Di solito faccio la mia passeggiata la sera, quando ilsole è ormai una palla di fuoco sfilacciata rosso sanguedietro i muri delle case e gli uomini affrettano il passoverso casa. La quiete della casa, la sicurezza dellacaverna: una sensazione antica, piacevole. Il calore delfuoco, il tremolio delle fiaccole davanti all’ingresso dellacaverna… che il male non può raggiungere.All’angolo, davanti al negozio di alimentari, unbambino gioca accanto al mucchio di ghiaia e sabbiarimasta dopo i lavori stradali. Lo vedo tutti i giorni.Scorgo in lui la morte. Si muove nelle sue vene, nel suosangue. A volte vedo la sua testa bionda, a volte il suocranio con l’infossatura degli occhi e gli alberi checresceranno sopra. Vedo il bambino nel tempo, nonsoltanto nel presente; lo vedo ovunque e sempre.Passo accanto al bambino che salta in piedi e correda suo padre sull’altro marciapiede, davanti al tabaccaiodove sta parlando con il negoziante.«Papà, quel tizio mi guarda sempre!»La voce era più irritata che lamentosa. Il padre, unuomo con i capelli rossi e il ventre tipico dei bevitori dibirra, con l’anima in pena dalla mattina alla sera per ildesiderio insoddisfatto di paesaggi lontani, detesta laquotidianità e le notti banali, ha un’ulcera e un principiodi emorroidi, possiede un esiguo conto in banca,accarezza la testa del bambino.«Di chi stai parlando, figliolo?» domanda distratto eguarda in giro.Non lontano, ai bordi del parco, sotto il vecchiocastagno alto, sulla panchina mezza marcia siede ilvecchio vagabondo. Mi riconosce sempre. Lui è in pacecon me. Alza la testa e sorride, con la pelle tanto tesache sembra spaccarsi. Mi siedo sulla panca, vicino a lui.Ha ancora lo sguardo rivolto in alto, sembra mirare ilcaduco tramonto autunnale. Strizza e batte le palpebreguardando fuori dal profondo della sua anima. Respirarapidamente, ansimante. Il viso è coperto da una barbacrespa di diversi giorni. Il corpo è incurvato, sporgonole spalle da sotto il cappotto liso come se le articolazionifossero troppo stanche per tenere le ossa al loro posto.Vedo che la stoffa è consumata. Il vecchio inclina latesta, fissa prima le sue scarpe sformate, poi la ciccafumante fra le sue dita. Sento i suoi pensieri dolorosi.Le sue ossa temono il gelo. Se potessi, lo consolerei. Glisfioro invece solo la fronte. Si tranquillizza, come se losentisse. Per lui è facile ormai, se ne andrà come eravenuto: puro.Quando il semaforo sul marciapiede opposto diventaverde dozzine di gambe attraversano le striscepedonali. Un paio fra loro precedono le altre. Saltasvelto sul marciapiede opposto e mi passa accantovelocemente. Un ometto con i capelli radi, con occhialitondi sulla punta del naso. Fa ciondolare la borsa nellamano destra come se anche questo servisse adacquistare velocità. Deve avere fretta. Gira intorno lagente, giro intorno a lui anch’io. Dopo un po’ loraggiungo e ormai camminiamo uno al fianco dell’altro.Guarda fisso davanti a sé, si concentra sulla stradasotto i piedi. Qualche goccia di sudore esalta la suafretta. Lancia un’occhiata di sfuggita all’orologio ma nonvede il quadrante; non è un’azione consapevole, masolo il movimento istintivo del polso. Ansima piano.Questa corsa non fa per lui. Lo sa ed è arrabbiato conse stesso, sente di nascosto la manica della camicia eora ce l’ha con sé anche per l’odore del sudore. Eppurenon rallenta. Svolta l’angolo, tanto all’improvviso dafare quasi cadere la signora corpulenta che gli si para difronte. La signora protesta ad alta voce e gesticola conla borsa carica di patate. L’ometto prosegue, mormorasolo qualcosa fra sé mentre aggiusta gli occhiali sulnaso. Il marciapiede pende un po’ e lo costringe adallungare il passo, con la cravatta che sembra volaredietro di lui.Si ferma finalmente dopo un secondo angolo, davantia un portone. Rimane immobile per qualche istante,solo il suo petto sale e scende mentre ritmicamenteriprende fiato. Poi fa un ultimo profondo respiro esuona uno dei campanelli.Quando il portone si apre con un rombo io sono giàall’interno. Lo osservo entrare dalla tromba delle scale.Sale le scale lanciando delle occhiate in alto. Al secondopiano si accosta alla porta di fronte e bussa piano. Laporta si apre subito, ma solo una fessura sufficiente perfar entrare l’ometto.La donna che ha aperto la porta ora si poggia allaparete del corridoio con una mano sul seno e ansimaimbarazzata. È frastornata, i capelli sono in disordinecome i suoi pensieri. Esita se dire qualcosa, attende conocchi spalancati.L’uomo guarda di nuovo l’orologio, ora però osservaattentamente la posizione delle lancette.«Trenta…» vorrebbe dire, ma appena sente la propriavoce sottile e sfiatata si raschia la gola e ricomincia:«Abbiamo quaranta minuti».«Quaranta…» ripete la donna senza sapere perché losta dicendo. Ansima e guarda l’uomo.In quell’istante l’uomo fa cadere la borsa per terra eabbraccia improvvisamente la donna. Quando la suabocca tocca la bocca di lei, o meglio quando i loro dentisi urtano, gli occhi aperti della donna continuano afissare il punto dove prima c’era la testa dell’uomo. Perqualche istante rimane paralizzata nel tempo, mentrel’uomo ansima e spinge la lingua nella sua bocca. Tutti isuoi pensieri, tutta la sua volontà si condensano in unasola parola: No! Che si agita nel suo cervello come ungrido imprigionato che gira in tondo e non riesce aerompere, poi l’eco si smorza, viene coperta dallavolontà, dalla vicinanza fisica dell’uomo che le crollaaddosso. Diventa un leggero sospiro di resa, come secon l’aria esalata dissolvesse la sua resistenza. Ormai èlei ad aiutare l’uomo, lo tira per la camicia, dentro,sempre più dentro la casa, ma non raggiungono lecamere, crollano davanti alla porta della cucina, cadonouno dentro l’altra come le stelle infuocate.Vado via.Fuori, nella via, c’è una folla. All’incrocio macchineabbandonate, alcune con le ruote ferite, di traverso,come fossero animali morti. La gente indica con le dita,spiega con voce sommessa, serietà commossa,comprensiva, come ai funerali: dalla via vicina staarrivando il suono della sirena di un’ambulanza.Accanto al marciapiede giace una persona con lemembra allargate. Mi avvicino, mi piego. Respira piano;la vita che si sta mescolando all’aria colma di odore dinafta, lo sta abbandonando. Non ho tempo perriflettere. Lo tocco per aiutarlo, ma guardandolo vedoquello che è stato e quello che sarà, che lascio che24<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>ANNO</strong> <strong>XIII</strong>/<strong>XIV</strong> – NN. 71/72 NOV.-DIC./GENN.-FEBBR. 2009/2010
venga. Lo porto in alto, sempre più in alto, lascio lacittà e il cielo settembrino sotto di noi.Traduzione di © Andrea Rényi- Roma -Tibor SzűcsLA POESIA RIFLESSA DAUN DUPLICE SPECCHIO:IN VERSIONI TEDESCHEED ITALIANE(A magyar vers kettős nyelvitükörben: német és olaszfordításokban)Tinta KönyvkiadóBudapest, 2007, pp. 228.La casa editrice ungherese«Tinta» cura ormai da diversi anni una collana di libri dilinguistica, intesa in un senso molto ampio. Finora hapubblicato, oltre a numerosi dizionari, antologie egrammatiche, un paio di decine di edizioni framonografie e raccolta di saggi, atti di conferenze, tesidi dottorati di ricerca, molti lavori innovativi o colmantivecchie lacune.Una recente pubblicazione, La poesia unghereseriflessa da due specchi fa parte di quel genere di studiinterdisciplinari che ad ugual diritto potrebbero esserannoverati fra quelli sul linguaggio poetico, sulla teoriadella traduzione, sulla linguistica contrastiva e cognitiva,sulla comparatistica e sulla magiaristica, ed altri ancora.L’autore, Tibor Szűcs, linguista della Facoltá di Letteredell’Università di Pécs, professore titolare del Seminariodi Ungarologia ha appunto al suo attivo alcune decinedi saggi. I suoi interessi spaziano dalla linguisticacontrastiva, alla linguisica testuale, alla didatticadell’ungherese a stranieri, al testo poetico, e a variaspetti di interculturalità. Il presente lavoro, dedicatoalla traduzione del testo poetico ungherese, intendeessere una sorta di sintesi della sua pluridecennaleattività di docente, mediatore e studioso.L’argomento è stimolante; la possibilità dellatraduzione di un testo letterario, ed in particolare quelladel testo poetico accompagna da secoli la culturaeuropea, essendo un problema universale, al limite conaccenti e modalità diversi a secondo dei tempi e deicontesti. In Italia, il rifiuto della traducibilità del testopoetico ha particolarmente avuto molte adesioni. Ilfamoso ammonimento dantesco: «E però sappiaciascuno che, che nulla cosa per legame musaicoarmonizzata si può della sua loquela in altra trasmutaresenza rompere tutta sua dolcezza e armonia» 1(Convivio, I: libro, capitolo VII.) ha trovato accoglienzafavorevole nei filosofi come Croce (cfr. Croce 1928) 2 enei linguisti come Terracini (cfr.. Terracini 1957) 3 oltreche presso numerosi poeti. Quasi tutti sono concordiche per tradurre poesia praticamente si presentano duepossibilità: comporre una nuova poesia, che sarà solouna delle infinite possibili versioni dell’originale opreparare una traduzione in prosa, accompagnata dafitti commenti di carattere linguistico-culturale.Anche molti letterati, poeti, traduttori ungheresicondividono questo scetticismo. Un poeta, scrittore,Saggistica ungheresetraduttore spesso citato dall’Autore, Dezső Kosztolányi,nei suoi numerosi scritti osserva che traducendo lapoesia «quella che rimane intatta è l’idea, ma l’ideafornisce solo la materia prima. L’anima della poesia è laforma, capricciosa e fatale, in cui si manifesta e siinnesta in modo capillare al corpo, al suono, al passatostorico-letterario delle parole, ai ricordi e alleassociazioni che evocano.» 4 Di qualcosa di simile parlain un’intervista con Imre Barna anche Edith Bruck,persona bilingue e scrittrice in lingua italiana:«Per esempio se dico ’kenyér’, penso a quello di miamadre quello che faceva a casa se invece dico ’pane’,penso a quello che compro dal fornaio e sono due panidifferenti in due case alla quali mi legano ricordi moltodiversi. — Le parole portano con sé memorie, possonosuscitare valanghe di ricordi. Io attraverso una parolaposso ricostruire un mondo mentre questo per mepurtroppo non è permesso in italiano perché non hopassato l’infanzia in Italia. Non ho studiato Leopardi acasa ma Petőfi. Quindi, ho un sentimento diverso, piùridotto, più povero nei confronti delle singole paroleitaliane.» 5A sentire molti linguisti, letterati, poeti, tradurrepoesia sembrerebbe una guerra persa in partenza. Perònel contesto ungherese, per le ragioni ben note, il ruolodella traduzione letteraria ha un significato moltogrande. Per esprimere l’importanza che questa specie dilegame con la letteratura del mondo acquista, sonostate coniate varie espressioni come «causa dellepiccole nazioni» o «il genere letterario piú nazionale».I molteplici problemi della traduzione poeticoletterariain Ungheria vengono studiati soprattuttodall’ottica della traduzione da lingue straniere in linguaungherese. Lo studio di Tibor Szűcs invece, procede insenso inverso a quello usuale, anziché partire dalleversioni in lingua ungherese di poesie scritte in qualchelingua straniera, prende in esame versioni in linguatedesca ed italiana di alcune delle più belle e famosepoesie ungheresi. Il libro si articola in cinque capitoli:Introduzione, Fondamenta linguistiche, L’unità di linguae cultura nel mondo della poesia, Analisi di traduzioni,Conclusione. Tutti i capitoli del libro sono altrettantisaggi che potrebbero esser pubblicati ancheindipendentemente.Nella parte introduttiva l’autore si prefigge gli obiettividella ricerca: individuare i fattori di carattere linguisticoculturaleche determinano la traduzione di quel generein cui ha un ruolo fondamentale la forma, edeterminare in base a quali criteri può esser valutata laqualità di una traduzione. Nella sua ricerca l’autoreintende focalizzare l’analisi su due aspetti fondamentaliper il testo poetico: la costruzione dell’immagine e illivello sonoro. In questa sezione l’autore spiega lamotivazione verso l’argomento e la scelta delle linguestraniere prese in esame. Oltre ai motivi di competenzalinguistica in queste lingue da parte dell’autore del libro,le tre lingue, che costituiscono uno speciale triangolo;<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>ANNO</strong> <strong>XIII</strong>/<strong>XIV</strong> – NN. 71/72 NOV.-DIC./GENN.-FEBBR. 2009/2010 25
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