Vado a morire; perché devo amare ciò che prometteuna fine amara acui l’amore è vano. Perché amo ciò?Piuttosto vado a morire.Vado a morire, perché tutto deve avere questa fine enulla darebbe dolore a cui questa parte non ci fossedata.Vado a morire, io che adesso sono un uomo presente,sarò simile agli uomini passati, se non me ne andrò, maoggi ancora vado a morire.Quarda dove va ogni uomo presente, perché il corsodel fiume può dire con me: vado a morire.Vado a morire, perché ogni vola sento che la morte èsicura e piuttosto abbandono la colpa capitale.Vado a morire, per i cattivi è una dura sentenza ed ibuoni saranno graziati. Dopo la vita arriva la morte,perciò vado a morire.Vado a morire, sono destinato a diventar cenere, comesono nato, così giungerò alla mia fine.Vado a morire seguendo gli altri, ma anch’io saròseguito dagli altri, perché non sono né il primo, nél’ultimo, per questo vado a morire.Vado a morire; sono un re, ma che onore, che vantoterreno perché per l’uomo la morte è il re-padrone,perciò vado a morire.Vado a morire; sono un papa ma la morte non mi lasciaa lungo fare il papa, mi chiuderà la bocca.Vado a morire; sono un vescovo, ma il pastorale, il suopeso, il kofium, la mitria volendo o nolendo, ma lilascerò e vado a morire.Vado a morire; in nessuna lotta non mi hanno vinto,anche se sono prode, non ho imparato vincere lamorte.Vado a morire; sono un campione, so combattere bene,ma non posso vincere la morte, perciò vado a morire.Vado a morire; la vecchiaia non mi lascia ancoracontinuare a vivere.Vado a morire; sono vecchio ed il mio tempo è giàvicino, il portone della morte si è aperto, perciò vado amorire.Vado a morire; sono oratore saggio, con le mie paroleho battezzato alcune persone, ma la morte mi habloccato, perciò vado a morire.Vado a morire; sono ricco ma l’oro e l’abbondanza dellemucche non mi sono utili.Vado a morire; sono povero e non porto con me nulla,odio il mondo, esco da esso nudo e vado a morire.Vado a morire; sono giudice, ho già giudicato moltepersone, temo il giudizio della morte e vado a morire.Vado a morire; il cattivo piacere non mi ferma, né lalussuria mi allunga la vita.Vado a morire; sono nato da nobile stirpe ma esso nonallunga il mio tempo, perciò vado a morire.Vado a morire; all’occhio sono bello, ma la morte nonsa avvantaggiare la bellezza ed il corpo nobile.Vado a morire; sono saggio ma qual’uomo saggi saconvincere l’intelligenza della morte? Si direbbe:neanche uno.Vado a morire; sono scemo, ma la morte né al scemoné al savio offre le nozze della pace o il suo servizio.Però tutti i due ugualmente vanno a morire.Vado a morire; ho avuto buoni cibi e vini, ho possedutiessi, però posso dire: vado a morire.Vado a morire;, sono un frate per l’amore di questomondo e per la buona vita morirò. Così vado amorire.Vado a morire; sono un medico, ma non mi salvo con lemedicine, i medici possono far qualsiasi cosa, perciòvado a morire.Vado a morire; perché mi diverto quando la vagafortuna tradisce l’uomo che si diverte. Perché mi divertoquando l’uomo che si diverte muore? Perciò vado amorire.Vado a morire; sono pieno di denaro, ma l’abbondanzadei soldi non allontana la morteVado a morire; ho vissuto a lungo, forse questo èl’ultimo giorno, perciò mi preparo a morire.Vado a morire; per me nessuno verserà lacrime, per menessuno dirà preghiere; ma farò scordare anche i mieidella mia morte.Vado a morire; ma non so dove andrò e non so neppurquando, ma dovunque m’incammini, vado sempreverso la morte.Vado a morire; perché vedo che la morte regna su tuttoe la sua rete è fitta e frequente.Vado a morire; e ti supplico Cristo misericordioso, abbipietà di me, perdona tutti i miei peccati perché devomorire.Vado a morire; pregando il mio Signore Cristo che tuttipregano e chiedano perdono per me, così bene vado amorire.Testo medievale in ungherese, il quale fu copiato nel 1510 daLea Ráskai e due sue compagne nel monastero delle suoresull’isola dei Conigli di Buda (oggi Isola Margherita aBudapest) è un dialogo tra la Vita e la Morte di Petrus deRosenheim, tradotto dal latino. János Hankiss (1893-1959) ,storico della letteratura disse: «Questa prosa ritmica la piùcommuovente poesia del Medioevo ungherese, la più bellavariazione della danza macabra. Pensare molto eprofondamente alla morte non è forse la maggior arra d’unavita intensa e utile?»N.d.R.: Il testo ungherese si legge nella rubrica «Appendice».Traduzione e nota di © Melinda B. Tamás-TarrCécile Tormay (1876-1937)LA VECCHIA CASA(Budapest, 1914)I.Era sera. L’inverno stendeva suomantello bianco sulla terra. Attraversola nevicata gli altissimipioppi sfaldati sfilavano incontroalla carrozza; si avanzavano spettrali sulla pianuraimmobile. Dietro ad essi i colli emergevano dalla neve. Ipiccoli campanili, i tetti delle case si ammucchiavanol’uno sull’altro. Qua e là minuscoli quadrati deifinestrini s’illuminavano nel buio.Quando la carrozza giunse la barriera daziaria, si erafatta notte. Al di là dello steccato due garitte, a mezzoaffondate nella neve, si ergevano di fronte. Il vetturinogridò, facendo tromba alla bocca con le mani. Dopo unpo’ una voce assonnata rispose. Nell’oscura profonditàdelle casette di guardia si videro muoversi i pennacchibianchi degli shakó 2 ; poi dalla baracca della guardiavenne fuori la luce di una lanterna. Dietro a quella unuomo, munito di carabina, si strascinò verso lacarrozza.18<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>ANNO</strong> <strong>XIII</strong>/<strong>XIV</strong> – NN. 71/72 NOV.-DIC./GENN.-FEBBR. 2009/2010
Era una berlina da viaggio ad alte ruote, dipinta adue colori; la parte superiore verde scuro, e l’inferiore ele ruote giallo limone. In alto, ai lati della cassetta,ardevano due lucerne ad olio, e il loro barlumeespandeva sul dorso dei cavalli. I corpi degli animalifumavano nel freddo.La guardia alzò la lanterna. Sfiorato da quella lucecruda, il finestrino della carrozza parve trasalire edimprovvisamente si sprofondava. Nel quadro delfinestrino si sporse una testa vigorosa e canuta. Dueimmobili occhi tranquilli fissarono in volto la guardia.L’uomo indietreggiò e s’inchinò rispettosamente.— È la carrozza degli Ulwing!... — E alzò la barriera.Sotto le due garitte le sentinelle presentarono le armi.— Potete passare.La luce delle lanterne della carrozza ora brancolavasugli storti steccati dei campi vuoti.Un grande mercato abbandonato. Il muro di unachiesa. Lungo le vie contorte delle case buie, gibbose,se ne stavano tra le fosse. Esse ad occhi chiusiorigliavano nel buio. Più in là le case parevano semprepiù alte. Per le vie non un essere umano. Solo accantoal palazzo del duca Grassalkovich 3 una guardianotturna sguazzava nella neve. Nelle mani dondolavauna lanterna di ferro appesa ad una pertica. L’ombradella sua alabarda, riflessa sul muro, pareva un neroanimale che si muovesse sopra il suo capo.Dalla torre municipale una consumata, lontana vocegridò nell’alto silenzio notturno:— Sia lodato il nostro Signore Gesù! La sentinellalassù segnalava che era desta.Di nuovo la città si immerse nel silenzio. La nevecadeva calma tra i vecchi comignoli dei tetti e sotto levecchie gronde sporgenti le strade contorte, come deicongiurati, sbucavano sospettose da ogni parte;congiungendosi in uno spiazzo tortuoso. Al centro dellapiazza, l’acqua scolava gelida dal parapetto del pozzodei Serviti; pareva una voce stanca che balbettasse unapreghiera nel buio, dinanzi alla chiesa.Alla casa d’angolo una solitaria, lanterna attaccata adun grosso uncino di ferro pendeva sulla via, le suecatene cigolavano piano ogni volta che il vento lescuoteva e la sua luce s’impiccioliva sul muro, tanto cheavrebbe potuto essere contenuta nel pugno di unfanciullo. In mezzo alla piazza del Mercato Nuovo c’erauna lanterna abbandonata dalla luce fumosa che sisperdeva nella densa nevicata; non giungeva adilluminare il suolo.Kristóf 4 Ulwing nascose il mento nell’ampio collettodel suo mantello. Il calendario oggi segna luna pienaed in simile ricorrenza il sindaco risparmia l’olio dellalanterna, e non c’è nulla da fare se talora il cielo non vadel tutto d’accordo col calendario e lascia la città nelletenebre. Del resto i bonari borghesi in quelle oredebbono starsene in casa.Due lanterne... ma tanto non servivano a nessuno.Pest, la vecchia cittadina borghese, dormiva di già, ea Kristóf Ulwing parve che fosse sempre così, anche digiorno, come se egli fosse l’unico a vegliare in questacittà.Alzò il capo. Ora percorrevano il sobborgo Leopoldo.Lo stretto selciato irregolare qui mancava. Le buchediventavano cedevoli e profondi sotto le ruote. DalDanubio salì un vento svolazzando le criniere dei cavalli.Ad un tratto il silenzio fu interrotto da un piacevole,libero mormorio. Tra le due rive dormienti, nellaprofonda oscurità, il fiume grandioso passava comel’invisibile vita, sempre rinnovandosi.Più in là si schieravano le bianche colline di Buda. Sullato di Pest una superficie piana si stendeva tra il fiumee la città. Su questo territorio bianco la casa di KristófUlwing sorgeva solitaria. Ormai già da trent’anni lachiamavano come casa nuova della città. La suacostruzione era stata un grande evento. Ognidomenica i cittadini del centro venivano a trovarlo:guardavano la casa nuova, confabulavano e scuotevanoil capo. Non riuscivano a comprendere come mai ilmastro costruttore Ulwing avesse edificato la suadimora là, su quella sabbia mobile quando, certo, nonmancava il terreno nelle belle e strette contrade delcentro. Ma egli ignorandoli, seguiva la sua strada esempre più si affezionava alla sua casa. Era veramentesua, era sorta dalla sua idea, era frutto del suo lavoro,ed era costruita del suo proprio materiale. Però unavolta...Mentre Kristóf Ulwing ascoltava inconsciamente ilmormorio del Danubio, nella sua anima si ravvivarono iricordi lontani, da tempo ormai già muti. Egli pensava aisuoi avi Ulwing che avevano vissuto nelle vaste, oscureforeste germane; facevano i taglialegna e il Danubio lichiamava; ed essi erano scesi giù, lungo le sue rive, poiavevano preso la cittadinanza di una piccola cittàtedesca, dove esercitavano i mestieri di falegname e difabbro. Lavoravano il legno di quercia e il ferro colsemplice, puro materiale e si assomigliavano ad esso.Erano diventati uomini onesti e forti. Poi uno di loro eraperegrinato in Ungheria, stabilendosi a Pozsony 5 , dovesi era fatto accogliere nella Corporazione degli orafi.Lavorava l’oro e l’avorio e nell’opera del cesello la suamano diveniva più abile, l’occhio più raffinato di quellodei suoi avi. Costui poteva dirsi già un artista. KristófUlwing pensava ad un’uomo: al suo padre. Alla suamorte erano rimasti due figli soli: lui e il fratelloSzebasztián 6 . E poiché la casa paterna diventava vuota,anch’essi vennero chiamati da qualcosa come erasuccesso ai loro avi. Partirono da Pozsony lungo le rivedel Danubio. Andarono, Vennero giù orfani, poveri.Da allora molti anni erano passati e tante cose sierano mutate.Kristóf Ulwing trasse di tasca la tabacchiera. È unlavoro di suo padre e la sua sola eredità. Eglidelicatamente picchiò le due dita sul coperchio, e,mentre la rimetteva in tasca si sporse dal finestrino.Ora si vedeva già bene la casa, col duplice tettorigido, la facciata tozza a piani, le finestre a piccoli vetriquadrati, e nel muro giallo il solido portone di quercia ilcui cornicione ad arco era accompagnato da unarchitrave coperto di neve che pareva come un grigiosopracciglio. L’architrave terminava con due urne elaggiù, accanto al portone due cariatidi. Ogni buca, ognirialzo della casa era fresco e bianco.Dentro la casa l’arrivo della carrozza era statoavvertito. Successivamente le finestre al piano siilluminarono e si rabbuiarono in fretta. Qualcuno conuna candela percorreva le camere. Il grande portone diquercia si aprì, e le ruote trabalzarono, il cofano daviaggio picchiò contro il lato posteriore della carrozza,mentre le cariatidi gettarono un rapido sguardo dentro<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>ANNO</strong> <strong>XIII</strong>/<strong>XIV</strong> – NN. 71/72 NOV.-DIC./GENN.-FEBBR. 2009/2010 19
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