sono geneticamente diverse, diverse anche nell’aspettomolto importante dal punto di vista dell’analisi, cioè inquello sonoro, però sono tutte appartenenti allo stessospazio linguistico. L’italiano ed il tedesco fra loro, poi,entrambe lingue distanti dall’ungherese, ma vicine l’unaall’altro (essendo, comunque lingue del ceppoindoeuropeo) presentano notevoli differenze perl’aspetto sonoro, per le regole che ne governano laformazione delle immagini, e per il tipo di cultura.Senza dubbio, quando si esprime un parere sul lavorotraduttivo va considerata anche la distanza fra le lingue,quella di partenza e quella di arrivo, come ammonisceDon Chisciotte nel famoso brano di Cervantes: tradurreda lingue facili, a volte sembra un lavoro quasimeccanico, di semplice sostituzione, di copiatura.(Cervantes, 1962: 791) 6Nel capitolo successivo, (Le basi linguistiche) il lettoreha il modo di leggere una breve, ma ricca descrizionedella lingua ungherese in chiave contrastiva con lesuddette due lingue. Nonostante il caratterenecessariamente sintetico, servirà sicuramente damodello per presentazioni simili. La terza sezione(L’unità di lingua e cultura nel testo poetico) è dedicataalla ricezione della letteratura/ poesia ungherese, conparticolar riguardo alle due culture prese in esame,l’italiana e quella germanofona.Alla ricezione della nostra letteratura (e allariflessione che ne fanno i migliori letterati della culturaungherese), sono stati dedicati molti studi. Nellarelazione italo-ungherese ne sono stati esaminati tuttigli aspetti; quando si traduce, cosa si traduce, chi sitraduce, come si traduce, chi traduce, perché sitraduce, quanto si traduce. E, soprattutto; se vale lapena di tradurre la nostra poesia? Fra altri fu Babits adavvertire che fama e conoscenza a volte siano peggioridella non-conoscenza: «Petőfi è tradotto, ma non c’èfigura più fraintesa che Petőfi in traduzione» (Babits,1968: 361). 7 Il fatto, poi, che nascono e vengonopubblicate versioni, non significa che l’opera abbia unadiffusione, un’eco, un’influenza, come dimostrarecentemente anche Sárközy (cfr. Sárközy 2006). (Ilcomplesso rapporto fra la disponibilità di un certonumero di testi tradotti e ricezione, o influenzapotrebbe esser studiato anche nella direzione opposta:fino a quanto è presente la poesia italianacontemporanea in Ungheria?) È stato spesso sollevatoil dibattito anche intorno alla scelta delle opere datradurre e la qualità delle traduzioni, soprattuto perquello che concerne gli anni 30-40. Probabilmente c’èverità in quello che dice Sándor Lénárd nel diarioromano del 1938:«Dopo la cena – una cena da favola– torniamo nellabiblioteca. Rimango sorpreso dal lungo elenco dei nomiungheresi – sì, veramente è stato tradotto tutto. Cioètutti i libri di serie B. – Non li neanche guardare, lamaggior parte è un lavoro fatto con i piedi... Le caseeditrici pagano male e per questo i traduttori lavoranomale. I traduttori lavorano male e per questo le caseeditrici pagano male. È un circolo vizioso: non c’è viad’uscita.» (Lénárd, 1973: 274)Un libro che parla della traduzione della poesia nonpuò non soffermarsi sul fenomeno ben noto a chi sioccupa di rapporti italo-ungheresi: lo squilibrioquantitativo e qualitativo che esiste fra traduzioni dellapoesia italiana in Ungheria e traduzioni della poesiaungherese in Italia. La scarsa conoscenza dellaletteratura/poesia ungherese è stato un argomentomolto spesso sollevato da una schiera di studiosi.Prendendo atto, con rammarico del disinteressegenerale nei confronti dell’Ungheria, che solo in casieccezionali, in momenti particolari (come fu il 1848, il’56 o la caduta del Muro) può abbattere l’altro muro,quello dell’indifferenza. Tale situazione, certamente nonè né troppo specifica, né senza pari; sia «l’italiano» che«l’ungherese» potrebbero esser sostituiti con ladenominazione di qualsiasi grande lingua di culturaeuropea la prima e con il nome di qualsiasi popolo dell’Est-Europeo la seconda.Interrogandosi sui motivi, che sono senz’altromolteplici, pur concordando su quelli generali, ogniletterato mette l’accento sui diversi componenti. C’è chisottolinea il calo della letteratura in generale, specie sesi tratta di poesia, altri vedono il problema più dal latodi politica editoriale e di management culturale. Oltre aquesto elemento va ricordato il fattore linguistico, dauna parte l’ostacolo per chi non lo capisce, dall’altrauna ricchezza. Ne parla anche Mihály Ilia, insigneletterato, che nella prefazione all’antologia delle poesiescelte di Stefano de Bartolo sintetizza i problemi dellatraduzione letteraria in riferimento a quella ungherese:«Tradurre dall’ungherese presenta altri problemiparticolari. Soprattutto linguistici. La nostra lingua ugrofinnicaè lontana per esempio dalle lingue neolatine ogermaniche nel lessico, nella sua mitologia ci sonocaratteristiche orientali, ma allo stesso tempo i miti e leimmagini del cristianesimo sono penetrati nel nostroidioma. Lo straniero forse non sa, che questa poesia haa disposizione un mezzo linguistico capace di esprimereogni forma metrica e suscitare l’idea della ricchezzadella ritmica sia classica che moderna.» La letteraturamagiara non è formata soltanto da opere scritte inungherese, ma anche le traduzioni si inseriscono nellanostra lirica ed alcune traduzioni di opere di letteraturamondiale sono quasi inseparabili dalla nostraproduzione letteraria. Certo, tradurre significa utilizzare,far conoscere i valori degli altri popoli. Anche in ciò sinota la caratteristica della nostra letteratura, di esserassetata di cultura europea, desidera convivere eprogredire con essa dimostrare di essere un degnopartner. A volte ci accorgiamo che non c’è ricompensa,la nostra presenza letteraria in altre nazioni è rara e lavalutazione non sempre vera. 8Un altro fattore con cui si devono fare i conti è ildiverso prestigio di cui «gode» la traduzione nelleculture occidentali e centro-orientali. È noto che latraduzione poetica in Ungheria è un genere prestigioso,coltivato da eccellenti poeti. «Una poesia può esserricreata solo da un poeta» è un’opinione quasiunanimamente condivisa. Allo stesso tempo si ha laconvinzione che si tratti di un «unicum» ungherese,dato che la traduzione in altre parti del mondo godi diminor stima. In questa affermazione c’è evidentementemolta verità: in effetti, molto spesso nelle antologieitaliane di poesie straniere tradotte in italiano, il lettorecurioso invano cercherebbe il nome del traduttore, cosache non succederebbe mai in Ungheria.26<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>ANNO</strong> <strong>XIII</strong>/<strong>XIV</strong> – NN. 71/72 NOV.-DIC./GENN.-FEBBR. 2009/2010
Dall’altra parte invece il quadro è più complesso. Ipoeti traducono molto anche in Italia, soprattutto imoderni e i contemporanei (Ungaretti, Montale,Quasimodo, Pasolini, Milo de Angelis, Franco Fortini,Giovanni Giudici). Ma lo fanno soprattutto dalle lingueclassiche e da quelle di grande diffusione, in cui hannola competenza linguistica, il resto viene affidato alfilologo. Per quello che concerne la letteraturaungherese, Ruspanti cita due poeti, SalvatoreQuasimodo e Diego Valeri, che lavorando con unatraduzione grezza hanno tradotto poesie ungheresi.(Ruspanti 1997: 370) 9 mentre da noi accade spessoche anche le poesie «minori» hanno trovato le loro vociungheresi in poeti di prim’ordine (come László Nagy perla poesia bulgara). Un’altra differenza è, che latraduzione occidentale, fra cui anche quella italiana, perdiversi motivi ben illustrati anche dallo studioso TiborSzűcs rinuncia alla rima. Già nel lontano 1912 il grandepoeta e letterato ungherese Mihály Babits osservava,recensendo tre volumi di poesia ungherese appenausciti, che le poesie ungheresi sono tradotte in prosa(Babits). 10 Nel citato saggio di Ruspanti troviamo tutti ichiarimenti.La seconda parte del libro, il quarto capitolo (Studiparalleli), comprende un’analisi testuale multidirezionaledelle versioni di diciotto poesie. Testi ben scelti, offrononon solo il fior fiore della poesia ungherese (sistemati inordine cronologico), ma presentano una varietà dicontenuti e linguaggi poetici. Dove la stessa poesia èdisponibile in versioni sia italiana e tedesca (Babits,Csokonai, Kölcsey, Petőfi, Arany, József Attila, Juhász,Radnóti, Szabó, Nagy László) l’autore studia e presentaparallelamente le due varianti. Le complesse analisilinguistico testuali vengono svolte con grandecompetenza e con un simpatico rispetto verso il lavorodel traduttore, fra cui si trovano anche numerosi nomiungheresi. Lénárd, scrittore di origine unghereseemigrato in Brasile ha scritto il suo nome nella storiadella traduzione letteraria con la versione in latino delWinnie the Pooh di Milne, qui si figura come traduttorein tedesco di alcune poesie ungheresi.Nella Conclusione tirando le somme della ricerca,Szűcs osserva che, mentre i traduttori italiani sembranovoler restare fedeli alle immagini ed ai contenuti dellepoesie ungheresi, sfruttano meno lo strato sonoroformale,gli autori delle versioni in tedesco sono inclini aconsiderare quest’ultimo, a scapito magari della fedeltàdei contenuti.Questi risultati andrebbero ricordati anche nelmomento in cui si pongono all’attenzione dei traduttoripoeti da tradurre in italiano. Babits nel già citatoarticolo osserva, che ad esempio Petőfi è la poesia diPetőfi è la poesia delle idee, e come tale è dipendentedalla forma. 11 In ogni poesia si sa, fra gli elementicostituenti (rima, ritmo, figure, ecc.) c’è sempre unofondamentale che dovrebbe esser conservato anchenella traduzione. Se i traduttori in italiano sono più«bravi» a tradurre gli aspetti legati al contenuto,all’immagine dovrebbero tradurre, appunto quellepoesie in cui proprio questo elemento organizzativo èquello dominante.Molte sono le proposte che avanza lo studioso e concui si può pienamente concordare: la pubblicazione divolumi bi-, tri-, plurilingue, la soluzione con il testo afronte, la realizzazione di libri bilingui con commenti,considerati indispensabili, senza cui non vale la penatradurre gran parte della nostra poesia dei secolipassati, come rammentano traduttori ungheresi odall’ungherese.Sarebbe interessante inoltre (chissà se un giorno saràlui a realizzarlo, o qualcun altro) estendere la ricerca adaltre lingue, a quelle geneticamente vicine maarealmente lontane (il finlandese, l’estone, il turco,ecc.) a quelle distanti sia tipologicamente chearealmente (l’inglese e il cinese, ecc.). Un altro studiointeressante potrebbe essere lo studio di diverseversioni della tessa poesia fatta da diversi traduttori escoprirne e interpretarne le differenze, (magari, senzaesprimere giudizi di valutazione).I pensieri dell’autore offrono spunti di riflessioneanche sul versante della didattica delle lingue. Unavolta i libri di testo di italiano per discenti ungheresi,riportavano brani letterari, non solo della letteraturaitaliana ma anche di quella ungherese. I discenti diitaliano hanno potuto leggere molte poesie di Petőfi, diVörösmarty, di Kisfaludy in lingua italiana. Trovarsi difronte ad una poesia ben conosciuta, nella versionedella lingua straniera doveva avere un fascino, cioè unaforza motivante in più. Ai giorni nostri di solito il testoletterario è delegato ai livelli superiori, soprattutto nellatraduzione italiana della didattica dell’italiano all’estero.Chi si occupa di metodologia pensa che bisogna tenereben separate l’educazione linguistica da quellaletteraria, il testo poetico lo si offre al discente che siain grado di coglierne le sfumature ed apprezzarne laspecificità letteraria.Nella didattica dell’inglese la posizione verso il testoletterario è diverso, come forse lo è in quellaungherese. Miklós Hubay, che essendo un letterato eprofondo conoscitore della poesia ungherese, fadell’uso del testo poetico il proprio metodo:«Della lettura di poesia: Invece di scrivere regolegrammaticali sulla lavagna, ogni giorno ho scritto unapoesia. Con i miei alunni abbiamo recitato i versi, parolaper parola, come se fosse un rosario. E lo Spirito Santoscese nell’Aula. I miei alunni non hanno cominciato conle solite frasi: ”Che cosa fa il compagno Kovács? Ilcompagno Kovács guarda la televisione”. A poco a pocovenivano stregati dalla magia della poesia, che rompevala resistenza.» 12Concludendo la ricerca l’autore non può (e non vuole)aggirare la domanda che si solleva non solo fra gliscettici della traduzione, ma fra i traduttori stessi: in findei conti, vale la pena tradurre il testo poetico, pergiunta se esso è scritto in lingua ungherese?Le risposte, come si sa bene, dipendono anche dalconcetto che si dà all’equivalenza e alle aspettativeverso un testo tradotto. Tibor Szűcs risponde di sì,insistendo sul fatto che la traduzione è un genereletterario a sé stante e che va valutata come tale.Un’operazione necessaria, che l’Autore – aderendo aduna tradizione – paragona al lavoro di chi dà una nuovastrumentazione ad una partitura (mentre altriadoperano la metafora della tessitura).Il lavoro è completato da una ricca, preziosa edaggiornata bibliografia, punto di riferimento per ulteriori<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>ANNO</strong> <strong>XIII</strong>/<strong>XIV</strong> – NN. 71/72 NOV.-DIC./GENN.-FEBBR. 2009/2010 27
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