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Microsoft Word - Intercultura e apprend lingua ... - Vannini Editrice

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comunemente chiamata “alfabetizzazione”, su piccoli gruppi composti esclusivamente da alunni/estranieri; attraverso questi interventi, ci si aspetta che i ragazzi/e imparino l’italiano in tempipiuttosto brevi rispetto a quelli che la ricerca glottodidattica indicherebbe come realistici 4 , e diconseguenza non si pensa quasi mai di modificare, nel frattempo, i metodi didattici utilizzati con ilcomplesso degli alunni nelle classi; quando poi, nonostante gli sforzi notevoli e non privi diautentico spirito di sacrificio delle insegnanti, gli alunni non imparano (abbastanza) l’italiano, ci sisente frustrate e si finisce per attribuire l’insuccesso alla svogliatezza dei ragazzi. Infine, sebbenenella scuola “Manzoni” tutte le insegnanti intervistate riconoscano che la maggior parte deiproblemi degli studenti stranieri sono in realtà problemi più generali, che colpiscono tutti gli alunni,ciò non impedisce loro di continuare a concepire questi problemi come ‘i problemi degli stranieri’,con effetti probabilmente discriminatori per i ragazzi e invalidanti per l’efficacia degli interventi.Attribuire tutto questo alla mancanza di una adeguata cultura dell’accoglienza e dell’interculturada parte delle insegnanti e/o della dirigenza sarebbe facile, ma corrisponderebbe solo in parte allarealtà; né lo si può attribuire a cattiva volontà, dato che anzi le insegnanti di questa scuola lavoranomoltissimo, e spesso anche gratuitamente, per aiutare le alunne/i stranieri.Nel corso della mia indagine, ho sempre cercato di inquadrare le questioni nel contesto dellecondizioni di lavoro delle insegnanti che intervistavo: condizioni di lavoro, intese in senso siamateriale che simbolico, che obiettivamente non sono affatto favorevoli all’applicazione di ciò chealmeno alcune di esse <strong>apprend</strong>ono anno dopo anno da innumerevoli pubblicazioni e corsi diformazione sull’intercultura e l’L2. Ad esempio, molte docenti della scuola “Manzoni” lavorano inuno stato quasi costante di sfruttamento e autosfruttamento, dovuto in parte all’organizzazione pocoefficiente del lavoro, in parte alla classica e ricorrente situazione della ‘riunione fiume’, in parte aun senso del dovere (tipico delle lavoratrici donne impiegate nel sociale) che impone loro di“aiutare”, in vario modo e molto oltre l’orario di lavoro, i ragazzi in difficoltà. In questo contesto,nel 2007 le insegnanti coltivavano il progetto di istituire una classe di ingresso che tutti i neoarrivatiavrebbero dovuto frequentare intensivamente nel primo periodo, e nella quale essi avrebberoimparato la <strong>lingua</strong> italiana in modo tale da essere poi in grado di seguire le lezioni “come tutti glialtri”. Ora, se da un lato si può leggere, dietro questo progetto, il desiderio di adeguare gli alunni/eai propri metodi didattici (logocentrici) piuttosto che il contrario, dall’altro non va dimenticato chetali metodi sono radicati in abitudini di lunga tradizione, che sono supportati dai libri di testo incommercio, e che sono inoltre in sintonia, se non con il contenuto, di certo con lo stile dei testi e deidiscorsi che circolano nella scuola, visto che circolari, corsi d’aggiornamento, relazioni e progettifanno uso di una <strong>lingua</strong> ipertecnica, verbosa e astratta che le insegnanti - specie quelle di più recenteformazione - sono altamente addestrate a produrre e a fruire. In questo contesto, adottare unadidattica diversa non è impossibile, ma sicuramente richiede del lavoro in più, sia pratico(autoproduzione di materiali ecc.) che intellettuale (distanziamento critico dall’impostazionelinguistica di cui è impregnato tutto il proprio ambiente lavorativo) che comprensibilmente non tuttele insegnanti possono o vogliono accollarsi.Un altro luogo di contraddizione che rende arduo, di fatto, un approccio linguisticamente nonitalo-centrico è la valutazione. Sebbene sia stato più volte ribadito che per l’acquisizione della L2 cisono dei tempi naturali da rispettare, se le insegnanti della scuola media “Manzoni” sembrano cosìansiose di far imparare l’italiano ai loro allievi, non è solo per una loro mania idiosincratica, maanche perché volenti o nolenti esse devono, ad intervalli stabiliti, fornire un giudizio il più possibileaccurato e obiettivo del ‘rendimento’ di ciascuno/a, in un clima culturale, come quello che misembra si sia instaurato nella scuola italiana degli ultimi anni, che attribuisce grande importanza almomento della valutazione. Per poter avere un senso, però, la valutazione presuppone chel’alunno/a abbia gli strumenti per produrre la performance che si intende misurare, e cioè,generalmente, che sia in grado (1) di studiare a casa e (2) di produrre un testo su ciò che ha studiato.4 Più che un’aspettativa esplicita e quantificabile, ho riscontrato una serie di richieste irrealistiche rispetto al mio lavorodi insegnante di L2 (ad es. insegnare a fare il commento di una poesia a un ragazzo di livello A1), e un generale sensodi urgenza. Approssimativamente, il desiderio diffuso era che gli alunni raggiungessero un livello di competenza B nelgiro di pochi mesi, e di padronanza completa dopo uno o due anni.2


Sotto questo profilo, quindi, come vedremo meglio più avanti, è la scuola stessa, per come èorganizzata, a esigere o a presupporre alunni “italianizzati”.Nella mia analisi ho poi cercato di mettere in evidenza la presenza, nella scuola in questione, dialcuni meccanismi pratici e discorsivi 5 che tendevano a riprodurre gli stessi problemi cheintendevano risolvere. Infatti, è bene mettere in chiaro che il superlavoro delle insegnanti nellascuola media “Manzoni” ha a che fare solo in parte con la mancanza di fondi, o con un’utenzalocale particolarmente difficile 6 . I fondi sono più che altro mal organizzati, e il problema più grossonon è dato tanto dall’insuccesso degli interventi, quanto dai discorsi che si producono su taleinsuccesso, che rendono impossibile correggere il tiro. Ad esempio, il fattore <strong>lingua</strong> viene spessosopravvalutato come causa dello scarso profitto scolastico delle alunne/i stranieri, o comunque,anche quando è valutato con equilibrio insieme ad altri aspetti, rimane quello su cui massimamentesi concentrano gli interventi, essendo anche l’elemento più tecnico, meno evanescente, su cui è piùfacile intervenire. Ma quando le difficoltà dell’alunno/a sono (anche) altre, un aumento delle ore diL2 somministrate può non produrre alcun miglioramento della situazione - fenomeno che si presteràa far concludere o che l’alunno/a “non ha voglia di studiare” e “sono ore sprecate” (frustrazione,percezione di ingratitudine, vissuto negativo nei confronti dell’alunno/a) o che i suoi problemipersonali e familiari sono tali che la scuola non può farci niente (senso di impotenza).Credo che questa amarezza e questo senso di impotenza, come in generale tutti i sentimenti e ivissuti delle insegnanti, vadano presi sul serio. Piuttosto che giudicarle in base a ciò che dovrebberofare ed eventualmente non fanno, o a certe frasi che non avrebbero dovuto dire, nel corso della miaindagine ho cercato di mettermi in ascolto dei loro vissuti, per capire quali sofferenze e frustrazioni,e in altri casi quali piaceri, soddisfazioni, piccoli compiacimenti, venissero loro da questa o quellapratica, da questo o quel discorso. In fondo, il nesso fra sapere e piacere è centrale non solo perl’<strong>apprend</strong>imento, ma anche per l’insegnamento, e in generale per capire come e dove intervenire permodificare qualunque abitudine umana.Pur con l’inevitabile semplificazione che ne deriva, posso riassumere dicendo che la miaimpressione è che le insegnanti della scuola “Manzoni” subiscano le richieste contraddittorie di unsistema scolastico che da un lato raccomanda loro di rispettare le diversità, e dall’altro impone oincoraggia metodi di insegnamento e di valutazione che esigono alunni in un certo senso ‘tuttiuguali’; esse soffrono per le pressioni del proprio eccessivo ‘spirito umanitario’, ma anche di unasocietà che da una parte coltiva altissime aspettative nei confronti del loro lavoro – apparentementechiamandole a rimediare alle mancanze educative dei genitori, alle disuguaglianze socioeconomiche,alle discriminazioni… in pratica a qualunque problema della società - ma che dall’altraparte impone loro tempi, modi di lavoro, retribuzioni e formazione del tutto inadeguati. In tutto ciò,capita che queste docenti trovino parole per esprimere il loro disagio, e forse persino sollievo dalloro senso di inadeguatezza, solamente in certi discorsi di senso comune del tipo “Sono loro chenon si vogliono integrare...”, “Purtroppo è la loro cultura…”, “Integrarli sì, ma…”A questo punto, una precisazione è d’obbligo. Evidenziare che, almeno nel caso in oggetto,alcuni degli ostacoli alla traduzione in pratica di tanta ottima teoria sull’educazione interculturalerisiedano, in realtà, in aspetti strutturali del sistema scolastico italiano non significa semplicementedire alle insegnanti che il problema non è quello che credono, bensì il sistema scuola che èomologante e repressivo, compiacendosi della propria radicalità e al tempo stesso abbandonandoleall’impotenza o assolvendole ad libitum dai loro errori. Del resto, se così fosse, non si spiegherebbeperché in molte altre scuole italiane ci sono invece, nonostante tutto, ottimi esempi di pratiche5 Qui e in seguito, utilizzo “discorso” nell’accezione del termine data da M. Foucault. Esso e va inteso, più o meno,come un modo comune e quasi scontato di pensare e di rappresentare la realtà, come un’impostazione ‘ovvia’,all’interno di una società o di un certo settore della società, su un determinato problema, cui si ispirano un buon numerodi testi – orali o scritti, formali o informali – prodotti in quell’ambiente culturale.6Nella scuola media “Manzoni”, gli alunni con cittadinanza estera sono circa il 21% del totale, contro una mediaitaliana del 4% e regionale dell’8,7%. Circa la metà degli alunni stranieri presenti, però, o sono nati in Italia o sonoarrivati in età prescolare: esclusi questi, la percentuale scende a circa il 10%. La classe “tipica” è composta da 25-26alunni/e di cui 4 di nazionalità estera, dei quali a loro volta 2 hanno frequentato la scuola italiana fin dalla primaelementare e 2 invece sono effettivamente passati/e da un sistema scolastico a un altro.3


La didattica dell’L2, nella scuola “Manzoni”, è sostanzialmente una questione di ore: il comune“dà” le ore, “sono finite le ore”, “dobbiamo usare le ore entro fine anno”, o anche “con l’alunno/a Xsono ore sprecate”, “l’alunno Y ha già avuto dieci ore”. I fondi a disposizione dell’istitutocomprensivo, dice la responsabile dell’intercultura, più che insufficienti sono mal organizzati. Ineffetti, se con gli stessi fondi l’istituto comprensivo potesse impiegare direttamente un unicoinsegnante di L2 con contratto annuale, potrebbe avere probabilmente un monte ore annuo di circa400 ore svolto dalla stessa persona, contro le 160 attuali svolte da 16 insegnanti diverse.Anche quando non vengono “presi fuori”, comunque, mentre i loro compagni/e seguono lalezione o fanno altre attività, spesso gli alunni/e stranieri fanno esercitazioni scritte di <strong>lingua</strong> italianasu schede fotocopiate da libri di italiano L2 o da libri delle elementari. Altre pratiche abituali per“cercare di aiutare i ragazzi stranieri” sono quelle di esonerali dal francese, dalle lezioni di poesiaepica e talvolta anche dall’inglese, di dar loro delle verifiche semplificate, di inserirli in una classeinferiore di un anno (tendenzialmente in prima media, con l’idea che il programma di grammatica diquesta classe possa facilitarli) 9 .3. La <strong>lingua</strong> italiana come prerequisitoMolte delle scelte fatte alle “Manzoni” con l’intento di favorire una rapida acquisizione della L2da parte delle alunne/i non madre<strong>lingua</strong> sono in realtà poco corrette dal punto di vista dellaglottodidattica odierna; credo però che esse siano dettate, più che da ignoranza, dall’eccessiva ansiache circonda l’<strong>apprend</strong>imento dell’L2, un’ansia che porta ad adottare, come detto, una specie dipolitica del più ce n’è meglio è. Il ragionamento, più o meno, è il seguente: sappiamo che stiamoimpiegando troppi insegnanti diversi, sappiamo che molti di loro non sono formati sulla didatticadella L2, sappiamo che delle esercitazioni scritte svolte in solitudine non sono l’ideale per<strong>apprend</strong>ere una <strong>lingua</strong>, sappiamo che l’inserimento in una classe inferiore è una scelta sconsigliataecc., ma le risorse sono poche e allora sarà pur sempre meglio di niente.Quello su cui bisogna interrogarsi, allora, è: perché tutta questa ansia di “fargli impararel’italiano”?Iniziando dalle motivazioni dichiarate, nella scuola “Manzoni” è convinzione comune che uncerto livello di competenza linguistica in italiano costituisca un prerequisito per l’<strong>apprend</strong>imentodelle altre materie, e in una certa misura perfino della matematica. Inoltre, c’è il timore, in partefondato per <strong>apprend</strong>enti di una certa età (Pallotti 2000), che sia difficile imparare l’italiano soltantocon l’immersione.“…nei primi tempi, quando non conoscono neanche una parola di italiano, [il fatto che i ragazzistranieri vengano presi fuori dalla classe per fare L2] è necessario perché riescano ad approcciarsianche alla matematica, a queste materie [musica, educazione artistica]...”(R.)“Per riuscire a integrarli e riuscire a fargli imparare anche bene l’italiano noi dovremmo arrivare a farsì che loro arrivano e vengono sì inseriti in una classe, per carità, ma per sei mesi, un anno - quello cheè - hanno una parte della loro settimana che è dedicata allo studio dell’italiano. Prendono e vanno astudiare l’italiano, perché è inutile pensare che loro possano imparare bene l’italiano [senza questoinsegnamento intensivo] - è chiaro che lo imparano con i coetanei però un conto è se arrivi a sei annima quando arrivi a dodici, tredici!” (F.)Grosso modo, con le dovute sfumature, l’idea è che si debba prima imparare l’italiano, e poi,attraverso di esso, i contenuti delle materie.9 Sebbene l’inserimento in una classe inferiore rispetto a quella che spetterebbe per età sia una scelta scoraggiata dalMiur, che la consente solo dopo attenta ponderazione e sentita la famiglia, 12 ragazzi/e su 20 nella scuola media“Manzoni” sono stati inseriti all’arrivo in una classe inferiore di un anno, e in un caso addirittura di due anni. Anche pereffetto delle bocciature, nell’a. s. 2007-08 una ragazza di sedici anni si trovava in classe con ragazzi di tredici.5


Eppure in alcuni casi la funzione della scuola nei confronti degli alunni/e stranieri sembra ridursia quella di licenziare persone in grado di esprimersi correttamente in italiano, lasciandocompletamente cadere la seconda parte del programma, e facendo assumere al teminealfabetizzazione un senso pericolosamente letterale. Ad esempio, un alunno inserito nel mio gruppodi L2 mi fu presentato come uno che “tanto lo mandiamo a San Giovanni” - cioè in un istituto per ilcompletamento dell’obbligo scolastico in regime misto scuola-formazione professionale - e che “tel’abbiamo dato” - cioè assegnato al corso di L2 – solo perché ormai è in terza media e bisogna cheimpari almeno l’italiano, altrimenti come fa a trovare lavoro. Ovviamente ripiegare su un obiettivominimo ma realistico può essere, in certi casi, una scelta di buonsenso, ma quello che mi interessasottolineare con questo episodio è l’ambiguità di fondo fra l’ansia di portare velocemente l’alunno/astraniero/a a livello dei nativi perché possa fruire come loro dell’istruzione e l’eventualità, presentefin dall’inizio e sempre possibile, della rinuncia, supportata dall’istituzione dei percorsi integratiscuola-formazione professionale 10 .Ma la padronanza della <strong>lingua</strong> italiana è davvero un prerequisito? Davvero bisogna imparareprima l’italiano e poi (eventualmente) altri contenuti? La maestra B. critica questa concezione:B.: “La cosa che ho capito è che per la <strong>lingua</strong> ci vuol del tempo. (....) Tanto, matematica, se andavanobene prima vanno bene anche qua... per il resto, voglio dire, non è che tu puoi mettergli dentro la robacon la vanga, col badile..! ci vuole tempo, devono imparare le cose di base man mano. (...)”A.A.: “Ma molti insegnanti hanno fretta di fargli imparare l’italiano perché dicono che altrimenti nonpossono seguire la lezione di storia, di geografia...”B: “Mah! Lì bisogna anche riguardare la didattica che uno applica, perché se tu fai solo scuola facendoleggere! ma dai chi è che oggi fa ancora scuola così (...) Poi, in geografia la nomenclatura gliela devispiegare a tutti... c’è gente che è convinta che loro sappiano cos’è un arcipelago - no, glielo devispiegare, farli disegnare. Poi è chiaro magari non faranno tutto perché non sono in grado chessò dileggere... ma quello anche gli italiani, gli italiani normali, perché hanno dei libri di testo che sonoosceni per cui...!”Con tutte le dovute differenze fra scuola elementare e media, B. solleva alcune questionipiuttosto importanti: intanto, non è detto che tutti i contenuti debbano passare attraverso il<strong>lingua</strong>ggio verbale; in secondo luogo, spesso questo <strong>lingua</strong>ggio va spiegato anche agli italianimadre<strong>lingua</strong>; infine, sono i libri di testo a essere “osceni”, non gli alunni/e poco competenti. Unabuona conoscenza della <strong>lingua</strong> italiana è un prerequisito solo quando la didattica si basaesclusivamente sulla comunicazione verbale, e a maggior ragione se si usa un <strong>lingua</strong>ggio troppodistante dall’italiano comune, se i micro<strong>lingua</strong>ggi non sono spiegati, o se viceversa la loroacquisizione diventa centrale rispetto alle stesse nozioni che essi dovrebbero servire a descrivere.4. Quale italianoAll’ansia per l’acquisizione della L2 spesso si accompagna - implicito, sotterraneo o talvoltaanche espresso - un senso di costante insoddisfazione, di perenne ‘non abbastanza’ per i livelli di<strong>lingua</strong> raggiunti dagli alunni/e, un’insoddisfazione che è al tempo stesso espressione, oltre chedell’istintivo disagio del professore di fronte alle interlingue ‘sgrammaticate’ dei ragazzi/e, anchedel senso di inadeguatezza (“non riesco a fargli imparare l’italiano”) e del giudizio di inadeguatezza10La possibilità di adempiere l’obbligo scolastico nella formazione professionale è stato introdotto dalla riformaGelmini (decreto-legge n. 112/08, convertito in legge n. 133/08). Nella sezione “Analisi dell’utenza” del POF si legge:“Emergono alcuni casi di ragazzi in forte disagio per cui si rende necessario progettare percorsi integrati di scuolaformazioneprofessionale presso strutture adeguate, per il conseguimento della licenza media”. Si noti come fin dalrilevamento di questo tipo di utente si preveda una specie di automatica difficoltà a completare l’obbligo scolastico.6


sugli alunni/e (“non vogliono/non riescono a imparare l’italiano”). Questi ultimi, a loro volta,risentono di questa situazione al punto che alcuni dei miei allievi erano capaci di affermareconvintamente “io non so parlare” nel bel mezzo di complesse conversazioni in <strong>lingua</strong> italiana.Tutte le insegnanti intervistate concordano sul fatto che le ragazze/i stranieri si inseriscono infretta e senza problemi nel gruppo dei pari, il che fa supporre che le loro competenze linguistichediventino rapidamente sufficienti a una normale interazione: eppure, in molti passaggi delleinterviste, queste competenze non sembrano far parte a pieno titolo dell’italiano di cui parlano leinsegnanti quando dicono “imparare l’italiano”.In realtà, la <strong>lingua</strong> di cui le insegnanti parlano, e che i ragazzi dicono di non saper parlare, èprobabilmente l’italiano per lo studio, cioè quel tipo particolare di italiano che consentirebbe aglialunni/e straniere di avere un profitto scolastico soddisfacente. Sappiamo che l’italiano per lostudio, più che un livello, è una particolare varietà della <strong>lingua</strong> italiana, tanto che anche imadre<strong>lingua</strong> (“gli italiani normali”) lo devono <strong>apprend</strong>ere, e sappiamo che c’è un dibattito aperto suquanto si debba insistere su questo <strong>apprend</strong>imento e quanto invece si debba puntare a una maggiorechiarezza e leggibilità della <strong>lingua</strong> dei libri di testo. Resta il fatto che, attualmente, la maggior partedei manuali scolastici è scritta in un <strong>lingua</strong>ggio molto lontano dall’italiano standard.Con la loro ansia di insegnare la <strong>lingua</strong> italiana agli studenti e alle studentesse straniere, leinsegnanti sembrano voler adeguare gli alunni/e ai propri metodi didattici piuttosto che il contrario.Ma è anche vero che questi sono metodi collaudati da una lunghissima abitudine e supportati dailibri di testo in commercio, e che sono in sintonia, se non con il contenuto, di certo con lo stile deitesti e dei discorsi che circolano nella scuola. È innegabile che circolari, corsi d’aggiornamento,progetti, relazioni parlano la <strong>lingua</strong> di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”(Calvino 1965), una <strong>lingua</strong> ricca di astrazioni e circonlocuzioni che le insegnanti - specie quelle dipiù recente formazione - sono altamente addestrate a produrre e a fruire. In questo contesto, allora,adottare una didattica diversa non è impossibile - anche perché numerose insegnanti lo fanno - masicuramente richiede del lavoro in più, sia pratico (autoproduzione di materiali ecc.) cheintellettuale-critico e di lavoro su se stesse. Quando mi sono cimentata le prime voltenell’adattamento di un testo di studio ad <strong>apprend</strong>enti non madre<strong>lingua</strong>, mi sono resa conto di quantosia difficile distanziarsi dalla concezione linguistica cui è informata la gran parte del proprio lavoroquotidiano, e di come quell’impostazione linguistica riemergesse continuamente anche contro lamia volontà. È dunque comprensibile che non tutte le insegnanti possano avere la forza, la voglia ola possibilità di imbarcarsi nell’impresa.5. La valutazione e il successo scolasticoDunque anche quando le ragazze/i hanno un livello di <strong>lingua</strong> sufficiente a interagire nella vitaquotidiana e a comprendere se non le sfumature di significato, almeno la sostanza di una normalelezione, essi sono ancora quasi incapaci di comprendere i loro libri di testo, di studiare a casa equindi di avere buoni voti - una questione che, parlando con le insegnanti e con gli alunni, mi èparsa essere piuttosto centrale nell’esperienza scolastica di entrambi 11 .L’impressione è che ci sia oggi, nella scuola, una forte pressione alla performance, alrendimento, al risultato. L’insegnante di educazione artistica della scuola “Manzoni”, ad esempio, siritiene facilitato nel lavoro con gli alunni/e stranieri non perché la sua materia fornisca loro deimezzi di espressione diversi da quelli linguistici, ma solo perché consente loro di avere buoni votianche senza conoscere l’italiano.Ora, poiché l’insuccesso è visto sempre più come insuccesso dell’insegnante, oltre chedell’alunno/a (pesanti conflitti fra dirigente e docenti, in sede di scrutini finali, ruotavano appuntoattorno all’insuccesso così concepito), per il/la docente diventa fondamentale non solo che lealunne/i imparino, ma che riescano, e in ciò l’italiano ha una parte fondamentale. Infatti, nonostante11 Ai fini di questa ricerca, il fatto che io non fossi dotata del potere di mettere i voti è stato determinante nel far sì chené le insegnanti né gli alunni/e mi percepissero mai come una ‘vera’ prof, come un soggetto davvero interno alla scuola.7


diversi documenti ministeriali raccomandino il “rispetto dei ritmi di <strong>apprend</strong>imento di ciascuno/a”,le insegnanti devono, a scadenze prefissate, produrre una valutazione il più possibile accurata diognuno/a dei propri allivi/e; sebbene si dica che essa debba valutare la persona nel suo complesso, èanche vero che essa deve esprimersi attraverso indicatori quantitativi 12 , e basarsi su ‘prove’ il piùpossibile oggettive, che possano essere esibite in caso di contestazioni - pericolo che, per vero opresunto che sia, viene evocato spesso dai professori e tenuto presente nei consigli di classe, e forsegioca una parte nell’aumentato uso delle verifiche scritte rispetto a quelle orali. Ma il presuppostologico affinché la valutazione abbia senso è che l’alunno/a abbia gli strumenti per produrre laperformance che si intende misurare e confrontare, e cioè, generalmente, che sia in grado (1) distudiare a casa e (2) di produrre un testo su ciò che ha studiato. Spesso le insegnanti mi hannomanifestato il loro imbarazzo di fronte alla necessità di dare un voto ad alunni/e appena arrivati/e econ livelli di italiano molto bassi, come sentendo che questa operazione avesse poco senso. Spesso,contestualmente, mi veniva richiesto di insegnare delle cose che per me erano inaudite (cioè deltutto inadeguate ad <strong>apprend</strong>enti di quel livello) ma che in teoria avrebbero avuto lo scopo di dare airagazzi i mezzi per poter fare le verifiche e rendersi quindi ragionevolmente valutabili.La possibilità di prevedere obiettivi formativi individualizzati non scalfisce, di fatto, quella che èla sostanza di questa cultura della valutazione, perché la retribuzione, l’orario di lavoro e il numerodi alunni/e per insegnante non permettono alle docenti di definire obiettivi davvero individualizzati,ma al massimo di ritoccarli al ribasso. Si possono infatti preparare verifiche individualizzate per glialunni/e non madre<strong>lingua</strong> (sebbene ciò aumenti la mole di lavoro non retribuito della docente) manon si può, per vincoli oggettivi evidenti, insegnare in modo individualizzato.Alla luce di quanto detto, è per diventare valutabili, prima ancora che per avere una buonavalutazione, che gli alunni/e devono in una certa misura essere “italianizzati”. In questo senso,l’aspirazione di “mettergli dentro le cose con la vanga”, cioè l’aspirazione - sistematicamentefrustrata - di insegnare la L2, varietà per lo studio compresa, in tempi ben poco realistici, nonsembra essere una scelta del tutto idiosincratica delle docenti della scuola “Manzoni”, marifletterebbe la volontà/necessità di spingere le alunne/i a un certo tipo di successo scolastico.6. “Devi capire che sei in Italia”L’ansia di “fargli imparare l’italiano” può essere spiegata anche in altri modi. I bambini e iragazzi inseriti in un contesto di L2 attraversano quasi sempre la cosiddetta fase del silenzio,durante la quale non parlano mai e possono apparire completamente passivi, anche se in realtàstanno attivando processi cognitivi importantissimi per l’acquisizione dell’L2. L’assenza difeedback da parte dell’alunno/a che così intensamente si desidera accogliere e istruire èdisorientante, e quasi snervante, persino per chi sia consapevole che si tratta di una fase normale.Ciò potrebbe configurare l’ansia di ‘alfabetizzare’ come un’ansia di far uscire dal silenzio le proprieallieve/i.“Alcuni sono perfettamente italianizzati quindi non hai il problema dell’alfabetizzazione”, dicela professoressa F. Essere italianizzati significa quindi principalmente parlare italiano. La <strong>lingua</strong> èla marca principale dello straniero/a: non a caso gli stranieri, nei due più grandi imperi delMediterraneo, sono stati chiamati appunto ‘barbari’ e ‘berberi’, termini che rimandano allabalbuzie, a una non completa facoltà di parlare. In senso opposto, per attestare l’italianità deiragazzi/e nati/e in Italia da famiglie migranti, si dice spesso che parlano addirittura in toscano,emiliano, romano ecc.L’ansia che circonda l’<strong>apprend</strong>imento dell’L2 è forse l’ansia di rendere simile il diverso? Nelleinterviste e nella riunione della commissione intercultura, le insegnanti della scuola “Manzoni”immaginano la classe di ingresso come un corso che renderebbe in partenza gli alunni/e stranieri/e12 La riforma Gelmini (legge n.169/08) ha reintrodotto i voti in numeri, ma anche le formule “Ottimo, distinto, buono,sufficiente… / obiettivo pienamente, complessivamente, parzialmente raggiunto” in uso precedentemente eranocollocate su una scala di valore fissa ed erano di fatto molto simili alla votazione in numeri.8


uguali a tutti gli altri, pronti/e a affrontare la scuola quanto i/le madre<strong>lingua</strong>. Questa idea di classedi ingresso implica che, per essere davvero integrati/e e stare in classe, gli stranieri/e devono primapassare un periodo fuori di essa, nel quale diventare più simili agli altri, almeno linguisticamente.Derrida sostiene che “formare frasi grammaticalmente corrette è il primo segno di subordinazionesociale”, ed è innegabile che la classe, la routine scolastica richiedano una certa disciplina 13 . Inquesto senso, uno straniero/a che formula frasi corrette in italiano darebbe un segno disubordinazione al nuovo contesto linguistico-sociale. Forse, il segno di avere definitivamente“capito” (metafora ricorrente) di essere in un altro paese:“[I ragazzi sono oppositivi e indisciplinati] fino a che non arrivano a capire che tu non sei in Marocco,tu sei in Italia, ti devi adeguare, devi fare le cose che fanno gli altri...” (R., corsivo mio)“Noi è un anno che finanziamo questa famiglia, non è che aspettiamo un grazie, ma la finanziamo anchenello spirito di vedere un ritorno in termini di integrazione cioè a te noi ti diamo una mano, sei venuto inItalia, nei punti in cui la tua libertà viene a contatto con quella degli altri tu ti devi un attimo smussarenon puoi essere così oltranzista da portarti il Bangladesh in Italia.” (V., riferendosi alla famiglia di unacompagna di scuola della figlia).Il fatto che un/una migrante voglia restare com’è invece di diventare più simile a noi è, in parte,una cosa che crea irritazione e inquietudine in se stessa. V. sostiene che “il problema è che alcuninon vogliono integrarsi” e che “vengono qui con l’intenzione di restare come sono” come se sitrattasse di un problema in sé, senza sentire il bisogno di riferirsi ad alcuna situazione in cui il loro“restare come sono” possa turbare il nostro essere come siamo, né di portare ad esempio unaqualunque pratica o credenza che possa in qualche maniera, pratica o etica, venire a conflitto con lenostre. Il parlare italiano, dimostrazione tangibile che il/la migrante inizia a diventare come noi,potrebbe allora essere un segno capace di placare questo tipo di angoscia 14 .7. Lingue materne e italiano: rapporti di potere fra le lingueAll’ansia della scuola affinché i ragazzi/e imparino l’italiano fa da contraltare il desiderio dellemadri che i figli/e non dimentichino la <strong>lingua</strong> del paese d’origine. Le madri credono - in fondogiustamente, anche se forse con poco riguardo per i tempi dell’istruzione - che “dato che viviamoqui prima o poi l’italiano lo imparerà”, mentre la <strong>lingua</strong> del paese d’origine, se non praticata, rischiadi essere dimenticata. Viceversa, le insegnanti sembrano concentrate unicamente sulla necessità diimparare l’italiano, e non prendono affatto in considerazione la necessità di non dimenticare la<strong>lingua</strong> d’origine, fatto che ritengono evidentemente o poco probabile o poco grave. L’idea che unafamiglia conti di tornare un giorno nel proprio paese viene considerata ingenua, improbabileoppure, più spesso, non viene neanche presa in considerazione fra le possibilità, mentrel’importanza della L1 per le relazioni familiari e gli affetti e/o per lo sviluppo della competenzalinguistica generale non è mai stata citata nelle conversazioni cui ho assistito o partecipato 15 . Leinsegnanti, con grande frequenza, deplorano il fatto che gli alunni/e passino le vacanze estive nei13 Del resto, la disciplina in classe viene spesso regolata dall’insegnante con mezzi verbali molto raffinati, quali ironia,allusioni, sarcasmo, ‘trattative’, mediazioni, minacce più o meno esplicite, ma gli alunni/e con livelli più bassi di L2 sicollocano in questo senso fuori dalla portata persuasiva, coercitiva o punitiva di questi mezzi.14 Saskia Sassen, in un intervento a Bologna (L’anello forte, l’anello debole. Essere donna nella migrazione, a curadell’Istituzione ‘G. F. Minguzzi’, 14/11/08), ha sottolineato come in questo atteggiamento si possa leggere anche undato positivo. La maggiore ansia nei confronti dello straniero/a sarebbe (anche) sintomo del fatto che ci si senteinterpellati profondamente dalla sua presenza, che ci si sente in dovere di farsi carico di lui/lei. Le società, come gliUSA, che guardano all’immigrato/a con meno angoscia, sono anche quelle in cui ognuno è abbandonato a se stesso.15 Anche se la scuola elementare ha istituito un corso pomeridiano di <strong>lingua</strong> araba marocchina, la maggior parte dellemaestre che ho incontrato condivide queste posizioni, e il corso è visto più che altro come un generico “venireincontro” alle famiglie mussulmane.9


loro paesi d’origine perché in questo modo disimparano l’italiano, e lo fanno spesso anche di fronteai ragazzi/e, a dispetto della loro gioia per queste estati dai nonni. Molte docenti trovanoinopportuna questa scelta da parte dei genitori, e gliene fanno quasi una colpa in quanto indice di unnon tenerci abbastanza a che il figlio/a impari l’italiano e/o a che abbia un buon rendimentoscolastico.Molti discorsi che ho ascoltato hanno come presupposto implicito il fatto che non solo sianecessario, ma che sia quasi un dovere morale imparare l’italiano e desiderare di impararlo. Se lefamiglie, a causa della loro cultura, possono (colpevolmente) venir meno a questo assioma, quasimai questo può accadere con i bambini/e e i ragazzi/e. Nel caso di un mio alunno, per spiegare ilmancato <strong>apprend</strong>imento dell’L2, si prendevano in considerazione tutti i possibili fattori, compreso ilritardo mentale, ma difficilmente si riusciva a concepire la possibilità che un quindicenne albanese,trasferito in Italia che per decisione non sua, semplicemente non volesse imparare la <strong>lingua</strong> di unpaese che non amava. La convinzione comune è che, se gli alunni non imparano, è perché nonriescono, perché hanno poche ore o perché non vogliono studiare, ma difficilmente è contemplata lapossibilità che l’Italia e l’italiano possano essere non desiderabili per un immigrato/a.In controluce, si può leggere in tutto questo una particolare configurazione di rapporti di poterefra le lingue (Asad 1986):1. L’italiano è la <strong>lingua</strong> della scuola, parlare bene italiano ti permette di andare bene a scuola,dunque non puoi non desiderare di impararlo. In questo senso, la supremazia dell’italiano sarebbelegata a quello stesso tipo di autoreferenzialità della scuola per cui quando si dice “impararel’italiano” ci si riferisce alla <strong>lingua</strong> della scuola mentre l’italiano orale standard, così rapidamenteappreso dagli alunni/e, non sembra nemmeno far parte a pieno titolo della <strong>lingua</strong> italiana.2. L’italiano è la <strong>lingua</strong> che ti permetterà di lavorare, è una <strong>lingua</strong> economicamente piùredditizia della tua <strong>lingua</strong> madre. Per capire come da ciò discenda un dovere nei confronti della<strong>lingua</strong> italiana, si pensi a quanto fortemente la figura del migrante, nelle leggi come nei discorsi disenso comune, viene responsabilizzata rispetto al compito di mantenersi e mantenere la famiglia(permesso di soggiorno legato al lavoro, ricongiungimento familiare legato al reddito e allasituazione abitativa ecc.)3. L’italiano è la <strong>lingua</strong> del paese che ti ospita, parlarla è il segnale che vuoi farti accettare.Un/una migrante che non desideri imparare l’italiano, in questo senso, è simile a quello che “non sivuole integrare”, ciò che rappresenta una ferita e un’angoscia, prima ancora che un problemapratico, per la società ospitante.Ma l’avversione delle insegnanti per le vacanze in Marocco dei loro alunni è sintomo, primaancora che di un implicito assetto ideologico neocoloniale, di una drammatica incomprensione, nontanto culturale, ma umana, fra le famiglie di origine straniera e le docenti. Queste ultime sono dicerto condizionate dall’abito mentale che gli viene dalla routine lavorativa quotidiana, in cui la<strong>lingua</strong> che conta conoscere è l’italiano e la <strong>lingua</strong> d’origine non solo (apparentemente) non serve,ma sembra fin troppo solidamente radicata nelle menti degli alunni/e a scapito di quella italiana.Un’insegnante che ha faticato tanto per far acquisire qualche parola di italiano a un suo alunno, dicerto mal sopporta l’idea che il proprio lavoro vada perduto in un’estate. Un’immagine più correttadei percorsi di acquisizione dell’L2, mai lineari e sempre intrecciati con quelli della L1, potrebbeaiutare a non vederlo come un lavoro “perduto” e a non vedere la <strong>lingua</strong> materna come un ostacoloper l’acquisizione dell’italiano. Ma nonostante questo, non cessa di stupire il fatto che le insegnantidimentichino completamente, pur essendo il più delle volte madri a loro volta, e molto spesso anchemigranti dal meridione italiano, quale pena può rappresentare il veder crescere i propri figli lontanodalla famiglia allargata, fino al punto di perdere l’uso di una <strong>lingua</strong> comune con essa.Alla base di questa situazione, si intrecciano una mancata sintonizzazione della donna italianasulla situazione esistenziale della straniera, una incapacità della scuola e dell’insegnante dicontemplare esigenze diverse da quelle scolastiche, cioè di accettare che nella vita possa contareanche qualcosa di diverso da ciò che conta in classe, e infine una vaga percezione di ingratitudine10


da parte delle insegnanti nei confronti dei ragazzi stranieri e delle loro famiglie, che “butterebberoal vento” con tanta leggerezza il faticoso lavoro dell’insegnante andando a trascorrere le vacanzeestive nei paesi d’origine.8. LavoroSi è detto che le insegnanti della scuola “Manzoni”, in genere, lavorano moltissimo. Questo èdovuto sia a situazioni tipiche di ogni scuola italiana (prolungarsi delle riunioni e del ‘lavoro diregistro’ ben oltre l’orario retribuito), sia alla pressione di alcune forme di finanziamento, chevincolano i fondi al pagamento di ore aggiuntive del solo personale interno, sia a un forte senso deldovere morale e sociale che induce le professoresse a occuparsi degli alunni in difficoltà, stranieri enon solo, durante le proprie ‘ore buche’ e nel tempo libero.Quest’ultima dinamica è diffusissima fra le lavoratrici donne impiegate nel sociale (GruppoSconvegno 2003) e sebbene possa apparire in molti casi provvidenziale, è senza dubbio anchemolto problematica 16 . Innanzi tutto, il superlavoro, anche se scelto, coltiva sempre l’aspettativainconscia di un qualche ritorno in termini di gratitudine o di ‘salvataggio’ quasi miracoloso deisoggetti bisognosi, il che espone al rischio di pesanti frustrazioni. In secondo luogo, esso comportaun’improvvisazione di professionalità (nel caso in questione, docenti che diventano mediatriciculturali, psicologhe, assistenti sociali, insegnanti di L2…) aumentando la probabilità, per chi sipresta a questi ruoli, di affaticarsi emotivamente e/o di fallire. Infine, ci si può chiedere se sia giustoche la mancanza di risorse, nella scuola e nel sociale, venga così sistematicamente tamponata,consentendo alle istituzioni di continuare a lesinare i fondi e gli interventi senza pagarne leconseguenze.“È sempre più difficile, le condizioni di lavoro sono talmente pesanti, perché la famiglia è latitante, iragazzi hanno problemi, e devi fare lo psicologo, la mamma, lo psichiatra, l’alfabetizzatore, il papà...”“Abbiamo ragazzi molto problematici per i quali abbiamo dovuto attivare (...) ore a disposizione nostreper tirarli fuori dalle classi perché non riescono a stare in classe (...) Ma sono ragazzini italiani per lamaggioranza, non sono ragazzini stranieri, ragazzi in grossa difficoltà dal punto di vista affettivo (...)abbiamo usato delle nostre ore per tirare fuori questi ragazzini, per rendere vivibile ad esempio laclasse di J.” (F.)La percezione di ingratitudine delle insegnanti è quindi ricollegabile a questa situazione di(auto)sfruttamento lavorativo ad alto contenuto emotivo, e le docenti stesse, nelle interviste, se nemostrano a tratti consapevoli. La loro consapevolezza però rimane vaga e la sensazione di disagio,in genere, non viene elaborata ulteriormente proprio perché resta stretta nel ricatto di un’interculturaimplicitamente declinata non in termini di professionalità, ma di indefinito doveremorale/umanitario nei confronti degli alunni/e in difficoltà. Ma quanto meno viene elaborato, tantopiù questo malessere resta incapace di esprimersi in un’analisi e in un discorso propri, e rimanevulnerabile alla forza di attrazione di quei discorsi implicitamente o esplicitamente fobici,paternalisti o discriminatori nei confronti dei migranti che purtroppo sono sempre più ‘dicibili’,agibili e legittimati, in ambito politico e mediatico, nel nostro paese.Infatti, anche se i ragazzini/e stranieri/e non sono certo i soli alunni problematici, né la sola fontedi stress, per le insegnanti delle “Manzoni”, in sala professori l’espressione del disagio e dellaproblematicità si concentra principalmente su di loro, e ciò avviene perché i discorsi del sensocomune, oggi, consentono più facilmente di lamentarsi degli stranieri. In particolare, tali discorsipermettono di aspettarsi da loro un surplus di gratitudine, in quanto nulla gli sarebbe realmentedovuto, o di appellarsi alla loro ‘altra cultura’ per imputare loro, senza che sia necessario alcun16 Anche la cooperativa che fornisce le ore di L2 e mediazione culturale alla scuola impiega quasi esclusivamentegiovani donne, la cui sindrome da impegno sociale viene esplicitamente incoraggiata dai vertici della cooperativa.L’autoinchiesta del gruppo Sconvegno di Milano (Manifestolibri 2003 e materiale autoprodotto) è un interessantedocumento in merito.11


ulteriore sforzo di comprensione, qualsiasi tipo di comportamento non rispondente alle aspettative.Entrambi questi atteggiamenti sono presenti in alcuni passaggi delle mie interviste. Non intendodire, con questo, che le insegnanti coltivino coscientemente queste convinzioni. Alcune non lecoltivano nemmeno inconsciamente, ma in ogni caso è questo l’universo di senso in cui simuovono, all’interno del quale parlano e agiscono e al di fuori del quale sembra non ci sia modo diparlare. Che sia per distanziarsene o per confermarli a malincuore, i luoghi comuni sugli immigratio sull’ ‘altra cultura’ dei mussulmani costituiscono l’orizzonte di senso obbligato di quasi tutte leconversazioni. In questo modo, fra i macro-discorsi pubblici e politici e i micro-discorsi quotidianidella comunità scolastica delle “Manzoni”, si instaura una complicità circolare in cui gli uniforniscono consenso agli altri e viceversa.Ma per quanto si possa esprimere strumentalmente in discorsi che non condividiamo, e perquanto possa essere causata in parte da scelte didattiche sbagliate, che rendono gli interventi menoefficaci, o da concezioni errate, che non permettono di valutare serenamente i risultati, fra le cause ei discorsi rimane comunque la realtà di una frustrazione e di un malessere che coinvolge leinsegnanti tanto quanto gli alunni e le alunne.9. Sapere e piacereAbbiamo visto come F. rappresenti l’esigenza di integrare gli alunni/e stranieri in una classe equella di fargli acquisire la seconda <strong>lingua</strong> come se fossero quasi in conflitto fra loro (“Per riuscire aintegrarli e riuscire a fargli imparare anche bene l’italiano dovremmo far sì che loro arrivano evengono sì inseriti in una classe, per carità, ma per sei mesi, un anno hanno una parte della lorosettimana che è dedicata allo studio dell’italiano…”). Un altro punto intorno al quale emerge laretorica integrazione nella classe vs. <strong>apprend</strong>imento, con una sensazione di problematicità cosìforte da sembrare sproporzionata rispetto ai termini dichiarati della questione, è il dilemma diinserire gli alunni/e stranieri/e nella classe che gli toccherebbe per età o nella classe di un annoinferiore 17 . Il discorso, ampiamente condiviso, è che nella classe inferiore i ragazzi/e abbianoprofitti migliori ma creino problemi disciplinari, mentre nella classe giusta “hai l’aspetto sociale cheè positivo” (R.) ma risultati scolastici peggiori.Ma come è possibile che l’inserimento in un gruppo di coetanee/i madre<strong>lingua</strong> non sia d’aiuto,anzi sia addirittura d’intralcio, per l’<strong>apprend</strong>imento di una <strong>lingua</strong>? Come è possibile che stare benecon i/le compagni/e e studiare argomenti adatti all’età si accompagni così fatalmente a un cattivorendimento? Il legame fra condotta, interesse/motivazione e profitto sembra essersi completamentedissolto; il piacere dell’alunna/o non è in relazione con il suo <strong>apprend</strong>imento, ma anzi sembraessergli addirittura nemico.La glottodidattica chiama in causa la dimensione del piacere laddove si occupa di motivazioneintrinseca. Le insegnanti, ovviamente, sono a conoscenza di questi principi ma, in certe situazioni,sembrano trattarli come una specie di lusso che non ci si può permettere. Lo stesso accade anche adaltri precetti della scuola dell’intercultura i quali, anche se ben conosciuti e condivisi in teoria dalleinsegnanti, a volte tendono ad essere messi da parte come qualcosa che si potrebbe e si dovrebbefare se le cose già andassero bene, se come scuola fossimo all’altezza, ma purtroppo – quasi perdefinizione - la realtà non è quella che immaginano gli esperti di intercultura. Insomma, in questeoccasioni, è come se l’educazione interculturale fosse vista come una cosa che può venire solo dopoaver risolto i problemi più gravi e non come un mezzo per risolvere quegli stessi problemi.Luisa Muraro, che è stata insegnante prima che filosofa della differenza, ha inserito, in un testofilosofico di ormai trent’anni fa, spunti sulla scuola che ancora oggi sembrano attuali: è forse invirtù di uno stesso processo che nella nostra cultura il sapere si allontana dal piacere, le parole dallecose, il mondo della scuola da quello dell’esperienza ‘fuori’, e la teoria dalla pratica (Muraro 1981).In tutto ciò, è bene ricordare che il piacere mutilato è anche quello delle insegnanti. Quando esse17 Per i dati sulla frequenza degli inserimenti in classe inferiore v. nota 10.12


assumono posizioni del tipo ‘integrarli sì, ma’, esse non intendono tanto esprimere una posizione inmateria di didattica, quanto piuttosto criticare, per mezzo di essa, la politica del Ministerodell’istruzione di inserire subito gli alunni e le alunne stranieri nelle classi, senza prevedere alcontempo un investimento di risorse economiche e progettuali che consenta di farlo senza caricaredi ulteriori richieste e responsabilità il lavoro, già faticoso, delle insegnanti attualmente in servizio.Del resto, l’idea che la classe di ingresso possa servire in questo senso è assolutamente illusoria.In primo luogo, se stiamo a quelle che, almeno limitatamente alla mia esperienza, sembrano esserele esigenze della maggioranza delle insegnanti delle medie, ci vorrebbero forse tre/quattro anni perraggiungere il livello di <strong>lingua</strong> che renderebbe un alunno pienamente adeguato ai metodi didattici edi valutazione che queste sono abituate a usare. In secondo luogo, non c’è motivo di credere chetutte le contraddizioni esaminate sopra (pressione alla performance, didattica logocentrica, un certopaternalismo, incapacità di pensare la differenza ecc.) non colpiscano anche gli alunni e le alunne dimadre<strong>lingua</strong> italiana. Un rinnovamento della scuola in senso interculturale, allora, diventaindispensabile per l’integrazione di tutti - per accogliere la differenza di cui ciascun allievo oallieva, italofono o no, è portatore, e per il conseguente benessere delle insegnanti che con talidifferenze, e con le proprie, si devono confrontare faticosamente ogni giorno.BibliografiaAsad, T., 1986"Il concetto di traduzione culturale nell’antropologia sociale britannica" in J. Clifford e G. E.Marcus, Writing culture: the poetics and politics of ethnography, Berkeley, University of CaliforniaPress. Trad. it.: Scrivere le culture, Roma, Meltemi, 2001.Balboni, P. 1998Tecniche didattiche per l’educazione linguistica, Torino, UTET.Calvino, I. 1965 [1980]“L’anti<strong>lingua</strong>”, Il Giorno, 3/2/1965. Ristampa in Una pietra sopra, Tornino, Einaudi, 1980.Callari Galli, M. 2000Antropologia per insegnare, Milano, Mondadori.Gallissot, R., Kilani, M., Rivera, A. 2000L’imbroglio etnique in quatorze mot clés, Lausanne, Payot. Trad. it. L’imborglio entico inquattordici parole chiave, Bari, Dedalo, 2001.Gobbo F., Gomes A. M. (a cura di) 1999Etnosistemi. Processi e dinamiche culturali, VI, 6.Gruppo Sconvegno 2003“Emanciparsi dal lavoro”, Posse. Politica Filosofia Moltitudini. Divenire-donna della politica,Roma, Manifestolibri, pp. 63-74.M.I.U.R., Direzione generale per lo studente, Ufficio per l’integrazione degli alunni stranieri,2005Rapporto sull’integrazione degli alunni stranieri, Roma (http://www.miur.it > pubblicazioni)M.I.U.R., Direzione generale per i sistemi informativi e Direzione generale per lo studente, 200513


Indagine sugli esisti degli alunni con cittadinanza non italiana, anno scolastico 2003/04, Roma(http://www.miur.it > pubblicazioni).M.I.U.R. Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazioneinterculturale, 2007La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, Roma(http://www.miur.it > pubblicazioni)Muraro, L. 1981 [2004]Maglia o uncinetto, racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia,Milano, Feltrinelli. Ristampa: Roma, Manifestolibri, 2004.Pallotti, G. 2000La seconda <strong>lingua</strong>, Roma, Bompiani.Pallotti, G. e Associazione <strong>Intercultura</strong>le Polo Interetnico 2005 (a cura di)Insegnare e imparare l’italiano come seconda <strong>lingua</strong>, Roma, Bonacci.Alessia Acquistapaceacquapazz@bruttocarattere.org14

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