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Ischitella e il Varano dai primi insediamenti agli ultimi feudatari

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130 <strong>Ischitella</strong> <strong>dai</strong> <strong>primi</strong> <strong>insediamenti</strong> <strong>agli</strong> <strong>ultimi</strong> <strong>feudatari</strong><br />

anche se, a differenza di altri più compromessi, riuscì ad evitare l’es<strong>il</strong>io e rimase<br />

nel Regno, non partecipando alla vita pubblica e dedicandosi alla conduzione dei<br />

suoi possedimenti. Bonificò un terreno di circa cinquem<strong>il</strong>a moggia presso Licola,<br />

nel Napoletano, dove negli anni successivi fu costruito <strong>il</strong> V<strong>il</strong>laggio <strong>Ischitella</strong>. Nel<br />

1822 costruì, nella sua proprietà di Niuzi, sul Gargano, una bella v<strong>il</strong>la: l’attuale<br />

Casino Ventrella. Qualche anno dopo impiantò una fabbrica di potassa, a Peschici,<br />

nei pressi della sua v<strong>il</strong>la La Lammia.<br />

Nel 1830 salì sul trono di Napoli Ferdinando II di Borbone <strong>il</strong> quale, oltre ad introdurre<br />

riforme e miglioramenti nell’amministrazione, richiamò al servizio m<strong>il</strong>itare<br />

molti ex ufficiali murattiani, allontanati dall’esercito dopo i fatti del Nonimestre.<br />

Escluse Francesco Pinto, a quel tempo considerato ancora fedele ai napoleonidi. Il<br />

principe ebbe lo stesso varie occasioni d’incontro con <strong>il</strong> re, che lo prese in simpatia<br />

e nel 1840 gli concesse <strong>il</strong> grado di maresciallo di campo onorario 9 . Nonostante che<br />

l’Europa, dopo <strong>il</strong> Congresso di Vienna, si fosse come assopita in un lungo sonno<br />

sul quale vegliava in armi l’Impero d’Austria, campione della restaurazione degli<br />

antichi priv<strong>il</strong>egi dei sovrani, non si potevano cancellare quei sentimenti di libertà,<br />

ugu<strong>agli</strong>anza e partecipazione professati d<strong>agli</strong> amministratori, <strong>dai</strong> borghesi e <strong>dai</strong><br />

m<strong>il</strong>itari che avevano servito sotto <strong>il</strong> tricolore francese. Anche se qualche sommossa<br />

turbava la vita tranqu<strong>il</strong>la dei principi, come nel 1820-21, 1831 e 1844, fu l’elezione<br />

al soglio di San Pietro di papa Pio IX e le riforme e amnistie dei <strong>primi</strong> anni del suo<br />

pontificato che furono viste e seguite con ansia e speranza da chi desiderava una<br />

patria indipendente dallo straniero e libera da assurde e anacronistiche divisioni<br />

doganali; ogni pretesto era causa di turbativa all’ordine pubblico e si trasformava<br />

in manifestazione politica. Le libertà di stampa, di associazione e soprattutto quello<br />

delle autolimitazioni dei sovrani nei confronti dei loro sudditi, le Costituzioni, erano<br />

richieste da strati sempre più larghi della popolazione. Nei <strong>primi</strong> giorni di gennaio<br />

del 1848, a M<strong>il</strong>ano e a Venezia si erano verificati disordini per <strong>il</strong> boicottaggio del<br />

fumo; i tumulti di Palermo, Napoli, Livorno e Torino costrinsero i sovrani a emanare<br />

carte costituzionali. La redazione di quella napoletana fu affidata al ministro<br />

dell’Interno, Francesco Paolo Bozzelli, nativo di Manfredonia, <strong>il</strong> quale, compromesso<br />

nei moti del 1820-21 e costretto all’es<strong>il</strong>io, aveva soggiornato a lungo a Parigi,<br />

Londra e in Belgio, dove aveva avuto modo di conoscere e studiare i rispettivi<br />

sistemi giuridici. Sulla base della Costituzione francese del 1830 e di quella belga<br />

del 1831, questi modellò, in 89 articoli, lo Statuto napoletano. La costituzione del<br />

Bozzelli non trovò <strong>il</strong> consenso della popolazione più consapevole del regno e pesanti<br />

critiche non furono risparmiate al suo redattore, accusato di avere dato alla luce<br />

G. PALOMBA, Quel 20 agosto 1820 a Manfredonia, in Il Corriere del Golfo, n. 14/1998, pag. 19.<br />

9<br />

Il principe di <strong>Ischitella</strong> aveva solo l’onore di indossare l’uniforme, non aveva incarichi di<br />

comando e non percepiva lo stipendio. Il grado di maresciallo di campo corrispondeva a quello di<br />

generale di divisione nell’esercito piemontese, poi italiano.

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