Luciano Berio - Universal Edition
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upper hand over any disembodied search for “new sounds”. However fragile and temporary the<br />
community created in the concert-hall by a brilliant performance, it is one that <strong>Berio</strong> served<br />
with singular fixity of purpose. Since the sixties a vigorous inhabitant of McLuhan’s “global<br />
village” (of which any concert-hall or radio station may propose itself as a temporary<br />
microcosm) he asserted music’s obligation not only to its own singular history, but also to the<br />
re-statement of human concerns that, without such patient and committed reiteration, could<br />
so easily evaporate. His is a music that “refuses to forget”.<br />
David Osmond-Smith<br />
Il passato come futuro: <strong>Luciano</strong> <strong>Berio</strong><br />
Dopo la Seconda Guerra Mondiale molti compositori della generazione di <strong>Luciano</strong> <strong>Berio</strong> si<br />
sentirono obbligati a ricominciare daccapo. Un compositore come <strong>Berio</strong> però, le cui radici<br />
ancoravano profondamente nelle conquiste di quattro secoli, non prese mai in considerazione<br />
questa opzione. La sua opera re-inventò costantemente delle continuità laddove altri vedevano<br />
come unica alternativa la rottura. Non che fosse mai stato attratto da quelle nostalgie aleggianti<br />
in alcune musiche del secolo scorso. Al contrario, mantenne una curiosità insaziabile verso le<br />
esperienze di ricerca dei suoi contemporanei – musicisti ed altri. Ma i suoi dialoghi con la<br />
letteratura, la linguistica, l’antropologia strutturale, la musicologia etnica si sono sempre<br />
dimostrati i più ingegnosi raid corsari: egli acquisì i materiali di cui aveva bisogno come musicista,<br />
per trarne delle conseguenze creative, spesso molto distanti dal contesto originale. Sono un<br />
omaggio fraterno, non un’imitazione. Al di là del periodo di apprendistato tra la fine degli anni<br />
’40 e l’inizio dei ‘50, si può affermare praticamente lo stesso a proposito della sua interazione con<br />
i suoi contemporanei musicali. La relazione non sempre diretta con la corrente di pensiero<br />
postweberniana fu il primo dei tratti che da allora caratterizzarono la sua opera. Impossesandosi<br />
con gusto dell’immenso potenziale metamorfico di tale pensiero, <strong>Berio</strong> lo trasofrmò in un<br />
principio di base: è sempre possibile ri-scrivere ciò che è già scritto.<br />
L'esuberante sicurezza melodica delle sue opere degli ultimi anni ’50 e ’60 – sia la brillantezza<br />
nervosa della Sequenza I per flauto, sia l'ormai classica intensità lirica dei brani scritti per Cathy<br />
Berberian, tra cui Circles o Sequenza III – testimonia l’autorevolezza con cui <strong>Berio</strong> ricorreva a<br />
questi mezzi. La serie dei Chemins, rivisitazioni delle Sequenze per strumento solo, non soltanto si<br />
dimostra un “work in progress” nel senso joyceano, ma ci obbliga anche a considerare ogni opera<br />
compiuta come un “listening in progress”. Gli anni ’60 vedevano però anche i primi indizi della<br />
volontà di non trascurare istanze centrali del proprio senso rigoroso della tradizione musicale.<br />
Mentre alcuni contemporanei sembravano accontentarsi trattando l’armonia semplicemente<br />
come una categoria subordinata di “texture", <strong>Berio</strong> non smise mai di tornare con insistenza alla<br />
dimensione armonica come fulcro delle sue aspirazioni musicali più ampie. L’allenamento del<br />
proprio udito e di quello dei suoi ascoltatori, così da trovare un percorso attraverso la giungla<br />
armonica, fu inizialmente un aspetto dell’accortissima intuizione beriana – per esempio nella<br />
Sequenza IV per pianoforte. Presto però quest’intuizione divenne parte di una concezione messa<br />
bene a fuoco, prima in O King, poi in tante opere dei primi anni ‘70, nelle quali esplorò le<br />
about his music