suo riflettere civile.Dunque al di là delle posizioni dei partiti,delle correnti di pensiero, delle sue frangeestreme, pacifiste e non, cattoliche e laiche,analizzare i media, la carta stampa a cui èaffidato il compito di informare, significaandare a vedere quale “realtà G8” i mediahanno creato per i cittadini, per la societàcivile.Spettacolarizzaread ogni costoIl tragico gioco della spettacolarizzazioneche affligge l’informazione da quando la tvha raggiunto l’età adulta ha inghiottito anchela questione G8. La massa di articoli, che hariempito i giornali, si è trasformata sin daiprimi giorni in una guerriglia in modo lento einesorabile. La guerriglia informativa è stataintrapresa dal potere globale dei media, datempo disinteressati a raccogliere e atrasmettere il sapere nella sua interezza,dunque nella sua positiva globalità.Disinteressato a indagare e a farsi testimonedi ciò che accade.È per questo che non c’è vera libertà di stampasenza che vi sia una sapiente lettura. Èimportante, cioè, che chi legge capisca, riconoscai moralismi, le spaccature, le adulazioniinteressate. Le bugie, i giochi. Ma apriamoi giornali. E leggiamo alcuni titoli. “G8 a difesadell’aeroporto, batterie terra aria contro eventualiattentati a Genova. Allarme irriducibili,pronti a tutto, l’ultimo rapporto del Viminale.L’ira delle tute bianche: il governo ci provoca.I boicottatori made in Italy. Da un podere inToscana la sfida alle multinazionali”. I titoliche dovrebbero fare da battistrada ai contenutisono essi stessi il contenuto: contengonol’allarme, la paura, l’insicurezza. Sin dall’inizioil messaggio è: andare a Genova èpericoloso. Oppure, aggiungiamo noi aposteriori, andare a Genova è diventatol’eterno gioco delle parti.“L’armata dei sognatori e le ragioni dei Grandi”.Raramente siamo in presenza di titoli noninneggianti al conflitto. Ma quando ci sono,introducono ad una visione fortemente moralisticae pietistica del mondo.Eccone alcuni. “La miseria, l’esercito deipoveri, i paesi dell’abbondanza. Il grido di chisoffre, arriverà ai potenti? Ascoltate il gridodei più deboli”. Sino al lacrimoso appello “Iosuora durante il vertice marcerò e digiuneròper i poveri”.Anche i titoli che hanno come pretesto gliinterventi di Ciampi rimangono prigionieri diuna visione basata sul pietismo emotivo:“Iniziativa per i paesi in via di sviluppo. Ilnostro impegno per i poveri.” E l’occhielloinvolontariamente cade in un paradosso: “Adifesa dei Grandi 2700 soldati”.La foto è la notiziaDecine di foto di poliziotti schierati e armatidi scudi ed elmetti accompagnano gli articolicome fossero il logo dell’informazione stessa.La spettacolarizzazione dell’antiglobaleGiornalisti a confronto prima del vertice di GenovaLa globalizzazionee le contraddizionidell’informazionedi Fausta SperanzaUn esame di coscienza sulla comunicazionein relazione al G8 prima ancora che il summitsi tenesse. È stato anche questo il sensodell’incontro che ha riunito studiosi dellacomunicazione e giornalisti, a Genova, lasettimana prima del fatidico vertice. L’incontrosi inseriva nel ciclo di conferenze, dedicate aivari aspetti della globalizzazione, promossenell’ambito della Biennale Europea delle RivisteCulturali, che dal ‘99 offre l’occasione diun confronto sulle diverse proposte culturali,perché l’Europa unita non sia solo economica.Nelle varie giornate si è parlato di globalizzazionee cooperazione con i paesi poveridel mondo, di frontiere nazionali e conflitti, didiritti alla cultura e modelli di sviluppo. Un’interagiornata, poi, è stata dedicata ai sistemiinformativi e di comunicazione di massa.L’esame di coscienza ha riguardato il clima dialta tensione che si era creato alla vigiliadell’appuntamento, prima ancora dell’iniziodelle manifestazioni e del triste epilogo dellaprima giornata, chiusasi con la morte delgiovane Carlo Giuliani. Diversi i contributi allariflessione. Il professor Anthony Delano, cheè stato inviato di importanti quotidiani anglosassonie che ora è ricercatore e insegnantedella School of Media di Londra, ha parlato diun’esasperazione dei toni che tradisce i principidi oggettività e professionalità del buongiornalismo, mentre giornalisti sul campocome Paola Pastacaldi, Gianni Minà e chiscrive hanno denunciato soprattutto il rischioche si perdessero di vista i contenuti.Allargando lo sguardo oltre l’evento, Delanoha messo in luce alcuni rischi dell’informazioneglobalizzata, che fa rima con digitalizzata.È innegabile che la tecnologia abbia rivoluzionatoil modo di fare giornalismo, bastapensare alla quantità di siti web a disposizioneche fa impallidire la rosa dei quotidianiesistenti al mondo. Fin qui pochi rischi. Ilpunto – ha spiegato Delano – è che la globalizzazionedelle agenzie di informazione fa sìche sempre meno giornalisti “producano” lanotizia e sempre di più la “lavorino” semplicemente.Da autorevole veterano, Delanoavverte la necessità di raccomandare aigiovani di conservare la curiosità e la grintaper andare a caccia di notizie, ma si rendeanche ben conto che la necessità di cercareun lavoro, in un campo che non offre neanchein Gran Bretagna larghi spazi, catalizzale energie dei novelli giornalisti. L’obiettivodiventa un posto al desk che faccia guadagnarequalche cosa e che inserisca in unastruttura. Con buona pace delle notizie daandare a scovare, ci si dedica a quelle già adisposizione sullo schermo, ricco di lanci diagenzie e di tutto il ben di Dio offerto da Internet.Ma – sottolinea provocatoriamente Delano– si trova non ciò che si cerca ma quelloche c’è. Su questo ha voluto esprimere il suopunto di vista Michele Mezza, giornalista Raiche ha curato l’avvio di Rainews24, esperimentopilota della Rai in tema di nuovi media.“Non era sempre verde la mia valle” ha tenutoa ribadire, perché “la concentrazione nellaproduzione di notizie non è cosa di oggi”.Secondo Mezza non si ricorda abbastanzache trent’anni fa il 93 per cento delle newspassava attraverso la caporedazione dellaReuters, autorevole e più antica agenzia distampa. Mezza ha poi contribuito alla riflessione,e direi anche ai momenti più accesi didibattito, rispondendo idealmente ad alcuneaffermazioni attribuite al cosiddetto popolo diSeattle. Naturalmente, anche di loro si èparlato o meglio di quello che avevano comunicatofino alla vigilia del vertice: molta confusionee inesattezze ma sicuramente la vogliadi “disturbare” il lavoro dei compunti rappresentantidelle potenze più industrializzate. IlG8 – ha spiegato Mezza – non è la celebrazionedel potere assoluto dell’economia, chesicuramente produce anche situazioni piùche discutibili nel mondo, ma al contrario èuna sorta di democratica pubblicizzazione diquanto avviene nelle stanze dei bottoni. L’ipotesialternativa – fa presente Mezza - è chele decisioni vengano prese “al 124esimopiano di un grattacielo finanziario”. Sicuramentesenza foto di gruppo. È chiaro ilmessaggio: il potere della finanza e dell’economianon si può demolire impedendo unvertice, che nel regno delle decisioni resta ilmomento forse più democratico di “partecipazione”ai popoli. Sono le decisioni cui non“assistiamo”, di cui l’informazione non rendeconto, come per gli appuntamenti ufficiali,quelle che dovrebbero inquietarci e, semmai,far scendere in piazza. Mantenendo forte ilsenso dell’autocritica, si dovrebbe dire, però,che si avverte quantomeno il rischio chequesta democratica pubblicizzazione deicontenuti diventi il resoconto del menu, dellearee shopping frequentate più o meno dallevarie lady, quando non si debba discuteresull’eventuale assenza della consorte propriodel primo ministro del paese ospitante.D’altra parte, non si sta parlando di globalizzazione?E allora il discorso non può cheessere sempre allargato a trecentosessantagradi sui vari livelli della società e spalmato alivello mondiale. È l’ottica che, seriamente, haispirato la relazione del professor Jo Groebel,direttore dell’European Institute for the Media,10 ORDINE 8 2001

Tuttele fotodi questoserviziosonodell’agenziaOlympia.richiede un sofisticato restyling dell’ideastessa.L’antiglobalizzazione ha un guardaroba chemerita anche tre quattro colonne e che vadai guanti al casco, al giubbotto sino almodaiolissimo kit del manifestante. La guerrigliaè un gioco. Le richieste di Berlusconiper il summit occupano quasi una pagina esi riassumono in un favoloso riquadro illustratosu addobbi verdi degli spazi dedicatiai potenti del G8, sull’illuminazione, sul decoropiù frivolo. Di questa fatua descrizione delcontesto (estetico ambientale) è arduoimmaginare l’interesse, l’utilità. Se non quelladi fare bella figura, rappezzare le magagneun po’ come si faceva in Africa, quandoin occasione delle visite di personalità internazionaliad Addis Abeba Menelik facevatirare su strade e palazzi nel giro di pochigiorni, ordinando ai miserabili della città dinon farsi vedere durante le parate. A Genovai palazzi e la piazza del G8 erano lustrati,sapevano di pittura fresca, mentre nei budellia pochi metri correvano i topi e i rifiuti siaccumulavano malsani.I media hanno perduto anche un’altra grandeoccasione per fare divulgazione scientifica.I lettori che non hanno voluto rinunciarea “saperne di più” sono stati costretti a fareun generoso affondo nelle librerie o nellebiblioteche . I più tecnologici hanno navigatoin Internet dove c’era tutto e di tutto. Vero ofalso che fosse, certo molto di più che sullacarta stampata. L’informazione ha girato allalarga dai giornali già dalle prime battute delfamigerato incontro.I personaggi tollerati:Manu ChaoNella miriade di copertine che ci sbattono infaccia le figlie di Chaplin, le Ferilli urlanti perla vittoria della Roma, i servizi “veri” sul G8erano quasi inesistenti e quando c’eranoavevano un taglio da avanspettacolo, dove iprotagonisti diventano soubrette. Vista latendenza maniacale della stampa di personalizzarequalsiasi fenomeno anche i piùatroci. Ricordo che durante la guerra inBosnia persino la notizia dei primi stupriaveva trovato spazio in prima pagina graziead un fondo che raccontava la storia di unasingola stuprata, aprendo la porta a tutte lealtre migliaia di donne violate.Come ben sanno i giornalisti i media sannooperare il miracolo: anche il singolo sconosciutopuò essere trasformato in personaggio.Manu Chao era in un certo senso l’unicovero personaggio giudicato dai mediaraccontabile nel contesto mediatico del G8.Con folclore e consueta bonomia. Eccolocomparire come un guru. Uno dei maggiorimagazine italiani lo proponeva in copertina(“Il ritorno del clandestino”). Ma con qualicontenuti, quale storia? Il linguaggio e lemodalità di esposizione, le foto stesse lasciavanointravedere un personaggio che appartieneal fenomeno labile delle mode. Chiamava Manu Chao era meglio si comperasseun disco e stesse a casa.Questa società della comunicazione ama labanalità (cito il sociologo Jean Baudrillard).La comunicazione è la più grande superstizionedella nostra era (cito Ignatio Ramonet,direttore di Le Monde Diplomatique). E ilgiornalismo si fa ambiguo. Gioca su più piani.Manu Chao è una bandiera. Ma che bandiera?La bandiera del so già tutto, la bandieradella banalità, la bandiera del circolo viziosodel ripetere sempre gli stessi concetti, cosìManu Chao diventa ciò che la stampa decideche lui sia. Il suo nome viaggia a fiancodella parola droga, Seattle, Marcos e G8, untrionfo di Logo.Un altro settimanale si prende la briga didescrivere “quelli del G8” come una nuovarazza. I ragazzi del no-global sarebbero quellicon le Nike, contro i Mc Donald’s, con ilpreservativo in tasca e il matrimonio in chiesa(ma è così strano avere una fede?) e chesognano figli (il numero di figli è ritornato adessere patrimonio dei partiti e degli opinionisti?).Erba, birra e Internet, idee e look di unagenerazione. Pensare che tutti fossero cosìera un tentativo evidente di manipolazionemass mediatica.istituto di ricerca no profit fondato dall’ex direttoredel Corriere della Sera, Alberto Cavallari.Jo Groebel ha voluto mettere in luce importantipotenzialità dell’informazione nel villaggioglobale e digitale in relazione al singolocittadino. La prospettiva più significativa saràquella di personalizzare sempre di più il suosempre più attivo rapporto con tutti i mezzi dicomunicazione, che, peraltro, vanno verso laconvergenza in un unico medium, annunciatada tempo da Negroponte. Significa, adesempio, che con la televisione on thedemand potrà scegliere programma e orario,con il proprio telefonino potrà navigare in retee seguire la Borsa. Inoltre, la realtà del singoloutente si fa metafora di una condizionesoggettiva da salvaguardare in uno scenariosempre più virtuale. La scommessa – affermaGroebel – resta quella, se vogliamo antica,di rispettare l’umanesimo e la cultura. Unascommessa che in particolare deve viverel’Europa Unita. Altrimenti la logica del profitto,che regna nel mondo dell’economia, avràcampo di azione in qualunque ambito delvillaggio della comunicazione globale intempo reale. Più umanesimo – pensiamo -significa allora, senza tante implicazioni filosofiche,vita reale dei popoli: affetti e sentimenti,dignità e lavoro. Certamente qualcunoall’interno del popolo di Seattle approverebbema non è detto che ci si metta d’accordo sulcome mettere in pratica tutto questo. Ancheal convegno l’atmosfera si è scaldata quandoGianni Minà, giornalista ben noto che haassunto recentemente la direzione di una rivistache si chiama Latinoamerica, ha parlatodi “lobby economiche”, “poteri più o menoocculti”, “dittature moderne” che affamanointeri popoli “con l’autorizzazione della comunitàinternazionale e di un’informazione acaccia di tette famose”. È tornato il problemaspettacolarizzazione, davanti al quale non citiriamo mai indietro se l’ambito di discussionegira intorno ai sistemi informativi perché, altrimenti,certi temi invocano analisi geopoliticheben più complesse. Resta il fatto che di informazionesi è parlato non solo come comunicazionedi notizie ma anche come trasmissionedi dati, in relazione all’informatica chenon a caso condivide la stessa radice linguistica.Internet, dunque, può essere consideratanon solo come uno dei media ma anchecome metafora della comunicazione di oggi:globale e in tempo reale. La globalizzazioneè anche copertura globale dell’informazione.E qui, conservando la lezione sui rischi di uneccesso di tecnologia ma anche sulle potenzialitànuove, vale la pena di chiedersi qualesia la reale diffusione della World Wide Webnel mondo. Va detto che rappresenta lo strumentodi comunicazione a crescita più rapidadella storia: il telefono per raggiungere il 30%della popolazione ha impiegato trentotto annie la televisione diciassette, mentre internet loha fatto in soli sette anni. Si può trionfalmenteaffermare che ha cambiato il concetto dispazio e di tempo ma non si può dimenticareche il mondo resta diviso tra ricchi e poveri,tra istruiti e analfabeti, tra informatizzati e non.Nel concreto, un computer costa all’abitantemedio del Bangladesh una cifra pari a ottoanni del suo reddito, mentre l’americanomedio lo acquista con lo stipendio di unmese. In Kenya occorrerebbero dodici anni ein Sud Sudan non si riesce a calcolareperché c’è ancora il baratto, per non parlaredel fatto che non c’è energia elettrica. Ma èsbagliato pensare che resti l’Africa il fanalinodi coda perché situazioni altrettanto difficili sitrovano nelle regioni più povere d’Europa,della Russia, delle zone dell’ex Unione sovietica.Per non parlare, poi degli squilibri di casanostra: in Italia Internet ha raddoppiato negliultimi due anni il numero di utenti, ha conquistatoun italiano su quattro raggiungendoquasi i progrediti livelli della Francia, ma se siindividua l’identikit del 95% degli internauti siscopre che ha meno di quarantaquattro anni,è giovane, maschio e del nord. A uno sguardoglobale, inoltre, non sfugge che l’88%degli utenti Internet vive nei paesi industrializzatiche rappresentano, però, solo il 17%della popolazione mondiale. Non si tratta dimettere in dubbio la positività di Internet, cherappresenta la chiave di accesso al terzomillennio. Resta da chiarire, però, che lamagia attraverso la quale lo spazio si restringe,il tempo si contrae, le frontiere scompaionoè affidata a una rete che connette sempredi più chi è connesso ma rischia di escluderesempre di più chi è escluso. Rischia di diventareuna conversazione dai toni alti che tacitachi ha poca voce, un discorso compattato chefa a meno di tutti gli spazi per inserirsi, propriocome il sistema digitale che compatta i dati.Tutto ciò va tenuto presente insieme con laconsapevolezza che le forze del mercato dasole non correggeranno squilibri e disuguaglianze.L’illusione che il processo di globalizzazionepotesse funzionare secondo il principiodei vasi comunicanti, livellando miracolosamentele differenze nella qualità di vita deipopoli, è ormai superata. All’inizio del secoloscorso la proporzione della ricchezza traNord e Sud del mondo era in rapporto di 8 :1,oggi è di 70-80 : 1.D’altra parte, è ormai un concetto acquisitoquello per cui si deve seguire e gestire laglobalizzazione e non lasciarla a se stessa.Proprio in occasione del G8 questo è statoribadito da autorevoli pulpiti. Resta un esamedi coscienza sempre valido: l’informazione dàconto abbastanza di questi dati e soprattuttodelle possibili vie di fuga da un mondosempre più sbilanciato tra chi ha il problemadi come mantenere la linea, dosando odissolvendo calorie, e chi ha ancora l’incubodi come riempire la pancia? È sempre difficileraccontarli nelle stesse pagine.Infine, visto che ci permettiamo un esame dicoscienza, ci concediamo anche una raccomandazione:lasciamo aperta la comunicazionee vigile l’informazione sulle ragioni,anche confuse o mescolate, del cosiddettopopolo di Seattle, nonchè popolo di Genova.E questo sia che i vertici si tengano in Italiasia che siano ospitati in altri paesi con spazipiù o meno aperti. Ci dovremmo chiederecosa avrebbe fatto Carlo Giuliani, nel dopoGenova, se la scena dell’estintore non fossestata girata, cosa fanno o non fanno tanti suoicompagni di piazza all’interno o ai marginidella società civile.E c’è ancora da domandarsi chi organizza invista degli eventi i black block, o da indagarele ragioni dei missionari che, come suorPatrizia Pasini o Frei Betto, non hanno esitatoad esserci a Genova, nonostante il tamtam informativo sui rischi del vertice, sulrischio annunciato che tutto venisse comunicatoin secondo piano rispetto alla voce dellaviolenza.ORDINE 8 200111

Tuttele fotodi questoserviziosonodell’agenziaOlympia.richiede un sofisticato restyling dell’ideastessa.L’antiglobalizzazione ha un guardaroba chemerita anche tre quattro colonne e che vadai guanti al casco, al giubbotto sino almodaiolissimo kit del manifestante. La guerrigliaè un gioco. Le richieste di Berlusconiper il summit occupano quasi una pagina esi riassumono in un favoloso riquadro illustratosu addobbi verdi degli spazi dedicatiai potenti del G8, sull’illuminazione, sul decoropiù frivolo. Di questa fatua descrizione delcontesto (estetico ambientale) è arduoimmaginare l’interesse, l’utilità. Se non quelladi fare bella figura, rappezzare le magagneun po’ come si faceva in Africa, quandoin occasione delle visite di personalità internazionaliad Addis Abeba Menelik facevatirare su strade e palazzi nel giro di pochigiorni, ordinando ai miserabili della città dinon farsi vedere durante le parate. A Genovai palazzi e la piazza del G8 erano lustrati,sapevano di pittura fresca, mentre nei budellia pochi metri correvano i topi e i rifiuti siaccumulavano malsani.I media hanno perduto anche un’altra grandeoccasione per fare divulgazione scientifica.I lettori che non hanno voluto rinunciarea “saperne di più” sono stati costretti a fareun generoso affondo nelle librerie o nellebiblioteche . I più tecnologici hanno navigatoin Internet dove c’era tutto e di tutto. Vero ofalso che fosse, certo molto di più che sullacarta stampata. L’informazione ha girato allalarga dai giornali già dalle prime battute delfamigerato incontro.I personaggi tollerati:Manu ChaoNella miriade di copertine che ci sbattono infaccia le figlie di Chaplin, le Ferilli urlanti perla vittoria della Roma, i servizi “veri” sul G8erano quasi inesistenti e quando c’eranoavevano un taglio da avanspettacolo, dove iprotagonisti diventano soubrette. Vista latendenza maniacale della stampa di personalizzarequalsiasi fenomeno anche i piùatroci. Ricordo che durante la guerra inBosnia persino la notizia <strong>dei</strong> primi stupriaveva trovato spazio in prima pagina graziead un fondo che raccontava la storia di unasingola stuprata, aprendo la porta a tutte lealtre migliaia di donne violate.Come ben sanno i giornalisti i media sannooperare il miracolo: anche il singolo sconosciutopuò essere trasformato in personaggio.Manu Chao era in un certo senso l’unicovero personaggio giudicato dai mediaraccontabile nel contesto mediatico del G8.Con folclore e consueta bonomia. Eccolocomparire come un guru. Uno <strong>dei</strong> maggiorimagazine italiani lo proponeva in copertina(“Il ritorno del clandestino”). Ma con qualicontenuti, quale storia? Il linguaggio e lemodalità di esposizione, le foto stesse lasciavanointravedere un personaggio che appartieneal fenomeno labile delle mode. Chiamava Manu Chao era meglio si comperasseun disco e stesse a casa.Questa società della comunicazione ama labanalità (cito il sociologo Jean Baudrillard).La comunicazione è la più grande superstizionedella nostra era (cito Ignatio Ramonet,direttore di Le Monde Diplomatique). E ilgiornalismo si fa ambiguo. Gioca su più piani.Manu Chao è una bandiera. Ma che bandiera?La bandiera del so già tutto, la bandieradella banalità, la bandiera del circolo viziosodel ripetere sempre gli stessi concetti, cosìManu Chao diventa ciò che la stampa decideche lui sia. Il suo nome viaggia a fiancodella parola droga, Seattle, Marcos e G8, untrionfo di Logo.Un altro settimanale si prende la briga didescrivere “quelli del G8” come una nuovarazza. I ragazzi del no-global sarebbero quellicon le Nike, contro i Mc Donald’s, con ilpreservativo in tasca e il matrimonio in chiesa(ma è così strano avere una fede?) e chesognano figli (il numero di figli è ritornato adessere patrimonio <strong>dei</strong> partiti e degli opinionisti?).Erba, birra e Internet, idee e look di unagenerazione. Pensare che tutti fossero cosìera un tentativo evidente di manipolazionemass mediatica.istituto di ricerca no profit fondato dall’ex direttoredel Corriere della Sera, Alberto Cavallari.Jo Groebel ha voluto mettere in luce importantipotenzialità dell’informazione nel villaggioglobale e digitale in relazione al singolocittadino. La prospettiva più significativa saràquella di personalizzare sempre di più il suosempre più attivo rapporto con tutti i mezzi dicomunicazione, che, peraltro, vanno verso laconvergenza in un unico medium, annunciatada tempo da Negroponte. Significa, adesempio, che con la televisione on thedemand potrà scegliere programma e orario,con il proprio telefonino potrà navigare in retee seguire la Borsa. Inoltre, la realtà del singoloutente si fa metafora di una condizionesoggettiva da salvaguardare in uno scenariosempre più virtuale. La scommessa – affermaGroebel – resta quella, se vogliamo antica,di rispettare l’umanesimo e la cultura. Unascommessa che in particolare deve viverel’Europa Unita. Altrimenti la logica del profitto,che regna nel mondo dell’economia, avràcampo di azione in qualunque ambito delvillaggio della comunicazione globale intempo reale. Più umanesimo – pensiamo -significa allora, senza tante implicazioni filosofiche,vita reale <strong>dei</strong> popoli: affetti e sentimenti,dignità e lavoro. Certamente qualcunoall’interno del popolo di Seattle approverebbema non è detto che ci si metta d’accordo sulcome mettere in pratica tutto questo. Ancheal convegno l’atmosfera si è scaldata quandoGianni Minà, giornalista ben noto che haassunto recentemente la direzione di una rivistache si chiama Latinoamerica, ha parlatodi “lobby economiche”, “poteri più o menoocculti”, “dittature moderne” che affamanointeri popoli “con l’autorizzazione della comunitàinternazionale e di un’informazione acaccia di tette famose”. È tornato il problemaspettacolarizzazione, davanti al quale non citiriamo mai indietro se l’ambito di discussionegira intorno ai sistemi informativi perché, altrimenti,certi temi invocano analisi geopoliticheben più complesse. Resta il fatto che di informazionesi è parlato non solo come comunicazionedi notizie ma anche come trasmissionedi dati, in relazione all’informatica chenon a caso condivide la stessa radice linguistica.Internet, dunque, può essere consideratanon solo come uno <strong>dei</strong> media ma anchecome metafora della comunicazione di oggi:globale e in tempo reale. La globalizzazioneè anche copertura globale dell’informazione.E qui, conservando la lezione sui rischi di uneccesso di tecnologia ma anche sulle potenzialitànuove, vale la pena di chiedersi qualesia la reale diffusione della World Wide Webnel mondo. Va detto che rappresenta lo strumentodi comunicazione a crescita più rapidadella storia: il telefono per raggiungere il 30%della popolazione ha impiegato trentotto annie la televisione diciassette, mentre internet loha fatto in soli sette anni. Si può trionfalmenteaffermare che ha cambiato il concetto dispazio e di tempo ma non si può dimenticareche il mondo resta diviso tra ricchi e poveri,tra istruiti e analfabeti, tra informatizzati e non.Nel concreto, un computer costa all’abitantemedio del Bangladesh una cifra pari a ottoanni del suo reddito, mentre l’americanomedio lo acquista con lo stipendio di unmese. In Kenya occorrerebbero dodici anni ein Sud Sudan non si riesce a calcolareperché c’è ancora il baratto, per non parlaredel fatto che non c’è energia elettrica. Ma èsbagliato pensare che resti l’Africa il fanalinodi coda perché situazioni altrettanto difficili sitrovano nelle regioni più povere d’Europa,della Russia, delle zone dell’ex Unione sovietica.Per non parlare, poi degli squilibri di casanostra: in Italia Internet ha raddoppiato negliultimi due anni il numero di utenti, ha conquistatoun italiano su quattro raggiungendoquasi i progrediti livelli della Francia, ma se siindividua l’identikit del 95% degli internauti siscopre che ha meno di quarantaquattro anni,è giovane, maschio e del nord. A uno sguardoglobale, inoltre, non sfugge che l’88%degli utenti Internet vive nei paesi industrializzatiche rappresentano, però, solo il 17%della popolazione mondiale. Non si tratta dimettere in dubbio la positività di Internet, cherappresenta la chiave di accesso al terzomillennio. Resta da chiarire, però, che lamagia attraverso la quale lo spazio si restringe,il tempo si contrae, le frontiere scompaionoè affidata a una rete che connette sempredi più chi è connesso ma rischia di escluderesempre di più chi è escluso. Rischia di diventareuna conversazione dai toni alti che tacitachi ha poca voce, un discorso compattato chefa a meno di tutti gli spazi per inserirsi, propriocome il sistema digitale che compatta i dati.Tutto ciò va tenuto presente insieme con laconsapevolezza che le forze del mercato dasole non correggeranno squilibri e disuguaglianze.L’illusione che il processo di globalizzazionepotesse funzionare secondo il principio<strong>dei</strong> vasi comunicanti, livellando miracolosamentele differenze nella qualità di vita <strong>dei</strong>popoli, è ormai superata. All’inizio del secoloscorso la proporzione della ricchezza traNord e Sud del mondo era in rapporto di 8 :1,oggi è di 70-80 : 1.D’altra parte, è ormai un concetto acquisitoquello per cui si deve seguire e gestire laglobalizzazione e non lasciarla a se stessa.Proprio in occasione del G8 questo è statoribadito da autorevoli pulpiti. Resta un esamedi coscienza sempre valido: l’informazione dàconto abbastanza di questi dati e soprattuttodelle possibili vie di fuga da un mondosempre più sbilanciato tra chi ha il problemadi come mantenere la linea, dosando odissolvendo calorie, e chi ha ancora l’incubodi come riempire la pancia? È sempre difficileraccontarli nelle stesse pagine.Infine, visto che ci permettiamo un esame dicoscienza, ci concediamo anche una raccomandazione:lasciamo aperta la comunicazionee vigile l’informazione sulle ragioni,anche confuse o mescolate, del cosiddettopopolo di Seattle, nonchè popolo di Genova.E questo sia che i vertici si tengano in Italiasia che siano ospitati in altri paesi con spazipiù o meno aperti. Ci dovremmo chiederecosa avrebbe fatto Carlo Giuliani, nel dopoGenova, se la scena dell’estintore non fossestata girata, cosa fanno o non fanno tanti suoicompagni di piazza all’interno o ai marginidella società civile.E c’è ancora da domandarsi chi organizza invista degli eventi i black block, o da indagarele ragioni <strong>dei</strong> missionari che, come suorPatrizia Pasini o Frei Betto, non hanno esitatoad esserci a Genova, nonostante il tamtam informativo sui rischi del vertice, sulrischio annunciato che tutto venisse comunicatoin secondo piano rispetto alla voce dellaviolenza.ORDINE 8 <strong>2001</strong>11

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