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Antonio Freno - La Contrada

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la contrada<br />

TEATRO STABILE DI INTERESSE PUBBLICO<br />

Quela note in via Crosada<br />

Ninì Perno e Francesco Macedonio


la contrada<br />

TEATRO STABILE DI INTERESSE PUBBLICO<br />

Presidente<br />

Orazio Bobbio<br />

Direttore artistico<br />

Francesco Macedonio<br />

Direttore organizzativo<br />

Ivaldo Vernelli


teatro la contrada<br />

via del Ghirlandaio, 12<br />

34138 Trieste<br />

tel. 040 948471<br />

fax 040 946460


Ninì Perno e Francesco Macedonio<br />

<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong><br />

a cura di Paolo Quazzolo


<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong><br />

Orazio Bobbio<br />

la contrada<br />

stagione I997 8<br />

/ 9<br />

prima rappresentazione<br />

Trieste teatro cristallo<br />

3 ottobre 1997


Indice<br />

007 Roberto Damiani<br />

Un impegno per Trieste<br />

009 Orazio Bobbio<br />

Un rinnovamento nella tradizione<br />

011 Francesco Macedonio<br />

Note di regia<br />

015 Ninì Perno<br />

Una canzone<br />

017 Paolo Quazzolo<br />

Dalla cronaca al palcoscenico<br />

024 Nota iconografica<br />

027 Marina Cattaruzza<br />

Cittavecchia tra Ottocento e Novecento<br />

035 Ondina Ninino<br />

<strong>La</strong> fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte<br />

049 Ninì Perno e Francesco Macedonio<br />

Quela note in via Crosada. <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong><br />

095 <strong>La</strong> pittura triestina tra Ottocento e Novecento<br />

104 Schede


Un impegno per Trieste<br />

Roberto Damiani<br />

ViceSindaco di Trieste<br />

Mantenendo fede al suo impegno nei confronti della città, anche quest’anno<br />

il Teatro Stabile <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong> apre l stagione di prosa con un testo<br />

in dialetto triestino. Quela note in via Crosada. <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> di Ninì<br />

Perno e Francesco Macedonio prosegue lungo il percorso imboccato più<br />

di vent’anni fa dalla compagnia di Orazio Bobbio e Ariella Reggio, espressamente<br />

dedicato alla valorizzazione del teatro in dialetto triestino.<br />

Questo lavoro di ricerca ha contraddistinto la <strong>Contrada</strong> sin da A casa tra<br />

un poco, lavoro che scrissi assieme a Claudio Grisancich nel 1976 e con<br />

il quale la compagnia aprì le proprie attività artistiche. Il testo affondava<br />

le radici nella cronaca cittadina proponendo una riflessione su una pagina<br />

importante della nostra storia locale e al contempo proponendosi di<br />

valorizzare la scrittura drammaturgica in triestino. Da allora sul palcoscenico<br />

abbiamo visto la <strong>Contrada</strong> alle prese sia con opere che hanno rivitalizzato<br />

la tradizione della commedia brillante, sia con lavori drammatici.<br />

Questo impegno ha portato la <strong>Contrada</strong> a una vera e propria azione filologica,<br />

recuperando il linguaggio triestino di un tempo, affrontando aspetti meno<br />

conosciuti della storia locale e rivitalizzando - come qui avviene in modo<br />

specifico - il repertorio della canzone popolare d’inizio secolo.<br />

<strong>La</strong> realtà teatrale di Trieste si distingue per la vivacità delle proposte e per la<br />

risposta immediata di un pubblico meraviglioso e unico per competenza,<br />

intelligenza, passione e caldo affetto. <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong> reca un contributo meritorio<br />

e originale, del quale mi compiaccio come Assessore alla Cultura e mi<br />

congratulo con sincerità e lealtà come Presidente del “Rossetti”. <strong>La</strong> città sta<br />

crescendo nel settore sempre più ampio delle attività culturali. Ne siamo<br />

tutti orgogliosi e riconoscenti a chi - come Orazio, Ariella e gli amici della<br />

<strong>Contrada</strong> - a questa eccezionale crescita contribuisce con la sua impronta, il<br />

suo temperamento, il suo amore per Trieste e per l’arte.<br />

7


Un rinnovamento nella tradizione<br />

Orazio Bobbio<br />

Con la messa in scena di Quela note in via Crosada. <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> di<br />

Ninì Perno e Francesco Macedonio, la <strong>Contrada</strong> offre per la prima volta<br />

al proprio pubblico, in apertura di stagione, un lavoro in dialetto triestino<br />

che si scosta dalla tradizionale commedia brillante. Si tratta di una piéce<br />

che, pur senza assumere i toni più cupamente drammatici, affronta una<br />

tematica di sicuro impegno e di solido spessore drammaturgico.<br />

Come è ben noto, la <strong>Contrada</strong> già in passato ha più volte proposto con<br />

successo alla platea triestina opere drammatiche in dialetto: basti ricordare<br />

Un baseto de cuor di Claudio Grisancich o Galina Vecia di Augusto<br />

Novelli, che hanno incontrato il plauso convinto degli spettatori. <strong>La</strong> scelta<br />

di aprire il cartellone di prosa 1997-1998 con un testo drammatico vuole<br />

essere il segno di un rinnovato impegno che la <strong>Contrada</strong> da sempre profonde<br />

nel settore della drammaturgia in dialetto. È questa la volontà precisa<br />

di valorizzare un filone teatrale e un gruppo di autori che costituiscono<br />

la base di una tradizione drammaturgica - quella triestina, appunto -<br />

che certamente non può vantare una storia molto antica.<br />

<strong>La</strong> scelta di un testo come <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> ha permesso di attuare un<br />

prezioso lavoro di ricerca sia sul fronte linguistico, con il recupero di un<br />

dialetto triestino dalla forte valenza teatrale, sia con la riproposta di alcune<br />

canzoni popolari che il mutare dei tempi rischia di far scomparire per<br />

sempre dalla memoria collettiva. E inoltre questa messinscena ha consentito<br />

di proporre il ritratto di un mondo quale era quello di un rione<br />

popolare della Trieste di inizio secolo, chiuso e quasi ghettizzato all’interno<br />

dei suoi confini. Documento questo di una realtà sociale che non si<br />

esaurisce solamente all’interno dell’epoca storica o del luogo geografico<br />

rappresentati, ma che nel suo sconcertante dipanarsi presenta aspetti di<br />

viva attualità.<br />

9


Note di regia<br />

Francesco Macedonio<br />

Già parecchi anni addietro avevo pensato di realizzare uno spettacolo sulla<br />

storia di <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> ma, per un motivo o per l’altro, il progetto non era<br />

mai giunto a realizzazione. Ora, nel ripercorrere la genesi di questo testo,<br />

posso dire che la scelta dell’argomento non è stata casuale, da un lato<br />

perché possiede una sorta di legame artistico con El mulo Carleto, lo<br />

spettacolo della passata stagione, dall’altro perché tocca un tipo di sensibilità<br />

che mi stimola in modo particolare.<br />

Questa vicenda, i suoi personaggi, le sue atmosfere, mi hanno coinvolto<br />

profondamente sin dal primo momento. Di <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> mi ha subito<br />

colpito la storia semplice e un po’ primitiva, i personaggi caratterizzati da<br />

una forte rudezza eppure animati da forti e sincere passioni. Personaggi<br />

che forse non è facile amare e che nella realtà quotidiana non si vorrebbe<br />

neppure conoscere. Sono così lontani, così diversi da noi a tal punto che,<br />

quando ridono, possono divenire persino inquietanti. Perché inquietante<br />

non è solo colui che dice o fa cose misteriose: inquietante può essere<br />

molto di più la risata su una barzelletta che non l’azione violenta di un<br />

accoltellamento. I personaggi di questa vicenda non sono dei ribelli, ma<br />

solo dei diversi. Il vivere in un quartiere disagiato e il loro essere poveri,<br />

li pone irrimediabilmente lontano da noi, perché molta gente non ama la<br />

diversità o la povertà. Anche i cani abbaiano contro i poveri: e la guardia<br />

Nagode abbaia contro questa gente che non è simpatica perché ha la<br />

colpa di appartenere a un mondo diverso.<br />

Non è facile, a volte, spiegare il perché di determinate scelte o per quale<br />

motivo una determinata cosa ti affascina. Il personaggio della fioraia, per<br />

esempio, richiama spontaneamente alla memoria tutta una serie di sentimenti<br />

che conducono al patetismo e alla dolcezza. Sono questi gli elementi<br />

che ti coinvolgono, che fanno presa, che ti spingono a scegliere<br />

11


12<br />

questo personaggio piuttosto che quello, a farlo parlare in un modo piuttosto<br />

che in un altro.<br />

Allestire uno spettacolo su questa tematica permette di far vedere al pubblico<br />

tutto un universo di comportamenti che difficilmente oggi sono conosciuti.<br />

Il punto non è tanto sottolineare gesti o movimenti appartenuti a<br />

un mondo lontano, quanto piuttosto la scoperta di certi modi comportamentali<br />

che oggi non esistono più. Per esempio quello dell’uomo<br />

che invitando a ballare una donna si pulisce le mani sui calzoni: è questo<br />

un piccolo gesto che, come molti altri, è stato dimenticato, ma che ci<br />

ricollega immediatamente a un modo di vivere e di sentire propri di un’altra<br />

epoca. È interessante far rivivere delle cose che non ci sono più, proporle<br />

alla gente di oggi affinché possa vederle, ricordarle...<br />

Questo spettacolo non vuole essere la ricostruzione di un fatto di cronaca,<br />

quanto piuttosto il tentativo di riproporre e ricordare un mondo fatto<br />

di gente semplice; è la volontà di afferrare l’atmosfera, i sentimenti, le<br />

emozioni di quel mondo per portarli a far vedere al pubblico dei nostri<br />

giorni.<br />

Nel passaggio dal fatto di cronaca all’azione scenica si è cercato mantenere<br />

intatti i sentimenti e le emozioni così come li visse nella realtà <strong>Antonio</strong><br />

<strong>Freno</strong>. Egli era una persona insoddisfatta, che aveva molto sofferto nell’infanzia<br />

perché non aveva conosciuto la madre e perché il padre non era<br />

mai stato tale per lui. Cresciuto in un orfanotrofio, era stato vittima di<br />

umiliazioni e violenze, ma soprattutto di una forte mancanza di affetto. E<br />

non è casuale che <strong>Freno</strong> fosse una persona in cerca di affetto, mansueto<br />

se trattato bene, capace di divenire terribile se trattato con odio. Pur senza<br />

voler giustificare l’azione violenta compiuta dal protagonista, tuttavia<br />

l’omicidio trova spiegazione proprio in quel suo sentirsi aggredito e trattato<br />

con ingiustizia da chi, in quel momento, rappresenta il potere.<br />

<strong>La</strong> parte centrale nella messinscena di <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> credo possa essere<br />

indicata in una delle scene del primo atto. Si tratta della festa improvvisata,<br />

il momento in cui <strong>Freno</strong>, in osteria da Guelfo, offre a Lucia e agli amici<br />

un colombo. <strong>La</strong> festa viene rovinata da Nagode, dall’autorità che fa concludere<br />

repentinamente la baldoria. Eppure nella memoria di tutti i partecipanti,<br />

essa verrà ricordata come un momento unico e irripetibile. Quando,<br />

all’ultima scena della commedia, trent’anni più tardi, Pepi Spinazza si<br />

lascia andare alla memoria del passato, non è un caso che ricordi proprio<br />

quella festa, divenuta simbolo di un mondo che non esiste più. E allora il<br />

ricordo assume il sapore dell’onirico, laddove ci si chiede se le cose che<br />

si ricordano sono davvero esistite oppure se siano solo frutto della fanta-


sia. E così Pepi Spinazza diviene cantore di un mondo che forse è solo<br />

nella sua immaginazione e che non è mai esistito, celebratore di un ambiente<br />

che nel ricordo appare perfetto ma che forse così non era.<br />

<strong>La</strong> stesura di questo testo ha permesso di realizzare un lavoro di ricerca<br />

su più piani. Da un lato si è agito a livello linguistico, tentando di ricostruire<br />

- per quanto possibile - le espressioni del dialetto parlato in Cittavecchia<br />

agli inizi del secolo. E questo tenendo presente che si tratta di una lingua<br />

non letteraria ma viva, detta, parlata. Tuttora il triestino è una lingua che<br />

si sta evolvendo, i giovani parlano in modo diverso rispetto gli anziani;<br />

certi modi di dire sono oggi scomparsi, mentre spesso i giovani fanno uso<br />

di espressioni che i vecchi non conoscono.<br />

Su un altro lato questa commedia ha permesso di fare un lavoro di ricerca<br />

sulla canzone popolare triestina degli inizi del secolo, recuperando un<br />

repertorio di canzoni spesso dimenticate. Esse costituiscono una sorta di<br />

cultura “da osteria”, luogo questo dove la gente andava non solo per bere,<br />

ma anche per raccontarsi delle storie, per narrare i propri fatti, le passioni<br />

e anche per cantare. Era l’osteria il luogo per eccellenza dove si sviluppava<br />

la cultura popolare. <strong>La</strong> stessa canzone di <strong>Freno</strong> è nata nelle osterie e là<br />

è stata tramandata sino a noi da persone come i Pastrovicchio ai quali si<br />

deve la conservazione di questa fetta di cultura popolare che altrimenti<br />

sarebbe andata perduta irrimediabilmente.<br />

13


Una canzone<br />

Ninì Perno<br />

Dalla canzone – tuttora molto nota e ancora cantata – siamo risaliti al<br />

personaggio, alla sua storia e al suo ambiente.<br />

E ci siamo trovati in presenza di una Trieste dei primi anni del Novecento<br />

ricca di figure e di luoghi ora scomparsi.<br />

Rena vecia: una parte della città vicina al porto, dove abitava la povera gente,<br />

dove si aprivano i bordelli per i marinai e le osterie di basso rango, dove<br />

regnavano le leggi della piccola malavita e la polizia – seppure presente –<br />

faticava a far rispettare le proprie. Leggi della malavita basate su un particolare<br />

codice d’onore, di lealtà e di amicizia («Vergogna no xe rubar, vergogna<br />

xe no portar niente a casa») in ossequio all’autorità del più forte che si<br />

faceva valere facendo scattare la lama del coltello che portava “in seno”. C’è<br />

anche disperazione, in queste vite senza amore, con un desolante passato<br />

da dimenticare e un futuro inesistente e nebbioso, fantasticato tra un bicchiere<br />

e l’altro senza la forza o la volontà di realizzare.<br />

Ma c’è il collante delle canzoni.<br />

Un filo musicale tenero e continuo che racconta le tragedie, i delitti, o<br />

anche solo la vita di tutti i giorni col desiderio di esorcizzare le brutture e<br />

le fatiche quotidiane in un canto liberatorio e corale.<br />

Il vino, il canto e lo stare insieme: gli unici tesori di vite “a perdere”.<br />

Così, quando l’autorità, l’altro, l’elemento contrario e ostile vuole intervenire<br />

e soffocare proprio quel momento di abbandono e di allegria, scatta<br />

la reazione incontrollata e furiosa.<br />

Queste, alcune delle considerazioni che ci hanno portato a leggere quel<br />

fatto di cronaca nera del 1904 come una foto un po’ sbiadita, virata color<br />

seppia, di un gruppo di persone all’angolo di via Crosada.<br />

15<br />

Ninì Perno è nata a<br />

Trieste. Regista Rai,<br />

autrice di originali<br />

radiofonici, ha firmato<br />

molte trasmissioni<br />

televisive di successo,<br />

tra le quali Un giorno<br />

in pretura. Tra i<br />

radiodrammi va<br />

ricordata la serie dei<br />

processi celebri<br />

realizzata per la Sede<br />

regionale della Rai.<br />

Come autrice teatrale<br />

ha scritto, per la<br />

<strong>Contrada</strong>, la<br />

commedia Un sial per<br />

Carlotta, andata in<br />

scena nel 1981 e,<br />

assieme a Francesco<br />

Macedonio, Quela<br />

sera de febraio...<br />

rappresentata a<br />

Trieste nel 1990 e<br />

Un’Isotta nel giardino<br />

(1995).


Dalla cronaca al palcoscenico<br />

Paolo Quazzolo<br />

«Il tragico fatto seguito in via Crosada e di cui rimase vittima una guardia<br />

di pubblica sicurezza, ci produsse grandissima e penosa impressione.<br />

Questa fu condivisa da tutta intera la cittadinanza, commossa all’immagine<br />

di quella povera donna orbata del marito e di quei poveri bimbi privati<br />

dell’unico sostegno. […] È generalmente lamentata la mancanza di sorveglianza<br />

in cui si trovano le vie delle Beccherie, Crosada e del Fortino,<br />

nonché della Pescheria vecchia, tutte vie che per essere site dove trovansi<br />

delle case pubbliche, oltreché di prostitute sono piene zeppe di notte di<br />

moltissima gente, tra cui parecchi pregiudicati che spesso si approfittano<br />

della confusione massima regnante in quelle vie a causa delle suddette<br />

donne allegre. Il cittadino che passa per quei paraggi a stento riesce a<br />

superare quelle forche caudine, che sono costituite dalle prostitute che<br />

gli s’appiccicano d’attorno invitandolo in mille guise ai loro alberghi. Il<br />

cittadino che prosegue la via non dando ascolto a quelle offerte, è insultato<br />

e nella confusione che vien generata i pregiudicati si approfittano per<br />

far man bassa nelle saccoccie del malcapitato. […] Non bastano quindi<br />

due guardie che devono fare quattro ore di ronda continua per tutte quelle<br />

vie, per tutti quegli inestricabili labirinti fatti di angiporti oscuri e di<br />

antri dove il buio è pesto e l’insidia può riuscire coll’impunità<br />

dell’insidiatore. Per quelle contrade dieci guardie sarebbero ancora insufficienti!»<br />

Così il 26 settembre 1904 il quotidiano Il Gazzettino di Trieste commentava<br />

il delitto di via Crosada, il tragico fatto di sangue avvenuto due giorni<br />

addietro che aveva profondamente sconvolto l’opinione pubblica cittadina.<br />

Tutti i quotidiani di allora dedicarono non poco spazio alla vicenda,<br />

tentando sin dal primo momento di dare una logica ricostruzione dei fatti.<br />

Il tono polemico adottato dall’articolista del Gazzettino era la risposta<br />

17


18<br />

più immediata alla situazione di malessere e di insicurezza che da molto<br />

tempo affliggeva le vie di Cittavecchia, il quartiere popolare sito nel pieno<br />

centro di Trieste e caratterizzato da un livello malavitoso veramente preoccupante.<br />

L’intrico complesso e labirintico delle viuzze che si inerpicavano<br />

su per il colle di San Giusto, una illuminazione notturna precaria, la<br />

presenza di numerosi bordelli nonché di osterie malfamate, offrivano sicuro<br />

riparo a persone tutt’altro che raccomandabili, divenendo così il punto<br />

di riferimento di una umanità degradata che viveva rinchiusa in una sorta<br />

di universo a sé stante.<br />

Non c’è da meravigliarsi, quindi, se la zona fosse accuratamente evitata<br />

da coloro che appartenevano a ceti sociali differenti, consci che l’ingresso<br />

in quel labirinto di vie oscure avrebbe costituito un vero pericolo per<br />

l’incolumità personale. E d’altra parte lo stesso pericolo era vissuto quotidianamente<br />

dalle guardie che svolgevano là dentro il servizio di vigilanza,<br />

a diretto contatto con una popolazione a loro ostile. L’assassinio di<br />

Giacomo Nagode messo a segno da <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>, deve quindi essere<br />

interpretato quale punta emergente di un conflitto costante che contrapponeva<br />

gli agenti di pubblica sicurezza agli abitanti del quartiere, coloro<br />

che cercavano di far rispettare l’ordine a coloro che nelle guardie vedevano<br />

il simbolo di un potere oppressivo e invadente.<br />

<strong>La</strong> storia di <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> si consumò nel giro di poche ore, dalla notte di<br />

sabato 24 settembre 1904 alla mattina successiva, quando lo stesso protagonista<br />

- fuggito nel frattempo a Isola d’Istria - si consegnò alle guardie<br />

senza opporre resistenza alcuna. Il ricordo di quel fatto di sangue è rimasto<br />

documentato - oltre che in una nota canzone popolare - in un corposo<br />

fascicolo conservato presso l’Archivio di Stato di Trieste riguardante gli<br />

atti penali del Tribunale Provinciale. Un insieme di documenti costituito<br />

da interrogatori, testimonianze, perizie psichiatriche, dichiarazioni, atti<br />

del processo, ricorsi e contro-ricorsi, che consentono di ricostruire la verità<br />

storica e le motivazioni profonde di quel gesto di violenza.<br />

Soprannominato “il terrore di via Crosada”, noto per la sua violenza e per<br />

la sua irascibilità, <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> è stato in seguito mitizzato ed è divenuto<br />

una sorta di piccolo eroe popolare, simbolo della ribellione contro un’autorità<br />

a stento sopportata. Ma chi era in realtà <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>? Senza dubbio<br />

il prodotto di un malessere sociale, di una condizione di vita disagiata<br />

che spesso conduceva persone miti a trasformarsi in autentiche belve e a<br />

far valere se stesse tramite la legge del più forte. <strong>La</strong> descrizione fisica che<br />

si può leggere nel protocollo di arresto, ce lo presenta come un uomo di<br />

statura media, di corporatura giusta, dalla faccia provvista di mustacchi<br />

dal colore scuro, occhi e capelli castani, fronte bassa, naso regolare.


Nato a Trieste il 4 dicembre del 1876, <strong>Freno</strong> ebbe un’infanzia difficile. <strong>La</strong><br />

madre, Maria Mladinovich, morì poco dopo il parto per idropisia, mentre<br />

il padre, Rocco, già al secondo matrimonio, era prossimo ai settant’anni.<br />

Dopo la perdita della seconda moglie, il padre di <strong>Antonio</strong> si sposò per la<br />

terza volta e, desideroso di sbarazzarsi dell’incomoda presenza di questo<br />

figlio, lo relegò nella Pia Casa dei poveri, l’orfanotrofio cittadino. Qui <strong>Antonio</strong><br />

ebbe occasione di farsi - seppure a fatica - una istruzione scolastica<br />

di base e di mettere subito in luce un carattere certamente difficile e<br />

umorale. E a ciò certamente non giovarono la mancanza di affetto, le punizioni<br />

e i maltrattamenti subiti. Uscito dall’orfanotrofio a quattordici anni,<br />

fece per qualche tempo il falegname; trasferitosi poi a Capodistria, fu spazzacamino,<br />

professione che svolse anche a Gorizia e Trieste. Stabilitosi<br />

nuovamente nella sua città, <strong>Freno</strong> svolse l’attività di facchino, di venditore<br />

girovago di cocomeri e anche di contrabbandiere di acquavite. In seguito<br />

fu disoccupato, spesso vivendo alla giornata o facendosi mantenere<br />

da una prostituta, Lucia Popovich, che era divenuta la sua donna.<br />

Allo squallore di una vita sbandata si aggiunse anche la malattia. Come è<br />

possibile desumere delle perizie mediche e dai ripetuti ricoveri ospedalieri,<br />

<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> era afflitto da epilessia nonché dagli effetti di un alcoolismo<br />

spinto ai massimi livelli. Abituato a bere sin da giovanissimo, egli era in<br />

grado di assimilare - secondo quanto sostenuto dalle perizie - sino a undici<br />

litri di vino al giorno, cifra questa senz’altro impressionante.<br />

Di carattere instabile, egli era soggetto a violenti dolori al capo che spesso<br />

ne appannavano il ragionamento, mentre una notevole irascibilità e<br />

aggressività si scatenavano in lui non appena aveva l’impressione di essere<br />

trattato ingiustamente o con violenza. Insoddisfatto della propria esistenza<br />

che lui stesso non aveva difficoltà a considerare infelice, nel luglio<br />

del 1904 cercò di togliersi la vita ingerendo dell’acido fenico.<br />

Il nome di <strong>Freno</strong> era ben noto alla polizia. Prima degli avvenimenti del<br />

1904 egli aveva già riportato una quindicina di condanne per furto e pubblica<br />

violenza, l’ultima delle quali nell’agosto precedente. In quell’occasione<br />

egli mise a segno un furto di cinquanta corone ai danni di una prostituta.<br />

Il caso grottesco volle che la donna, il cui nome era Lucia Popovich,<br />

dopo aver denunciato <strong>Freno</strong> se ne innamorasse, divenendo così la sua<br />

compagna.<br />

I fatti che riguardano l’assassinio di via Crosada sono ampiamente documentati<br />

dalle numerose testimonianze che la polizia raccolse nelle ore<br />

immediatamente seguenti il fatto, così come dallo stesso <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>,<br />

che rese ampia e dettagliata confessione. Nonostante la discrepanza esi-<br />

19


20<br />

stente tra le diverse versioni, tuttavia si può stabilire che all’origine del<br />

delitto vi fu una provocazione da parte della guardia di pubblica sicurezza<br />

Nagode. Costui investì con eccessiva violenza verbale <strong>Freno</strong> il quale, già<br />

di per se stesso psichicamente instabile, ebbe una reazione incontrollata.<br />

Ammonito a non cantare, <strong>Freno</strong> rispose in modo brusco, vi furono spintoni<br />

e strattonate, sinché si giunse alle armi. Ne seguì una violenta colluttazione,<br />

al termine della quale Nagode, ripetutamente colpito con un coltello, cadde<br />

a terra esangue. Lo stesso <strong>Freno</strong>, nella foga della lotta, si conficcò il<br />

temperino nella mano sinistra, ferendosi gravemente. L’omicida, dopo<br />

aver gironzolato inebetito per i dintorni e dopo essersi fasciato alla meno<br />

peggio la mano sanguinante, decise di allontanarsi dalla zona. Si diresse<br />

allora in piazza della Barriera Vecchia e da qui su per via Molino a vento<br />

sino al cimitero di Sant’Anna. Lungo la strada per Zaule, <strong>Freno</strong> si fece<br />

dare un passaggio da un carro di campagna diretto a Capodistria. Cammin<br />

facendo tuttavia decise di cambiare destinazione e sulla strada di<br />

Semedella smontò dal carro e proseguì a piedi alla volta di Isola d’Istria.<br />

Qui giunto si fece medicare la mano da un dottore, per poi prendere alloggio<br />

presso un affittacamere.<br />

Le indagini di polizia non durarono molto a lungo. Le indicazioni dei testimoni<br />

e i sospetti supportati da indizi sin troppo evidenti, permisero di<br />

raggiungere <strong>Freno</strong> a Isola già la mattina seguente, dove fu arrestato senza<br />

grosse difficoltà. Lui stesso, dopo aver tentato in modo maldestro di<br />

negare il fatto, confessò spontaneamente, consegnando inoltre ai gendarmi<br />

l’arma del delitto ancora sporca di sangue. Da qui l’uomo venne riportato<br />

con il treno a Trieste, dove giunse alle 10 di sera, alla stazione di S. Andrea,<br />

tra due ali di curiosi.<br />

<strong>La</strong> procedura giudiziaria fu molto rapida e già il 10 dicembre 1904 la corte,<br />

all’unanimità, pronunciò la sentenza di condanna a morte mediante<br />

capestro. Gli avvocati di <strong>Freno</strong> ricorsero contro la sentenza, sostenendo<br />

che questa era stata condizionata da una perizia psichiatrica di parte. Ed<br />

effettivamente, rileggendo tale perizia, appaiono evidenti tutta una serie<br />

di contraddizioni. Se da un lato si dimostra che <strong>Freno</strong> era un alcoolizzato,<br />

dall’altro si sostiene che egli, al momento dell’omicidio, era pienamente<br />

sobrio, nonostante avesse tracannato più di due litri di vino e parecchi<br />

bicchieri di birra. Se al principio si dimostra che <strong>Freno</strong> era ammalato di<br />

epilessia, al termine si conclude che tale malattia in realtà non lo affliggeva<br />

gravemente.<br />

Sebbene il ricorso fosse stato respinto, il 3 maggio 1905 <strong>Freno</strong> fu graziato<br />

dall’imperatore che commutò la pena di morte in carcere duro a vita. Trasportato<br />

nel penitenziario di Maribor, qui rimase sino al 1922, anno in cui


venne concessa una amnistia in occasione delle nozze del re Alessandro<br />

di Jugoslavia. Tornato a Trieste, venne rinchiuso nuovamente in carcere<br />

in quanto, secondo le leggi di allora, spettava solamente al re italiano<br />

graziare i cittadini di Trieste condannati dagli ex tribunali austriaci. Il 3<br />

ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III concesse la riduzione di pena a<br />

trent’anni, mentre il 15 agosto del 1924 la pena venne ulteriormente ridotta<br />

a ventidue anni.<br />

<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> uscì di carcere nel 1926, all’età di cinquant’anni. Di lui non<br />

si posseggono altre notizie, all’infuori di quella che lo vuole in seguito<br />

sposato e padre di due figli.<br />

Quanto a Giacomo Nagode, originario di Longatico, ventinovenne, morì<br />

poco dopo la colluttazione per rapido dissanguamento a seguito di numerose<br />

ferite, la più grave delle quali aveva reciso la carotide. <strong>La</strong>sciò una<br />

moglie malata di cuore e due figli molto piccoli.<br />

<strong>La</strong> trasposizione teatrale della storia di <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> realizzata da Francesco<br />

Macedonio e Ninì Perno più che offrire una visione truculenta e<br />

realistica della vicenda, ne propone una rilettura in chiave poetica. Addolciti<br />

gli elementi più duri, eliminato ogni eccesso di violenza, la commedia<br />

diviene un attento studio d’ambiente. Al suo interno spicca l’attenzione<br />

riservata dagli autori alla ricostruzione del dialetto d’inizio secolo, così<br />

come alla riscoperta di alcune canzoni popolari triestine, che contribuiscono<br />

a ricreare l’atmosfera di Cittavecchia. Il susseguirsi dell’azione<br />

rispecchia con una certa fedeltà i reali fatti di cronaca che peraltro costituiscono<br />

la fonte prima e ineliminabile sulla quale costruire una commedia<br />

di questo genere. Gli stessi personaggi, da <strong>Antonio</strong>, a Lucia, a Pepi<br />

Spinazza, alle prostitute, portano il nome dei protagonisti di quel lontano<br />

fatto di cronaca, così come i luoghi, le vie, le osterie, i bordelli, sono tutti<br />

la trasposizione di simili ambienti effettivamente esistiti.<br />

Non mancano certamente alcune trasgressioni alla realtà storica, dettate<br />

dalla vena creativa degli autori che hanno così voluto dare spazio alla loro<br />

sensibilità artistica e a una rilettura interiore di alcuni aspetti della vicenda.<br />

Ecco allora comparire sulla scena della commedia un personaggio<br />

indimenticabile come quello della fioraia Gigeta, simbolo di dolcezza e di<br />

patetismo, figura evocatrice di ricordi lontani traboccanti d’affetto. Ecco<br />

materializzarsi sulla scena, all’inizio del secondo atto, il barone, personaggio<br />

simbolo dell’uomo sottomesso e codardo, oggetto di scherno ma<br />

anche insostituibile fonte di guadagno per le prostitute da lui frequentate.<br />

Uno squarcio di allegria posto al centro delle sequenze più drammati-<br />

21


22<br />

che della storia, capace di creare un singolare e stridente accostamento<br />

di tonalità opposte.<br />

<strong>La</strong> brutalità della vicenda di cronaca poteva concretizzarsi sulla scena teatrale<br />

solamente attraverso un tono drammatico che entrasse armonicamente<br />

in sintonia con lo spirito del carattere triestino. Sarebbe quindi<br />

inutile cercare di scorgere nel testo di Macedonio e della Perno una<br />

tragicità antica o, ancor peggio, una drammaticità dal cupo sapore<br />

espressionistico. <strong>La</strong> stessa letteratura triestina, non estranea alla sensibilità<br />

drammatica, si è sempre espressa attraverso un tono che tende piuttosto<br />

alla melanconia, al sentimento o al ricordo, ma mai alle tinte cupe o<br />

violente. Da qui il dipanarsi di una vicenda all’interno della quale non<br />

manca posto per la battuta allegra, per la risata, per i toni melanconici o<br />

patetici, che allentano e diluiscono l’incedere drammatico della storia.<br />

<strong>La</strong> ricostruzione drammaturgica della vicenda di <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> oltre a<br />

poggiare sui già citati fatti di cronaca, porta con sé un la coscienza di una<br />

civiltà teatrale che influisce inevitabilmente sulle scelte operate dagli autori.<br />

Nella trasposizione teatrale di un fatto ambientato in un quartiere<br />

proletario della Trieste di inizio secolo, è possibile sentire l’eco di alcuni<br />

modelli forti della drammaturgia europea precedente. A partire dal<br />

Woyzeck di Georg Büchner, opera cara agli espressionisti tedeschi, dotata<br />

di una forte carica di violenza e di una notevole cupezza, in gran parte<br />

fondata sulla tematica del disfacimento sociale e della corsa verso<br />

l’autodistruzione. Temi questi che vengono addolciti da un altro modello<br />

rintracciabile dietro l’opera di Macedonio-Perno: Bilora di Ruzante. E qui<br />

emerge immediatamente la tematica della contrapposizione tra il potente<br />

e l’uomo del popolo, così come dell’omicidio causato dall’ubriachezza e<br />

dall’ira di chi si sente calpestato nei suoi diritti. Il tutto in una chiave di<br />

lettura che stempera la tragicità con la battuta comica e con una visione<br />

del mondo non del tutto cupa. E infine, dietro la coralità della vicenda<br />

teatrale di <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>, può essere scorto il modello offerto da El nost<br />

Milan di Carlo Bertolazzi, commedia in dialetto milanese che racconta<br />

una storia di povera gente ambientata in un quartiere popolare del capoluogo<br />

lombardo. Una storia dietro la quale non è difficile scorgere le tracce<br />

di un clima non completamente dissimile a quello tutto luci e ombre di<br />

Cittavecchia.<br />

Di questi modelli l’eco si ripercuote talora anche dietro singole battute<br />

della commedia che, pur nella loro originalità, divengono a tratti una sorta<br />

di citazione di quegli esempi che ne hanno ispirato l’atmosfera.<br />

Ma anche nella strutturazione linguistica del testo gli autori hanno cerca-


to un linguaggio che riproponesse la parlata di Cittavecchia degli inizi del<br />

secolo. In tale senso molto hanno contribuito le citazioni, spesso testuali,<br />

delle frasi in dialetto che compaiono nei verbali degli interrogatori. Ma a<br />

creare l’atmosfera linguistica appropriata contribuiscono anche una notevole<br />

quantità di proverbi, detti popolari, modi di dire, talora ancora in<br />

uso nella parlata triestina, ma tutti rigorosamente risalenti all’epoca dell’azione.<br />

E infine anche le barzellette che sono inserite all’interno della<br />

commedia sono la riproposta di altrettanti raccontini che compaiono in<br />

alcune pubblicazioni di fine Ottocento.<br />

<strong>La</strong> vicenda teatrale di <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> più che essere letta come la riproposta<br />

nostalgica di un mondo che non c’è più, deve essere interpretata come la<br />

volontà di ricostruire un ambiente, con i suoi personaggi, la loro gestualità,<br />

il loro modo di parlare e di esprimersi, rendendo così omaggio a un mondo<br />

che è ormai scomparso e che i ritmi della vita moderna hanno per<br />

sempre cancellato. E forse proprio nella festa che costituisce il cuore del<br />

primo atto, è possibile rintracciare il segno più chiaro di questa operazione.<br />

Non è casuale che, alla fine della commedia, quella festa divenga un<br />

ricordo lontano, a metà strada tra il vero e il sognato, mitizzazione di un<br />

mondo che ormai sta vivendo la sua ultima stagione.<br />

<strong>La</strong> commedia di Francesco Macedonio e Ninì Perno si conclude agli inizi<br />

degli anni Trenta, quando <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>, uscito di prigione, ritorna ai<br />

luoghi di un tempo. Ma ormai si percepisce che l’atmosfera è mutata, le<br />

generazioni sono cambiate, il mondo di inizio secolo non esiste più. Non<br />

è una coincidenza - e questo fa parte della realtà storica - che proprio nel<br />

1937, nel corso dei lavori di risistemazione urbanistica, parte di<br />

Cittavecchia sia stata completamente demolita. Anche la sezione iniziale<br />

di via Crosada cadde sotto i colpi delle ruspe e oggi rimane ben poco di<br />

quella che fu la naturale scenografia della storia di <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>. Ora la<br />

parte superstite di via Crosada è inagibile per i lavori di risanamento edilizio,<br />

mentre la sua sezione iniziale, che si spingeva sino all’incrocio con<br />

via della Muda vecchia, ha ceduto il posto alla più ampia via del Teatro<br />

Romano. <strong>La</strong> casa numero 4, presso la quale <strong>Freno</strong> uccise Nagode, sorgeva<br />

più o meno ai piedi della gradinata che conduce alla chiesetta di San<br />

Silvestro: quello che fu il suo posto, è oggi occupato da una rivendita di<br />

giornali.<br />

23


24<br />

NOTA ICONOGRAFICA<br />

Per le illustrazioni pubblicate in questo<br />

programma di sala si ringrazia il dottor<br />

Adriano Dugulin, direttore dei Civici<br />

Musei di Storia ed Arte di Trieste, che<br />

ha concesso la riproduzione di alcune<br />

fotografie di Cittavecchia scattate agli<br />

inizi del secolo, provenienti dall’Archivio<br />

fotografico dei Civici Musei.<br />

Per i quadri dei pittori triestini tra<br />

Ottocento e Novecento esposti alla<br />

Galleria d’Arte Moderna, si ringrazia la<br />

dottoressa Maria Masau Dan, direttore<br />

del Civico Museo Revoltella, che ne ha<br />

consentito la riproduzione.<br />

Queste illustrazioni, unitamente a<br />

molte altre provenienti dalla raccolta<br />

dell’Archivio fotografico dei Civici<br />

Musei di Storia ed Arte di Trieste, sono<br />

state utilizzate dallo scenografo Sergio<br />

D’Osmo e dal costumista Fabio<br />

Bergamo per la realizzazione dell’aspetto<br />

visivo dello spettacolo.<br />

Pag. 25: Isola d’Istria. Casa Lovisato.<br />

Pag. 30-31: Isola d’Istria. Casa Lovisato<br />

e Casa gotica veneziana<br />

.Pag. 32: Cittavecchia. Via Pozzo di<br />

Crosada. Corte della casa n. 7. Foto di<br />

Pietro Opiglia. Inverno 1925/26.<br />

Pag. 33: Cittavecchia. Androna della<br />

Fontanella. Foto di Pietro Opiglia.<br />

Inverno 1925/26.<br />

Pag. 34: Cittavecchia. Via Giuseppe<br />

Rota. Atrio e scaletta scoperta della<br />

casupola n. 1. Foto di Pietro Opiglia.<br />

Inverno 1925/26.<br />

Pag. 37: Cittavecchia. Via Pozzo di<br />

Crosada verso via delle Mura. Foto di<br />

Pietro Opiglia. Inverno 1925/26.<br />

Pag. 38: Cittavecchia. Un’androna<br />

innominata in via Crosada n. 10. Foto di<br />

Pietro Opiglia. Inverno 1925/26.<br />

Pag 39: Cittavecchia. Androna degli<br />

Orti. Foto di Pietro Opiglia. Inverno<br />

1925/26.<br />

Pag. 40: Cittavecchia. Via del Fortino.<br />

Foto di Pietro Opiglia. Inverno 1925/<br />

26.<br />

Pag. 41: Cittavecchia. Androna di<br />

Riborgo. Foto di Pietro Opiglia.<br />

Inverno 1925/26.<br />

Pag. 42: Cittavecchia. Via Crosada,<br />

portone della casa n. 1. Foto di Pietro<br />

Opiglia. Inverno 1925/26.<br />

Pag. 43: Cittavecchia. Androna del<br />

Forno. Foto di Pietro Opiglia. Inverno<br />

1925/26.<br />

Pag. 44: Cittavecchia. Via Sporcavilla.<br />

Foto di Pietro Opiglia. Inverno 1925/<br />

26.<br />

Pag. 45: Cittavecchia. L’Arco di<br />

Riccardo agli inizi del secolo.<br />

Pag. 46-47: Cittavecchia. <strong>La</strong> spianata di<br />

fronte al Corso Italia dopo i lavori di<br />

demolizione del 1937.<br />

Pag. 76: Cittavecchia. Via Crosada,<br />

portone della casa n. 13. Foto di Pietro<br />

Opiglia. Inverno 1925/26.


Cittavecchia tra Ottocento e Novecento<br />

Marina Cattaruzza<br />

Nell’opinione dei contemporanei Cittavecchia era unanimemente vissuta<br />

come mondo a sé stante, governato da proprie leggi, abitato da una specie<br />

umana particolare che poco aveva di comune con il resto della popolazione.<br />

Nel 1902, la scrittrice tedesca Ricarda Huch descriveva il II distretto<br />

come «... uno sgradevole labirinto di vicoli stretti e bui, che fa l’effetto<br />

di una tana o di una cantina sotterranea in cui si entra da ridenti e soleggiate<br />

colline». Cittavecchia «era abitata solo dal basso ceto e veniva evitata dai<br />

benestanti che non si esponevano volentieri allo sguardo della miseria e<br />

agli sciami questuanti dei bimbi laceri, e, del resto, non vi avevano anche<br />

nulla da cercare» 1 . Anche Silvio Benco, altrimenti propagatore di un’immagine<br />

edulcorata e di maniera della città “irredenta”, posto di fronte alla<br />

realtà di Cittavecchia, rinunciava ai consueti orpelli retorici e tratteggiava<br />

con toni “impressionistici” il seguente quadro della parte più antica della<br />

città «... una grande tavolozza di bruni, di rossigni, di grigi, di tinte sporche,<br />

di toni cupi fino al nero sordo e polveroso della fuliggine; un grande<br />

impasto di miserie e sudiciume, nel quale la vita umana brulica come un<br />

fermento... l’odore di sfacelo delle vecchie murature, il miasma delle infiltrazioni<br />

viscide, il tanfo dell’aria imputridita negli antri bui di certi portoni,<br />

nella semioscurità equivoca di certe bottegucce, si confondono in una<br />

complicata atmosfera ammorbante, dove è sentore di ragnatele e di topaie,<br />

di calcinacci e di legni consunti, di letti sfatti e di ferrame rugginoso, di<br />

cuoi freschi e di legnami fradici, di friggeria, di rigatteria, di alcoolismo e<br />

di prostituzione... Nella parte bassa del quartiere la vergogna striscia, si<br />

occulta, serpeggia con una specie di pudore ignobile, per vie che rompono<br />

su altre vie ugualmente anguste, tetre e ambigue, nelle quali, là dove<br />

giunge a toccare, si insudicia la stessa luce del sole. Qui la vita diurna ha<br />

un alcunché di nauseante e di corrotto, che non si spiega bene se non<br />

pensando alla vita notturna, quando le innumerevoli bottegucce si chiu-<br />

27<br />

1 Ricarda Huch, Aus<br />

der Triumphgasse,<br />

Hamburg, 1953, p. 11,<br />

p. 6.


28<br />

2 Silvio Benco, Trieste,<br />

Trieste, 1910, p. 48-49.<br />

3 Nel 1875 Cittavecchia<br />

era con i suoi 20.278<br />

abitanti il distretto più<br />

popoloso della città. Nel<br />

1913 il II distretto non<br />

contava che 18.926<br />

abitanti e risultava, in<br />

ordine alla popolazione,<br />

l’ultimo dei distretti<br />

urbani. Cfr. <strong>La</strong><br />

popolazione di Trieste<br />

nel 1875, Trieste 1878,<br />

“Bollettino Statistico<br />

mensile”, “Riassunto di<br />

statistica”.<br />

4 Cfr. “Riassunto di<br />

statistica”, a. 1911-1912.<br />

5 Il contributo<br />

percentuale che<br />

Cittavecchia dà al totale<br />

dei morti è costantemente<br />

superiore al<br />

contributo degli abitanti<br />

del II distretto al totale<br />

della popolazione. Nel<br />

1913 in Cittavecchia<br />

non abita che il 7,9%<br />

della popolazione di<br />

Trieste ma i morti<br />

rappresentano ben il<br />

10,2% del totale (!). Cfr.<br />

“Riassunto di statistica”<br />

a. 1913.<br />

dono e gli innumerevoli lupanari si illuminano, quando il cencioso bazar<br />

cede il campo alla suburra, la mercanzia dei robivecchi al mercato delle<br />

schiave dipinte, che si vedono gesticolare in tutti i trivi e a tutte le finestre...»<br />

2 .<br />

Emerge in questi giudizi, nella scelta degli aggettivi o delle metafore, una<br />

valutazione che va al di là della rilevazione della miseria materiale, una<br />

valutazione che riflette una qualche sorta di “condanna morale” nei confronti<br />

del II distretto urbano e di chi ci abita. Accanto alla condanna morale,<br />

l’estraneità e un senso di timore: lo stesso che spingeva i ceti benestanti<br />

a non avventurarsi per quei vicoli dove i segni distintivi della propria<br />

classe, che ogni borghese si porta addosso, sarebbero stati vissuti<br />

come “provocazione”.<br />

A questa soggettiva pericolosità del II distretto, più che a considerazioni<br />

di carattere igienico o “umanitario” va fatta risalire, secondo noi, la scelta<br />

dell’emarginazione di Cittavecchia dallo sviluppo urbanistico e<br />

demografico, successivo al Novecento.<br />

Il II distretto è il solo in cui la popolazione, tra il 1900 e il 1913 diminuisca<br />

in termini assoluti, tanto che, alla vigilia della guerra, in Cittavecchia abita<br />

meno gente che nel 1875 (!) 3 . Nel corso del boom edilizio del 1911-<br />

1912 il II distretto aumenta di sole sette costruzioni, contro le trentatré di<br />

cui si arricchisce, negli stessi anni, il nuovo quartiere proletario di S. Giacomo<br />

4 . Infine, ad ulteriore conferma dell’emarginazione oggettiva di tale<br />

distretto dalle dinamiche demografiche e dai movimenti della popolazione<br />

sviluppatesi con il nuovo secolo, rileviamo un tasso di natalità più che<br />

modesto, a cui si accompagnava un elevatissimo tasso di mortalità, quale<br />

suole riscontrarsi di norma nei quartieri abitati dai ceti eufemisticamente<br />

definiti “meno abbienti” 5 .<br />

Cittavecchia era diventata luogo di sedimentazione dei “rifiuti sociali”<br />

prodotti dallo sviluppo urbano già a partire dal Settecento, quando al nuova<br />

borghesia mercantile legata all’Emporio aveva eletto a propria sede la<br />

parte piana della città fuori delle mura medioevali e aveva costruito i propri<br />

palazzi e magazzini sui fondi delle vecchie saline (III distretto). Il nucleo<br />

urbano originario, cresciuto attorno al castello nell’epoca comunale,<br />

rimaneva monopolio dei ceti inferiori, delle classi lavoratrici intese nel<br />

loro significato più ampio, degli artigiani, delle categorie che vivevano<br />

del lavoro portuale, della pesca, degli imbarchi, nonché di quegli strati<br />

sociali che in un porto di mare solo con difficoltà possono essere distinti<br />

dalle classi lavoratrici vere e proprie e che traggono la loro sussistenza<br />

(del tutto o solo parzialmente) da traffici illeciti, stratagemmi di vario ge-


nere, ricettazioni, furti, prostituzione6 .<br />

Per tutta la metà del secolo XIX il II distretto era rimasto la sede pressoché<br />

esclusiva delle classi popolari urbane, accerchiato dai distretti signorili<br />

di Cittanuova e S. Vito, mentre la popolazione del suburbio rimaneva<br />

legata all’attività agricola. Ciò si rifletteva peraltro nella complessità dell’articolazione<br />

sociale e per mestieri degli abitanti di Cittavecchia. Uno<br />

spaccato di tale articolazione ci viene offerto dalle rilevazioni condotte in<br />

occasione del censimento del 1875 e da quelle, meno minuziose, ma altrettanto<br />

significative, del censimento generale del 1890. Nel 1875, la “classe<br />

operaia” risulta presente in misura notevole nel II distretto; dal punto<br />

di vista quantitativo prevalgono tuttavia, sulle categorie operaie vere e<br />

proprie, legate alla lavorazione del ferro (carpentieri, calderai, fonditori,<br />

fabbri ferrai), la manovalanza generica (i facchini sono di Cittavecchia la<br />

componente più numerosa7 ), i mestieri legati all’attività marinara<br />

(nocchieri, pescivendoli, fuochisti di bordo, marinai, macchinisti della<br />

navigazione a vapore, velaie), l’artigianato (cappellai, orefici, tappezzieri),<br />

le professioni legate ai servizi (camerieri, caffettieri, barbieri, cuochi,<br />

osti, stiratrici, servitù in genere), e infine quei settori di proletariato direttamente<br />

e univocamente collegati ad attività alegali ed extralegali (sensali,<br />

affittaletti quale supporto della prostituzione non regolamentata, meretrici,<br />

girovaghi, trafficanti, ecc.) 8 .<br />

Nel 1890 in Cittavecchia si registra, rispetto agli altri distretti, la presenza<br />

più alta di Bettgeher e di subaffittuari 9 , e se solo la prima di tali categorie<br />

è costituita complessivamente da indigenti, ambedue sono sintomatiche<br />

di una condizione sociale instabile.<br />

[…] Per tutto il periodo asburgico venne agitato in modo propagandistico<br />

e mistificato il problema del “risanamento” del II distretto, sede di<br />

un’umanità inquietante che sfuggiva agli schemi di classificazione della<br />

burocrazia austriaca, della cui esistenza come microcosmo era stata sancita<br />

l’estinzione, dietro il paravento ipocrita di condizioni materiali “insopportabili”,<br />

del tutto analoghe a quelle che a un altro capo della città<br />

erano state approntate per l’esercito degli operai immigrati.<br />

(da <strong>La</strong> formazione del proletariato urbano, Torino, Musolini Editore,<br />

1979)<br />

29<br />

6 Per lo svilupparsi di<br />

comportamenti<br />

“pericolosi” già nella<br />

fase emporiale cfr.<br />

Elio Apih, <strong>La</strong> società<br />

triestina nel XVIII<br />

secolo, Torino, 1957.<br />

Sulla prostituzione v.<br />

G. Schmutz, <strong>La</strong><br />

prostituzione e le<br />

prostitute a Trieste,<br />

Trieste, 1868.<br />

7 Nel 1875 si<br />

contavano in<br />

Cittavecchia 792<br />

facchini, la maggiore<br />

concentrazione sul<br />

territorio di questo<br />

settore di proletariato<br />

(cfr. <strong>La</strong> popolazione<br />

di Trieste nel 1875...<br />

cit., p. 174).<br />

8 Id. p. 162 ss.<br />

9 Dati tratti dal<br />

censimento generale<br />

del 1890.


<strong>La</strong> fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte<br />

Ondina Ninino<br />

<strong>La</strong> fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste è il luogo un po’<br />

magico dove, come per incanto, attraverso le foto scopriamo la Trieste<br />

del passato, così come la videro i nostri padri e i nostri nonni.<br />

È un patrimonio prezioso che ricercatori e studiosi utilizzano per documentare<br />

le loro opere e per descrivere la Trieste del tempo passato popolata<br />

da personaggi anche famosi quali - per citarne alcuni - Richard Burton,<br />

Italo Svevo e James Joyce.<br />

Il patrimonio fotografico dell’archivio dei Civici Musei di Storia ed Arte<br />

comprende circa centomila foto e copre un arco di tempo che va dalla<br />

seconda metà del secolo scorso ai giorni nostri.<br />

Vi sono rappresentate tutte le tecniche fotografiche dalla più antiche a<br />

quelle più recenti e spesso è possibile scoprire pezzi di particolare interesse<br />

tecnico.<br />

<strong>La</strong> collezione si è creata sia attraverso lasciti e donazioni di privati, sia<br />

tramite acquisti effettuati nel corso del tempo dai vari direttori dei Musei.<br />

Le foto, alcune molto belle e significative, sono opere sia di fotografi anonimi<br />

sia di professionisti quali Francesco Ramann, Giuseppe Wulz e il<br />

figlio Carlo, Augusto Tominz, Sebastianutti e Benque, Giuseppe Malovich,<br />

Mino e il figlio Oreste Zanutto.<br />

I soggetti delle fotografie spaziano dalla vita quotidiana alle cerimonie<br />

pubbliche, dagli avvenimenti politici ai fatti storici - talvolta anche tragici<br />

- che hanno caratterizzato oltre un secolo di storia di queste terre.<br />

Notevole è anche la collezione dei ritratti. Tra quelli legati alla storia cittadina<br />

possiamo citare quelli della famiglia Sartorio, della famiglia Morpurgo,<br />

il barone Pasquale Revoltella, Pietro Kandler, l’arciduca Massimiliano<br />

d’Austria e Guglielmo Oberdan.<br />

35


36<br />

L’archivio fotografico non si limita alle immagini di Trieste, ma comprende<br />

anche i dintorni: l’Istria, l’”Alto Isonzo”, diverse città italiane, stati europei<br />

ed extraeuropei.<br />

Un notevole numero di fotografie è stato realizzato anche da fotografi<br />

dipendenti del Museo come Pietro Opiglia che ha prodotto, durante i circa<br />

quarant’anni in cui si trovò a operare per l’Istituto, una ricca e pregevole<br />

documentazione di reperti del Museo ed anche una bella e interessante<br />

serie di immagini fotografiche di Cittavecchia come era prima delle<br />

demolizioni.<br />

Da questa serie sono state scelte e riprodotte in questa pubblicazione<br />

alcune foto scattate nel corso dell’inverno del 1925-1926, tutte molto suggestive,<br />

con l’intenzione di ricostruire lo “scenario” com’era ai tempi in<br />

cui visse <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>.<br />

I Civici Musei di Storia ed Arte comprendono anche il prezioso materiale<br />

fotografico della fototeca del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” (circa<br />

cinquantamila pezzi), che documenta la vita dei teatri e dello spettacolo<br />

e quello del Civico Museo di Guerra per la pace “Diego de Henriquez”.<br />

Va ricordato anche l’archivio “Giornalfoto” che contiene circa cinquecento<br />

mila negativi relativi alla cronaca cittadina dal giugno 1950 al dicembre<br />

1989.<br />

Nonostante l’avvento di nuovi sistemi che offrono un diverso approccio<br />

alle immagini visive, la fotografia rimane un documento e una testimonianza<br />

storica precisa ed efficace, che riesce a suscitare sempre varie ed<br />

intense emozioni.<br />

L’archivio fotografico dei Civici Musei di Storia ed Arte è perciò lo “scrigno”<br />

che conserva questo tesoro affinché tutti ne possano godere.


<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong><br />

Ninì Perno e Francesco Macedonio<br />

Tragicommedia in due atti<br />

Personaggi<br />

ANTONIO FRENO<br />

GIGETA, LA FIORAIA<br />

PEPI SPINAZZA<br />

FABRIS<br />

TOMBOLIN<br />

MAESTRO<br />

BARONE<br />

NAGODE<br />

BUTUS<br />

GUELFO<br />

RAVALICO<br />

BUDA<br />

NINO LUNA<br />

ERNESTO<br />

FRANZELE<br />

PESCATORE<br />

ELVIO<br />

DUILIO<br />

FISARMONICISTA<br />

LAMPIONAIO<br />

GUARDIA<br />

LUCIA<br />

APOLLONIA<br />

SANTINA<br />

ANGIOLINA<br />

LA SIGNORA<br />

MARIA<br />

49


ATTO PRIMO<br />

50 Scena prima – <strong>La</strong> strada<br />

<strong>La</strong> canzone “<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>” suonata prima da una fisarmonica poi cantata da<br />

una voce maschile – sulla canzone si apre il sipario. Llimbrunire – brontolio<br />

lontano di tuoni che continuerà a intervalli per tutto l’atto.<br />

LA VOCE (canta) tuti lo conossiamo:<br />

Se ciama <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>,<br />

Che col cortel in seno<br />

Girava la zità.<br />

Entra <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> – Si tocca la testa con le mani – Ha una smorfia dolorosa<br />

PEPI SPINAZZA (fuori scena chiama) <strong>Freno</strong>!<br />

(<strong>Freno</strong> ascolta) <strong>Freno</strong>! (<strong>Freno</strong> si volta)<br />

(Pepi entrando) F-freno... C-ciò <strong>Freno</strong>... F-freno spetime!<br />

’Dio <strong>Freno</strong>! (si ferma ansante)<br />

FRENO (calmo ma duro) Ciò, Pepi Spinazza, no ciamar per nome!<br />

No ciamar per nome! te go za dito che no se ziga mai el nome!<br />

PEPI M-ma no xe nissun!<br />

FRENO No se sa mai.<br />

PEPI S-scusa (pausa)<br />

FRENO Coss’ te vol?<br />

PEPI Xe tuto el giorno che te zerco.<br />

FRENO E po’?<br />

PEPI N-niente... Cussì. (pausa) Te ga un spagnoleto?<br />

FRENO (gli dà una sigaretta che prende da una tasca) Ciapa.<br />

PEPI (dopo una pausa) T-te ga un fulminante?<br />

FRENO Ciò, Spinazza! Ciapa anca un fulminante!<br />

PEPI (accendendosi la sigaretta) X-xe, x-xe che no xe lavor!<br />

FRENO E no te son bon de gratarghe el tacuin a qualchedun?<br />

PEPI Go provà, ieri matina, in Galeria Tergesteo.<br />

FRENO E alora?<br />

PEPI M-manca poco che i me guanta.


FRENO Te son proprio andà in asedo.<br />

PEPI S-son scalognà. (pausa) D-’do te va?<br />

FRENO A bever un otavo.<br />

PEPI V-vegno anca mi. (si incamminano) A-andemo a le “Tre porte”?<br />

FRENO No. ’Ndemo de Toio qua drio. Voio passar de Lucia che la invito per<br />

zena. Go ciolto un colombo in Piazza Granda e ghe lo go portà a Guelfo che<br />

me lo prepari. (si porta le mani alla testa)<br />

PEPI C-coss’ te ga?<br />

FRENO Me par che me vegni fora i oci de la testa.<br />

PEPI C-coss’ te sta mal?<br />

FRENO Xe sto tempo maledeto. Me ga becà l’ataco anca ieri. Son tuto insempià.<br />

PEPI Ah, m-ma alora te sta mal!<br />

FRENO Stago mal, Spinazza, stago mal!<br />

PEPI N-no state rabiar.<br />

FRENO Niente no me ricordo co me beca sta roba maledeta.<br />

PEPI (sommesso) M-mal de San Valentin, saria...<br />

FRENO (continuando) I disi che me scasso tuto... E po’, co xe finì, xe come che<br />

me sveiaria.<br />

PEPI X-xe come morir e dopo tornar vivi.<br />

FRENO (lo guarda un momento) Anca pezo.<br />

PEPI B-bruto, no?<br />

FRENO Ah, ... Iera meio che i me lassava che me copo, co iero in ospedal!<br />

PEPI (per cambiare discorso) X-xe rivada la barca de le angurie?<br />

FRENO (torvo) No sta parlar de angurie che xe meio per ti.<br />

PEPI (quasi offeso) O-ogi xe meio che taso.<br />

FRENO Una flica ogni d’una che vendevo, gavevimo dito, con quel magna merda<br />

de ciozoto. Mi i conti no li so far ben, ma naso tre ore lontan co i me<br />

imbroia. (pausa con effetto) Se no i me guanta in tre, roba che lo copo.<br />

PEPI E-e lu?<br />

FRENO Ancora là che ’l se ingruma le angurie in canal.<br />

PEPI (ride)<br />

FRENO Coss’ te ga de rider?<br />

PEPI (subito serio) N-niente. C-cussì. Me fazeva de rider el c-ciozoto in ccanal.<br />

Entrano Poldo Buda con l’amico Nino Luna.<br />

Poldo Buda non si accorge subito di <strong>Freno</strong> e saluta Pepi.<br />

BUDA Salute, Spinazza!<br />

PEPI A-ara Poldo Buda! Poldo, vien qua!<br />

FRENO (intenso) Ailo! un altro merlo!<br />

PEPI (lo chiama di nuovo) P-Poldo Buda!<br />

Poldo e l’amico parlottano in disparte tra loro.<br />

FRENO (c.s.) Quatro ani che speto de becarlo solo. Ma ’na volta o l’altra...<br />

PEPI P-perché? Cossa el te ga fato?<br />

FRENO Xe meio che vado via! (esce)<br />

PEPI (andando verso Buda) C-ciò, Poldo Buda, cossa ga <strong>Freno</strong> con ti?<br />

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52<br />

NINO LUNA ’Ndemo ’vanti, Poldo!<br />

PEPI E-e ’lora, Buda?<br />

NINO Ma coss’ te se missi? Coss’ te vol?<br />

BUDA No, no! Xe giusto che ’l sapi, lu che el xe cul e camisa con <strong>Freno</strong>!<br />

NINO Xe meio no intrigarse co’ ste robe, dei!<br />

BUDA Xe nato quatro ani fa, che ti te ieri in canon.<br />

NINO Ma sì, xe robe vecie! Coss’ te va gnanca a tirarle fora!...<br />

PEPI M- ma cossa xe nato? Se pol saver?<br />

BUDA Ierimo al “Bon Almissian”. Tuta via Punta del Forno insieme, xe vignuda.<br />

<strong>Freno</strong> taca far barufa con Doimo, el se imboreza, el tira fora la britola...<br />

NINO Ben... Se lo conossi no?<br />

BUDA (continuando) ... E Oreste Corte, povero, el se buta in mezo per separarli,<br />

e ’l se beca ’na cortelada in tela gamba.<br />

PEPI M-ma ti?... Coss’ te ghe entravi, ti?<br />

BUDA Me ga ciamà a testimoniar, e go dito quel che go visto.<br />

PEPI D-’desso go capì.<br />

BUDA Nissun gaveva coragio de dir che iera stà <strong>Freno</strong>, e mi go parlà.<br />

PEPI F-freno se ga becà tre mesi, e a ti coss’ te xe vegnù in scarsela?<br />

BUDA Son a posto co’ la mia cossienza.<br />

PEPI (lo guarda fissamente) bela cossienza!<br />

BUDA Perché, te ga qualcossa de dir?<br />

PEPI M-mi?<br />

BUDA Ti sì, pupoloto!<br />

PEPI D-disi ancora una volta, disi ancora una volta, se te ga coragio!<br />

BUDA Ma coss’ te credi che go paura de ti?<br />

NINO Cala, Spinazza, cala, no sta far onde!<br />

BUDA Mi no go paura de nissun!<br />

PEPI Gn-gnanca de <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>?<br />

BUDA Ma se xe quatro ani che ’l me zerca e mi no me volto gnanca indrio!<br />

FRENO (è entrato poco prima non visto) E adesso te go trovà! ciò merlo, che<br />

nova!...<br />

PEPI (andandogli incontro) N-no sta bazilar, <strong>Freno</strong>, ’ndemo via, che no merita,<br />

’ndemo via!<br />

Nel silenzio lo scatto del coltello di <strong>Freno</strong>.<br />

PEPI N-no, <strong>Freno</strong>, no!<br />

NINO Ciò, meti via la britola.<br />

PEPI (trattenendo <strong>Freno</strong>) I-iutime, Nino!<br />

NINO (trattenendo anche lui <strong>Freno</strong>) Scampa, Buda, scampa!<br />

FRENO Molème, molème che lo copo!<br />

Buda fugge / Pepi e Nino lasciano <strong>Freno</strong>.<br />

FRENO (ansimando) lo gavè fato scampar. Sè tuti con quel spion!<br />

PEPI C-calmite, <strong>Freno</strong>, che te fa mal!<br />

FRENO (mentre Nino sta raccogliendo il berretto) E ti sparissi. E dighe al tuo<br />

compare che vegnerà el momento che se troveremo soli mi e lu!<br />

Nino Luna si eclissa.


PEPI Ocio, ocio, sta ’rivando Nagode co un altro.<br />

(<strong>Freno</strong> chiude il coltello)<br />

FRENO (ha cambiato completamente umore) Ara chi che se vedi!<br />

Entrano Nagode e Butus di pattuglia.<br />

NAGODE <strong>Freno</strong>! I me ga dito che te gavessi trovà de ste parti!<br />

FRENO Se so che la ga i sui spioni!<br />

NAGODE Ricordite che te son sempre soto sorveglianza, e che te ga de rigar<br />

drito più dei altri!<br />

FRENO Perché la me disi ste robe? Se no go fato niente!<br />

NAGODE (a Butus) Ti, Butus, che te son novo, vardilo ben, ’sto muso, ricorditelo!<br />

Co te sentirà parlar del “teror de Crosada” xe come dir <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>!<br />

BUTUS Me ricorderò, me ricorderò.<br />

NAGODE Se pol star in pase solo quando che el xe in canon.<br />

FRENO Ma la la ga proprio con mi!<br />

PEPI I-ierimo qua boni, cuci, che ciacolavimo de una roba e l’altra...<br />

NAGODE Ti tasi, che no go parlà con ti.<br />

PEPI M-mi son libero zitadin, e posso parlar fin che me par e piasi!<br />

NAGODE Ti te son libero zitadin fin che no te beco co’ le man nele scarsele dei<br />

altri. (a Butus) E sto qua el se ciama Giuseppe Ivanoff, deto Pepi Spinaza,<br />

bona cubia!<br />

FRENO Ma parcossa la ga sempre de ofender!<br />

PEPI F-freno, ’ndemo via.<br />

NAGODE Andè, andè!<br />

FRENO Ierimo giusto drio de andar a farse un otavo. (ironico) Vignì con noi?<br />

NAGODE (truce) Andè, go dito. E zerchè de no capitarme più tra i pie.<br />

PEPI Sì, siora guardia!<br />

Nagode e Butus escono.<br />

FRENO (cupo) Te vedarà quando che te incontro de solo. Orcotron!<br />

PEPI ’N-ndemo, <strong>Freno</strong>!<br />

FRENO Andemo, che dopo go de andar de Lucia.<br />

PEPI Anche mi dopo go de andar de Ravalico. Go de parlar con un de afari.<br />

Dame ancora un spagnoleto, dei.<br />

FRENO (gli dà la sigaretta) Ciapa anca el fulminante, Spinazza! (si avvia)<br />

PEPI Te son proprio un amico. (si accende la sigaretta / a <strong>Freno</strong> che è già un<br />

po’discosto) <strong>Freno</strong>!<br />

FRENO (mettendo la mano davanti alla bocca) Sssss! (escono)<br />

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54<br />

Scena seconda – Il casino<br />

Fuori scena una canzone.<br />

Vado in giardin,<br />

Trovo el piacer:<br />

Faccio l’amore<br />

Col giardinier !<br />

“O giardinier<br />

Non mi tradir !<br />

Son verginella,<br />

Posso a morir !<br />

Posso a morir,<br />

Posso a restar...”<br />

“tre ani in carcere<br />

Ma toca a far!”<br />

<strong>La</strong> stanza vuota è appena stata decorata da un affresco che riempie la parete di<br />

fondo / a terra secchi di colore / Tombolin dà gli ultimi ritocchi.<br />

TOMBOLIN (chiama) Polonia! Polonia! Movite, Polonia, Vien veder !<br />

APOLLONIA (entrando) Coss’ te zighi come un mato!<br />

TOMBOLIN<br />

piasi?<br />

(indicando l’affresco con orgoglio) Coss’ te par? Ah? Coss’ te par? Te<br />

APOLLONIA (freddina) Me piasi, sì ... Bel...<br />

TOMBOLIN (deluso) E no te me disi altro?<br />

APOLLONIA Te go dito, me piasi. Vederemo coss’ che dirà la Signora.<br />

TOMBOLIN Per mi la pol dir quel che la vol. No son miga un smerdamuri, mi<br />

son un artista.<br />

APOLLONIA Ma cossa me rapresenta sta roba?<br />

TOMBOLIN No te capissi? L’Eden, no!<br />

APOLLONIA Che sarìa?<br />

TOMBOLIN El Paradiso terrestre! Varda. Qua xe el lion, qua xe la tigre, el capriol,<br />

el stambecco, qua xe el serpente che ghe ga insegnà ai omini l’amor profano.<br />

APOLLONIA Amor profano?<br />

TOMBOLIN A guar! (ride come un matto) ... E sto qua xe Adamo che son mi, e<br />

sta qua xe Eva che te son ti.<br />

APOLLONIA Mi? Cossa? Son cussì grassa?<br />

TOMBOLIN Ma cossa grassa, cossa grassa! Quando che xe vignù el maestro, che<br />

mi stavo ancora piturando, el ga subito dito “Bravo, Tombolin, Polonia la xe<br />

proprio bela, la xe proprio un bel toco de fia.”<br />

APOLLONIA Ti inveze te son proprio ti spudà: tuto ossi, che te me vardi con quei<br />

tui oci de sepa.<br />

TOMBOLIN Perché te voio ben.<br />

Entra la Signora – è grassa e si sventola con un ventaglio.<br />

SIGNORA Dio che caldo tacadiz! Me se taca dosso anca le mudande.<br />

(a Tombolin) Alora gavemo finì? Gavemo sbianchizà pulito?<br />

TOMBOLIN (con un gesto verso l’opera) <strong>La</strong> vardi!


SIGNORA Ma cossa xe sta roba?<br />

APOLLONIA El Paradiso terrestre.<br />

SIGNORA Ti tasi. Tombolin, ma cossa te son diventà mato! ... Oh, dio!<br />

TOMBOLIN (battendo con la mano sull’affresco) Qua xe musica, cara la mia signora,<br />

xe arte, xe el Paradiso terestre!<br />

APOLLONIA Sti qua semo mi e Tombolin: Adamo e Eva.<br />

SIGNORA Ti tasi e lassa parlar Tombolin.<br />

TOMBOLIN Mi no go niente de dir. Per mi parla la mia opera!<br />

SIGNORA Mi te gavevo dito solo de darme una bela sbianchizada ai locai. Ti te<br />

ga voludo far l’arte, ma mi no te dago un centesimo de più, te ga capì?<br />

Apolonia, va de là cior i linzioi che i xe pena neti: xe de piegarli. Fate iutar,<br />

qua, de Adamo.<br />

Apollonia esce.<br />

(dà un’occhiata all’affresco) Però, in fondo no xe gnanca tanto mal! Ga bele<br />

tinte.<br />

TOMBOLIN Signora, lei la xe una persona de gusto!<br />

SIGNORA So so... Ma no te dago una flica de più! (esce)<br />

Entra Apollonia con il pacco di lenzuola che comincia a piegare aiutata da<br />

Tombolin.<br />

TOMBOLIN (respirando) Mmmm! Senti che odor de pitura! No se senti più<br />

gnanca l’odor de casin!<br />

APOLLONIA Perché? Che odor ga i casini? (porgendogli un lembo del lenzuolo).<br />

Ciapa.<br />

TOMBOLIN (in estasi) Odor de fumo de pipa, de spagnoleti, odor de cipria, de<br />

sudor, odor de profumo, profumo de dona... (abbraccia Apollonia)<br />

APOLLONIA Dei, dei, lassime star!<br />

TOMBOLIN Solo un momento, andemo de là, solo un momentin...<br />

APOLLONIA No se pol, adesso no se pol! no xe ora de lavor!<br />

TOMBOLIN Ma mi te voio ben, mi te voio ben veramente ... (la stringe)<br />

SIGNORA (entrando improvvisa) Cossa nassi qua? No voio che se fazi sporchezi<br />

qua dentro fora del lavor. Xe una casa seria, sta qua. Se se vol andar co le mie<br />

putele, qua dentro bisogna pagar. E po’ogi semo ancora seradi, se verzi doman.<br />

Doman matina ’riva in porto una nave piena de americani.<br />

Entrano Lucia e Santina con il canapè – poi Angiolina con un quadro.<br />

Voialtre, el canapè metèlo là in quel canton. Ricordève che ogi xe l’ultimo<br />

giorno che sè libere; de domani no se bevi più, che dopo ve indormenzè sul<br />

lavor. Quel quadro, Angiolina, pozilo intanto là, ghe troveremo un altro buso.<br />

El nostro artista ga piturà tuto el muro!... Bona de dio che le camere le xe tute<br />

a posto! ... (esce)<br />

LUCIA Per risparmiar do fliche a do fachini la ne fa sgobar a noi!<br />

(sistemando il canapè – poi, a Tombolin) Bela quela pitura, Tombolin!<br />

SANTINA Anche mi me piasi. Tute quele bestie, le par vere.<br />

APOLLONIA Mi me piasi Adamo ed Eva.<br />

TOMBOLIN Coccola mia.<br />

ANGIOLINA Ciò, Tombolin, te ga visto el Moro?<br />

TOMBOLIN Lo devo veder dopo. Se trovemo tuti in osteria de Guelfo.<br />

SANTINA Anche Pepi Spinazza?<br />

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56<br />

TOMBOLIN Penso de sì. Vegnì anche voi, putele, cussì bevemo tuti insieme.<br />

Portève un pochi de schei! savè che le nostre scarsele le xe sempre fiape!<br />

ANGIOLINA (ridendo) Fussi solo le scarsele!<br />

TOMBOLIN Ciò, mula, te vol provar?<br />

APOLLONIA Vien qua e no sta far el macaco.<br />

TOMBOLIN No se pol ofender cussì un omo.<br />

APOLLONIA Qua, omo, vien con mi, andemo. (i due escono)<br />

ANGIOLINA <strong>La</strong> se ga inganzà con Tombolin! Vol dir che a ela ghe va ben! Uff...<br />

Che caldo! No ’riva a piover...! Vado un poco in camara. Se vedemo dopo,<br />

putele. (esce)<br />

SANTINA Lucia, te vol che te petèno? Te ga cavei cussì bei. Provo farte un cocon,<br />

te vol?<br />

LUCIA Fa, basta che no te me li zuchi.<br />

(canta)<br />

“Sono orfana di padre e di madre,<br />

sono stufa di fare questa vita!<br />

Su nel cielo sta scritta la mia vita,<br />

che la mia sposa sarà su nel ciel!”<br />

SANTINA Che bela vose che te ga, Lucia! Ogni volta che te sento me vien de<br />

pianzer!<br />

LUCIA Perché te son una frignota! Come la disi sempre la Signora?<br />

“Quando che se xe zo de bala, meio una cantada che un bicer de trapa!”<br />

Santina, sti cavei! te go dito de no zucarme! Sta ’tenta!<br />

SANTINA Xe quei de soto che iera un poco ingropai.<br />

LUCIA (canta) “Tante stelle che brilla su nel cielo,<br />

tanti baci che mi te daria!<br />

Uno solo per mi basteria<br />

per consolare sto misero cuor!”<br />

Te son mai andada al cinematografo?<br />

SANTINA Mi no. I me ga dito che xe cussì bel!<br />

LUCIA Mi son stada, un màrtedì che iero libera.<br />

SANTINA Contime!<br />

LUCIA Tuto se movi. No xe come in fotografia che se xe tuti fermi. I omini i<br />

camina, come che caminemo noi... El treno el te vien incontro, xe come che<br />

el vignissi sora de ti, che el te buti soto! Go ciapà paura...<br />

SANTINA Oh, Maria Vergine...<br />

LUCIA Bona che iero col mio omo!<br />

SANTINA Co se ga uno come <strong>Freno</strong> vizin, no se ga de ’ver paura de niente!<br />

LUCIA Ah, no, no. Per quel posso star sicura!<br />

SANTINA Che bel, però, aver un omo cussì... Forte... Che ne difendi!<br />

LUCIA Ah, ben, sa picia... Ga anche i sui lati cativi... Ma sta ’tenta, no stame<br />

zucar!<br />

SANTINA No te zuco, te go solo messo un saldin.<br />

LUCIA El giorno che lo go conossù, iero ’pena rivada, sie mesi fa, no iero ancora<br />

qua de la Signora. El ga ciolto una caroza de piazza...<br />

SANTINA (ammirata) Una caroza...


LUCIA ...che go pagà mi. E semo andai a far un bel giro, e dopo a bever birra su<br />

ala Dreher.<br />

SANTINA E po’?<br />

LUCIA E po’semo finidi in leto. Mi gavevo zinquanta corone che le tignivo<br />

sempre con mi ligade qua. (indica il seno) <strong>La</strong> matina me sveio, de <strong>Freno</strong><br />

gnanca l’ombra, e gnanca de le zinquanta corone.<br />

SANTINA Le gaveva rubade lu?<br />

LUCIA E chi po’? Ah, ma mi vado dei gendarmi e fazo denuncia. El se ga fato<br />

quatro mesi.<br />

SANTINA De galera?<br />

LUCIA Dopo, mi son vignuda qua dela Signora, e tuti i me diseva “Sta ’tenta, el<br />

xe un violento, col vien fora el te copa”... E un giorno vado cior late qua de<br />

soto de Marino, e me lo vedo pozà sul canton, co un spagnoleto fra i labri,<br />

che el se netava le onge cola britola. “’Dio Lucia”, el me disi.<br />

SANTINA E ti?<br />

LUCIA E mi “’Dio <strong>Freno</strong>”. E lo guardo drito nei oci. “Te ga ’vu un bel coragio<br />

a denunciarme” e ghe vedo come un soriso...<br />

SANTINA Bei oci neri che ’l ga ... Bei bafi ...<br />

LUCIA “Mi e ti semo fati un per l’altra. Te son la mia dona”. El meti la britola in<br />

scarsela. “’Ndemo bever qualcossa.”<br />

SANTINA Xe come un romanzo!<br />

LUCIA Romanzo, sì! Caro te me costi el mio caro <strong>Freno</strong>. Fora de un’osteria,<br />

dentro de quel’altra, tuto el giorno! Son za bastanza disgraziada in sta vita, me<br />

mancava solo che lu! ... (con uno scatto di orgoglio) Ma el xe el mio omo!<br />

(si spettina con rabbia) Ah, basta, Santina, lassime come che iero!<br />

SANTINA Iera vignudi cussì ben...<br />

LUCIA Qualche volta go come el presentimento...<br />

Entra <strong>Freno</strong>.<br />

SANTINA Mi vado Lucia.<br />

LUCIA Grazie sa Santina.<br />

SANTINA De cossa? (esce)<br />

LUCIA Cossa xe, <strong>Antonio</strong>? te sa che la Signora no vol che te vegni su co no semo<br />

verti.<br />

FRENO ’Sai me importa de la Signora!<br />

LUCIA Dopo però le sento mi.<br />

FRENO Che la provi solo a dirte qualcossa...<br />

LUCIA Te prego <strong>Antonio</strong>...<br />

FRENO No posso soportar i prepotenti. Go patì tanto in istituto co iero mulo!...<br />

Iera un che me dava col baston sula schena e el zigava: “Te cavo mi la polvere<br />

de dosso!” Co sarò grande, go dito, no permeterò a nissun de alzar le man<br />

sora de mi!<br />

LUCIA (accarezzandolo) <strong>Freno</strong>, calmite.<br />

FRENO (calmandosi un poco) Andar via de qua, via... Via de sta zità in un logo<br />

dove no te conossi nissun. E cominciar tuto de novo.<br />

(abbraccia e bacia Lucia – poi completamente calmo e quasi divertito) Te go<br />

contà de quela volta che volevo scampar de Trieste, e me son sconto in una<br />

cassa dentro un mercantil. Dove che ’ndavo, ’ndavo, basta ’ndar via. E dopo<br />

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un poco sento che i tira su sta cassa – “Orca, coss’ che la pesa”, sento che i disi<br />

– la verzi e i me tira fora: ierimo sempre sul stesso molo, no i gaveva gnanca<br />

molà la zima! (ride) Ma stavolta sarà diverso. Voio andar via per bon.<br />

LUCIA Ma con quai, <strong>Freno</strong> mio, con quai?<br />

FRENO (si agita di nuovo) Sempre bori, ti no te sa parlar altro che de bori, no te<br />

pensi che ai bori!<br />

LUCIA Ciò, ma i miei bori i te fa comodo anche a ti!<br />

FRENO Se te pensi che vado a spacarme la schena dodeze ore in arsenal per un<br />

bianco e un nero, te ga capì mal!<br />

(improvvisamente appare la Signora)<br />

SIGNORA ’Desso basta. Qua xe tuto un zigar, ve se senti fin zo de la strada. Go<br />

una reputazion de difender, questa xe una casa fine! (esce)<br />

FRENO ’Ndemo fora Lucia.<br />

LUCIA Dove andemo?<br />

FRENO De Guelfo. Go ciolto un colombo, lo go spenà e ghe lo go portà che ne<br />

lo prepari.<br />

LUCIA Col ripien?<br />

FRENO No so mi. Vate a vestir! (con un gran gesto) Te invito!<br />

LUCIA (ironica) Con quai?<br />

FRENO Coi tui!<br />

LUCIA Ah!<br />

FRENO (le dà un bacetto) Ma dei, che bori sarà che noi no saremo! Te speto de<br />

Guelfo. (esce)<br />

LUCIA Eh, el xe propio el mio omo.<br />

(si aggiusta, si stira voluttuosamente e incomincia a cantare)<br />

“Tante stelle che brilla su nel cielo...”


Scena terza – <strong>La</strong> strada<br />

Qualcuno canta una canzone – la canzone può essere anche interrotta e ripresa.<br />

<strong>La</strong> canzone lega la scena precedente.<br />

Se spera che i sassi/diventa paneti<br />

perché i povareti/se possa saziar.<br />

Se spera che il caldo/ prinzipia in genaro<br />

e senza tabaro/ poder caminar.<br />

Se spera che adesso/ no nassi più tose<br />

perché le morose /se possa sposar.<br />

Se spera, se spera / che el late vien fora,<br />

che vadi in malora / el nostro sperar.<br />

Se spera, e sperando / ne capita l’ora<br />

de andar in malora / col nostro sperar.<br />

Entra lentamente sulla canzone il lampionaio che accende il lampione / luce<br />

serale / da un’altra parte entra anche Gigeta.<br />

GIGETA Se spera, se spera... (al lampionaio) Te sa come che se disi, Nando. Chi<br />

vive sperando. (sospira) Altro che sperar ... Mi son tuto el giorno che consumo<br />

le zavate caminando su e zo. Go fato un per un tuti i locai chic de la zità,<br />

dove che xe i siori!<br />

(Nando si fa una sigaretta)<br />

Co’ sto caldo! E coi siori te toca vestirte ben, se no i te buta fora del local,<br />

come se te saria una che domanda la carità. Te devi esser neta, ben petinada,<br />

tuta a posto. E te devi ’ver sempre el sorisin sui labri, che qualche volta, te<br />

digo la verità, Nando, me par de esser come una de quele!...<br />

Chi che vendi una roba, chi quel’altra. Basta ciapar bori. Sembra facile el<br />

lavor de una che vendi fiori. Me go anche imparà una canzoneta, per far<br />

come un numereto, per esser più simpatica, per presentarme meio...<br />

Nando è uscito di scena / Gigeta continua a parlar sola.<br />

I disi: “la xe una macia”, e i me compra i fiori. Dopo ghe xe anche quel che<br />

te trata mal, che ga la luna per traverso. A quel là i fiori ghe li daria per la testa.<br />

Nando. (si guarda attorno) Nando? Dove el xe andà? No ’ssai lontan. (ridacchia)<br />

So dove trovarlo: al prossimo feral.<br />

(esce)<br />

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Scena quarta – Osteria da Guelfo<br />

Fisarmonica<br />

TOMBOLIN Senti, senti sta qua, <strong>Freno</strong>. Guelfo, vien qua ’scoltar anche ti.<br />

GUELFO Cossa xe?<br />

TOMBOLIN Una barzeleta, che i me ga contado. Alora. Un smafaro entra in<br />

un’ostaria, un’ostaria come sta qua, e el se fa portar del paron una botilia de<br />

bon vin. El se la bevi, po’el va de l’oste, arente del bancon, e el ghe disi tuto in<br />

zito: “<strong>La</strong> ga za pagà quel vin?” e l’oste ghe fa: “Ostia, se lo go pagà!” – “Ah –<br />

disi quel altro – me xe cascà un peso dal cuor. Credevo de doverlo pagar mi”.<br />

E el se la moca co la sua solita fiacheta!<br />

<strong>Freno</strong> e Guelfo ridacchiano.<br />

FRENO (alzando il bicchiere verso Guelfo) Ciò, Guelfo, te ga za pagà ’sto vin?<br />

(ride) Sta qua la xe bona, propio bona!<br />

Tutti ridono.<br />

FABRIS (entrando) ’Dio muli! cossa gavè de rider?<br />

freno e GUELFO ’Dio! ’Dio Jacometo!<br />

TOMBOLIN Desso che xe qua anca el Moro ve conto un’altra. Scoltè, scoltè.<br />

Una domenica in ciesa, un sior el guanta un ladro che el iera drio de meterghe<br />

le man in scarsela. “Vergognite, el ghe disi, cussì giovine e za borsariol!” – “<strong>La</strong><br />

se vergogni lei – ghe disi el mulo – esser cussì ben tapado e no ’ver in scarsela<br />

gnanca un fazoleto de seda!” –<br />

Tutti ridono.<br />

FRENO Bona anca sta qua. Ma me piaseva più quel’altra. Coss’ te disi, Guelfo, te<br />

ga za pagà quel vin? (ride con Guelfo che lo asseconda)<br />

FABRIS Come xe la vita, <strong>Freno</strong>?<br />

FRENO Come te vol che la sia?! Come che i vol i altri. Speto Lucia.<br />

FABRIS Vien anche Angiolina?<br />

FRENO No so. Penso de sì.<br />

FABRIS Alora resto qua.<br />

TOMBOLIN Mi ghe vado incontro a Polonia. (grida) Ciò, Guelfo, vado e torno!<br />

GUELFO No sta far come quel smafaro dela barzeleta!<br />

Tombolin se ne va ridacchiando.<br />

FABRIS Guelfo! Son qua anche mi !<br />

GUELFO Bianco o nero?<br />

FABRIS Bianco fresco de bote!<br />

FRENO (stuzzicandolo) Ciò, Moro, te piasi, ah, la Angiolina?!<br />

FABRIS Me piasi... <strong>La</strong> xe giovine, la me meti alegria. A casa go la moglie che la ga<br />

sempre el muso longo. E i fioi sempre che i pianzi! (beve il vino che gli ha<br />

portato Guelfo e schiocca la lingua) Niente mal, sa!<br />

FRENO (beve anche lui)<br />

Sempre la fisarmonica.<br />

Ciò, coss’ te me ga el sacheto novo?!<br />

FABRIS Ma che novo! Do corone de Franzele strazariol. Me ocoreva, no! Go de<br />

far la mia figura. Ala Fenice i zerca un domator. I me ga dito che torno<br />

domani. Dovessi far un numero.


FRENO (impressionato) Coi leoni?<br />

FABRIS No so... (si accende una sigaretta) Varda, mi vado in cheba con qualsiasi<br />

bestia, basta che i me paghi! Te sa, pratica go! Un poco go imparà con quel<br />

circo tedesco che iero un ano, e po’qua a Trieste, de Zweier che ghe davo de<br />

magnar ale sue bestie feroci.<br />

FRENO (per associazione) Co’ iero in istituto i me gaveva imparà de marangon.<br />

Ma po’, co gavevo quindese ani son andà a Capodistria e fazevo de aiuto al<br />

spazacamin. Me piaseva, te dirò. Iera come esser sempre in carneval. Xe in<br />

quela volta che go tacà a bever. Quando che gavevimo netà un camin, i<br />

contadini ne dava de bever. E mi bevevo. (beve)<br />

FABRIS Alora, coss ’te par de sto sacheto?<br />

FRENO No xe mal.<br />

FABRIS Me ga imprestà Angiolina le do corone per comprarlo. Se no fussi lore.<br />

(beve) Ah, no xe vita sta qua, mai una flica in scarsela.<br />

FRENO (grandioso) Coss’ te bambi, coss’ te bambi! Arime mi! No me volto<br />

gnanca indrio!<br />

FABRIS Ara, te giuro che ogni tanto me ciapa i zinque, e me vien voia de impiantar<br />

baraca e buratini e ’ndar in America come che ga fato Toio mato.<br />

FRENO Che nova! Te dovessi prima trovar i bori! 180 corone in terza classe!<br />

FABRIS Ma no miga sul “Gerty” come i siori! Pei emigranti costerà de meno,<br />

no?<br />

FRENO Meno de zento corone, no sicuro!<br />

FABRIS Te ga ragion! Maledeti bori ! Vergogna no xe rubar, ma niente portar<br />

casa! Almeno gavessi el coragio che te ga ti!<br />

FRENO E po’? Drio man la galera: Gesuiti, via Tigor, e co se vien fora la<br />

sorvelianza!<br />

FABRIS Coss’ te li ga ancora drio?<br />

FRENO Ah, no i me mola! Ma speta che incontro quel sbiro co el xe solo!...<br />

FABRIS Ciò, no sta far monade <strong>Freno</strong>!<br />

FRENO El la ga con mi! L’ultima volta el xe sta lui a portarme in cheba, el<br />

maledeto! E mi so anche perché. Do sere prima el me gaveva domandà se<br />

gavevo de darghe una corona.<br />

FABRIS El te ga dito che te ghe daghi una corona?<br />

FRENO Mi no la gavevo. Ma anche se la gavessi ’vuda no ghe la davo a quel<br />

porco!<br />

Guelfo dà una manata sul tavolo.<br />

FABRIS (sobbalzando) Ciò, Guelfo, ma te son mona?<br />

GUELFO <strong>La</strong> go copada! ’Na mosca. Le xe fastidiose, ogi. Pioverà.<br />

FRENO Magari! Guelfo, ma come xe co’ sto colombo?<br />

GUELFO El ciapa color, sior <strong>Freno</strong>. Cossa, no ghe riva el profumo?<br />

Da fuori si sente il canto di Gigeta che si sta avvicinando.<br />

VOCE GIGETA Son orfanela<br />

che vende i fiori<br />

d’ogni color<br />

d’ogni beltà.<br />

GUELFO Ecola che la ’riva: l’orfanela!<br />

GIGETA (entrando gioviale) Bonasera, bonasera a tuti! Chi vol comprar i miei<br />

61


62<br />

fiori! Xe fiori de stagion savè: freschi e profumadi.<br />

(canta) Vado a racoglierli<br />

sui più bei prati,<br />

poi li rivendo per la zità.<br />

FRENO Ma cossa Gigeta, te ne canti l’opera?<br />

FABRIS Ciò, te poderia andar a cantar al Verdi con quela vose!<br />

GIGETA (soffermandosi su Fabris) Ti no te conosso... Ben... E no so come che te<br />

se ciami. Inveze ti (fissa intensamente <strong>Freno</strong>) ... ti so chi che te xe. <strong>Antonio</strong><br />

<strong>Freno</strong> te se ciami. Conossevo tua mama, povera dona, che ga patì tanto nela<br />

vita... (pianissimo, con un sospiro) Come tuti del resto. (pausa) Quando che<br />

te va a trovarla, portighe ’sto fior. Speta, speta che te dago el più bel.<br />

(porge a <strong>Freno</strong> un fiore che questi mette dolcemente sul tavolo)<br />

Tuo pare la la ga fato tanto sofrir. Eh, quanto che no se sofri per i omini...<br />

FABRIS E anche quanto no se sofri per le done!...<br />

GIGETA Ti tasi, no stavo parlando con ti. <strong>Freno</strong> ga capì, <strong>Freno</strong> ga capì cossa che<br />

digo. Xe vero <strong>Freno</strong>?!<br />

<strong>Freno</strong> beve.<br />

GUELFO <strong>La</strong>ssili in pase, Gigeta.<br />

GIGETA (accenna, come rimasticando, il motivo che cantava prima/pausa) Anca<br />

mi son stada giovine savè. Me son sposada e po’... Gioventù, gioventù, quel<br />

che xe passà no torna più.<br />

(canta)<br />

LUCIA (entrando) ’Dio muli ...<br />

FRENO (vedendo Lucia) Ah, ecola qua! Finalmente te son vegnuda!<br />

FABRIS ’Dio Lucia.<br />

FRENO (a Guelfo) Guelfo! Portighe un otavo a Gigeta. Ofro mi!<br />

GIGETA Te ghe volevi ben ti a tua mama xe vero? (guardando Lucia) <strong>La</strong> xe<br />

proprio una bela putela.<br />

Gigeta siede lontano dagli altri / quando arriverà il vino lo berrà lentamente.<br />

LUCIA Bon, se magna!<br />

FRENO (grida) Guelfo! Movite co’ sto colombo, che se no el svola via! (ride<br />

forte)<br />

GUELFO ’Rivo, sior <strong>Freno</strong>! ’Rivo subito!<br />

FRENO (a Fabris) Te resti anca ti, no?<br />

FABRIS Ve farò compagnia. (a Lucia) E Angiolina?<br />

LUCIA <strong>La</strong> vien subito co’ le altre.<br />

GUELFO (arrivando col colombo) Eco, pronto el colombo, sior <strong>Freno</strong>!<br />

LUCIA Cussì a vederlo me par bel!<br />

FRENO Picio, ma bel!<br />

GUELFO E’l xe anca bon! cossa ghe demo vizin?<br />

FRENO Fame (fa il gesto) una bela piadina de radicio coi fasoi.<br />

FABRIS Eco: mi magnerò un poco de radiceto coi fasoi.<br />

FRENO Alora, una bela piadina de radiceto coi fasoi. E un dopio de refosco. Te<br />

sentirà che rosolio, Lucia! (schiocca la lingua)<br />

LUCIA (improvvisamente) <strong>Freno</strong>!<br />

FRENO Cossa?


LUCIA Ciò, Guelfo, ancora un piato fondo che metemo i ossi.<br />

GUELFO Ghe lo porto subito. <strong>La</strong> sentirà el ripieno, signorina Lucia. <strong>La</strong> me saverà<br />

dir.<br />

FRENO (scherzando) Guelfo, me par che te fa tropo el mona qua con Lucia. Sta<br />

’tento.<br />

LUCIA Ara che el xe geloso!<br />

GUELFO (serio) Noi femo seriamente el nostro mestier!<br />

FRENO (bevendo) Ma cossa, te se la ga becada. Dei, dei, mato! (a Lucia) Ciò,<br />

Lucia, coss’ te volevi prima? Te volevi dirme qualcossa?<br />

LUCIA Volevo dirte che xe bel star cussì insieme come che fossimo una familia...<br />

FRENO Ma cossa te disi?<br />

LUCIA Come che fossimo sposai...<br />

FRENO Ma va là, cofe! (ride / poi a Fabris) Taca taca, domator! Se te speti ancora<br />

un poco, co’ ste belve te resti a panza svoda.<br />

FABRIS Mi speto el radiceto coi fasoi.<br />

IL MAESTRO (entrando con il bombardino sotto il braccio assieme a Tombolin)<br />

Salute ala compagnia! Bonasera a tuti!<br />

FRENO (allegro) ’Dio maestro!<br />

TOMBOLIN Le mule le vien subito. Le se ga messo tute in ghingheri! Vedarè,<br />

vedarè che spetacolo!<br />

FRENO Se volè acomodeve.<br />

MAESTRO Mi go zà magnà al balo che iero a sonar. Ciogo volentieri un bicer.<br />

Guelfo, el solito miss mass col teran.<br />

TOMBOLIN (pronto) Un bicer no se rifiuta mai. (gioco con il bicchiere tra<br />

Tombolin e <strong>Freno</strong> / a <strong>Freno</strong> che gli sta versando da bere) Ara che ghe xe la<br />

patulia.<br />

FRENO Dove?<br />

TOMBOLIN I li ga visti in via del Bastion. Par che i fazi el giro de via Madona del<br />

mar.<br />

FABRIS I fa el giro longo, alora.<br />

FRENO Basta che no i me capiti davanti! (cambiando discorso) Bon, proprio<br />

bon!<br />

FABRIS Anche i fasoi. Devi esser galiziani. ’Ssai me piasi radiceto coi fasoi. Fin<br />

de picio.<br />

TOMBOLIN Giusto che se parla de magnar, gavessi giusto una bela barzeleta de<br />

contarve. Scoltè.<br />

Un pare che ghe fazeva patir la fame ai sui fioi, un giorno che iera in tavola,<br />

ghe domanda al più vecio: “Ciò Nando, coss’ te vol diventar de grando?” –<br />

“Sazio” ga risposto pronto el povero giovine.<br />

FRENO Questa xe la più bela de tute. E xe anche vera.<br />

FABRIS Ciò Tombolin.<br />

TOMBOLIN Coss’ te vol?<br />

FABRIS Te me ga portà la pitura?<br />

TOMBOLIN Che pitura?<br />

FABRIS Quela verde, che go de piturar le porte.<br />

TOMBOLIN Propio la tua pitura gavevo in testa in sti giorni. Te vedarà coss’ che<br />

no go piturà su in casin. Un ca-po-la-vo-ro! Te vedarà! El Paradiso terestre!<br />

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64<br />

GIGETA (canta) Questi son fiori<br />

freschi e soavi<br />

d’ogni colore<br />

d’ogni beltà.<br />

Fiori, bei fiori ... Chi li vol?<br />

FABRIS Dame qua, Gigeta, quel bianco. Ciapa! (dà un soldo a Gigeta e si mette il<br />

fiore all’occhiello della giacca)<br />

GIGETA Cussì te me par propio un sposo. Anca mi, ma xe passadi tanti ani ...<br />

GUELFO Dai dai, Gigeta, daghe un taio!<br />

GIGETA Ti muci e portime un bianco.<br />

Entrano Apollonia, Santina e Angiolina / quasi in coro<br />

LE RAGAZZE Bona sera!<br />

TOMBOLIN (entusiasta della bellezza delle ragazze) Bele! Bele! Bele! Benedete<br />

le bele giornade!<br />

MAESTRO (canta) Belle figlie dell’amore ...<br />

FABRIS Angiolina. Mule. Vegnì. Senteve qua.<br />

FRENO Guelfo, cossa, no se bevi stasera?<br />

GUELFO Go solo due man, sior <strong>Freno</strong>.<br />

FRENO Porta ancora un dopio.<br />

SANTINA Gavè visto Pepi Spinazza?<br />

FRENO Prima el iera con mi. (grida) Alora, Guelfo! (a Santina) El ga dito che ’l<br />

andava de Ravalico. Per cossa te lo zerchi?<br />

SANTINA Gnente. Dovevo dirghe una roba.<br />

LUCIA (maliziosamente) Ah, Santina, Santina!<br />

GUELFO (portando il vino a <strong>Freno</strong>) Eco qua.<br />

SANTINA Vien sentarte vizin de mi, maestro.<br />

MAESTRO (cavalleresco) Ai suoi comandi, signorina.<br />

SANTINA Te me ofri un’aniseta?<br />

MAESTRO Ma come no, Santina!<br />

ANGIOLINA (a Fabris) Xe questo el sacheto che te se ga comprà, Jacometo?<br />

FABRIS Cossa, no te piasi?<br />

ANGIOLINA No no, bel, sa, bel, ... El te slonga! (agli altri) No xe vero che Jacometo<br />

el xe propio un bel omo?<br />

FABRIS Dei ... Angiolina!<br />

APOLLONIA Xe un poco streto de spale.<br />

ANGIOLINA (aggressiva) Chi? Jacometo?<br />

APOLLONIA No, el sacheto.<br />

LUCIA<br />

un.<br />

Cossa, xe el sacheto novo? Me piasi, sa. Anca ti, <strong>Freno</strong>, te dovessi ciorte<br />

FRENO Mi son bel anche nudo.<br />

LUCIA (dandogli uno spintone affettuoso) Ma va là, sporcacion! Sporcacion e<br />

vanitoso!<br />

TOMBOLIN Alo, col sacheto novo! Bagnemolo, dei!<br />

TUTTI Bagnemolo, sì, bagnemolo!<br />

FABRIS Xe facile dir bagnemolo. E dove vado ciorli? Su de Popel?


MAESTRO Ben ben, divideremo!<br />

APOLLONIA Ma sì, dei, intanto bevemo!<br />

TOMBOLIN Guelfo! Altri do dopi de sta parte!<br />

MAESTRO E un’aniseta per Santina.<br />

GIGETA E per mi?<br />

FRENO Coss’ te ga za finì de bever, Gigeta?<br />

GIGETA Gavevo sede. Sa co sto caldo.<br />

FABRIS E po’ xe un vin che va zo come l’acqua! (beve) Xe un netare!<br />

GIGETA Fiori! Fiori! Fiori de stagion!<br />

Questi son fiori freschi e soavi...<br />

GUELFO Dai dai, Gigeta, piantila co sta solfa!<br />

GIGETA Se no vendo no go soldi, e se no go soldi no posso comprarme el vin, e<br />

anche ti che te zighi tanto no te guadagni, moniga de un Guelfo!<br />

FABRIS Ga ragion la vecia! Se no se lavora no se magna!<br />

FRENO Ma se se ga coragio se pol andar a rubar!<br />

GIGETA Chi vol comprar i miei fiori? Lei, giovinoto?<br />

TOMBOLIN No go schei.<br />

GIGETA I xe freschi e profumadi come la sua morosa!<br />

TOMBOLIN Te go dito che no go schei!<br />

APOLLONIA Te li compro mi, Gigeta!<br />

TOMBOLIN Ma per cossa te buti via cussì i schei!<br />

APOLLONIA Ara chi che parla!<br />

GIGETA (dandole un mazzetto di fiori) Che dio te daghi del ben! Pregherò per ti.<br />

TOMBOLIN Alora te son a posto, Polonia.<br />

GIGETA Ti tasi, miscredente che no te son altro. No te se la meriti una cussì bela<br />

putela. (accarezzandola) Bela ti ... Te son proprio cocola. E ricordite: chi nassi<br />

bel, nassi maridado! (breve pausa) Che po’, anca maridarse pol esser una<br />

disgrazia! (grida) Guelfo, ancora un bicer de quel bon!<br />

GUELFO Mi go solo che vin bon, Gigeta!<br />

GIGETA Te son un mostricio, ti ... (va a sedersi al suo posto)<br />

Il maestro nel frattempo è andato al grammofono e ha messo su un rullo: il<br />

valzer di Musetta.<br />

FABRIS Porca mastela, maestro, ogni volta te fa girar sta loica!<br />

GUELFO Pian con quel strumento, che el xe delicato!<br />

MAESTRO Vara che mi go pratica, sa, de strumenti!<br />

APOLLONIA Mai come noialtre! (risatine)<br />

MAESTRO Mi disevo el bombardin! cossa gavè capì?<br />

FRENO Ma buta via quela cassetta de naranze!<br />

ANGIOLINA Ciò, Guelfo, no te ga un altro rullo?<br />

GUELFO Si, cossa ancora! Do’grazia che Ricobon ga lassà in pegno el fonografo!<br />

MAESTRO Sentì che musica! che sentimento!<br />

TOMBOLIN Mi me piasi.<br />

MAESTRO Xe Pucini.<br />

SANTINA Me vien de pianzer!<br />

FABRIS Daghe un taio! Daghe un taio!<br />

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66<br />

TOMBOLIN Ciò Guelfo, no te ga un rullo per far quatro salti?<br />

GUELFO Ve go za dito che go solo sto qua de opera. Se volè ciamo Gigi Fisarmonica.<br />

TOMBOLIN Ciama Gigi.<br />

GUELFO (chiamando fuori scena) Gigi, vien qua che i vol balar!<br />

GIGETA Anche mi, anche mi!<br />

FRENO Sta ’tenta che no te me caschi per tera!<br />

GIGETA Ciò, no son miga tanto vecia!<br />

TOMBOLIN No te son vecia, te son in cimberli!<br />

Risate / Gigi fisarmonica ha cominciato a suonare un valzerino<br />

ANGIOLINA Mi me piasi tanto balar!<br />

Angiolina comincia a ballare da sola / poi a lei si unisce Apollonia<br />

APOLLONIA Fè un poco de posto! (continua a ballare con Angiolina)<br />

FRENO Alora, muli! No lasserè miga che le putele le bali de sole! Alo alo, domator,<br />

coss’ te ga paura de Angiolina?<br />

FABRIS Xe che mi no so balar ben.<br />

ANGIOLINA Vien qua, vien qua che te imparo!<br />

Ballano stentatamente / intanto Gigeta va da uno all’altro ma tutti la sfuggono.<br />

TOMBOLIN (a Apollonia) Polonia, femoghe veder come che se bala!<br />

Tombolin e Apollonia si lanciano nella danza molto seriosi.<br />

MAESTRO (a Santina) <strong>La</strong> permeti questo balo, signorina Santina?<br />

SANTINA Ma come no! Basta che no la stia a strenzerme tropo!<br />

MAESTRO Son un galantomo!<br />

LUCIA (a <strong>Freno</strong> che è seduto sulla panca, prendendolo per mano) Dei, <strong>Freno</strong>,<br />

balemo anche noi!<br />

FRENO No go voia!<br />

LUCIA ’Ndemo, dai! Xe cussì bel sto valzer!<br />

FRENO Go mal de testa!<br />

GIGETA Ma cossa, te me lassi sola sta povera fia? Propio ti che te disevi ai altri!<br />

LUCIA (ballando davanti a <strong>Freno</strong>) Zighighe, zighighe, Gigeta!<br />

FRENO Te se meti a far la rufiana, ’desso! Va ben, basta che no me stè più romper!<br />

(beve il resto del vino che gli era rimasto nel bicchiere, si pulisce la bocca poi<br />

balla con Lucia)<br />

GIGETA<br />

qua!<br />

E cossa, mi resterò sola? Ciò Guelfo, ara che ghe xe ancora una dama,<br />

GUELFO Ma mi ...<br />

GIGETA Ti te son un cavalier galante! (lo costringe a ballare)<br />

SANTINA (al maestro) No la me stia tanto strucar, la me sofiga!<br />

MAESTRO Xe che mi sento ’ssai la musica ... Son musicista!<br />

LUCIA <strong>Freno</strong>! <strong>Freno</strong>!<br />

FRENO Coss’ te diol?<br />

LUCIA Te me vol ben? (pausa) Go dito se te me vol ben.<br />

FRENO Dai dai, tasi e bala!<br />

Intanto Gigi ha cominciato a suonare un motivo. Più lento. Lucia guardando<br />

<strong>Freno</strong> negli occhi incomincia a cantare. Anche gli altri le verranno dietro.


SANTINA (ride improvvisa nervosamente) Ma dai, cossa la fa? Maestro, la me fa<br />

grizoli!<br />

TOMBOLIN Coss’ te ghe combini, maestro?<br />

MAESTRO Mi? Niente.<br />

SANTINA Ghe go za dito che in quel punto son sensibile.<br />

ANGIOLINA In che punto, Santina?<br />

SANTINA Cossa?<br />

TOMBOLIN<br />

Risate.<br />

Sì, in che punto te son sensibile?<br />

SANTINA Sè solo boni de pensar mal dei altri e de dir robe sporche!<br />

APOLLONIA Ciò, pensa per ti!<br />

SANTINA Se tuti dei sporchi, dei sporchi.<br />

APOLLONIA Ciò date una calmada.<br />

Santina è sul punto di piangere.<br />

LUCIA Ma lassèla star in pase.<br />

SANTINA Anche qua che vegno per divertirme, per star un poco in compagnia.<br />

MAESTRO Che bela che te son quando che te pianzi...<br />

SANTINA (un attimo / poi sbotta ridendo e abbracciandolo) Ma tasi, vecio mato!<br />

<strong>La</strong> fisarmonica continua.<br />

GIGETA Guelfo! Porta de bever per tuti!<br />

GUELFO Te paghi ti, Gigeta?<br />

GIGETA Ti intanto porta. Se no pago mi, pagherà qualchedun altro!<br />

LUCIA Muli, muli! scoltè! Femo una bela cantada!?<br />

TUTTI Dei dei! ... Alo alo! ...<br />

APOLLONIA E cossa cantemo?<br />

FRENO (deciso) Son soto i tui balconi.<br />

GIGETA (intona) Son soto i tui balconi...<br />

GUELFO No stè zigar tanto, me racomando.<br />

TUTTI Son soto i tui balconi<br />

Son distirà sui sassi<br />

Mandime zò i stramassi<br />

Che dormirò più ben,<br />

Che dormirò più ben!<br />

FRENO E adesso con sentimento!<br />

CORO Son soto i tui balconi<br />

Son distirà sui spini<br />

Mandime zo i cussini<br />

Che dormirò più ben<br />

Che dormirò più ben.<br />

ANGIOLINA (a un’altra, mentre cantano) Altro che cussini, un secio de acqua, ara!<br />

CORO Son soto i tui balconi<br />

Son distirà su l’erba<br />

Mandime zo la serva<br />

Che dormirò più ben<br />

Che dormirò più ben.<br />

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68<br />

GUELFO (era uscito un momento in strada / rientra) Ocio, ocio, tasè! Xe la patulia!<br />

NAGODE (entrando con Butus) E ’lora? (silenzio) Xe queste le ore de far scandal?<br />

FRENO (sottovoce) Bruto muso!<br />

BUTUS Ve se senti fin in Cavana.<br />

GIGETA Se divertivimo un poco.<br />

NAGODE Ti a sta ora te doveria esser za a casa!<br />

GIGETA Sì! E chi vendi i fiori?<br />

NAGODE Vergognite, ala tua età!<br />

GIGETA Mi no mi ...<br />

Qualche risatina<br />

MAESTRO Ierimo qua giusto per passar un’oreta, siora guardia!<br />

GUELFO No i fazeva niente de mal!<br />

TOMBOLIN Quatro salti ...<br />

APOLLONIA ... Una cantada in compagnia!<br />

NAGODE <strong>La</strong> gente dormi, a sta ora! No i xe miga tuti spuzafadighe come che sé<br />

voialtri!<br />

(movimento e vocio delle donne)<br />

FRENO No la stia a ofender, se no ...<br />

NAGODE (duro) Se no cossa?<br />

LUCIA (a <strong>Freno</strong>) Sta bon!<br />

NAGODE Vara che te porto drito in cheba!<br />

SANTINA Ma dei, no la stia rabiarse!<br />

NAGODE E voialtre via! Cossa, a sta ora ancora in giro! Via tute a casa!<br />

ANGIOLINA El ne trata come che fussimo dele bestie!<br />

FRENO Ma se no le ga fato niente!<br />

NAGODE Ti tasi! Ti tasi sempre, te ga capì?<br />

FRENO (sottovoce) Ma varda coss’ che me toca ingiotir!<br />

nagode (che sta uscendo con Butus) Coss’ te ga dito?<br />

FRENO (con aria di sfida) Mi taso, mi taso sempre.<br />

LUCIA No ’l ga dito niente, siora guardia!<br />

NAGODE Guelfo, me racomando, che i vadi tuti a casa!<br />

GUELFO Sì, siora guardia.<br />

NAGODE (forte) E in silenzio! (esce con Butus)<br />

FRENO (sottovoce) Un giorno o l’altro te farò star mi in silenzio! (basso) Solo<br />

che ofender, davanti de tuti!<br />

GIGETA Alora nissun compra più niente! (canta) Son orfanela che vendo i fiori ...<br />

MAESTRO Dame quel fior. (le dà dei soldi) Eco, ciapa.<br />

GIGETA (canta) Son orfanela che vende i fiori ... (sta per uscire)<br />

GUELFO Sta ’tenta, che quei sbiri i te porta dentro.<br />

GIGETA (uscendo e cantando più forte) Son orfanela che vendo i fiori.<br />

Il suo canto si allontana lentamente.<br />

APOLLONIA ’Ndemo, ’ndemo mule. ’Dio Tombolin.<br />

LUCIA ’Ndemo dei, che no nassi gheto!<br />

FRENO Ti no te se movi! Ti te resti qua!


LUCIA Ma se no se pol!<br />

ANGIOLINA Nagode el xe bon de tornar e veder se semo andade via!<br />

LUCIA ’Dio muli. ’Dio <strong>Freno</strong>. Bona note a tuti.<br />

Esce con Apollonia<br />

SANTINA Bona note, maestro.<br />

MAESTRO Santina. (le dà il fiore) ’Sto fior xe per ti.<br />

SANTINA (lo bacia sulla guancia) Vecio bacuco! (esce)<br />

Il maestro rimette il rullo di Puccini.<br />

FABRIS Proprio sul più bel che cominciavimo a divertirse!<br />

TOMBOLIN In un modo o nel altro, prima o dopo finissi anche le bele giornade!<br />

<strong>Freno</strong> beve torvo / la musica sale mentre cala la luce.<br />

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70<br />

Scena quinta – Strada<br />

Strada da sfruttare in tutta la sua lunghezza / quando la scena è ancora semibuia<br />

partono i saluti / siamo fuori dell’osteria di Guelfo / Gigi suona la fisarmonica<br />

MAESTRO Bona note, Guelfo.<br />

GUELFO Bona note maestro. Bona note a tuti.<br />

GLI ALTRI Bona note.<br />

FABRIS Chi iera quela meza menola che iera con Nagode?<br />

TOMBOLIN<br />

anca lu!<br />

Cossa, no te sa? Butus, Desiderio Butus, el se ciama. Un bruto tartaifel<br />

FABRIS Che ora xe?<br />

MAESTRO (guardando l’orologio) Le nove e un quarto.<br />

TOMBOLIN Bon, cossa femo qua? Andemo ale “Tre porte”!<br />

FRENO Pepi ne speta su de Ravalico in via Donota. (si avvia deciso per uscire)<br />

FABRIS Ciò, <strong>Freno</strong>, ’ndove te va de quela parte?<br />

FRENO Ma gnente. Vado cior spagnoleti.<br />

MAESTRO Fa presto, che te spetemo.<br />

FRENO No ocori. Andè pur avanti.<br />

TOMBOLIN Alora te spetemo ale “Tre porte”. Dopo andemo de Ravalico.<br />

FRENO Bon bon. (esce)<br />

MAESTRO Ma cossa el ga?<br />

FABRIS Te sa come che el xe.<br />

TOMBOLIN Alora andemo o no andemo? Qua vien matina!<br />

MAESTRO Calma, calma, che la note la xe longa!<br />

TOMBOLIN Ciò, ma no stè esser cussì muffi!...<br />

(intona la canzone che viene cantanta parte in scena / poi tutti verso la fine<br />

escono)<br />

E su per sti scalini<br />

E zo per sti scaloni<br />

Sti sporchi de spioni<br />

Dirò la verità, dirò la verità.<br />

<strong>La</strong> verità go dito<br />

E più no posso dire<br />

A costo de morire<br />

A costo de morir!<br />

GIGETA (arrivando dal fondo) Spetème, spetème! Ma ’ndove andè? ’Ndove i va,<br />

benedeti?<br />

CORO (lontano) No sta badar<br />

<strong>La</strong> mula fasol,<br />

Che la se lava<br />

El muso in buiol!<br />

Coss’ te bazili<br />

Mula fasol,<br />

Che te vol ben


El mulo Pignol!<br />

GIGETA Sta qua la so anca mi! (canta)<br />

Coss’ te bazili<br />

Mula fasol,<br />

Che te vol ben<br />

El mulo Pignol.<br />

(sta per uscire / colpo di tuono) Dio che spavento!<br />

Almeno che piovessi!<br />

Dal fondo della strada arriva <strong>Freno</strong> fumando, ma non si capisce bene chi e perché<br />

si trova in una zona buia.<br />

Chi xe quel là? (canticchia) Coss’ te bazili, mula fasol ...<br />

(<strong>Freno</strong> è emerso in una zona luminosa)<br />

Ma par <strong>Freno</strong> ...<br />

(canta) ... Che te vol ben / el mulo Pignol ...<br />

<strong>Freno</strong>, te son ti?<br />

FRENO (avvicinandosi) Coss’ te fa qua, Gigeta?<br />

GIGETA Xe cussì scuro. Xe che de veci se diventa paurosi, go paura de tuto e de<br />

tuti.<br />

FRENO Co te son con mi te son sicura.<br />

GIGETA Benedeto! Te sa mi conossevo tua mama, povera ...<br />

FRENO Mi gnanca no me la ricordo. Mio pare me lo ricordo anche se lo go<br />

visto poche volte: iera un che no pareva gnanca mio pare. (fuma / poi come se<br />

si scuotesse) Dei dei, andemo avanti che i ne speta ale “Tre porte”. (esce)<br />

GIGETA ’Ndemo, ’ndemo. Ma pian, senza furia! son tuto el giorno che camino,<br />

e son in tochi! (esce)<br />

71


72<br />

Scena sesta – Osteria di Ravalico<br />

Un bancone e solo un tavolino al quale sta seduto Pepi Spinazza davanti a un<br />

mezzo litro di vino / un canto lontano che si avvicina.<br />

RAVALICO I sta ’rivando.<br />

PEPI I-i sarà za imbriaghi duri.<br />

RAVALICO Bisogna bever el vin, ma no el giudizio.<br />

Entra <strong>Freno</strong>, Tombolin, Fabris, il maestro / portano sulle spalle Gigeta che ride<br />

PEPI F-finalmente. Xe za le diese e meza. Xe do ore che ve speto.<br />

FRENO Tasi tasi, momolo.<br />

GIGETA Metème zo, metème zo. (la mettono a sedere sul banco)<br />

TOMBOLIN Ravalico, daghe de petess!<br />

MAESTRO Date da bere agli assetati! (suona il bombardino)<br />

FRENO Ravalico, portime un piato de iota!<br />

GIGETA Anche mi, anche mi!<br />

FRENO Un piato de iota anche per Gigeta. Pago mi!<br />

RAVALICO<br />

sera!<br />

No xe più niente, a sta ora, sior <strong>Freno</strong>! I ga za netà tuto, xe sabo de<br />

FRENO (scaldandosi) Voio iota, orcotron!<br />

(dà un pugno sul tavolo o sul banco) Se no spaco tuto!<br />

GIGETA Se no xe iota che ne porti almeno petess.<br />

MAESTRO Ma dai, scusa, <strong>Freno</strong>, te prego, no xe modo de comportarse!<br />

FRENO Ciò, maestro, va a far un giro, va a far un giro!<br />

TOMBOLIN (volendo sviare il discorso) Ciò, Ravalico, porta de bever, dei!<br />

RAVALICO Subito. (si avvia)<br />

FRENO No. Vien qua Ravalico! go dito che voio iota!<br />

RAVALICO (sottomesso) Ma no xe, sior <strong>Freno</strong>!<br />

FRENO Vala a trovar, alora!<br />

FABRIS Ma dei, <strong>Freno</strong>, se no xe, no xe!<br />

FRENO Alora spaco tuto!<br />

MAESTRO Ma no, dei!<br />

FABRIS Sta bon!<br />

TOMBOLIN Coss’ te ciapa?!<br />

<strong>Freno</strong> getta qualcosa a terra: una brocca, una bottiglia.<br />

RAVALICO Guantèlo!<br />

GIGETA Boni, muli, cossa fè?<br />

PEPI I-i ciama le guardie e po’ne toca pagar tuto!<br />

GIGETA (raccogliendo da terra i cocci) Oh, el ga roto sta bela broca, che pecà!<br />

RAVALICO Intanto porto de bever.<br />

MAESTRO Scusa, <strong>Freno</strong>, ma no xe modo de far sto qua!<br />

FRENO Mi posso far tuto quel che voio perché son triestin!<br />

(tenta di gettare a terra qualcosa d’altro, ma Gigeta glielo sottrae)<br />

GIGETA Fermo là!<br />

MAESTRO Ravalico, la se movi che domani go de alzarme presto! Go un matri-


monio a san Saba.<br />

Ravalico ha portato da bere.<br />

FRENO Che schifo sta vinazza! Ciò, Ravalico, coss’ te ga lavà i piati qua dentro?<br />

RAVALICO Sior <strong>Freno</strong>, no stemo ofender!<br />

FRENO Mi ofendo chi che voio perché son triestin!<br />

TOMBOLIN Dai, <strong>Freno</strong>, no state scaldar!<br />

FRENO Mi me scaldo fin che voio perché son triestin!<br />

FABRIS Dai, che i ne buta fora!<br />

FRENO Chi ne buta fora? Chi ne buta fora? Chi ne buta fora?<br />

MAESTRO E chi lo ferma adesso?!<br />

FRENO Nissun me ga mai butà fora, mi ... Perché ...<br />

TOMBOLIN ... Te son triestin!<br />

GIGETA Anche noi semo triestini.<br />

FRENO (dopo una pausa) Ma no come mi.<br />

PEPI V-vara che xe Nagode e Butus de patulia!<br />

FRENO Mi con Butus – lo beco – e tapo la gorna.<br />

(Pepi ridacchia)<br />

E con Nagode ...<br />

FABRIS Parla pian. Te sa che te son conossù.<br />

FRENO Mi digo quel che voio perchè son triestin! ... Nagode ... Za una volta el<br />

me ga messo le man adosso! Ma prima che ’l me seri in cheba ghe ga volù! I<br />

ga dovudo ciamar altri do! ...<br />

(Pepi ridacchia)<br />

Me go becà 18 mesi, ma ghe go dito in muso quel che pensavo!<br />

(sputa con sprezzo) Nagode!<br />

FABRIS Bon, bon, demoghe un taio, ’ndemo farse la boca ai “Piatti”!<br />

FRENO ’Ndemo al “Pozzo d’oro”.<br />

TOMBOLIN Sì, sì, tornemo in Crosada.<br />

MAESTRO Mi no volessi far tardi.<br />

FRENO Tasi. Ti te vien con noi!<br />

RAVALICO Chi paga, ginoti?<br />

FRENO Nota sul iazzo e meti a sugar sul sol!<br />

MAESTRO Per no far ciacole. (getta sul banco delle monete) Qua Ravalico, la se<br />

paghi! Te vien, Gigeta?<br />

GIGETA Finisso de bever.<br />

Intanto gli altri, capitanati da <strong>Freno</strong>, hanno intonato la canzone<br />

Aiuto compare me nego,<br />

Me nego in mezo al mar...<br />

Al coro si unirà il maestro / buio / quando la canzone calerà si accenderanno le<br />

luci.<br />

73


74<br />

Scena settima – Strada – via Crosada<br />

FRENO (canta) Aiuto compare me nego<br />

me nego in mezo al mar.<br />

Aiuto compare negheve<br />

negheve in mezo al mar.<br />

FABRIS ’Dio muli. Mi vado.<br />

FRENO (afferrandolo) Ti te resti qua con noialtri.<br />

FABRIS (tentando) I me speta a casa.<br />

FRENO (cantando) Aiuto compare son morto!<br />

Domani xe ’l funeral!<br />

CORO (diretto da <strong>Freno</strong>) Speteme che impizzo la pipa,<br />

<strong>La</strong> pipa col piripipì!<br />

Compare, impizzime la pipa,<br />

<strong>La</strong> pipa col piripipì!<br />

VOCE (dall’alto) Basta! Xe gente che dormi, qua!<br />

FRENO (gridando) E alora dormi e no sta romper, mona!<br />

VOCE DI NAGODE<br />

Compare Nagode.<br />

Ma chi xe ste bestie che ziga! Ziti là!<br />

MAESTRO (agli altri che continuano a cantare) Ocio, ocio, ziti.<br />

PEPI (sottovoce) A-ara Nagode.<br />

FRENO (torvo) El xe solo.<br />

NAGODE Ah, sè sempre voialtri! Ti <strong>Freno</strong>! Capo coro! Capo orchestra!<br />

FRENO <strong>La</strong> fazi el suo dover e no la stia a ofender!<br />

NAGODE No sta a impizarte con mi, sa!<br />

MAESTRO (sottovoce) ’Ndemo prima che nassi baruffa!<br />

TOMBOLIN (id.) ’Ndemo, ’ndemo!<br />

Maestro, Tombolin e Fabris si dileguano<br />

NAGODE (girando intorno a <strong>Freno</strong>) Te sa come che se disi, no, <strong>Freno</strong>: la prima se<br />

perdona, la seconda se ammonissi, la terza se bastona.<br />

FRENO (indietreggiando) No la staghi a meterme le man adosso ...<br />

NAGODE Adesso te fazo veder mi ... (leva la sciabola dal fodero)<br />

FRENO Alora ciapa, porco. (gli mena un colpo)<br />

NAGODE Come ... A una guardia austriaca!<br />

FRENO (colpendo ancora) Te go dito de taser ...<br />

NAGODE ... A un pare de fameia ...<br />

FRENO (colpendo) Tasi, tasi, tasi ...<br />

NAGODE Disgrassià ...(è a terra morente)<br />

FRENO (ansante) E adesso cossa te ga ancora de dirme ...<br />

PEPI (tornando) C-Cossa te ga fato?<br />

<strong>Freno</strong> non risponde<br />

C-cossa te ga sulla man?<br />

FRENO Cossa?<br />

PEPI Xe-xe sangue.


FRENO Sangue? devo esserme taià co la britola.<br />

Intanto è calata la casa con finestre alle quali si affacciano i vari personaggi.<br />

VOCI Gavè sentì?<br />

Iera gente che cantava.<br />

PEPI B-Bisogna taiar la corda. Scampemo.<br />

(scappa seguito da <strong>Freno</strong>)<br />

VOCI Ma chi iera?<br />

No se sa.<br />

(ad un certo punto voci ed altre persone che entrano in strada)<br />

Davanti al “Pozzo d’oro”! Un omo distirà!<br />

El xe in un mar de sangue ...<br />

’Ndemo, ’ndemo a veder!<br />

Cossa xe nato?<br />

I ga copà una guardia.<br />

Ma forsi la xe solo che ferida.<br />

Ma chi lo ga copà?<br />

No se sa. No xe più nissun.<br />

I xe scampai via tuti.<br />

Mi go visto com un’ombra sul muro.<br />

I ga copà una guardia.<br />

Ciamè un dotor.<br />

A l’Igea, qua vizin.<br />

Sta ora xe serado. Meio la guardia medica.<br />

No sta ciamar nissun. No se sa mai.<br />

Ma chi xe morto?<br />

<strong>La</strong> guardia Nagode. Copà co ’na cortelada.<br />

Par che i ghe gabi dà de più de una cortelada.<br />

I ga copà una guardia.<br />

Ma in quanti i la ga copada?<br />

I disi un solo, o forsi do.<br />

Ma el xe morto subito?<br />

Par che un momento el se ga tirà su, e po’el xe cascà zo, e là el xe.<br />

Ma vara là, che robe che nassi.<br />

I ga copà una guardia!<br />

Una guardia!<br />

I ga copà una guardia in via Crosada.<br />

(durante le voci: fisarmonica / poi verso la fine il coro canta i versi della canzone)<br />

CORO ’Na guardia de patulia<br />

De posto in via Crosada<br />

Xe stada assassinada<br />

De un nostro zitadin.<br />

Tuti lo conossiamo<br />

Se ciama <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong><br />

Che col cortel in seno<br />

Girava la zità.<br />

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ATTO SECONDO<br />

Scena prima – Casino<br />

<strong>La</strong> saletta è in ordine. Un canapè, un separè, una o due sedie, un tavolino /<br />

quando è ancora buio si sente suonare la campanella.<br />

VOCE SIGNORA Vegno! vegno!<br />

SIGNORA (entrando con un lume) Ma chi xe a sta ora?<br />

(ancora il suono della campanella)<br />

Vegno, vegno! Dio che furia.<br />

(la Signora esce / poi da fuori)<br />

VOCE SIGNORA Ah, la xe lei.<br />

VOCE BARONE <strong>La</strong> me scusi se vegno a sta ora.<br />

SIGNORA (entrando) <strong>La</strong> vegni, la vegni sior Baron. Lei la xe sempre ben aceto.<br />

Fazo un poco de luse.<br />

BARONE Iero qua al Verdi. Me son fato acompagnar. Fora iera una confusion!<br />

Devi esser sucesso qualcossa.<br />

SIGNORA (accendendo un lume) Eh, a ste ore e per ste strade pol nasser de tuto.<br />

Eco, cussì xe za meio. Almeno se vedemo. Ah, la iera al’opera. E cossa i fazeva?<br />

BARONE Rigoleto.<br />

SIGNORA Ah, quela storia del gobo.<br />

BARONE (guardandosi attorno) Bel sa! sembra fin un altro logo. (ride indicando<br />

la pittura) El Paradiso terrestre! Bona idea el Paradiso terrestre in un casin!<br />

SIGNORA No xe vero?<br />

BARONE Gaveria pensà de dormir qua de lei ...<br />

SIGNORA Qua la xe come a casa sua.<br />

BARONE (sospirando) Speremo meio. E ... Le putele?<br />

SIGNORA ’desso le ciamo.<br />

BARONE Ma gari le iera za a far nanna!<br />

SIGNORA No credo.<br />

BARONE Me dispiaseria disturbarle.<br />

SIGNORA Lei la se comodi sul canapè.<br />

BARONE (siede) Go un bel regaleto per lore ... E anche per lei.<br />

77


78<br />

SIGNORA (decisa) Alora le dismissio anche se le dormi. (esce)<br />

BARONE Poverete. (ride forte) Poverete. Picie mie. Povere picie mie!<br />

Canticchia qualcosa battendo nervosamente il tempo sul ginocchio. Entra<br />

Angiolina lentamente, senza far rumore, seguita da Apollonia. Si avvicina al<br />

Barone, dietro il canapè e gli mette le mani sugli occhi / si capisce dal loro abbigliamento<br />

che le ragazze si sono appena alzate dal letto.<br />

BARONE (strilla deliziato) Ih ... Ih ... Ih ... Chi xe? De chi xe ste bele manine? ...<br />

(odora) Tute profumade?<br />

APOLLONIA Indovina grillo!<br />

BARONE Ti te me par, se no me sbaglio, te me par, dela vose, dela voseta, te me<br />

par Apollonia.<br />

ANGIOLINA<br />

de mi?<br />

(scherzando) Ma come no te me riconossi? Te se ga za dismentigà<br />

BARONE Scusime sa cara, ma dela vose me pareva ...<br />

ANGIOLINA Te bastoneria, traditor!<br />

APOLLONIA (spuntando da dietro il canapè) Iero mi, iero mi! (gli fa il solletico)<br />

BARONE No sta a farme cussì! (ride) Te prego, basta, te prego, che no me s’ciopi<br />

el cuor!<br />

SIGNORA (rientrando) Ma cossa ghe fè, povero omo? (ride anche lei) Cussì se<br />

trata i clienti?<br />

BARONE No le xe cative, ste putele, le xe solo che zogatolone.<br />

SIGNORA <strong>La</strong> me le sta viziando tropo! (esce)<br />

BARONE E Lucia? Dove xe Lucia?<br />

LUCIA (entrando con Santina) Son qua. Ghe piasi la mia camisa de note? (si<br />

pavoneggia)<br />

BARONE Bela, bela. Ma desso metite un poco in ordine. Te sa che no ve voio<br />

veder tanto scolaciade. A mi me basta una manina, un piedin, un niente, per<br />

imaginarme tuto el resto. (ridacchia nervosamente)<br />

SANTINA (sottovoce) Vecio sporcacion!<br />

APOLLONIA (idem) Ma pien de bori.<br />

LUCIA (strillando) Un sorzo! Un sorzo!<br />

TUTTE (gridando e correndo chi da una parte chi dall’altra) Ecolo qua! No, el xe<br />

andà de qua. Là là là!<br />

BARONE Dove? dove? (corre anche lui, poi salta su una sedia)<br />

APOLLONIA (alzando la camicia da notte) Oh, Dio! Aiuto! Aiuto! El me vien su<br />

per le gambe! aiuto!<br />

LUCIA Qua ghe vol un gato!<br />

ANGIOLINA Mi, mi fazo el gato! Miao! Miao (imita il verso del gatto mettendosi<br />

a quattro zampe / selvaggiamente)<br />

SANTINA El xe scampà! Mi lo go visto! El xe scampà!<br />

(il Barone è terrorizzato / entra la Signora)<br />

SIGNORA Ma cossa xe sto baccan? (indica il Barone) Ma vardè come che lo gavè<br />

ridoto! (aiuta il Barone a scendere dalla sedia)<br />

LUCIA Ma dei che no iera vero niente!<br />

APOLLONIA Gavemo fato per zogar!<br />

BARONE Mi savevo che iera tuto un scherzo. No podeva esserghe sorzi qua


dentro!<br />

SANTINA (che era uscita / rientrando con un enorme ventaglio) Sorzi no (apre e<br />

chiude il ventaglio) ... Ma un bel pavon, sì!<br />

TUTTE (in coro) Oh che bel pavon ...<br />

Oh che bel pavon ...<br />

Il Barone imita il verso del pavone. Inizia la vestizione: un mantello colorato<br />

sulle spalle che il Barone aggancia davanti / lentamente il Barone si trasforma in<br />

pavone. Gonfia il petto, manda un grido, poi si inginocchia aiutato da Santina e<br />

Lucia / incomincia a camminare. Apollonia e Angiolina aprono e chiudono il<br />

ventaglio come se fosse un’enorme coda / Lucia e Santina con una candela accesa<br />

in mano.<br />

CORO Oh che bel, che bel pavon!<br />

Oh che bel, che bel pavon!<br />

Pel giardin va a torziolon.<br />

(grido del Barone che imita il pavone)<br />

Ah il pavon, che bel, che bel!<br />

Ah il pavon, che bel, che bel!<br />

El xe propio un grosso usel!<br />

Grido del Barone che imita il pavone / Lucia e Santina spengono le candele,<br />

aiutano il Barone ad alzarsi / poi in fretta avviene la svestizione / suona la campanella<br />

/ passa la padrona.<br />

BARONE E adesso ... (tira fuori dei soldi) Vedemo ... Vedemo (si guarda attorno<br />

furbescamente)<br />

ANGIOLINA (furbescamente) Sto qua xe un zogo che me piasi!<br />

BARONE Vedemo ... Vedemo dove che noi podemo meter questo!? (mette le<br />

monete nel reggiseno di una ragazza)<br />

E questo dove lo metemo? (mette il denaro in una giarrettiera)<br />

E adesso a chi ghe toca? (si fa avanti un’altra che prende il denaro in bocca)<br />

Oh, bricconcella! Xe rimasto solo che ... (una ragazza alza la camicia da<br />

notte) Coss’ te fa sporcaciona? (le mette il denaro nelle mutandine)<br />

Si sente cantare la strofa.<br />

VOCE (canta) E in punto a mezanote<br />

<strong>La</strong> mano insanguinata<br />

E l’anima turbata<br />

Cercava di fugir.<br />

VOCE SIGNORA (fuori scena) Ma cossa la fa? Go dele persone de riguardo!<br />

Improvvisamente entra <strong>Freno</strong>. Ha la mano sinistra fasciata malamente da un<br />

fazzoletto insanguinato.<br />

FRENO (ansante) Lucia!<br />

LUCIA <strong>Antonio</strong>!<br />

È come se fossero soli e si vedessero per la prima volta.<br />

BARONE Sangue. El ga la man insanguinada! Oh, Dio, stago mal! (sviene tra le<br />

braccia di Angiolina e Apollonia. Santina gli fa vento con il ventaglio e non<br />

sapendo cosa fare canta)<br />

SANTINA Oh, che bel pavon ...<br />

SIGNORA (a <strong>Freno</strong>) <strong>La</strong> staghi atento che la me sporca per tera!<br />

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80<br />

FRENO (a Lucia) Dame qualcossa per fassarme meio.<br />

LUCIA Ma cossa xe nato?<br />

<strong>Freno</strong> tace / Lucia esce.<br />

SIGNORA (ad Apollonia, Angiolina e Santina) Voialtre portè el Barone in camera<br />

mia, svelte! (le ragazze guardano imbambolate <strong>Freno</strong> e non si muovono) Svelte,<br />

go dito!<br />

ANGIOLINA El xe magro, ma el pesa che ’l sembra de piombo!<br />

APOLLONIA Xe i bori che ’l ga in scarsela.<br />

SANTINA Strassinemolo, xe meio!<br />

Mentre viene portato via il barone si lamenta / <strong>Freno</strong>, seduto sul canapè guarda<br />

fisso davanti a sé.<br />

SIGNORA Cossa la ga combinà stavolta?<br />

FRENO <strong>La</strong> me lassi in pase.<br />

SIGNORA Qualche bela dele sue, me imagino!<br />

FRENO <strong>La</strong> me lassi in pase, go dito!<br />

LUCIA (entrando con una lunga benda / a <strong>Freno</strong>) Dame qua la man.<br />

SIGNORA Mi vado in camara a veder come che sta el Baron. (a Lucia) Dopo<br />

ricordite de netar per tera. (esce)<br />

LUCIA (guardando la mano a <strong>Freno</strong>) Che bruto taio. Te doverà andar de un<br />

dotor. Ma cossa xe nato? (<strong>Freno</strong> tace) Go sempre ’vu paura che te nassi qualcossa.<br />

(gli dà un bacio)<br />

FRENO (molto agitato) Un omo no pol patir tuta la vita!<br />

LUCIA Sì ... Sì ...<br />

FRENO No ’l pol lassar sempre che i altri lo comandi. (Lucia annuisce) Quando<br />

che lui el xe vegnù avanti per darme ...<br />

LUCIA Lui chi?<br />

FRENO Nagode!<br />

LUCIA <strong>La</strong> guardia ...<br />

FRENO Ghe go dà cola britola.<br />

LUCIA Maria Vergine ...<br />

FRENO No so gnanca come che xe nato. El iera distirà per tera ...<br />

E el iera morto.<br />

LUCIA (incomincia a piangere / dice qualcosa di indistinto / forse prega)<br />

FRENO Bisogna che vado via, più lontan che posso. Ti no sta a pianzer, che no<br />

merita.<br />

LUCIA Te ga copà un omo!<br />

FRENO Mi no go colpa. El se la ga voluda. Se i vol, i pol anca taiarme a tocheti.<br />

Mi no go colpa.<br />

LUCIA Cossa sarà de noi! ...?<br />

FRENO Mi vado. Prima che scampo meio xe.<br />

LUCIA Speta. (gli dà del denaro) Ciapa. No go altro.<br />

FRENO (le dà un bacio) ’Dio. ’Pena che posso me fazzo vivo.<br />

LUCIA ’Dio <strong>Freno</strong>.<br />

<strong>Freno</strong> esce. Lucia resta sola per qualche momento sempre guardando nella direzione<br />

da cui è uscito <strong>Freno</strong>.<br />

ANGIOLINA (entrando) El xe andà? Ma cossa xe nato?


LUCIA (uscendo per andare a prendere straccio e secchio) Te conterò dopo.<br />

SIGNORA (entrando) Bona che el xe andà via. Qua bisogna netar presto, se no<br />

quel altro el me va insieme de novo.<br />

ANGIOLINA Che omo de merda.<br />

SIGNORA Vara che el xe uno dei nostri più boni clienti. Tien serada quela bocazza.<br />

ANGIOLINA (tra i denti) Ma vara chi che parla!<br />

Entra Lucia con un secchio d’acqua e uno straccio / incomincia a pulire per<br />

terra.<br />

SANTINA (entrando) El Baron el domanda se el pol vignir.<br />

VOCE BARONE Se pol?<br />

SIGNORA <strong>La</strong> vegni, la vegni sior Baron, xe tuto a posto.<br />

VOCE BARONE El xe andà via?<br />

SIGNORA Si, si, el xe andà.<br />

ANGIOLINA Ma de cossa la ga paura? Semo qua noi.<br />

BARONE (entrando con Apollonia) Xe el sangue, putele, xe el sangue. No posso<br />

proprio soportar de veder el sangue.<br />

APOLLONIA E come no. Xe qualchedun che ghe fa impression.<br />

BARONE Brava picia mia, te me capissi. Za de putel me fazeva impression. Me<br />

ricordo de quela volta che i contadini ga mazà al porco su in Carso. Dio che<br />

mal che stavo.<br />

ANGIOLINA Povero picio ... (lo accarezza)<br />

BARONE Cocolime un poco, picia mia.<br />

SIGNORA Dai, putele, canteghe una canzon.<br />

APOLLONIA (ironicamente) Una nina nana per el picio...<br />

BARONE Sì sì, canteme qualcossa. Dio che ben che stago con voi, putele mie,<br />

mie bele, mie care putele... (le ragazze cantano una ninna nanna / il barone<br />

chiude gli occhi) Cussì me piasi. Brave, brave e bele le mie pice. Qua con voi<br />

son proprio in paradiso...<br />

Lucia piange / la ninna nanna sale / le luci si spengono / fischietti lontani.<br />

81


82<br />

Scena seconda – <strong>La</strong> strada<br />

Entrano Butus e una guardia / i personaggi entrano ed escono come ombre.<br />

BUTUS E alora?<br />

GUARDIA Niente. El xe sparì.<br />

BUTUS Ma le mace de sangue?<br />

GUARDIA Le ’rivava fin al casin del Sabion. Dopo niente. Semo andadi su; le me<br />

ga dito che no ’lo ga visto.<br />

BUTUS Xe tuti che lo iuta, quela carogna. Ma no ’l pol esser lontan. ’Ndemo.<br />

Escono veloci / fischi di richiamo delle guardie / entra <strong>Freno</strong> ansante / dietro di<br />

lui Pepi<br />

VOCI LONTANE Per de qua! Lo go visto de sta parte.<br />

PEPI Ciò, b-bisogna che te vadi via. Xe sbiri partuto.<br />

FRENO Che Dio li stramaledissi!<br />

VOCE LONTANA Zerché, zerché per tute le case!<br />

FRENO ’Dio, Pepi.<br />

PEPI T-te vol che te compagno?<br />

FRENO Meio che scampo solo!<br />

Escono Pepi da una parte / <strong>Freno</strong> dall’altra / entrano Fabris e Tombolin / <strong>Freno</strong><br />

rientra immediatamente<br />

FABRIS No se pol passar de nissuna parte! Via Catedrale, via dele Monighe, tuto<br />

pien de sbiri!<br />

TOMBOLIN Anca zo: via Muda vecia, Cavana, via del Pesse, tuto fisso de guardie!<br />

FABRIS ’Ndemo de Tosca, che de là se pol scampar pei copi.<br />

FRENO ’Dio muli. Xe l’ultima volta che se vedemo.<br />

Tutti escono / fischi e voci delle guardie.<br />

VOCE DI BUTUS<br />

Entra Gigeta<br />

Guanteli! guanteli! altolà!<br />

GIGETA (rivolta nella direzione da cui è uscito <strong>Freno</strong>) Ma dove te cori? Dove te<br />

cori? (colpo di tuono) Xe proprio el finimondo! (a Butus che sta entrando) E<br />

ti coss’ te vol?<br />

BUTUS Ah, te son ti?<br />

GIGETA E chi te vol che sia. Te me par un can che ghe cori drio a un levro.<br />

BUTUS Te ga visto <strong>Freno</strong>, vecia?<br />

GIGETA Vecio te sarà ti!<br />

BUTUS Te lo ga visto?<br />

GIGETA Xe questo el modo de tratar la gente?<br />

BUTUS Alora, te lo ga visto sì o no?<br />

GIGETA Sicuro che lo go visto!<br />

BUTUS E indove?<br />

GIGETA Una ora fa, su de Guelfo.<br />

BUTUS Adesso, digo.<br />

GIGETA Adesso? adesso che te me disi, me par come de aver visto qualchedun<br />

che scampava! ...<br />

BUTUS Per dove?


GIGETA De là! (indica la direzione contraria a quella da cui è uscito <strong>Freno</strong>)<br />

BUTUS De là! (esce / poi si sentirà la sua voce che grida) Per de qua! per de qua!<br />

Passa la seconda guardia che uscirà nella direzione di Butus.<br />

GIGETA Cori, cori che te lo bechi, mona de guardia! cori e rompite l’osso del<br />

colo!<br />

Entra il lampionaio<br />

GIGETA Ciò, Nando, te son za de ritorno? (il lampionaio va a spegnere il lampione.<br />

Gigeta guarda in alto) Eh, sì: sta za s’ciarendo. No me iero gnanche inacorta<br />

che iera za zorno. Dio, come passa el tempo. Meno mal che passa per tuti.<br />

Bon, intanto ’ndemo avanti. De un feral a l’altro ’riveremo a casa. (esce con il<br />

lampionaio)<br />

Tutto dissolve nella canzone “<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>” suonata alla fisarmonica / poi<br />

cantata / distintamente le parole:“... e apena fato el colpo / A Isola el xe scampado<br />

... ecc.”<br />

Buio.<br />

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84<br />

Scena terza – Osteria<br />

Osteria molto piccola e povera – è mattino.<br />

Da una parte una breve scala che porta al primo piano / per un momento l’osteria<br />

rimane vuota / da fuori le campane / entra <strong>Freno</strong>, si guarda attorno.<br />

FRENO No ghe xe nissun?<br />

VOCE DI ERNESTO IL LOCANDIERE (fuori scena) Son qua, son qua, vegno.<br />

FRENO (scrollando il cappello) Maledeta piova.<br />

ERNESTO (entrando) Ecome qua. (Scruta <strong>Freno</strong> che è ridotto in condizioni<br />

impresentabili, con un sacco sulle spalle: sembra quasi un mendicante) <strong>La</strong><br />

desidera?<br />

FRENO Una camera.<br />

ERNESTO Quanto la se ferma?<br />

FRENO El tempo de riposarme. Un giorno, penso. Xe tuta la note che son in<br />

viagio.<br />

ERNESTO Ah sì. De dove la vien?<br />

FRENO De Trieste. (pausa)<br />

ERNESTO Ah, cussì. A pìe?<br />

FRENO A Zaule go incontrà un caro che el me ga portà fin a Semedèla. Po’de là<br />

a Isola, xe poco ... Alora, la camera?<br />

ERNESTO Per un giorno, la ga dito?<br />

FRENO Sì. Doman vado via.<br />

ERNESTO Cossa la se ga fato sula man?<br />

FRENO Ah, niente. Anche el dotor qua a Isola che son ’ndà a medicarme el ga<br />

dito che no xe niente.<br />

ERNESTO (pausa) E per cossa la xe vignù qua de noi?<br />

FRENO (sorridendo) Ma cossa, xe un interogatorio? Inveze de far tante domande,<br />

la me daghi una trapeta. Co’ tuta la piova che go ciapà...! (si stira e sbadiglia)<br />

ERNESTO No la stia a ofenderse. Ma noi gavemo l’obligo de saver chi che vien<br />

de noi!<br />

FRENO <strong>La</strong> ga ragion. Con tuti sti delinquenti che va in giro! (schiocca la lingua)<br />

Bona sta trapa. <strong>La</strong> scalda e no la grata.<br />

ERNESTO <strong>La</strong> xe domacia.<br />

FRENO Son vegnù qua per comprar uva.<br />

ERNESTO Ah, xe giusto el tempo. <strong>La</strong> vegni con mi che la compagno in camera.<br />

<strong>La</strong> ga qualcossa de portar su?<br />

FRENO No. Per un giorno no volevo intrighi.<br />

ERNESTO <strong>La</strong> ga fato ben. (prende la chiave) <strong>La</strong> vegni con mi. <strong>La</strong> vegni con mi.<br />

Escono. Dopo un po’ entra Maria, la moglie di Ernesto / è vestita a festa / si<br />

guarda attorno poi velocemente si versa da bere e beve rapida perché sente i<br />

passi del marito che scende.<br />

ERNESTO Iera ora! xe quasi le diese! scometo che te se ga messo a ciacolar con<br />

qualche baba!<br />

MARIA Me ga fermà don Mario dopo la messa.<br />

ERNESTO Alora go capì: quel là el xe pezo de una baba! Ciò, Maria, xe ’rivà un<br />

de Trieste, un strano tipo che no me piasi niente.


MARIA Dove te lo ga portà?<br />

ERNESTO Lo go messo in camereta picia perché el ga dito che el sta solo un<br />

giorno. Ti spetime qua, mi vado un momento de Franzele. (prende un ombrello)<br />

MARIA No ocori che te se cioghi l’ombrela. Sta s’ciarendo. Fa presto.<br />

ERNESTO Vado e torno. (si incrocia con un pescatore che entra)<br />

PESCATORE Salute, Ernesto, volevo dirte ...<br />

ERNESTO Go furia Toni. ’Dio. (esce)<br />

PESCATORE In sti ultimi tempi no se pol più parlar con tuo marì.<br />

MARIA A chi te ghe lo disi! Coss’ te vol?<br />

PESCATORE Un bicer de bianco.<br />

MARIA (versandogli da bere) Come xe, Toni?<br />

PESCATORE Bon per ti che te son piena de bori!<br />

MARIA Come che i vien, cussì i va via, caro mio!<br />

PESCATORE Eh, te la sa longa, ti! (beve) Ciò, go sentì che stanote xe successa una<br />

bruta storia a Trieste. Te sa niente, ti?<br />

MARIA Mi no.<br />

PESCATORE Par che i gabi copà qualchedun. Una guardia, i disi.<br />

MARIA Mama mia.<br />

PESCATORE Dove anderemo a finir! Bon, vado. Se vedemo, Maria!<br />

MARIA ’Dio Toni.<br />

Il pescatore esce/ una banda, fuori, comincia a suonare / Maria sente un rumore:<br />

qualcuno sta scendendo. È <strong>Freno</strong> senza giacca. Quando entra, <strong>Freno</strong> e Maria si<br />

fissano un momento.<br />

MARIA Bongiorno, signor. Mio marì el xe andado un momento in camera. <strong>La</strong><br />

desidera qualcossa?<br />

FRENO Un spagnoleto. Go tanta voia de dormir, ma no posso indormenzarme<br />

se no go un spagnoleto. Xe un bruto vizio, ah!<br />

MARIA Qualcossa doveria esserghe. (apre un cassetto) Eco qua. Tabaco e cartine.<br />

Mio marì el se rodola solo i spagnoleti.<br />

FRENO Cussì el fuma de meno. (si arrotola la sigaretta / la banda arriva più<br />

forte) Cossa che i ghe dà dentro, ara!<br />

MARIA Ogi se ga sposà Bruno, quel del tamburo. Xe tuti i amici che ghe fa festa!<br />

FRENO Mi la banda me diverti.<br />

MARIA Mio marì el me ga dito che lei la vien de Trieste. (<strong>Freno</strong> annuisce) Per far<br />

cossa?<br />

FRENO (la guarda calmo e sorridente) Afari ... Mii! (ride divertito) <strong>La</strong> gavessi<br />

anca un fulminante?<br />

Maria prende nervosamente i fiammiferi.<br />

Me par de esser come Pepi Spinazza.<br />

MARIA Chi?<br />

FRENO Ah, un che conosso. Un che no ga mai spagnoleti e fulminanti. Povero<br />

Spinazza. (si accende la sigaretta) E ’desso ghe volessi una bona trapeta!<br />

MARIA Ghe la porto subito.<br />

Versa la grappa in un bicchierino / con un dito lecca le gocce cadute sul banco,<br />

con soddisfazione.<br />

85


86<br />

FRENO <strong>La</strong> cioghi anche lei.<br />

MARIA (fingendosi scandalizzata) A sta ora de matina?<br />

FRENO No me piasi bever solo. Pago mi. (butta dei soldi sul tavolo) Ala nostra!<br />

(beve – poi guardando fuori da un’ipotetica finestra) No la me gaveva dito<br />

che suo marì el iera andà in camera?<br />

MARIA Cussì me gaveva parso! (beve)<br />

FRENO E inveze el xe là fora che el parla co’ una guardia!<br />

MARIA (impacciata) Ah, sarà Franzele. I xe amici. Qua se conossemo tuti, el<br />

paese xe picolo ...<br />

FRENO Va ben, va ben. Più lontan no podevo andar.<br />

MARIA No capisso.<br />

FRENO Se no xe ogi xe doman, se no xe doman sarà un altro giorno. Importante<br />

xe esser pronti.<br />

MARIA Ma cossa la disi?<br />

FRENO Digo che me andaria ancora un altro bicerin. (le dà gli ultimi soldi) <strong>La</strong> se<br />

tegni tuto. Ogi voio far le robe in grando! (si versa da bere da solo) Sta banda<br />

me ga messo de bonumor!<br />

Entrano Ernesto e la guardia Franzele.<br />

ERNESTO <strong>La</strong> piova che xe vignuda zo stanote la ga rinfrescà!<br />

FRANZELE Eh, ormai l’estate la xe propio finida!<br />

ERNESTO Te vol una trapeta, Franzele?<br />

FRANZELE Preferisso de no. Come va, Maria?<br />

MARIA No xe mal.<br />

FRANZELE (a <strong>Freno</strong>) Bongiorno.<br />

FRENO Bongiorno.<br />

FRANZELE (guardando <strong>Freno</strong>) Questo xe el signor de Trieste che te me contavi?<br />

FRENO Ah, gavè parlà de mi?<br />

FRANZELE Vedo che la ga la man infassada.<br />

FRENO (allegro) Ogi tuti i se interessa ala mia man! Me go taià verzendo una<br />

botilia de refosco.<br />

FRANZELE (piccola pausa) Te sa Ernesto, stanote a Trieste xe sta commesso un<br />

bruto fato.<br />

ERNESTO I parlava in giro.<br />

FRANZELE I ga copà una guardia de patulia.<br />

MARIA Madonna santa!<br />

FRANZELE Iera un omo giovine, el ga lassà la moglie, povera, con due fioi pici.<br />

MARIA Povareto!<br />

Qualcuno comincia a entrare / si formerà poi il coro finale.<br />

FRANZELE<br />

forsi?<br />

Xe tuto scrito sul Picolo. Lei che la vien de Trieste, la sa qualcossa<br />

FRENO E cossa doveria saver mi?<br />

MARIA El assassin i lo ga becà?<br />

FRANZELE No. El xe scampà. El devi esser ferido, perché el ga lassà mace de<br />

sangue per un toco de strada ... E po’el devi aver la man infassada.<br />

MARIA Perché la man?<br />

ERNESTO No state intrigar, ti!


FRANZELE Me xe vignù in mente, cussì, spontaneo, perché go visto el signor,<br />

qua, co la man infassada.<br />

Lungo silenzio / qualcuno si accende una sigaretta<br />

FRANZELE (proprio di fronte a <strong>Freno</strong>) No ghe go domandà come che la se<br />

ciama. (piccola pausa) Alora. Qual xe el suo nome?<br />

FRENO Xe inutile sconderse. Son mi, son mi che go copà Nagode. Me ciamo<br />

<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>. ’Desso podè far de mi quel che volè. (mette il coltello sul<br />

banco)<br />

Brusio di folla. <strong>La</strong> musica della banda sale un poco / qualcuno mette sulle spalle<br />

di <strong>Freno</strong> la giacca, un altro il cappello.<br />

FRENO Cossa, sè vegnudi a ciorme co la banda?<br />

(porge i polsi a Franzele che gli mette le catene)<br />

VOCI I lo ga ciapà! i lo ga ciapà!<br />

Dove?<br />

A Isola!<br />

El iera scampà tanto lontan!<br />

Gavè sentì: i ga ciapà <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>.<br />

Una guardia lo ga ciapà.<br />

Solo una guardia?<br />

El teror de Crosada?!<br />

Ma che teror e teror. Se la ga fata soto.<br />

El iera bon solo a parole.<br />

Ma ga copà Nagode!<br />

Perchè el iera imbriago.<br />

Gavè sentì: i ga ciapà <strong>Freno</strong> a Isola.<br />

E adesso i lo porta qua a Trieste al Criminal.<br />

Si è aggiunto anche Butus / entra Lucia<br />

LUCIA <strong>Antonio</strong>.<br />

BUTUS <strong>La</strong> vadi via.<br />

VOCE Chi xe quela là?<br />

ALTRA VOCE Sarà la sua amante.<br />

LUCIA Go de dirghe solo due parole.<br />

VOCE Mi, un cussì no lo volessi gnanca morto!<br />

ALTRA VOCE No me dispiasi come omo.<br />

LUCIA Scoltime, <strong>Antonio</strong>.<br />

FRENO <strong>La</strong>ssime star. Ormai xe finido! Xe tuto finido. Xe meio che no te pensi<br />

più a mi. ’Dio, Lucia.<br />

<strong>Freno</strong> viene portato via e la gente si disperde / ancora qualche voce.<br />

VOCE Povera mula. <strong>La</strong> xe inamorada.<br />

ALTRA VOCE I omini xe propio dele bestie!<br />

LUCIA De quela volta no lo go visto più. Prima i lo ga condanà ala forca, po’i<br />

ghe ga dà l’ergastolo. Adesso squasi no me ricordo gnanca più come che el<br />

iera fato. So solo che ierimo zovini e se volevimo ben ...<br />

Lucia esce mentre sale un poco la musica sul cambio scena che farà entrare i<br />

personaggi della scena quarta.<br />

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88<br />

Scena quarta – Osteria di Guelfo<br />

Siamo negli anni ’30 e lo si capisce dalla canzonetta trasmessa dalla radio /<br />

per il resto l’osteria non ha subito sostanziali mutamenti / sono invece molto<br />

invecchiati i personaggi che abbiamo già conosciuto: Pepi Spinazza, Tombolin,<br />

Guelfo / Gigeta è adessso quasi una mendicante. Pepi e Guelfo e qualche<br />

altro entrano con la marcia austriaca / relitti di un mondo che sta totalmente<br />

scomparendo.<br />

In un angolo un uomo che sembra dormire di schiena al pubblico / siamo in<br />

novembre: qualcuno indossa ancora qualche cappotto militare oppure la giacca.<br />

L’osteria, se non fosse per la presenza di due giovani, Elvio e Duilio,<br />

sembrerebbe un ospizio.<br />

PEPI (È un alcolizzato / parla ai due giovani) N-niente no sarà più come<br />

una volta. V-voi no podè gnanca imaginar come che iera una volta! X-xe<br />

vero, Guelfo?<br />

GUELFO (filosofo) Eh, una volta iera una volta e adesso xe adesso.<br />

ELVIO Ara che el vol far el galeto!<br />

Duilio dà uno spintone a Pepi che quasi ruzzola a terra.<br />

DUILIO Sti veci i bevi e no i sa tegnir!<br />

Nello spintone a Pepi sono cadute delle zampe di gallina che teneva avvolte<br />

in un giornale.<br />

ELVIO Coss’ te xe cascà là per tera?<br />

Pepi incomincia a raccogliere le zampe di gallina.<br />

DUILIO Zate de galina. (prende una zampa e incomincia a giocare – Pepi<br />

vuole prenderle, ma l’altro gliele sottrae)<br />

PEPI D-dame qua, bruto muso.<br />

DUILIO Ciapa.<br />

ELVIO Dio che schifo.<br />

Pepi si riprende le sue zampe / lentamente le avvolge nel giornale.<br />

PEPI (quasi a se stesso) M-me servi per far el brodo. El brodo me fa ben.<br />

Stasera me fazo un brodo, un brodeto me farà ben.<br />

DUILIO Ormai no te servi più niente, te son za con un pie de l’altra parte.<br />

PEPI (li guarda con odio) S-se fussi qua <strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong>!<br />

Entra Gigeta cantando / non ha quasi più voce / è un relitto.<br />

ELVIO Ara un’altra mata! Guelfo, ma i vien proprio tuti de ti.<br />

GIGETA (ride / è diventata sorda / a Guelfo) Cossa i disi? Xe qualche giorno<br />

che no ghe sento più tanto ben.<br />

GUELFO Anche qualche ano, Gigeta!<br />

GIGETA No go capì.<br />

GUELFO Niente Gigeta, niente. (forte) Te porto el solito.<br />

GIGETA Bravo ... Bravo ... Ti te son proprio un bravo mulo. (guardando<br />

affettuosamente Pepi) E anche Pepi.<br />

PEPI M-magari fussi un mulo.<br />

GIGETA (ai due giovani – accattivante) Volè comprar fiori, bei giovinoti?<br />

DUILIO Ma dove te li trovi?<br />

GIGETA (cercando di cantare, non ci riesce, e recita) Vado a racoglierli nei<br />

più bei prati ... Oh, dio, come va avanti dopo? (è confusa) No me ricor-


do. No me ricordo più niente.<br />

PEPI (dolcemente) P-poi li rivendo per la zità.<br />

ELVIO Per mi la li ga ciolti in qualche scovazzon.<br />

GIGETA Cossa te ga dito? Cossa te ga dito? Razza maledeta.<br />

Fa qualche passo verso Elvio con le mani alzate.<br />

DUILIO Ara che vol far barufa, la vecia.<br />

GIGETA (correndo come può dietro a Elvio) Se te beco te fazo veder mi! (si<br />

ferma ansante) Oh, dio, me s’ciopa el cuor. El mio povero cuor!<br />

GUELFO (portandole un bicchiere di vino) Bevi, bevi, che sto qua te farà<br />

ben.<br />

GIGETA (sorseggia lentamente il vino) Me sento za meio.<br />

PEPI (a Guelfo) C-ciò, Guelfo, te gaveria un spagnoleto?<br />

GUELFO Dei, Pepi, te sa che no fumo più de diese ani.<br />

PEPI S-sa, no se sa mai ...<br />

Dalla radio un motivo cantato – “Bombolo” – ripreso dai due ragazzi che<br />

canticchiano.<br />

DUILIO (indicando l’uomo che dorme) E sto qua, cossa fa, el dormi?<br />

Entra Tombolin vecchio, ma arzillo.<br />

TOMBOLIN Bonasera a tuti.<br />

GUELFO Bonasera.<br />

PEPI S-sera!<br />

GIGETA ’Dio Tombolin.<br />

ELVIO Dane un mazo de carte, dei Guelfo.<br />

Guelfo va a prendere le carte, le dà a Elvio che si mette a giocare con Duilio<br />

– poi porterà un bicchiere anche a Tombolin.<br />

TOMBOLIN Ah, scoltè, scoltè sta qua. Xe una de quel che conta Cechelin al<br />

varietà. ’Lora. Un giorno Carleto el ’riva a scola tuto contento e el ghe<br />

disi al maestro: “Maestro, maestro, ieri la mia gata ha fato quatro gatini<br />

beli come fassisti!” – “Bravo Carleto”, che ga risposto el maestro, “lo dirò<br />

al direttore, che sarà molto contento di quelo che hai deto.” – dopo<br />

qualche giorno, el diretor ga ciamà el putel: “Alora, dimi, Carleto, come<br />

sono i tuoi gatini?” – “Belissimi, sior diretore, beli come quatro socialisti!”<br />

– “Ma come! Al tuo maestro non avevi deto che erano beli come<br />

quatro fassisti?” – “L’ho deto, l’ho deto, ma proprio ieri i ga ’verto i oci”.<br />

E lo ga messo in canon!<br />

Risate.<br />

GIGETA Lo ga messo in canon? Ma cossa xe un ladro, un borsariol, sto<br />

Cechelin?<br />

TOMBOLIN Ma cossa ladro! No te ga capido propio niente. Xe un bravo<br />

comico! Xe tuta Trieste che xe come mata per lui!<br />

PEPI T-te gaveria un spagnoleto, Tombolin?<br />

TOMBOLIN Volentieri te daria, Pepi, ma te sa che no fumo de ani anorum,<br />

de quela volta che i me ga mandà in Galizia e go becà una patrona che<br />

me ga passà de qua a qua. (indica) Per fortuna la me xe andada ben.<br />

Inveze al Moro ... Ciò, quando che se disi el destin, ah ...!<br />

PEPI E-el Moro no voleva andar in Galizia.<br />

TOMBOLIN Ierimo propio qua che parlavimo ... Te se ricordi, Guelfo! (Guelfo<br />

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90<br />

non segue / sta dando la caccia a una mosca) “Mi scampo in Italia, el<br />

diseva, cussì me la scapolo!” Inveze i lo ga ciapà e mandà sul Carso. E là<br />

una granata ... Oh, xe proprio vero: quando el marangon fa la cassa, nissun<br />

sa chi i ghe meterà dentro. (pausa) <strong>La</strong> par quasi una barzeleta, ma no xe<br />

tanto de rider.<br />

Guelfo dà un colpo sul tavolo.<br />

GIGETA (che si era un poco assopita sussulta) Aiuto! Cossa nassi?<br />

GUELFO <strong>La</strong> go copada. Semo in novembre e ancora le va ’torno!<br />

GIGETA Te me ga spaventada! (sorseggia il vino come un bambino)<br />

GUELFO No posso soportar le mosche!<br />

PEPI Q-quando che noi no sareme più, le mosche le sarà ancora!<br />

GUELFO Chi te ga dito?<br />

PEPI G-go sentido dir!<br />

GIGETA Mi, inveze, go sentido dir che <strong>Freno</strong> che ’l iera in galera a Maribor,<br />

el xe vignù fora. El xe libero.<br />

PEPI E-el xe qua, in zità?<br />

GIGETA Mi no lo go visto.<br />

PEPI P-pena che ’l vien a Trieste el vegnerà a trovarme! Son sicuro! (a uno<br />

dei due giovani) C-ciò, mulo, te gavessi un spagnoleto?<br />

I due giovani stanno giocando a carte.<br />

ELVIO Te fa mal!<br />

DUILIO Perché no te va a ingrumar ciche?<br />

PEPI S-se fussi qua <strong>Freno</strong> ve faria scampar come levri solo con una ociada,<br />

no xe vero Gigeta?<br />

GIGETA <strong>Freno</strong> iera un che no gaveva paura gnanca del diavolo!<br />

PEPI N-niente sarà più ...<br />

DUILIO ... Come una volta, gavemo capido, gavemo capido.<br />

PEPI N-no, ti no te ga capì niente e no te capirà mai niente!<br />

ELVIO Ma dei, tasi, vecio imbriagon!<br />

PEPI T-ti te parlerà quando che te gaverà fato i denti.<br />

DUILIO Che coragio!<br />

ELVIO El ghe ne ga quatro in boca!<br />

PEPI I-imbotonite le braghete che no te scampi el pagnarol.<br />

DUILIO Spiritoso el vecio!<br />

PEPI F-freno. El teror de Crosada, i lo ciamava. Me lo ricordo, quel sabato<br />

de sera, quando che el ga copà Nagode, la guardia! N-nagode el iera solo<br />

... E el xe vegnù zo per via Crosada caminando co le gambe larghe come<br />

se fussi el paron de Trieste. E una parola tira l’altra, a un certo momento<br />

Nagode ga tirà fora la siabola. F-freno no ghe ga visto più, (accompagna<br />

le parole con le azioni) e che ga dà cola britola ... Cussì ... Cussì ... E lo ga<br />

copà. Chi me dà un spagnoleto?<br />

FRENO (non si deve capire da dove proviene la voce / forte) Pepi Spinazza!<br />

(silenzio / tutti sono attoniti) Ciapa el spagnoleto. (Pepi prende la sigaretta<br />

/ Pepi vorrebbe dire qualcosa / <strong>Freno</strong> mette un dito davanti le labbra)<br />

Sssss...<br />

<strong>Freno</strong> butta dei soldi sul tavolo ed esce lentamente / musica.<br />

DUILIO Che tipo! Ma chi iera?


PEPI (dopo una pausa d’effetto) R-ricordite che no se disi el nome, no se<br />

disi el nome, no se ziga mai el nome!<br />

Musica.<br />

Sipario.<br />

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<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong><br />

distribuzione<br />

92 Gigeta, la fioraia Ariella Reggio<br />

Lucia Marzia Postogna<br />

Apollonia Maria Grazia Plos<br />

Santina Paola Bonesi<br />

Angiolina Elena Senes<br />

<strong>La</strong> Signora Michela Vitali<br />

Maria Mari Delconte<br />

<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong> Orazio Bobbio<br />

Pepi Spinazza / Riccardo Canali<br />

<strong>La</strong>mpionaio<br />

Maestro / Barone /<br />

Ernesto<br />

Raniero Brumini<br />

Tombolin Maurizio Repetto<br />

Nagode / Pescatore Michele Ainzara<br />

Ravalico / Elvio /<br />

Nino Luna<br />

Andrea Lovisato<br />

Buda / Guelfo Paolo De Paolis<br />

Butus / Duilio Fabio Ursich<br />

Fabris / Franzele Adriano Giraldi<br />

Fisarmonicista / Carlo Moser<br />

Guardia


<strong>Antonio</strong> <strong>Freno</strong><br />

servizi tecnici e collaborazioni<br />

direttore di scena Francesco de Simone<br />

luci Bruno Guastini<br />

capomacchinista Alessandro <strong>La</strong> Porta<br />

elettricista Roberto Vinattieri<br />

fonico Cristiano Della Loggia<br />

sarta Ida Visintin<br />

suggeritrice Mari Delconte<br />

aiuto regista Luciano Pasini<br />

assistente scenografo Federico Cautero<br />

assistente costumista Cristiano Galzerano<br />

allestimento scenico <strong>La</strong>boratorio Teatro <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong> /<br />

Tavagna Realizzazioni Scenografiche<br />

costumi Teatro <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong> / BS Studio<br />

parrucche BS Studio<br />

calzature CTC Pedrazzoli Milano<br />

foto di scena Studio Zip<br />

amministrazione Nadia Zanardi<br />

ufficio stampa Diego Matuchina / Cristina Rastelli<br />

promozione Viviana Facchinetti<br />

relazioni culturali Paolo Quazzolo<br />

93


<strong>La</strong> pittura triestina tra Ottocento e Novecento<br />

<strong>La</strong> produzione pittorica triestina che si pone a cavallo tra gli ultimi anni<br />

dell’Ottocento e gli inizi del Novecento è caratterizzata - come altrove - da<br />

un progressiva mutazione delle tecniche utilizzate dagli artisti, così come<br />

dall’attenzione per nuove ambientazioni e soggetti inediti. Da un approccio<br />

eminentemente realistico come quello che aveva accompagnato la<br />

seconda metà dell’Ottocento, si passa ora a una tecnica che risente ampiamente<br />

dell’esperienza impressionistica; da soggetti di carattere per lo<br />

più storico e celebrativo, l’attenzione si fissa su piccole scene di vita quotidiana<br />

che tendono a cogliere, molto spesso, il lavoro del popolo, la cronaca<br />

di ogni giorno, i piccoli gesti rituali, il tutto sullo sfondo delle vie o<br />

delle piazze che costituiscono il naturale scenario entro il quale si muove<br />

la gente comune.<br />

<strong>La</strong> precisione del tocco che aveva generalmente accompagnato la pittura<br />

ottocentesca, cede ora il passo a pennellate meno precise ma sicuramente<br />

ricche di tutto il colore e di tutta la vivacità necessari per restituire il<br />

brioso movimento che accompagna le scene della vita popolare. Ecco<br />

allora che la precisione descrittiva ancora presente in Al pozzo di Giovanni<br />

Battista Crevatin, cede il posto alla sensibilità artistica di autori come<br />

Umberto Veruda che in Fondamenta a Burano - una delle sue ultime<br />

opere - mette in evidenza tutta la ventata innovativa che aveva saputo trasmettere<br />

all’ambiente artistico triestino, coniugando tra di loro l’eredità<br />

dell’impressionismo francese con un colorismo di sapore squisitamente<br />

veneto.<br />

Lo sfondo “scenografico” generalmente prediletto dalla gran parte dei<br />

pittori triestini tra Ottocento e Novecento è sicuramente quello marino. Il<br />

lavoro dei pescatori, la vita trascorsa all’aria aperta e immersa nei colori<br />

affascinanti del mare e del cielo, ispirano l’opera di molti autori. Così, per<br />

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esempio, in Primi albori di Guido Grimani, dove il lavoro dei pescatori<br />

viene colto alla luce di un fanale nell’incerto chiarore dell’alba, al quale<br />

fanno da contrappunto i riflessi di un mare tranquillo e quasi immobile.<br />

Ancora il mare, questa volta fortemente protagonista, torna in Ora d’argento<br />

di Ugo Flumani, che descrive una imbarcazione di pescatori posta<br />

al centro di uno sfondo tutto cielo e mare, nel quale assumono forte suggestione<br />

il movimento e la trasparenza delle onde, così come i rapporti<br />

cromatici che si instaurano tra queste e la distesa del cielo.<br />

Una descrizione concreta e briosa della realtà la notiamo in Pieretto Bianco,<br />

autore attivo anche come scenografo presso importanti teatri quali la<br />

Scala di Milano, l’Opera di Roma e il Metropolitan di New York. Formatosi<br />

a Venezia, egli rimase vicino alla tematica lagunare in molti dei suoi<br />

quadri, come per esempio Paese di pescatori, caratterizzato da colori<br />

estremamente vivaci ed accesi.<br />

In molti autori le scene di mare tendono progressivamente a lasciare il<br />

posto a soggetti che ritraggono l’intera città. Trieste, il suo vivace e chiassoso<br />

porto, le viuzze di Cittavecchia, il lavoro incessante del popolo, divengono<br />

così fonte di ispirazione per opere come Il porto di Vittorio<br />

Bolaffio. <strong>La</strong> suggestione della vita degli umili che caratterizza soprattutto<br />

l’ultima parte della produzione di questo artista, trova espressione attraverso<br />

una tecnica di raffinato cromatismo non del tutto ignara degli influssi<br />

provenienti dal postimpressionismo francese.<br />

E infine Trieste, colta in un insieme che va dal colle di San Giusto sino al<br />

porto, ritorna ancora in Paesaggio di Pietro Marussig, autore questo che,<br />

rispetto ai precedenti, presenta tinte meno vivaci e un tocco decisamente<br />

più corposo. Caratteristica che diviene predominante soprattutto negli<br />

ultimi lavori dell’autore quando, avvicinandosi a un gusto tipicamente<br />

novecentesco, Marussig si fece più attento alla volumetria, all’equilibrata<br />

armonia del colore e della forma, alla ricerca di una struttura d’insieme<br />

che risente senza dubbio l’influenza dei modi di Cézanne. (p.q.)


Giovanni Battista<br />

Crevatin (Trieste, 1837-<br />

1910). Al pozzo.<br />

Civico Museo<br />

Revoltella, Trieste.<br />

97<br />

Vittorio Bolaffio<br />

(Gorizia, 1883- Trieste,<br />

1931). Nave attraccata<br />

al molo.<br />

Civico Museo<br />

Revoltella, Trieste.


Ugo Flumiani<br />

(Trieste, 1876-1938).<br />

Ora d’argento.<br />

Civico Museo<br />

Revoltella, Trieste.<br />

98<br />

Pieretto (Bortoluzzi<br />

Pietro) Bianco<br />

(Trieste, 1875-<br />

1937).<br />

Paese di pescatori.<br />

Civico Museo<br />

Revoltella, Trieste.


Guido Grimani<br />

(Trieste, 1871-1933).<br />

Primi albori.<br />

Civico Museo<br />

Revoltella, Trieste.<br />

99<br />

Pietro Marussig<br />

(Trieste, 1879-Pavia,<br />

1937).<br />

Paesaggio.<br />

Civico Museo<br />

Revoltella, Trieste.


Umberto Veruda<br />

(Trieste, 1868-1904).<br />

Fondamenta a Burano.<br />

Civico Museo<br />

Revoltella, Trieste.


la contrada<br />

TEATRO STABILE DI INTERESSE PUBBLICO<br />

Ariella Reggio e Orazio Bobbio<br />

Quela note in via Crosada<br />

di Ninì Perno e Francesco Macedonio<br />

regia di Francesco Macedonio<br />

con<br />

Paola Bonesi Raniero Brumini<br />

Riccardo Canali Mari Delconte<br />

Adriano Giraldi Carlo Moser<br />

Maria Grazia Plos Marzia Postogna<br />

Michele Ainzara Paolo De Paolis<br />

Andrea Lovisato Maurizio Repetto<br />

Elena Senes Fabio Ursich<br />

Michela Vitali<br />

scene di costumi di<br />

Sergio D’Osmo Fabio Bergamo<br />

musiche a cura di<br />

Livio Cecchelin<br />

il cristallo


102


103


104<br />

ARIELLA REGGIO<br />

Triestina, Ariella Reggio ha frequentato<br />

nella sua città la Scuola di Recitazione<br />

“Silvio D’Amico” annessa al Teatro<br />

Nuovo, per entrare poi a far parte della<br />

compagnia di prosa della Rai, diretta da<br />

Ugo Amodeo. Nel 1961 viene scritturata<br />

dal Teatro Stabile del Friuli-Venezia<br />

Giulia per partecipare, sotto la direzione<br />

di Fulvio Tolusso, a una edizione di<br />

Arlecchino servitore di due padroni di<br />

Carlo Goldoni. Da allora, e per numerosi<br />

anni, fa parte della compagnia fissa<br />

dello Stabile, assieme alla quale<br />

partecipa alla messinscena di parecchi<br />

spettacoli. <strong>La</strong>vora sotto la direzione di<br />

registi come Giuseppe Maffioli,<br />

Giovanni Poli, Orazio Costa, Francesco<br />

Macedonio, Sandro Bolchi e altri. Fra il<br />

1970 e il 1974 partecipa all’allestimento<br />

della trilogia di Carpinteri e Faraguna<br />

Le maldobrie, Noi delle vecchie<br />

province e L’Austria era un paese<br />

ordinato.<br />

Parallelamente, Ariella Reggio lavora<br />

anche fuori Trieste. A Londra, per due<br />

anni consecutivi, conduce, presso la<br />

BBC, trasmissioni culturali<br />

radiofoniche e televisive. Nel 1975<br />

lavora a Genova, con il Teatro della<br />

Tosse, sotto la direzione di Tonino<br />

Conte e Massimo Scaglione, mentre a<br />

Milano partecipa all’allestimento di<br />

Santa Giovanna dei macelli di Bertolt<br />

Brecht, prodotto dal Piccolo Teatro,<br />

sotto la direzione di Giorgio Strehler.<br />

Nel 1976, assieme a Orazio Bobbio,<br />

Lidia Braico e Francesco Macedonio<br />

fonda il Teatro Popolare <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong>.<br />

Innumerevoli da allora le sue apparizioni<br />

sul palcoscenico del Cristallo in testi<br />

sia brillanti sia drammatici, sotto la<br />

direzione di registi quali Francesco<br />

Macedonio, Mario Licalsi, <strong>Antonio</strong><br />

Calenda, Alessandro Marinuzzi e altri.<br />

Accanto all’interpretazione di testi<br />

brillanti in dialetto triestino come Due<br />

paia di calze di serta di Vienna, Un<br />

biglietto da mille corone, Marinaresca,<br />

Quela sera de febraio, Sette sedie di<br />

paglia di Vienna, Locanda Grande,<br />

Ariella Reggio si è anche distinta nel<br />

repertorio drammatico interpretando<br />

testi quali Tango viennese di Turrini,<br />

Grisaglia blù di Velitti, <strong>La</strong> panchina di<br />

Gel’man, Un baseto de cuor di<br />

Grisancich, A cinquant’anni lei<br />

scopriva... il mare della Chalem,<br />

Galina vecia di Novelli.<br />

Si è pure dedicata al teatro per ragazzi<br />

prendendo parte, tra l’altro, al fortunato<br />

allestimento di Marcovaldo.<br />

Fra le sue attività, si conta la partecipazione<br />

al Festival Internazionale<br />

dell’Operetta organizzato dal Teatro<br />

Verdi di Trieste, dove ha sostenuto<br />

ruoli di caratterista sotto la direzione di<br />

Gino <strong>La</strong>ndi, Filippo Crivelli e Roberto<br />

Croce.


ORAZIO BOBBIO<br />

Orazio Bobbio è nato a Trieste, dove ha<br />

iniziato a lavorare come attore,<br />

giovanissimo, assieme ad alcune<br />

compagnie semi-professionali. Dopo le<br />

prime esperienze, si avvicina al<br />

professionismo, entrando a far parte<br />

della compagnia del Teatro Stabile del<br />

Friuli-Venezia Giulia. In tale veste<br />

partecipa all’allestimento di numerosi<br />

spettacoli prodotti da quel teatro fra il<br />

1963 e il 1976. <strong>La</strong>vora sotto la direzione<br />

di registi quali Giovanni Poli, Eriprando<br />

Visconti, Gianfranco De Bosio,<br />

Francesco Macedonio, Aldo Trionfo,<br />

Sandro Bolchi, Fulvio Tolusso e<br />

numerosi altri. Nel 1969 prende parte<br />

all’allestimento de I nobili ragusei di<br />

Marino Darsa nel restaurato Politeama<br />

Rossetti di Trieste e in seguito alla<br />

fortunata trilogia in dialetto triestino Le<br />

Maldobrie di Carpinteri e Faraguna,<br />

allestite dallo Stabile di Trieste con la<br />

regia di Francesco Macedonio.<br />

Fra il 1973 e il 1974 collabora alla Rai di<br />

Trieste e di Torino per la realizzazione<br />

di alcuni programmi televisivi e<br />

radiofonici.<br />

Nel 1976, assieme alle attrici Ariella<br />

Reggio e Lidia Braico e al regista<br />

Francesco Macedonio, fonda a Trieste<br />

il Teatro Popolare <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong>. Con la<br />

<strong>Contrada</strong>, della quale è presidente,<br />

Bobbio partecipa all’allestimento di<br />

svariati spettacoli quali Un’ora d’amore<br />

di Topol, Buon natale, amici miei di<br />

Ayckbourn, <strong>La</strong> roccia e i monumenti di<br />

Rosso di San Secondo, Emigranti di<br />

Mrozek, Omobono e gli incendiari di<br />

Frisch, Centocinqanta la gallina canta<br />

di Campanile per la regia di <strong>Antonio</strong><br />

Calenda. Si è anche dedicato al teatro<br />

per ragazzi, prendendo parte, tra l’altro,<br />

alla fortunata messinscena di<br />

Marcovaldo. Ha inoltre partecipato,<br />

sotto la regia di Francesco Macedonio,<br />

all’allestimento di numerosi testi in<br />

dialetto triestino, come Due paia di<br />

calze di seta di Vienna, Marinaresca,<br />

Co’ ierimo putei, Quela sera de<br />

febbraio..., Putei e putele, Sette sedie di<br />

paglia di Vienna, El mulo Carleto e<br />

molti altri. <strong>La</strong> passata stagione è stato<br />

protagonista, assieme a <strong>La</strong>uretta<br />

Masiero, di una fortunata messinscena<br />

di Non ti conosco più di Aldo De<br />

Benedetti, per la regia di Patrick Rossi<br />

Gastaldi, spettacolo che sarà ripreso<br />

anche nei prossimi mesi.<br />

105


106<br />

MARIA GRAZIA PLOS<br />

Maria Grazia Plos è nata a Udine. Dopo<br />

essersi diplomata nella sua città presso<br />

la Civica Scuola di Recitazione “Nico<br />

Pepe”, vince nel 1983 un provino<br />

indetto dal Teatro Stabile “<strong>La</strong><br />

<strong>Contrada</strong>” di Trieste per la partecipazione<br />

all’allestimento di uno spettacolo<br />

per ragazzi, Poema a fumetti. Da allora<br />

collabora attivamente con lo Stabile<br />

privato triestino.<br />

Ha lavorato sotto la direzione di registi<br />

quali Francesco Macedonio, Giorgio<br />

Pressburger, Mario Licalsi, Patrick<br />

Rossi Gastaldi, Orietta Crispino e Luisa<br />

Crismani.<br />

Tra gli spettacoli realizzati assieme alla<br />

compagnia della “<strong>Contrada</strong>” E tutto per<br />

una rosa, Omobono e gli incendiari,<br />

L’ospite desiderato, <strong>La</strong> roccia e i<br />

monumenti, <strong>La</strong> presidentessa, Due paia<br />

di calze di seta di Vienna, Pronto,<br />

mama...?, El mulo Carleto, Non ti<br />

conosco più e numerosi altri.<br />

ADRIANO GIRALDI<br />

Triestino, ha frequentato la scuola del<br />

Piccolo Teatro di Milano. Ha debuttato<br />

nel 1981 al Teatro Stabile del Friuli-<br />

Venezia Giulia in Karl Valentin kabaret<br />

per la regia di Giorgio Pressburger. In<br />

seguito è stato scritturato dal Teatro di<br />

Roma, dove ha lavorato sotto la<br />

direzione di Luigi Squarzina in Il<br />

cardinale <strong>La</strong>mbertini e Timone<br />

d’Atene. Ha poi recitato con Leo De<br />

Berardinis e nuovamente allo Stabile di<br />

Trieste diretto da Roberto Guicciardini,<br />

Giuseppe Patroni Griffi e Gabriele<br />

<strong>La</strong>via. Ha inoltre lavorato con registi<br />

quali Sandro Sequi, Franco Però,<br />

Sandro Bolchi, K. Zanussi, Gino <strong>La</strong>ndi<br />

e altri.<br />

Alla <strong>Contrada</strong> debutta nel 1986, in Due<br />

paia di calze di seta di Vienna . Da<br />

allora ha partecipato a quasi tutti gli<br />

allestimenti dello Stabile privato<br />

triestino, sotto la direzione di registi<br />

quali Francesco Macedonio, <strong>Antonio</strong><br />

Calenda, Mario Licalsi, Patrick Rossi<br />

Gastaldi e altri. Ha infine partecipato al<br />

“Festival Internazionale dell’Operetta”<br />

1997 organizzato dal Teatro Verdi di<br />

Trieste.


PAOLA BONESI RICCARDO CANALI<br />

Originaria di Busto Arsizio (Varese),<br />

Paola Bonesi si è diplomata nel 1987<br />

presso la Civica Scuola d’Arte Drammatica<br />

“Piccolo Teatro di Milano”, sotto la<br />

guida di Massimo Castri.<br />

Alla <strong>Contrada</strong> giunge nel 1988 quando<br />

prende parte all’allestimento di Kathie<br />

e l’ippopotamo di Mario Vargas Liosa e<br />

a L’ospite desiderato di Pier Maria<br />

Rosso di San Secondo, sotto la direzione<br />

della regista Orietta Crispino. Da<br />

allora l’attrice inizia una stretta<br />

collaborazione con la <strong>Contrada</strong>,<br />

partecipando sia all’allestimento di<br />

spettacoli in lingua, sia all’allestimento<br />

di spettacoli in dialetto triestino, sia<br />

infine all’allestimento di spettacoli per il<br />

teatro ragazzi.<br />

Nel corso di questi anni, Paola Bonesi<br />

ha lavorato sotto la direzione di registi<br />

quali Francesco Macedonio, <strong>Antonio</strong><br />

Calenda, Mario Licalsi, Patrick Rossi<br />

Gastaldi, Gino <strong>La</strong>ndi e altri. Dal 1992<br />

partecipa con regolarità agli<br />

allestimenti estivi del “Festival Internazionale<br />

dell’Operetta” curato dal Teatro<br />

Giuseppe Verdi di Trieste.<br />

Nato a Gorizia, Riccardo Canali debutta<br />

nel 1954 esibendosi come comico al<br />

fianco di personaggi quali Caterina<br />

Caselli, Achille Togliani, Nilla Pizzi,<br />

Giorgio Gaber, Wilma De Angelis,<br />

Bobby Solo, Mina e molti altri.<br />

Negli anni seguenti entra a far parte del<br />

Piccolo Teatro città di Gorizia, dove ha<br />

l’opportunità di conoscere il regista<br />

Francesco Macedonio, con il quale<br />

stringe una duratura collaborazione<br />

artistica. Nel 1967 viene scritturato dal<br />

Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia<br />

e da allora prende parte a numerosi<br />

spettacoli che lo vedono impegnato in<br />

parti di caratterista brillante. Parallelamente<br />

recita con la compagnia del<br />

Veneto Teatro, al fianco di Paola<br />

Borboni e <strong>La</strong>ndo Buzzanca.<br />

Nel 1981 inizia a collaborare con la<br />

<strong>Contrada</strong>, partecipando allo spettacolo<br />

Un sial per Carlotta. Da allora ha preso<br />

parte a numerosi allestimenti dello<br />

Stabile privato triestino, sia rivestendo<br />

ruoli di caratterista nelle produzioni in<br />

dialetto triestino, sia impegnandosi nel<br />

teatro per ragazzi.<br />

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108<br />

RANIERO BRUMINI<br />

Raniero Brumini è nato a Pola. Dopo<br />

aver conseguito il diploma di geometra<br />

si avvicina al teatro recitando con<br />

compagnie amatoriali sino al 1947.<br />

In seguito vince un’audizione indetta<br />

dal Dramma Italiano di Fiume e viene<br />

scritturato all’interno della compagnia<br />

stabile, iniziando così la carriera<br />

professionistica. Da allora ha preso<br />

parte alla realizzazione di oltre un<br />

centinaio di spettacoli, ricoprendo<br />

dapprima ruoli giovanili e secondari e<br />

in seguito parti protagonistiche. È stato<br />

diretto da registi quali Francesco<br />

Macedonio, Giuseppe Maffioli, Tonino<br />

Conte, Mario Licalsi e altri. Ha inoltre<br />

lavorato presso Radio Fiume e per<br />

TeleCapodistria. Ha preso parte alla<br />

realizzazione di una ventina di film.<br />

Assieme alla compagnia della<br />

<strong>Contrada</strong>, Brumini ha recitato ne El<br />

mulo Carleto diretto da Francesco<br />

Macedonio.<br />

MARZIA POSTOGNA<br />

Triestina, ha studiato danza classica e<br />

contemporanea nonché canto lirico. Ha<br />

seguito alcuni corsi di perfezionamento<br />

attorale con Giovanni Boni, Aldo<br />

Vivoda, Jean Pierre Marry, nonché gli<br />

stages condotti dal regista Francesco<br />

Macedonio presso <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong>. A<br />

teatro ha esordito nel 1993 nel contesto<br />

del Palio teatro-scuola. Da allora ha<br />

recitato dapprima con piccole compagnie<br />

per approdare infine al teatro<br />

professionistico. Tra le esperienze più<br />

significative Piaf con il CIRT di Trieste<br />

e Babele con la compagnia Petit Soleil.<br />

Assieme al Teatro Stabile <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong><br />

ha recitato in Anche le pulci hanno la<br />

tosse, Il compagno di viaggio e, nella<br />

passata stagione, El mulo Carleto e Il<br />

fuoco del radio.


CARLO MOSER MARI DELCONTE<br />

Musicista triestino, si è occupato di<br />

etnomusicologia lavorando, con il<br />

“Canzoniere Triestino”, al recupero dei<br />

canti popolari triestini, alternando<br />

l’attività concertistica con trasmissioni<br />

radiofoniche e televisive.<br />

Nel 1977 inizia a esibirsi come pianista<br />

di cinema muto e nel corso di questi<br />

anni viene riconosciuto dai critici e<br />

dagli “addetti ai lavori”, a livello<br />

mondiale, tra i migliori musicisti in<br />

questo campo. Ha “accompagnato”<br />

films muti in tutta Italia, a Buenos Aires<br />

e a Parigi. Ha composto e diretto<br />

partiture orchestrali per alcuni films<br />

per “Le giornate del cinema muto di<br />

Pordenone” e per un Cyrano di<br />

Bergerac, versione in videocassetta,<br />

registrata, con l’Olympia Chamber<br />

Orchestra negli Stati Uniti.<br />

Dal 1982 lavora continuativamente con<br />

il Teatro Stabile <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong>, firmando<br />

le musiche degli spettacoli per ragazzi<br />

e di alcune produzioni per gli adulti.<br />

Mari Delconte è nata a Pirano. Si è<br />

avvicinata al teatro nel corso degli anni<br />

Cinquanta, recitando con la compagnia<br />

del Gad Enal Teatro della fiaba. Ha in<br />

seguito conseguito il diploma di<br />

recitazione dell’Enal Gruppo Arte<br />

Drammatica. Dopo aver lavorato con<br />

numerosi gruppi amatoriali debutta nel<br />

professionismo con la compagnia I<br />

Giovani. Dal 1972 collabora alla Rai<br />

sotto la direzione del regista Ugo<br />

Amodeo. Ha inoltre partecipato alla<br />

realizzazione di numerosi film e<br />

sceneggiati Tv, oltre che agli<br />

allestimenti del Festival Internazionale<br />

dell’Operetta organizzato dal Teatro<br />

Verdi di Trieste.<br />

Dal 1988 collabora con il Teatro Stabile<br />

<strong>La</strong> <strong>Contrada</strong>, partecipando alla realizzazione<br />

di numerosi spettacoli sotto la<br />

direzione di Francesco Macedonio e<br />

Mario Licalsi.<br />

109


110<br />

FABIO URSICH<br />

Triestino, Fabio Ursich ha iniziato la<br />

carriera artistica come cantante,<br />

vincendo un concorso per voci nuove<br />

tenutosi nel 1962 alla Fiera di Trieste e<br />

presentato da Mike Bongiorno. Da<br />

allora si è esibito come cantante e<br />

chitarrista assieme ad alcune Rock<br />

Band come i Combo, dapprima in<br />

regione e poi in tournée nella maggiori<br />

città italiane. In seguito ha lavorato<br />

come cantante-batterista su alcune navi<br />

da crociera, per poi unirsi nuovamente<br />

a una band triestina per una tournée in<br />

l’Europa. Tornato a Trieste ha continuato<br />

la carriera musicale al fianco di<br />

Umberto Lupi, partecipando a diverse<br />

registrazioni musicali per la Rai. Nel<br />

1979 il regista Gianni Lepre la fa<br />

partecipare a un programma televisivo<br />

di RaiTre nel quale si ripercorrono le<br />

tappe della sua carriera artistica. Sotto<br />

la direzione dello stesso Lepre si<br />

avvicina al teatro, recitando nella<br />

commedia musicale Tre donne e e un<br />

cabaret. Assieme alla <strong>Contrada</strong> ha<br />

preso parte, nel 1981, alla messinscena<br />

di Un sial per Carlotta di Ninì Perno,<br />

per la regia di Francesco Macerdonio.<br />

MAURIZIO REPETTO<br />

È nato a Novi Ligure (Alessandria). Ha<br />

iniziato a recitare nel 1986 assieme ad<br />

alcune compagnie amatoriali triestine<br />

quali “I commedianti” di Ugo Amodeo<br />

e “Gli asinelli”. Nel 1991 viene scritturato<br />

dal Teatro Stabile <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong> per<br />

sostenere il ruolo di Bepi Marovich in<br />

Sette sedie di paglia di Vienna di<br />

Carpinteri e Faraguna, per la regia di<br />

Francesco Macedonio. Nel corso della<br />

stessa stagione prende parte ad alcuni<br />

spettacoli della rassegna Ti racconto<br />

una fiaba. Nel 1995 ha recitato con il<br />

“Gruppo per il dialetto triestino”<br />

interpretando alcuni personaggi delle<br />

Maldobrie di Carpinteri e Faraguna. Ha<br />

inoltre lavorato alla Rai e ha partecipato<br />

alla realizzazione di alcuni film sotto la<br />

direzione di Bigas Luna.


ANDREA LOVISATO PAOLO DE PAOLIS<br />

È nato a Trieste. Dopo aver conseguito<br />

la laurea in medicina e la<br />

specializzazione in oculistica, nel 1995<br />

ha iniziato a dedicarsi al teatro,<br />

diventando allievo di Dino Castelli. Ha<br />

partecipato all’allestimento di alcuni<br />

spettacoli teatrali prodotti dall’I.R.Co.P.<br />

e ha recitato in alcune produzioni<br />

cinematografiche e televisive.<br />

Triestino, ha iniziato l’attività teatrale<br />

nel 1990 partecipando ad alcuni<br />

spettacoli amatoriali. Durante la<br />

stagione di prosa 1996-97, dopo aver<br />

seguito i seminari estivi organizzati dal<br />

Teatro Stabile <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong>, è stato<br />

scritturato dal Dramma Italiano di<br />

Fiume per l’allestimento del Campiello<br />

di Goldoni sotto la direzione di<br />

Francesco Macedonio.<br />

Ha in seguito lavorato in qualità di<br />

attore rediofonico alla Rai di Trieste.<br />

111


112<br />

MICHELA VITALI<br />

Triestina, dopo aver seguito alcuni<br />

corsi di recitazione con Ugo Amodeo e<br />

dopo aver frequentato l’Accademia di<br />

Canto di Trieste, ha partecipato alla<br />

realizzazione di alcuni sceneggiati<br />

radiofonici per conto della Rai. Nel<br />

1993 ha partecipato alla lettura integrale<br />

dell’Ulisse di James Joyce, al Teatro<br />

Miela, sotto la direzione di Francesco<br />

Accomando. Collabora inoltre con<br />

l’Associazione “Grado Teatro” e, nel<br />

corso delle passate stagioni, ha<br />

maturato alcune esperienze professionali<br />

con il Teatro Stabile <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong>.<br />

Ha registrato per Telequattro il<br />

monologo A proposito di una signora<br />

di Sergio Velitti per la regia di Ugo<br />

Amodeo.<br />

ELENA SENES<br />

È nata a Trieste dove ha ricevuto la<br />

prima formazione teatrale alla scuola<br />

diretta da Spiro Dalla Porta Xidias,<br />

partecipando a corsi di recitazione,<br />

dizione e mimica. Ha lavorato con la<br />

compagnia del Teatro Rotondo assieme<br />

alla quale ha interpretato ruoli in testi<br />

di Pirandello e Kundera.


MICHELE AINZARA<br />

È nato a Trieste dove ha iniziato a<br />

frequentare il teatro amatoriale nel<br />

1992 recitando con la compagnia I<br />

Commedianti diretta dal regista Ugo<br />

Amodeo. Dopo aver maturato alcune<br />

esperienze anche nel campo della regia<br />

assieme all’Associazione culturale<br />

Arteffetto, è stato scritturato dalla<br />

compagnia del Teatro Stabile <strong>La</strong><br />

<strong>Contrada</strong>.<br />

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FRANCESCO MACEDONIO<br />

Regista e autore teatrale, Francesco<br />

Macedonio è nato a Idria - una località<br />

non lontana da Gorizia - da una famiglia<br />

di musicisti. Dopo essersi istruito in<br />

vari collegi della zona, è diventato<br />

insegnante elementare. L’interesse per<br />

il teatro nasce assai presto, anche<br />

attraverso gli spettacoli cinematografici<br />

e teatrali che egli, ancora ragazzino, ha<br />

occasione di vedere a Gorizia. Dopo la<br />

fine delle guerra, Macedonio fonda,<br />

sempre a Gorizia, una compagnia<br />

teatrale per la quale svolge le mansioni<br />

di regista. <strong>La</strong> grande svolta giunge però<br />

nel 1967, quando il Teatro Stabile del<br />

Friuli-Venezia Giulia gli chiede di<br />

mettere in scena un testo di Vittorio<br />

Franceschi, Gorizia 1916, interpretato<br />

dallo stesso Franceschi.<br />

Dopo le prime esperienze a Trieste,<br />

Macedonio diviene il regista stabile del<br />

Teatro del Friuli-Venezia Giulia,<br />

dirigendo la famosa compagnia dei<br />

“dodici”, gli attori che per numerosi<br />

anni costituirono il gruppo di riferimento<br />

fisso per gli allestimenti di produzione.<br />

Fra gli spettacoli allestiti per lo<br />

Stabile, Sior Todero brontolon con<br />

Corrado Gaipa, Il mio Carso, Avvenimento<br />

nella città di Goga con Gabriele<br />

<strong>La</strong>via, Casa di bambola, L’idealista con<br />

Corrado Pani, Vecchio mondo con Lina<br />

Volonghi I rusteghi, oltre alla fortunatissima<br />

trilogia in dialetto triestino di<br />

Carpinteri e Faraguna Le Maldobrie,<br />

Noi delle vecchie province e L’Austria<br />

era un paese ordinato interpretata, fra<br />

gli altri, da Lino Savorani: uno dei<br />

successi più grandi nella storia teatrale<br />

triestina recente.<br />

Nel 1976, assieme agli attori Orazio<br />

Bobbio, Ariella Reggio e Lidia Braico,<br />

Macedonio è tra i fondatori del Teatro<br />

Popolare <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong>, del quale è<br />

direttore artistico. In tale veste ha<br />

messo in scena parecchie decine di<br />

spettacoli, spaziando dal teatro in<br />

dialetto triestino a quello in lingua<br />

italiana, dal repertorio brillante a quello<br />

drammatico, sino a numerosi<br />

allestimenti per il teatro ragazzi. Ha<br />

inoltre curato la messa in scena di<br />

alcuni spettacoli per la compagnia dei<br />

“Piccoli” di Podrecca e di alcune opere<br />

e operette per il Teatro Giuseppe Verdi<br />

di Trieste.<br />

Parallelamente, egli si è dedicato anche<br />

alla scrittura drammaturgica, componendo,<br />

in collaborazione con Ninì<br />

Perno Quela sera de febraio e<br />

Un’Isotta nel giardino. Sue sono anche<br />

numerose commedie espressamente<br />

pensate per il teatro ragazzi, come <strong>La</strong><br />

vecchia e la luna, Bandiera, Scarabocchio,<br />

Dietro la cometa, E tutto per una<br />

rosa, <strong>La</strong> vigilia di Natale e altre.<br />

Insegna a Bologna, presso la scuola di<br />

recitazione di Alessandra Galante<br />

Garrone.


SERGIO D’OSMO<br />

Sergio D’Osmo è nato a Trieste.<br />

Attratto dal teatro sin da giovane, ha<br />

studiato architettura a Venezia,<br />

accostandosi così alla scenografia. Nel<br />

1954, assieme ad alcuni tra i maggiori<br />

esponenti culturali cittadini, fu tra i<br />

fondatori del Teatro Stabile Città di<br />

Trieste, divenuto in seguito Teatro<br />

Stabile del Friuli-Venezia Giulia. Da<br />

allora, e per trentaquattro anni consecutivi,<br />

D’Osmo è stato il direttore dello<br />

Stabile regionale, divenendone il centro<br />

vitale e organizzativo.<br />

Nel corso della sua lunga direzione, ha<br />

firmato le scene e i costumi per decine<br />

di spettacoli quali, per citarne solo<br />

alcuni, <strong>La</strong> ragazza di campagna di<br />

Odets per la regia di Franco Enriquez e<br />

l’interpretazione di Gian Maria Volontè<br />

(1959), Arlecchino servitore di due<br />

padroni (1960), Romagnola di<br />

Squarzina (1965), Le massere di<br />

Goldoni (1971), Il crogiuolo di Miller<br />

(1975), Anatol di Schnitzler con<br />

Gabriele <strong>La</strong>via (1975), Storie del bosco<br />

viennese di von Horvath (1977) fino ai<br />

più recenti spettacoli quali Scacco<br />

pazzo per la regia di Nanni Loy (1991)<br />

e Oblomov (1992) per la regia di<br />

Bordon.<br />

Ha inoltre firmato gli allestimenti<br />

scenici per alcuni spettacoli lirici e<br />

d’operetta.<br />

Nel corso della sua permanenza allo<br />

Stabile, D’Osmo si è impegnato nel<br />

recupero di nuovi spazi teatrali riaprendo,<br />

nell’estate del 1964, il Teatro<br />

Romano di Trieste.<br />

Concluso il suo lungo rapporto con lo<br />

Stabile cittadino, D’Osmo è stato al<br />

Teatro Biondo di Palermo e al Teatro di<br />

Roma, lavorando con registi quali<br />

Ronconi, Strehler, Missiroli, Squarzina<br />

e altri. È attualmente direttore degli<br />

allestimenti scenici del Teatro Verdi di<br />

Trieste.<br />

Assieme al Teatro Stabile <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong>,<br />

D’Osmo ha collaborato più volte, a<br />

partire da A casa tra un poco di<br />

Damiani-Grisancich, che segnò nel<br />

1976 l’avvio delle attività per la compagnia.<br />

In seguito ha firmato le scene per<br />

Un baseto de cuor di Grisancich<br />

(1994), Centocinquanta la gallina canta<br />

di Campanile (1994), Un’Isotta nel<br />

giardino di Macedonio-Perno (1995), El<br />

mulo Carleto di Cecchelin-Damiani<br />

(1996), Non ti conosco più di De<br />

Benedetti (1996).<br />

Ha infine curato l’allestimento scenico<br />

di innumerevoli spettacoli per la regia<br />

di Francesco Macedonio.<br />

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FABIO BERGAMO<br />

Triestino, Fabio Bergamo da quasi<br />

venticinque anni si dedica all’ideazione<br />

dei costumi, firmando in tale veste<br />

innumerevoli spettacoli. Ha lavorato<br />

assieme a costumisti come Lele<br />

Luzzatti, Santuzza Calì e Gabriella<br />

Pescucci, collaborando alla messinscena<br />

di spettacoli allestiti da registi quali<br />

Ronconi, Enriquez, Macedonio,<br />

Calenda, Wajda e altri.<br />

Ha firmato i costumi per numerosi<br />

spettacoli di prosa, di lirica e commedie<br />

musicali, nonché per alcune produzioni<br />

della Rai, spaziando dal repertorio del<br />

Settecento sino a quello attuale.<br />

Dal 1987 collabora con regolarità con il<br />

Teatro Stabile <strong>La</strong> <strong>Contrada</strong> di Trieste,<br />

per il quale ha firmato i costumi di una<br />

trentina di spettacoli, fra i quali Un<br />

biglietto da mille corone, Marinaresca,<br />

Vecchio mondo, <strong>La</strong> panchina, Due<br />

paia di calze di seta di Vienna, Tango<br />

viennese, Un baseto de cuor, Il<br />

compagno di viaggio, El mulo Carleto.<br />

Fra i suoi recenti impegni, la collaborazione<br />

con il Festival Pucciniano di<br />

Torre del <strong>La</strong>go.<br />

LIVIO CECCHELIN<br />

Livio Cecchelin è nato a Trieste. Figlio<br />

del celebre attore e autore Angelo<br />

Cecchelin e dell’attrice Lilia Carini, si è<br />

avvicinato al mondo artistico sin da<br />

giovane in qualità di musicista. Ha<br />

iniziato a fare musica a Trieste durante<br />

l’occupazoine alleata, specializzandosi -<br />

come molti musicisti della sua generazione<br />

- nel repertorio della canzone<br />

americana. In seguito, assieme a<br />

diverse orchestrine, compie tournée in<br />

Italia e in svariati paesi europei,<br />

collabora con cantanti francesi quali<br />

Josepine Baker e Jaques Brel, si<br />

esibisce in alcuni paesi del Medio<br />

Oriente come Tunisia e Iran.<br />

L’incontro con la <strong>Contrada</strong> avviene sin<br />

dal 1978, quando gli viene proposto di<br />

comporre le musiche per lo spettacolo<br />

Marionette in libertà. Le prospettive di<br />

un lavoro diverso lo legano così allo<br />

Stabile privato triestino, per il quale ha<br />

sinora composto le musiche per<br />

innumerevoli spettacoli sia in dialetto<br />

triestino sia in lingua italiana, sia del<br />

teatro ragazzi, sia della programmazione<br />

serale.


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la contrada<br />

TEATRO STABILE DI INTERESSE PUBBLICO<br />

Il teatro popolare la contrada nasce a Trieste nel 1976 per volontà degli<br />

attori Ariella Reggio, Orazio Bobbio, Lidia Braico e del regista Francesco<br />

Macedonio. Dopo alcuni anni di attività itinerante con spettacoli di Teatro<br />

Ragazzi, la compagnia approda nel 1983 al Teatro Cristallo.<br />

Da allora è organismo stabile di produzione e programmazione teatrale che<br />

opera in sei principali settori di attività:<br />

• L’allestimento di opere di autori triestini;<br />

• <strong>La</strong> messa in scena di testi di autori dell’area mitteleuropea, dell’Est Europa<br />

e della drammaturgia italiana degli anni Trenta-Quaranta;<br />

• <strong>La</strong> produzione di spettacoli per l’infanzia e la gioventù;<br />

• <strong>La</strong> metodica presenza in Istria - in collaborazione con la Regione Friuli-<br />

Venezia Giulia, l’Università Popolare di Trieste e con l’Unione Italiana di<br />

Fiume - a favore delle Comunità Italiane di Slovenia e Croazia;<br />

• <strong>La</strong> realizzazione di attività seminariali per insegnanti e studenti e di<br />

progetti di aggiornamento e perfezionamento professionale per giovani<br />

attori;<br />

• <strong>La</strong> programmazione degli spettacoli e delle rassegne del Teatro Cristallo.<br />

Dal 1989 la contrada ha ottenuto il riconoscimento di “Teatro Stabile di<br />

interesse pubblico” (l’unico ad iniziativa privata nelle Tre Venezie).<br />

Nella stagione 1996/97 la compagnia ha festeggiato il proprio ventennale. Nel<br />

corso di questi anni sono state realizzate circa 120 produzioni ed ospitate più di<br />

250 compagnie, per un totale di quasi 400 spettacoli, ripartiti fra la programmazione<br />

serale e quella del Teatro Ragazzi.<br />

In ogni stagione vengono effettuate circa 200 recite in sede – considerando gli<br />

spettacoli di produzione e le ospitalità – di fronte ad un pubblico di 5.000<br />

abbonati con oltre 70.000 presenze complessive.<br />

Attualmente lavorano con la contrada più di 50 persone tra attori, maestranze<br />

tecniche, impiegati e collaboratori stagionali.


Finito di stampare<br />

nel mese di ottobre 1997<br />

Stampa<br />

Riva Arti Grafiche, Trieste<br />

in collaborazione con

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