mezzo alla strada. A questo punto non potevo tirarmiindietro. Corsi a prendere i trampoli di Volto dellaSalute, ma non erano sufficienti a scavalcare l’altissimamuraglia. Quindi li riportai indietro, avevo una rabbiadentro che sfogai in un urlo terribile. Dovevo volare, aquesto punto: e l’unico modo per sollevarmi da terraera chiedere aiuto a Gamba di Locusta. Mi consigliò dilasciar perdere, quindi mi rivolsi alla Stupita, la vecchiadel mulino. «Se questo è il motivo ti dico: non farlo –mi bisbigliò – non puoi vedere ciò che c’è dentro lamuraglia». Lei sapeva, quella donna c’era stata, forse.La supplicai di parlare: dapprima resistette, ma poi…Visto che nessuno aveva l’abitudine di ascoltarla sputò ilrospo. «Quel giardino è chiamato Resinosa – rivelò laStupita – ed è chiuso da una muraglia inespugnabileperché è pericolosissimo: devi sapere che lì dentro glialberi gocciolano una resina che avvolge chi vi entrafino a catturarlo in una colata di ambra». Ammetto chescoppiai a piangere: ecco cos’aveva visto mio padre.Chiesi il motivo di tutto questo e la vecchia parlò di unostrano sortilegio che sarebbe terminato quando almenoun abitante del paese avesse rimediato a un errore dalui commesso. Vaghe come tutte le risposte chesconfinano nell’oracolo, le cose dette dalla Stupitavolarono via tra le nuvole finquando mi ricordai dellosguardo di mio padre. Fu così che presi sul serio lascuola e mi misi a studiare d’impegno; ci volle un po’ ditempo, ma poi arrivarono buoni voti. In quel momento,gli alberi malefici di Resinosa seccarono, al loro postoora c’è un prato di mughetti.NOTTENell’ultima notte a La Thuile stava contemplando unaroccia presa in alta montagna. L’aveva scelta per la suafaccia mutevole, arricchita da cristalli bianchi eabbracciata da piccoli licheni, sprazzo di vita tenace inuna materia provata, senza quiete pur nella pace dellecime. Sfumature ferrose e caverne dell’era glacialemartoriavano questo piccolo mondo di roccia. L’avevascelta perché era equidistante tra persone interessanti,quelle con cui era salito sin sulla cima, quelle cui avevaripetuto: «Non posso dirti quanto manca alla fine delcammino, ma posso dirti di camminare con me».L’aveva scelta perché era rivolta verso il Bianco che soloa lei, nel segreto, rivelava le sue fattezze scoprendosidalle nubi perpetue. L’aveva scelta perché collocata inun luogo di trascendenza, in prossimità dell’Assoluto.Fissandola, s’inoltrò nei percorsi labirintici dellerimembranze. C’era, così ricordava, lassù sul belvedere,uno scriteriato che lanciava sassi; c’erano quelle colfiore in testa o chi si bruciava, svenendo al sole.Pensava alla torinese, o a quella cena: sedanini al pestocon pomodorini freschi, vitello arrosto e zuppa inglese.La roccia prende la forma del ricordo, benché essa nonricordi, non abbia memoria. L’uomo trasforma le cose ele colloca in uno spazio utile alla conoscenza. Se non cifosse l’uomo, le rocce non evocherebbero ricordi. Fucosì che quella pietra, esposta da sempre alleintemperie più aspre ma alla bellezza più pura, iniziò alamentarsi. Nella camera d’albergo era impossibilestare: la roccia balbettava e frignava come un bambinocapriccioso. D’istinto, venne da metterla in valigia eserrarla lì dentro. All’istinto subentrò lo stupore, invanoimbrigliato da logiche spiegazioni. Fatto sta che laroccia riuscì ad evadere dalla valigia mentre il suorapitore stava approfittando della doccia. Sortì dallatrecentosei e percorse i corridoi dell’albergo, fermandosiappena qualcuno le passava accanto. Fu contattato ildirettore che prese sul serio la questione solo al quartobicchiere di grappa: purtroppo la ricerca risultavaproibitiva per l’estensione dell’albergo e per il tempoormai trascorso da quando la roccia era evasa.Nell’ultima notte a La Thuile erano accadute altre cosestrane, la cui memoria, però, si sciolse confluendo nellaDora. L’impresa della roccia, invece, rimase impressa achi n’era venuto a conoscenza. Pensò che era tornatada dov’era stata presa, lassù, oltre le due seggiovie. Oforse aveva raggiunto la coltre glaciale del Rutor nelleore piccole della notte graia? Lo scompiglio destò lecamere: qualcuno aveva trovato la roccia o, meglio,l’aveva ascoltata. Si diresse verso il salone: c’era uncentinaio di persone nonostante che l’aurora fosseimminente. Sul palco, la roccia raccontava la sua storiasenza tempo: anche per questo l’aveva scelta. Si mise asedere, tranquillo, e attese l’alba facendo attenzionealle sue parole.LO SCUDO NEL CIELOQuando si guarda il cielo non si fa molta attenzione allestelle che compongono il firmamento; spesso ci sisofferma solo su quelle più appariscenti e più brillanti.La nostra vista è attratta dalle costellazioni note, chesembrano le cose che rappresentano, di cui conosciamoi miti e le leggende. Quasi nessuno ha mai notato unrombo allungato, velato appena dalla bianca copertadella Galassia, che pare proteggerci dall’Aquila inpicchiata. È lo Scudo, piccola costellazione inventata nel‘600, creata giusto per colmare uno spazio vuoto nelcielo. Fu dedicata al grande re polacco Giovanni IIISobieski, guida dell’esercito che respinse l’avanzatadegli ottomani alle porte di Vienna nel 1683. Nonostenta magnificenza, umilmente splende con pocaforza. Si sa per certo che la regione che comprende loscudo nel cielo è abitata dagli scudati, creature alatedall’aspetto bizzarro. Essi vorticosamente volano tra lequattro stelle principali della costellazione come se vifossero imprigionati. Qualche telescopio, puntando ilcielo dalle alture deserte delle Ande, è riuscito a vederlinella forma di una scia continua a veloce, una specie digomitolo di luce. Secondo le più moderne teorie, siproteggono sotto lo scudo dalle insidie perpetuedell’Aquila e in esso vivono cibandosi di quei residui dimateria che vagano nello spazio. Il respiro veloce degliscudati (unico rumore presente in quella regione delcielo) influenza anche alcuni nostri comportamenti, maquesto non è certo, essendo più materia di astrologiche di astronomi. L’Aquila non riuscirà mai araggiungere e divorare gli scudati perché essi sonoprotetti dallo scudo. All’interno del rombo umilenessuno potrà mai nuocere a questi strani esseri chenon parlano né vagiscono. Così gli scudati, respirando,potranno volare rincorrendosi e giocando all’internodella costellazione, protetti da ogni male, in attesa chevenga la fine del tempo. Da quel giorno, infatti, il cielo12<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>ANNO</strong> <strong>XIII</strong>/<strong>XIV</strong> – NN. 71/72 NOV.-DIC./GENN.-FEBBR. 2009/2010
si aprirà e tutte le stelle si scioglieranno, l’Aquila sidissolverà e lo scudo esploderà lasciando gli scudatiliberi di sfrecciare nell’infinito.Francesco Tiberi — Tolentino (Mc)EPIFANIAEpifania: …fig. lett., Manifestazione, apparizione;(Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana)Giornata festiva, silenziosa.Pomeriggio di gennaio grigio tenue, perfettamenteintonato al pallore gelido del cielo carico di umidità.Una vecchia coperta di lana sulle spalle. Le dita dellamano sinistra ne avvolgono ritmicamente le frange,inappagate.Il naso ed i bronchi saturi di muco, desiderosi diaprirsi a più ampi respiri.Anche stanotte poco sonno per me. In camera facevacosì dannatamente freddo che, nonostante la cuffia dilana calzata fino agli occhi e la montagna di copertetirate fin sulla bocca, il mio naso si è quasi staccato,tanto era gelato. All’alba, il termometro sul comodinosegnava 9,8°C.Questa casa piccola e vecchia non è stata concepitaper affrontare l’austero inverno. Chi l’ha costruita neaveva immaginato un destino lieve, di estati spensieratee calure salmastre. Ora che viene abitata anched’inverno, forse sentendo violata la propria intimanatura, essa si rivolta contro di me non trattenendoalcun calore e lasciandosi penetrare da qualsiasi soffiod’aria gelata l’avvolga.Un po’ puttana, casa mia.Niente di più triste che vedere abbandonato un luogoche si ricorda brulicante di euforica vitalità. Per me chesono un uomo di entroterra, è tristemente stranoabitare al mare in questa stagione.Ora spettrale ed oscuro, il quartiere in cui vivo daquasi un anno ha la capacità di indossare il vestito dellafesta i primi di maggio e scrollarsi di dosso le facce dagaleotto e gli stralunati cronici che ne popolano le viedurante la brutta stagione. Forse le squadre di operaicomunali che lo mettono a soqquadro prima dell’arrivodei vacanzieri conoscono un segreto per seppellire sottoagli zerbini delle case sulla spiaggia la vita minuta cheper lunghi mesi si è nascosta nei suoi angoli bui.Un tempo borghesemente residenziale, da qualcheanno il quartiere è popolato dalle genti più disparate.Donne immigrate, occhi fieri che spingono passegginiperennemente pieni, muratori dalle fronti basse comegli occhi costantemente puntati sull’asfalto che partonoall’alba a bordo di furgoni scassati e loro, le silenziose eriservate puttane, le cui finestre sempre illuminateoffrono compagnia e conforto alle solitarie notti deipochi residenti locali, spesso tristi professionisti single.Le mie vicine di casa.Starsene fermi su questa sedia rossa di vimini a farcorrere le dita sulla tastiera del portatile non è perniente facile.Il freddo penetra nella carne fin dentro alle ossa.Lama affatto sottile che affonda nella mia fronterisvegliando un mal di testa sordo, profondo,irrisolvibile.Lo sguardo attraversa i doppi vetri delle finestrefissandosi sui rami immobili degli alberi spoglifrequentati da merli sbiaditi, il collo rinsaccato tra alispiumate, pochissima voglia di volare lontano.Claudia dorme ancora, non voglio svegliarla.Prima che si abbandonasse al sonno ci siamoabbracciati forte, cercando ristoro e calore nella sommadei nostri respiri. Così piccola e morbida tra le miebraccia. E maledettamente stanca.Il lavoro la sta distruggendo, dolce fiamma cheriscalda la mia vita.Sono le due passate ormai, eppure resta avvolta inun bozzolo di coperte. Sul cuscino i capelli sparsi ed ilritmato respiro del riposo privo di brutti sogni. Invidioprofondamente la sua capacità di gettarsi tutto allespalle dandosi in pasto al sonno, sorridente.Io no, non ci riesco. Più forte di me.La notte, quando ci stendiamo nel buio umido dellacamera da letto e lei cade quasi subito addormentata,io vago per molti minuti in cerca di ispirazioni chealimentino le mie ossessioni. Generalmente, dalprincipio combatto con i miei disturbi di stomaco primache il silenzio mi avvolga mentre faccio conoscenza connuovi autori assaporandone lo stile e bramandodisperatamente di carpirne i segreti.Da dove proviene il maledetto talento che trasuda daogni loro pagina? Riuscirò a violare la misteriosaalchimia che fa di uno scribacchino come me, un veroscrittore?Il tempo che mi separa dalla veglia è breve, cinque osei ore al massimo.Al primo rumore del mattino qualcosa nel mio cervelloinizia a pulsare, premendo sulle tempie senza lasciarmipace e rivendicando le proprie ragioni. Ossessione chesi manifesta sotto forma di immagini che noncomprendo, ma che misteriosamente riconosco.Pensieri che si espandono rapidissimi, indistinti,obbligandomi a fissarli immediatamente sulla carta deltaccuino che non mi abbandona nemmeno quandovado a letto, rischiarato dalla luce fioca della piccolalampada azzurra del comodino di bambù.Sento la mancanza del tempo. Disperatamente.Ne ho sprecato tanto in vita mia, da non poterne piùperderne neanche per riposare.Scrivere. Ansia bella che pervade la mente.Autoanalisi da quattro soldi cui non so rinunciare.Mi consente di guardare il mondo dall’alto dellacattedrale che ho edificato attingendo al monte dei mieierrori perduti, inesauribile cava.Il mio desiderio, vivere di scrittura. Così da scrollarmi didosso la polvere che la vita deposita sulle mie spalleogni giorno, generosa.Scrivere è impegno costante, fatica. Ahi, quantoaspra fatica. Soltanto chi ha pratica di tastiera eschermo bianco può capire.La genesi di un racconto, nebulosa che si addensa,coagulo di esperienze. Dapprima intuizione vaga,impalpabile, a volte una storia si fa inseguire persettimane senza lasciarsi afferrare. Eppure si trova lì,<strong>OSSERVATORIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong> <strong>Ferrara</strong> e l’Altrove <strong>ANNO</strong> <strong>XIII</strong>/<strong>XIV</strong> – NN. 71/72 NOV.-DIC./GENN.-FEBBR. 2009/2010 13
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