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GiurisprudenzaMatrimonioesso costituiva offesa in re ipsa, in quanto palese lesioneappunto dell’onorabilità del soggetto. Oggi si ritiene piùcorrettamente che l’obbligo di fedeltà sia volto a garantiree consolidare la comunione di vita tra i coniugi, l’armoniainterna, l’affectio maritalis. Si è parlato a tal propositodi violazione di tale dovere, come rottura del rapportodi fiducia tra i coniugi, come deterioramento dell’accordoe della stima reciproci.È indubbio che il richiamo all’addebito, di cui all’art. 151c.c., secondo comma (e, per esso, all’indagine sulle causedell’intollerabilità della convivenza e sulla violazione degliobblighi derivanti dal matrimonio), sembra in variomodo contrastare con le linee generali della riforma del1975: soprattutto con il principio del consenso, già ricordato,che regola ogni rapporto della vita coniugale; ove ilconsenso venisse meno, si giustificherebbe la separazioneper intollerabilità della convivenza, senza un’indaginesempre difficile ed incerta sulle cause della separazione esui comportamenti dei coniugi.In ogni caso, anche ad un esame sommario della norma,si evidenzia il carattere di eccezionalità dell’addebito.Questo è soltanto eventuale, laddove l’antica colpa dellanormativa previdente era essenziale per la pronuncia diseparazione. Rilevano comportamenti sicuramente coscientie volontari, e non potrebbe darsi addebitabilitàsenza imputabilità: comportamenti contrari ai doveri derivantidal matrimonio, per una classificazione dei qualinon si potrebbe che partire dall’analisi di tali doveri, diprofondamente modificato dalla riforma del 1975. Il riferimentoulteriore contenuto nella norma: “ove ne ricorranole circostanze”, talora definito come una “misteriosacondizione”, fa comunque ritenere che vadano considerateviolazioni particolarmente gravi e ripetute o comunqueinquadrate in una valutazione complessiva di tutta lavicenda coniugale (al riguardo, Cass. n. 2740 del 2008; n.961 del 1992). Né si deve dimenticare che la violazionedegli obblighi matrimoniali non rileva ai fini dell’addebitose non abbia dato causa (se non vi sia cui all’art. 143c.c., il cui contenuto è stato quindi uno stretto rapportodi causa ad effetto) alla intollerabilità della convivenza.Afferma il ricorrente che la giurisprudenza della Cassazione,considerando particolarmente grave la violazionedell’obbligo di fedeltà, non richiederebbe la prova delrapporto di causa ad effetto con l’intollerabilità dellaconvivenza. Al contrario le pronunce di questa Corte(per tutte, Cass. n. 16873 del 2010), pur dando frequentementeatto della “gravita” della violazione dell’obbligodi fedeltà, tra l’altro nell’accezione più ampia sopra indicata,non esclude certo la necessità di una prova del rapportodi causalità con l’intollerabilità della convivenza,evidentemente escludendo che l’addebito si configuri inre ipsa.Va quindi precisato che la dichiarazione di addebito nellaseparazione, anche in ordine alla violazione dell’obbligodi fedeltà, richiede la prova che l’irreversibile crisi coniugalesia ricollegabile al comportamento consapevole evolontario del coniuge, e che sussista un preciso nesso dicausalità tra tale comportamento e l’intollerabilità dellaconvivenza: il mancato raggiungimento della prova chetale comportamento sia causa efficiente di tale intollerabilitàesclude dunque la pronuncia di addebito (al riguardo,Cass. n. 14042 del 2008). Nella specie, il giudice aquo ha fatto buon uso di tale principio: la pronuncia impugnatachiarisce che il nesso di causalità riconosciutodal primo giudice si pone in aperto contrasto con le risultanzedi causa: la S. ha infatti insistentemente affermato- così la sentenza impugnata - di essere venuta a conoscenzadella relazione intrattenuta dal marito con altradonna dopo che questi aveva abbandonato la casa coniugalee che la frattura era ormai irreversibile; la relazionepredetta non ha dunque inciso sulla crisi coniugale, e dallastessa pronuncia di primo grado - aggiunge il giudice aquo era emerso che la difesa della S. aveva sottolineatoparticolarmente, quale causa di intollerabilità, la “condottaviolenta” del marito, che non aveva peraltro trovatoadeguata dimostrazione probatoria.Va invece accolto il primo motivo, in punto assegno peril coniuge.Per giurisprudenza costante (tra le altre, Cass. n. 6698 del2009), ai fini della determinazione e quantificazione dell’assegnodi mantenimento per il coniuge, occorre la ricostruzionecompiuta e concreta delle condizioni patrimonialidei coniugi stessi, al fine di accertare se i mezzieconomici a disposizione del richiedente siano tali dapermettergli di conservare il medesimo tenore di vita godutoin costanza di matrimonio.Nella specie, la Corte di merito non ha fatto buon uso ditale principio: essa afferma correttamente che le denuncedei redditi non sono decisive, ove emergano ulteriori elementipatrimoniali; afferma però che le attività commercialidel Sa. sono “quasi interamente” speculari a quelledella S., ma poi contraddittoriamente aggiunge che inuna società, la MI-PRIX S.r.L. il Sa. è titolare di una quotadel 70% e la S. del 30% e che di altre società (Tavernadel Falconiere S.n. c, Sacco S.a.s.) è titolare di quota ilsolo Sa.. Al riguardo dunque la sentenza va cassata, conrinvio alla Corte d’Appello di Bologna, in diversa composizione,che si atterrà a quanto sopra indicato, e pure sipronuncerà sulle spese del presente giudizio di legittimità.P.Q.M.La Corte accoglie il primo motivo del ricorso in punto assegnorigetta per il resto, dichiara inammissibile il secondo;cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per lespese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Bolognain diversa composizione.778Famiglia e diritto 8-9/2013

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