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prosa<br />
54 — prosa<br />
Thomas Bernhard<br />
secondo<br />
Alessandro G. di Franco Quadri<br />
La prima voLta di Thomas Bernhard commediografo<br />
si registrò a <strong>Venezia</strong> nel 1984, quando il Festival<br />
di Teatro<br />
della Biennale<br />
mandò in scena al<br />
Teatro Goldoni la<br />
tredicesima commedia<br />
del grande<br />
austriaco, ovvero<br />
L’apparenza inganna,<br />
nell’edizione<br />
creata anni prima<br />
da Claus Peymann<br />
per lo Schauspielhaus<br />
di Bochum,<br />
protagonista il più<br />
famoso dei suoi interpreti,<br />
il grande<br />
Bernhard Minetti,<br />
catturato dall’apparenza<br />
che non<br />
inganna della città<br />
da lui scoperta<br />
in quell’occasione.<br />
Ad accompagnare<br />
l’avvenimento fu<br />
allora organizzata<br />
una serie di incontri<br />
con importanti<br />
personalità,<br />
da quello in cui il<br />
regista prediletto<br />
di Bernhard veniva<br />
presentato e interrogato<br />
dal suo<br />
traduttore italiano<br />
Eugenio Bernardi,<br />
alla proiezione<br />
dei video di altre<br />
due messinscene<br />
dell’autore curate<br />
sempre da Peymann,<br />
ma anche di<br />
un film su Minetti<br />
diretto da Bruno<br />
Ganz e Otto Sander,<br />
mentre lo stesso<br />
Ganz era presente<br />
di persona a<br />
leggere, sempre al<br />
Goldoni, una serie di brani scelti dello scrittore.<br />
Non si può non ricordare questo memorabile contatto<br />
La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard,<br />
regia di Alessandro Gassman.<br />
con l’opera di quel grande, in attesa come siamo<br />
per fine ottobre della prima veneziana del suo Immanuel<br />
Kant visto da Alessandro Gassman, dopo il trionfale<br />
debutto del giugno scorso al Napoli Teatro Festival,<br />
tenendo conto che il nuovo direttore del Teatro Stabile<br />
del Veneto, probabilmente anche mosso nel profondo<br />
dalle sue origini per parte di madre, si sta specializzando<br />
come capofila dei nostri registi veramente interessati<br />
al mondo e alla dialettica di questo grande autore del<br />
Novecento.<br />
Tutto cominciò nel 2002 dalla proposta di mettere in<br />
scena La forza dell’abitudine per il Festival di Borgio Verezzi,<br />
una commedia che già era stata presentata in Italia<br />
un paio di volte, in una versione politicamente impegnata<br />
e in una intellettualistica, ma che di colpo divenne<br />
nuovissima grazie al coraggio di Alessandro nel rite-
nere la sua teatralità così pregnante da arrivare più<br />
diretta al pubblico quanto più semplicemente gliela<br />
si offre. Eccolo quindi affidarsi a una comunicativa po-<br />
polare e universale da poter affrontare con dettami realistici<br />
trasferendola dall’ambiente tedesco originario a quello<br />
siciliano più consono al linguaggio dei membri della famiglia<br />
Colombaioni chiamati nello spettacolo a svolgere i<br />
loro ruoli abituali in questa allegoria circense e a un attore-impresario<br />
come Carlo Alighiero, scelto per incarnare<br />
il direttore del circo da lui tiranneggiato provando all’infi-<br />
prosa — 55<br />
nito la stessa sonata.<br />
Tre anni dopo il regista riprese lo spettacolo con la novità<br />
determinante di assumersi anche il ruolo del protagonista,<br />
che lo<br />
metteva più direttamente<br />
in gioco:<br />
in effetti questo<br />
lo equiparava<br />
all’autore, impegnato<br />
in un ennesimo<br />
attacco contro<br />
un teatro incapace<br />
di essere arte,<br />
dal momento che<br />
si appropriava della<br />
rabbia del personaggio<br />
contro<br />
la verità ricostruita<br />
dai suoi clown<br />
intenti a recuperare<br />
una esperienza<br />
di vita, mentre<br />
come interprete<br />
sceglieva il piano<br />
della finzione<br />
e si rendeva irriconoscibiletruccato<br />
com’era da vecchio<br />
iroso calvo,<br />
scosso da violente<br />
urla in cui si sentivano<br />
riemergere<br />
emozionanti assonanze<br />
ereditarie. E<br />
con sincera modestia<br />
così Alessandro<br />
esprimeva le<br />
sue intenzioni registiche:<br />
«Il mio<br />
semplice intendimento<br />
sarà quello<br />
di far emergere<br />
la straordinaria capacità<br />
di Bernhard<br />
nel descrivere tutti<br />
noi, attraverso<br />
le ridicole e tenere<br />
imprese del direttore<br />
Caribaldi, del<br />
giocoliere, del domatore,<br />
della ballerina<br />
sul filo e del<br />
buffone. Il comico<br />
tentativo dei nostri<br />
eroi di suonare tutte<br />
le sere, dopo lo<br />
spettacolo, il quintetto<br />
La trota di Schubert, l’incapacità tecnica e psicologica<br />
che li attanaglia, l’incomprensione per l’importanza della<br />
missione, scatena nel direttore una rabbia crescente. La sua<br />
maniacale ansia di perfezione e lo sgomento di non riusci-<br />
Qui e alla pagina seguente: Immanuel Kant di Thomas Bernhard,<br />
regia di Alessandro Gassman (Archivio Napoli Teatro Festival Italia).<br />
prosa
prosa<br />
56 — prosa<br />
re nel suo intento, ne fanno<br />
un protagonista esilarante,<br />
a volte tirannico (nel quale<br />
onestamente mi riconosco,<br />
condividendone, ahimé,<br />
ansie e paure), al quale<br />
forse dovremmo tutti volere<br />
un po’ di bene…».<br />
« …ma La stirpe dei profeti<br />
si è estinta…» era la<br />
citazione di Artaud scelta<br />
dall’autore per accompagnare<br />
La forza dell’abitudine.<br />
Ed è praticamente<br />
dall’indomani del riuscitissimo<br />
debutto di questo rimontaggio<br />
del suo primo<br />
Bern hard che Alessandro<br />
comincia a pensare al secondo,<br />
ovvero il leggendario<br />
Immanuel Kant, una farsa<br />
dove si ipotizza un fantastico<br />
viaggio di un grande<br />
maestro realmente esistito<br />
quale fu l’inamovibile<br />
filosofo di Konigsberg –<br />
o di una sua caricatura, dato<br />
che il suo personaggio<br />
nel testo dice «Tutto è caricatura»<br />
– un viaggio negli<br />
Stati Uniti, perché il personaggio<br />
soffre di un glaucoma<br />
destinato a essere curato<br />
alla Columbia University,<br />
dato che, come dice la<br />
moglie che l’accompagna:<br />
«Tu porti all’America la ragione<br />
e l’America ti dà la vista».<br />
L’azione è ambientata<br />
su un transatlantico pochi<br />
anni dopo l’affondamento<br />
del Titanic, che continua a<br />
venir citato nelle conversazioni<br />
con la moglie sciocca<br />
e petulante o con lo schiavo<br />
incaricato di occuparsi<br />
del pappagallo cinquantenne<br />
che è la mente e la<br />
memoria parlante del filosofo<br />
e l’accompagna dovunque<br />
chiuso in un sacco.<br />
Tutt’intorno non mancano<br />
una milionaria ciarliera<br />
e un lussurioso contorno<br />
di personalità militari,<br />
religiose, pseudoartistiche<br />
che creano un finto<br />
teatrino dove si parla di<br />
tutto senza ascoltarsi, molto<br />
verosimile nella sua inutilità,<br />
ma che la regia alimenta<br />
in un’esilarante mostra<br />
delle vanità alimentata<br />
<strong>Venezia</strong> – Teatro Goldoni<br />
20, 22, 23 ottobre, ore 20.30<br />
21, 24 ottobre, ore 16.30<br />
Padova – Teatro Verdi<br />
2-6 novembre, ore 20.45<br />
7 novembre, ore 16.00<br />
Immanuel Kant<br />
di Thomas Bernhard<br />
traduzione Umberto Gandini<br />
regia Alessandro Gassman<br />
scene Gianluca Amodio<br />
costumi Gianluca Falaschi<br />
personaggi e interpreti:<br />
Immanuel Kant Manrico Gammarota<br />
Milionaria Mauro Marino<br />
Signora Kant Paolo Fosso<br />
Ernst Ludwig Emanuele Maria Basso<br />
Ammiraglio Giacomo Rosselli<br />
Collezionista d’arte Nanni Candelari<br />
Cardinale Massimo Lello<br />
Primo cuoco, cantante Giulio Federico Janni<br />
Steward Marco Barone Lumaga<br />
Prete, venditore Matteo Fresch<br />
Cantante musicista, secondo cuoco, cameriere Davide Dolores<br />
Cantante musicista, terzo cuoco, cameriere Massimilano Mastroeni<br />
Portuale Paolo Bandiera<br />
Portuale Matteo Cicogna<br />
produzione Teatro Stabile del Veneto<br />
e Teatro Stabile delle Marche<br />
in coproduzione con Napoli Teatro Festival 2010<br />
da una recitazione<br />
di prim’ordine che<br />
dal trombonismo strabordante<br />
del protagonista di<br />
Manrico Gammarota, alle<br />
signore divertentissime<br />
e plausibili create da Mauro<br />
Marino e Paolo Fosso,<br />
a Emanuele Maria Basso<br />
in tenuta da falso schiavo,<br />
a tutti gli altri caratteristi,<br />
compiono il miracolo<br />
di dare una verità a questo<br />
assoluto sciocchezzaio, che<br />
del resto aveva trovato delle<br />
basi all’inizio della serata<br />
in una finzione pseudorealistica<br />
con l’arrivo di gruppi<br />
di finti spettatori carichi<br />
di bagagli per creare una<br />
atmosfera da nave in partenza,<br />
ovvero della falsa<br />
base su cui viene costruita<br />
questa commedia intesa<br />
a colpire la megalomania<br />
dell’uomo di genio, minacciato<br />
dalla cecità non solo<br />
fisica, e tra l’altro visto in<br />
altomare dove ogni sicurezza<br />
vacilla, per rimanere,<br />
come si addice a Bernhard,<br />
in uno stato di «perturbamento».<br />
Tra le onde predisposte<br />
in primo piano e sul<br />
fondo della scena di Gianluca<br />
Amodio, all’interno<br />
della quale un cieco e tanti<br />
sordi loquaci sviluppano<br />
la quotidianità volutamente<br />
malata del testo, denunciandone<br />
la vitalità anacronistica<br />
e una cecità inguaribile,<br />
mentre si alza la rabbia<br />
del filosofo e la regia ne<br />
accentua espressivamente<br />
il pessimismo: ci rivela<br />
infatti il vuoto della gabbia<br />
del sapere che avrebbe<br />
dovuto ospitare il pappagallo<br />
con funzione di<br />
memoria. E a quel che resta<br />
del finto filosofo fa pronunciare<br />
dei brani d’accusa<br />
scelti tra i molti scritti<br />
da Bernhard per denunciare<br />
il suo paese, a sigillo<br />
di una grande serata. ◼
Bernhard<br />
e il teatro<br />
di Eugenio Bernardi<br />
a<br />
vienna, dove da qualche tempo ai turisti che<br />
fanno il giro della città in carrozza i cocchieri indicano<br />
oltre ai monumenti più noti anche i caffè<br />
frequentati da Thomas Bernhard, si è conclusa a luglio<br />
una mostra dedicata a questo autore sempre più amato.<br />
La mostra, allestita nella prestigiosa sede dell’Öster-<br />
reichisches Theatermuseum per ben otto mesi (contemporaneamente<br />
a una mostra su Gustav Mahler nello stesso<br />
edificio), s’intitolava «Österreich selbst ist nichts als eine<br />
Bühne» (L’Austria stessa non è che un palcoscenico).<br />
Metteva in primo piano infatti il Bernhard autore di teatro,<br />
con un’ampia documentazione di scritti, foto e video.<br />
Il catalogo porta in copertina una famosa fotografia<br />
di Bernhard che nel novembre del 1988, negli ultimi<br />
mesi della sua vita, assiste da un palco alle prove di Heldenplatz<br />
(Piazza degli eroi), la commedia che fece grande<br />
scalpore e decretò il trionfo del suo autore. Anche il titolo<br />
dell'esposizione è una citazione da questa commedia<br />
celeberrima.<br />
I fatti che ne accompagnarono la stesura e la messinscena<br />
sono noti: il Burgtheater, o meglio il regista Claus<br />
Peymann che lo dirigeva e già aveva allestito quasi tutte<br />
le pièce di Bernhard realizzando degli spettacoli di<br />
straordinaria nitidezza, aveva chiesto a Bernhard un te-<br />
A destra: Thomas Bernhard (teos.fi).<br />
Sopra: Immanuel Kant, regia di Claus Peymann.<br />
Württembergische Staatstheater Stuttgart.<br />
Interpreti: Peter Sattmann e Traugott Buhre. Stoccarda 1978.<br />
prosa — 57<br />
sto da inserire nel programma del teatro previsto per il<br />
1988, l’anno in cui si ricordava, a cinquant’anni di distanza,<br />
l’Anschluss, ossia l’annessione dell’Austria al Terzo<br />
Reich. Il programma comprendeva vari testi scelti secondo<br />
un criterio abbastanza elastico e connessi all’avvenimento<br />
in modo per lo più indiretto, ossia attraverso il<br />
tema della memoria di un passato che continua a incombere<br />
sul presente. Non era difficile trovarne nella storia<br />
del teatro, dove l’argomento è presente fin dagli inizi. I<br />
drammi prescelti non affrontavano il tema di petto, vi alludevano:<br />
a Cesare Lievi, ad esempio, fu chiesto di allestire<br />
Spettri di Ibsen. Nel testo di Bernhard gli spettri venivano<br />
affrontati direttamente al punto da provocare il panico<br />
da parte delle autorità<br />
e dei giornali più<br />
conservatori. Quando<br />
uno di questi, il più<br />
diffuso, arrivò a conoscere<br />
e a pubblicare alcune<br />
battute estrapolate<br />
dal testo (che, come<br />
è tradizione nei teatri<br />
di lingua tedesca,<br />
non viene pubblicato<br />
prima dello spettacolo)<br />
la reazione fu enorme<br />
e spettacolare: il ministro<br />
degli esteri (Mock)<br />
ne chiese la cancellazione<br />
dal programma,<br />
il presidente (Waldheim)<br />
chiese l’intervento<br />
della censura, il<br />
capo del risorto partito<br />
di estrema destra (Haider)<br />
facendosi paladino<br />
dei «cittadini che pagano<br />
regolarmente le tasse»,<br />
denunciò l’abuso<br />
del principio della libertà<br />
dell’arte riferendosi<br />
a una pièce che fino a quel momento si conosceva<br />
solo per sentito dire. Un carro era pronto a rovesciare letame<br />
(l’Austria rurale è sempre alle porte) sulla suntuosa<br />
soglia del teatro. Iniziato lo spettacolo, un po’ alla volta<br />
il panico si calmò, gia la prima scena con le due inservienti<br />
che parlando del padrone suicida continuano a stirare<br />
camicie per poi ributtarle per aria e riprendere a stirarle,<br />
era una chiara allusione alla futilità delle chiacchiere<br />
e delle opinioni.<br />
Alla fine venne il trionfo, ovazioni come<br />
quelle che si sentono a Salisburgo e a Bayreuth,<br />
e per la prima volta l’autore, emaciato<br />
ma divertito, si presentò sul palcoscenico<br />
con il regista e gli attori, rispondendo<br />
agli applausi e stendendo la mano<br />
agli spettatori accalcati sotto la ribalta.<br />
Gli spettri tuttavia erano apparsi sulla<br />
scena, l’autore, a suo modo, li aveva<br />
evocati. Si parlava di un professore<br />
ebreo di nome Schuster che ritornato<br />
a Vienna dopo molti anni, disgustato<br />
di ritrovarvi l’antisemitismo<br />
di un tempo,<br />
prosa
prosa<br />
58 — prosa<br />
si suicida. A parlare di lui è il fratello Robert che si è amaramente<br />
rassegnato alla situazione, ma non manca di inveire<br />
contro l’Austria di oggi, un po’ come Bernhard stesso<br />
aveva inveito nei suoi interventi pubblici, soprattutto<br />
in occasione del conferimento di premi letterari statali<br />
(interventi che ora si possono leggere in italiano nel volumetto<br />
pubblicato recentemente da Adelphi e intitolato<br />
I miei premi). Heldenplatz (che è il nome della grande piazza<br />
davanti alla Hofburg dove Hitler aveva celebrato il suo<br />
trionfo a Vienna) non è la migliore commedia di Bern-<br />
hard: troppo lunghe le conversazioni del secondo atto,<br />
troppe ripetizioni, troppo breve l’unica parte femminile<br />
di rilievo, quella della moglie del sopravvissuto, mentre<br />
la parte (preponderante) di costui è troppo diluita e troppo<br />
poco compatta per essere ricostruibile al di fuori di<br />
un contesto viennese. In Italia il testo non è andato ancora<br />
in scena, in Francia, a leggere le recensioni, è stato am-<br />
piamente rimaneggiato. Incomprensibile poi, al di fuori<br />
del contesto austriaco-viennese, lo sfondo su cui si svolge<br />
il secondo atto, ossia la sagoma del Burgtheater, il luogo<br />
quindi in cui lo spettacolo avviene e nello stesso tempo<br />
la cassa di risonanza, per così dire, in cui anche questo<br />
testo di Bernhard si iscrive. Il finale, quando la moglie<br />
del loquacissimo protagonista china improvvisamente la<br />
testa sul tavolo e muore, è stato acutamente interpretato<br />
non solo come una mortale conseguenza delle urla della<br />
folla del ‘38, ma anche come un tragico segnale della insopportabilità<br />
di discussioni e recriminazioni verso un<br />
passato che non passa. Era un finale di grande o anche di<br />
eccessivo effetto, in cui le urla che la donna sente da anni<br />
nella sua mente turbata venivano fatte risuonare anche<br />
in sala, con un espediente a cui Bernhard ricorre solo<br />
in questo caso e che si può paragonare al sorprendente<br />
finale di Auslöschung (Estinzione) dove il protagonista,<br />
una volta liberatosi da un passato di orrori, dona alla comunità<br />
israelitica di Vienna l’immensa proprietà di cui è<br />
l’unico erede. Nella radicalità delle provocazioni<br />
di Bernhard infatti, oltre a una focalizzazione sempre<br />
più precisa dei motivi dei suoi clamorosi modi provocatori<br />
e quindi dello sfondo sociale e politico che li determina<br />
(si leggano a questo proposito i cinque volumi della<br />
sua autobiografia), c’è sempre anche l’ impulso al riscatto,<br />
alla liberazione, alla «cancellazione» (che è un altro modo<br />
di tradurre Auslöschung). Un elemento questo che lo distingue<br />
da Beckett o da Cioran a cui Bernhard è stato più<br />
volte frettolosamente accostato.<br />
Con ciò non si vuol dire che egli voglia sfuggire all’incontro<br />
con gli spettri del passato, anzi proprio dalla prospettiva<br />
di questa commedia si intende chiaramente come<br />
questo autore, nella lunga parabola della sua opera,<br />
ben disegnata fin dall’inizio e prevista, in modo stupefacente,<br />
non abbia fatto che incalzare sempre più da vicino<br />
l’evento che ha determinato il destino dell’Austria<br />
moderna, ossia la fine<br />
della Prima Repubblica<br />
e l’annessione al<br />
Reich, per tanti anni<br />
interpretata come un<br />
atto di violenza, ma in<br />
realtà preparata e auspicata<br />
dal governo e<br />
dall’assoluta maggioranza<br />
della popolazione.<br />
Far risuonare quelle<br />
urla di giubilo per<br />
l’entrata trionfale di<br />
Hitler a Vienna voleva<br />
dire rievocare in modo<br />
clamoroso e spettacolare<br />
quell’evento<br />
ma soprattutto l’atteggiamento<br />
politico connesso,<br />
che aveva continuato<br />
per molti anni a<br />
respingere l’idea di una<br />
complicità dell’Austria<br />
facendone ufficialmente<br />
una vittima del<br />
nazionalsocialismo.<br />
A questa questione<br />
Bernhard si avvicina<br />
con una strategia molto particolare, non ricorrendo<br />
a strumenti di denuncia politica (come era avvenuto in<br />
Germania, dai tempi di Peter Weiss in poi), ma evocando<br />
figure e situazioni che appartengono alla grande tradizione<br />
viennese della svolta del secolo. Anche le storie<br />
più scarne (nel teatro) o più contorte (nei racconti) avvengono,<br />
a partire da Gelo ( racconto) e dall’Ignorante e il folle<br />
(commedia) avendo per sfondo e per contrasto un mondo<br />
di bellezza e intelligenza inesorabilmente perduto, di<br />
cui il testo moderno porta il ricordo sfigurato: la follia<br />
di un pittore che cerca se stesso in un paese di montagna<br />
che è la smentita dell’idillio (il racconto), la sofferenza<br />
di un soprano costretta al ruolo impervio della mozartiana<br />
Regina della notte e sempre più tentata di mandare<br />
all’aria lo spettacolo, mostrare la lingua al pubblico e sparire<br />
(la commedia).<br />
Heldenplatz, regia di Claus Peymann. Burgtheater Wien.<br />
Theatertreffen, Berlino 1989.
L’arte dunque, la musica, la letteratura, il teatro,<br />
ma anche le grandi costruzioni dello spirito, scienza<br />
e filosofia, presentate, nella prospettiva non tanto della<br />
modernità, quanto di una tradizione tradita, di una deviazione<br />
perversa che non può non sfociare nella follia.<br />
I racconti di Bernhard sono popolati di personaggi folli<br />
o prossimi alla follia, i quali, folgorati da un’improvvisa<br />
intuizione, abbandonano ogni cosa per dedicarsi ad un<br />
lavoro scientifico-filosofico con cui credono di definire il<br />
mondo e se stessi come avevano fatto i grandi di un tempo.<br />
Sono dei megalomani,<br />
degli egocentrici,<br />
capaci di tiranneggiare<br />
chi gli sta d’attorno, soprattutto<br />
le donne, ridotte<br />
a schiave, a cavie<br />
di astrusi esperimenti e<br />
di perverse cerimonie,<br />
a prigioniere di fratelli<br />
da manicomio. Per la<br />
loro smisuratezza e radicalità<br />
è chiaro che le<br />
imprese intellettuali di<br />
questi individui sono<br />
destinate al fallimento<br />
conducendo chi le<br />
persegue al limite della<br />
follia, là dove la formulazione<br />
del progetto,<br />
la sua «logica» e il<br />
linguaggio che la vuole<br />
comunicare s’inceppa,<br />
si contorce, sforza<br />
la sintassi all’estremo,<br />
con effetti di vertigine<br />
per chi li persegue ma<br />
anche per chi vi partecipa<br />
da lettore. I personaggi<br />
di Bernhard tuttavia<br />
non raggiungono<br />
il balbettio e l’insensatezza,<br />
tendono piuttosto<br />
(fin dal primo racconto<br />
e dalla prima<br />
commedia) a scandagliare<br />
i percorsi del cervello,<br />
a sezionarlo come<br />
si propone esplicitamente<br />
di fare un dottore<br />
nella prima pièce ma anche un filosofo che in una<br />
commedia di qualche anno dopo si propone di migliorare<br />
il mondo.<br />
Il linguaggio del teatro non conosce le vertigini della<br />
prosa, ma l’intento di mostrare cosa avvenga nelle pieghe<br />
della mente delle persone «perturbate» rimane: nel testo<br />
le battute degli attori sono formulate in singole frasi staccate,<br />
senza punteggiatura, sono per così dire sospese, e<br />
con i continui salti del discorso, le ripetizioni, le immagini<br />
ossessive, le improvvise illuminazioni inducono chi<br />
ascolta a intendere quanto labile sia ogni discorso, quan-<br />
Der Ignorant und der Wahnsinnige, regia di Claus Peymann.<br />
Interpreti: Bruno Ganz, Angela Schmid, Margret Hohmeyer, Ulrich<br />
Wildgruber. Salisburgo 1972.<br />
prosa — 59<br />
to poco dicano le parole di quello che uno è. Quella che<br />
potrebbe sembrare una chiacchiera a ruota libera o anche<br />
un’infilata di battute (anche farsesche, come in Immanuel<br />
Kant, per esempio) può celare dei pensieri che hanno<br />
a che fare con la situazione dell’uomo nell’era di una civiltà<br />
al tramonto. In questo senso Claus Peymann ha potuto<br />
definire il ciclo delle commedie di Bernhard (diciotto<br />
commedie più dieci dramoletti, alcuni in dialetto) un<br />
«Totentanz» della civiltà borghese.<br />
Grandi ruoli per grandi attori, «attori intelligenti» come<br />
li voleva Bernhard,<br />
capaci di rimanere<br />
in equilibrio tra<br />
battuta e battuta, tra<br />
saggezze e sproloqui,<br />
tra pensieri filosofici<br />
e banalità. Individuifarneticanti<br />
che non tendono a<br />
diventare personaggi<br />
a tutto tondo o casi<br />
psicologici, ma rimangonoimprevedibili<br />
nelle loro reazioni,<br />
egocentrici consapevoli<br />
della insensatezza<br />
delle proprie<br />
manie, sempre tentati<br />
tuttavia da ambizioni<br />
di genialità, da utopie<br />
fallimentari. Bernhard<br />
non denuncia<br />
nessuno, non si distacca<br />
cioè dai suoi<br />
personaggi, né come<br />
commediografo né<br />
come prosatore, nella<br />
consapevolezza di<br />
essere lui stesso radicale<br />
e commediante,<br />
veritiero ed esagerato<br />
nello stesso tempo.<br />
Il teatro di Bernhard,<br />
affidato fin<br />
dal primo momento<br />
a grandi registi e a<br />
grandi attori, ha educato<br />
una generazione<br />
di interpreti e ha creato<br />
un’epoca straordinaria di spettacoli. Il catalogo della<br />
mostra raccoglie opinioni di critici teatrali e dichiarazioni<br />
di celebri attori bernhardiani. Sono soprattutto quest’ultime<br />
(di Bernhard Minetti, Marianne Hoppe, Gert Voss,<br />
Traugott Buhre, Martin Schwab, Ulrich Matthes) a far intendere,<br />
anche a chi non ha potuto seguire tutta la parabola<br />
creativa di Bernhard, quanto essa abbia inciso sulla<br />
civiltà teatrale con una serie di testi in cui anche la figura<br />
più inerme e ridicola porta in sé il ricordo di una grande<br />
tradizione. ◼<br />
Le immagini degli spettacoli sono tratte da: Thomas Bernhard,<br />
Teatro IV (L’ignorante e il folle, Immanuel Kant, Prima della<br />
pensione), Ubulibri, Milano 1999.<br />
prosa
prosa<br />
60 — prosa<br />
Un estratto da<br />
«Immanuel Kant»<br />
Immanuel Kant<br />
di Thomas Bernhard<br />
Personaggi<br />
Kant<br />
Signora Kant<br />
Ernst Ludwig<br />
Federico, un pappagallo<br />
Milionaria<br />
Capitano<br />
Ammiraglio<br />
Cardinale<br />
Collezionista d’arte<br />
Steward<br />
Vicesteward<br />
Cuoco<br />
Ufficiali di bordo<br />
Marinai<br />
Passeggeri<br />
Medici<br />
Infermieri<br />
Musicisti<br />
kant (allo Steward) È la prima volta<br />
come sa<br />
che andiamo in America<br />
Non ho mai sentito il bisogno<br />
di andare in America<br />
Andare in America<br />
è perverso<br />
In fondo io viaggio solo<br />
per far piacere a mia moglie<br />
È tutta la vita<br />
che lo desidera<br />
Ora che la Columbia University<br />
ti ha conferito la laurea honoris causa<br />
devi andare in America<br />
mi ha detto<br />
e io ho acconsentito senza esitare<br />
Si figuri<br />
Ho acconsentito senza esitare<br />
Non volevo portare nulla con me<br />
se non la mia mente e Federico<br />
ed Ernst Ludwig naturalmente<br />
e invece ora abbiamo una quantità di bagagli<br />
Le donne viaggiano sempre con valigie enormi<br />
Mancanza di gusto naturalmente<br />
Per quel che personalmente mi riguarda<br />
mi basta<br />
cambiarmi d’abito<br />
ogni due giorni<br />
Tutto ciò che non è<br />
non è<br />
e tutto ciò che è<br />
è<br />
Il principio dell’identità<br />
capisce<br />
da: Thomas Bernhard, Teatro IV (L’ignorante<br />
e il folle, Immanuel Kant, Prima della pensione),<br />
Ubulibri, Milano 1999, pp. 109-110.<br />
Il teatro<br />
di Thomas Bernhard<br />
è pubblicato<br />
nella collana dei Testi Ubulibri.
TVTB ovvero:<br />
sulla scrittura di<br />
Thomas Bernhard<br />
di Vitaliano Trevisan<br />
dunque si può fare anche così! Via le descrizioni,<br />
via i dialoghi, ma soprattutto: via il cosiddetto<br />
«discorso diretto» che, come si sente dire fin<br />
troppo spesso, fissando sulla pagina l’altrettanto cosid-<br />
detto «parlato», dovrebbe garantire un maggior effetto<br />
di realtà, ma spesso, per non dire sempre, non fa che abbassare<br />
la lingua e, per quanto mi riguarda, intralcia la<br />
lettura, specie ad alta voce; e in più, altra conseguenza<br />
per me molto irritante, frammenta la pagina anche a livello<br />
visivo. Insomma: via tutto ciò che è strano. Un’eco<br />
di Beckett che, parlando di Bernhard, non deve stupire:<br />
i due, per le ragioni di cui sopra, ma non solo, sono molto<br />
più vicini di quanto si pensi. Esiste solo il monologo.<br />
Ancora Beckett. Potrebbe essere Bernhard. Certo essi risolvono<br />
la questione in modo molto diverso – un io sovraccarico,<br />
ipertrofico nel caso di Bernhard; un io alleggerito,<br />
diafano fino alla trasparenza, in quello di Beckett<br />
–, ma in fondo il problema è lo stesso, ovvero: preso atto<br />
che l’avvento della fotografia ha fatto fuori la terza persona,<br />
come far passare tutto, cioè come far passare il mondo,<br />
attraverso la prima? E ancora: in un presente dominato,<br />
e ormai anche domato, dall’immagine fotografica,<br />
fissa o in movimento, esiste ancora la possibilità di una<br />
scrittura che non si riduca, nel migliore dei casi, a semplice<br />
arte della didascalia? Ovvero, e per cercare di essere<br />
il più chiari: è ancora possibile scrivere «per immagini»,<br />
facendo però in modo che esse immagini scaturiscano<br />
direttamente dalle parole, anziché precederle? Non<br />
In alto: Thomas Bernhard nel settembre 1988<br />
(foto di Erika Schmied – passauer-thomas-bernhard-freunde.de).<br />
Samuel Beckett (foto di Jane Brown – joeoreilly.co.uk).<br />
prosa — 61<br />
è certo un caso se dai loro testi «narrativi» – a parte, per<br />
quanto riguarda Bernhard, il film tratto dal racconto incompiuto<br />
L’italiano, cui ha partecipato, anche come attore,<br />
lo stesso autore – nessuno si sia mai sognato di trarre<br />
un film. E due volte non casuale il fatto che quegli stessi<br />
testi, così intrinsecamente e, chi scrive ne è convinto,<br />
scientemente anti-cinematografici, non oppongano alcuna<br />
resistenza, prestandosi anzi «naturalmente» – trattando<br />
di Bernhard è bene mettere tra virgolette il termine «naturalmente»;<br />
anche quando in corsivo – all’adattamento/<br />
riduzione teatrale. In fondo, si tratta di parole che cercano<br />
una voce, scritte ad alta voce, per così dire. E, ancora<br />
una volta, due volte è così nel caso si tratti di testi teatrali,<br />
cioè scritti espressamente per il teatro. «Naturalmente»,<br />
specie nel caso Bernhard, scritti per uomini<br />
e donne di teatro che credano ancora<br />
nella possibilità di un testo. Teatro di parola!<br />
Ecco un’espressione che ricorre spesso<br />
in casi come questo. E sempre a vanvera. A<br />
ben guardare non significa nulla. Una delle<br />
tante definizioni fatte apposta per inquinare<br />
il discorso. Non è di questo che si tratta,<br />
quanto piuttosto di accettare la drammaturgia<br />
intrinseca del testo in quanto composizione<br />
di parole, e aprirsi perciò a esso<br />
in senso musicale. Nessuna necessità di farci<br />
qualcosa di interessante, ovvero: nessuna<br />
possibilità, a priori, per il cosiddetto «teatro<br />
di regia». Come abbiamo detto, si tratta<br />
di una scrittura che cerca la voce, cioè cerca<br />
l’attore, e, «naturalmente», l’ascoltatore.<br />
In definitiva, parafrasando lo stesso Bernhard,<br />
una scrittura che, per farsi teatro, ha<br />
bisogno, purtroppo o per fortuna, almeno<br />
di un attore e almeno di uno spettatore.<br />
Molto ancora resterebbe da scrivere. Ad<br />
esempio sul fatto che il teatro, ma direi la scrittura di Bernhard<br />
nella sua totalità, è sempre una scrittura intrinsecamente<br />
comica, nel senso che il comico scaturisce non solo,<br />
e non necessariamente, dalla situazione, ma direttamente<br />
nel farsi della frase, a partire cioè dalla sua costruzione<br />
grammaticale, dal fondamento stesso della scrittura<br />
in quanto sistema di regole e convenzioni che, per chi la<br />
intende come pratica artistica, va messo costantemente,<br />
ostinatamente alla prova. Un atteggiamento<br />
possibile solo a patto<br />
di avere fede, cioè credere,<br />
a dispetto del mondo,<br />
che fare letteratura,<br />
sulla pagina<br />
come sulla<br />
scena, abbia<br />
ancora un senso.«Naturalmente»,<br />
al punto<br />
in cui siamo,<br />
una fede del tutto<br />
priva di speranza.<br />
Ed ecco il<br />
tragico.<br />
E nello stesso<br />
punto, nell’esatto<br />
momento, ecco il<br />
comico. ◼<br />
prosa
prosa<br />
62 — prosa<br />
Renato Palazzi<br />
nell’inedita veste<br />
d’interprete<br />
Il critico recita per gli amici<br />
«Goethe schiatta» di Bernhard<br />
a cura di Leonardo Mello<br />
renato Palazzi è uno dei critici teatrali italiani più importanti<br />
e stimati. Per una volta però ha deciso di passare<br />
dall’altra parte della barricata, divenendo interprete – soltanto<br />
per gli amici e in spettacoli «casalinghi» per pochi spettatori –<br />
di un testo narrativo di Thomas Bernhard, Goethe schtirbt, il<br />
cui titolo è volutamente storpiato dall’autore rispetto alla grafia corretta<br />
«Goethe stirbt» (che significa «Goethe muore»), ed è stato perciò<br />
tradotto con Goethe schiatta. Ci facciamo raccontare come è<br />
nata questa inconsueta esperienza.<br />
Tutto è cominciato dal fatto che – un po’ scherzando<br />
un po’ no – da tempo sono convinto di essere un personaggio<br />
di Thomas Bernhard, nel senso che mi ci riconosco<br />
molto, nel bene e soprattutto nel male. La prima volta<br />
che ho visto Il riformatore del mondo mi sono proprio detto:<br />
«Quello sono io tra qualche anno». Di conseguenza ogni<br />
tanto mi ripetevo quanto mi sarebbe piaciuto recitare un<br />
testo di questo grande autore austriaco. E dato che la mia<br />
casa di campagna è vicina a quella di Flavio Ambrosini –<br />
che da qualche anno ha lasciato il teatro ma ha fatto il regista<br />
per una vita – abbiamo iniziato a discuterne e alla<br />
fine abbiamo deciso di provarci. Per qualche tempo abbiamo<br />
letto vari testi, ma a me non sembrava il caso di affrontare<br />
pièce impegnative mettendomi a confronto con<br />
dei veri attori. E alla fine ho trovato questa specie di racconto,<br />
Goethe schiatta, che parla della morte di Goethe e<br />
del suo ultimo desiderio di incontrare Wittgenstein, suo<br />
successore e figlio filosofico. Mi ha subito colpito e divertito,<br />
perché nonostante non sia un testo scritto per la scena<br />
è però pieno di teatralità, di voci diverse, di caratterizzazioni,<br />
ha un andamento farsesco dichiarato e molto accentuato<br />
che poi alla fine converge verso un finale piuttosto<br />
disperato. L’ho trovato straordinario, oltre che assai<br />
poco conosciuto e quindi interessante anche in questo<br />
senso. Così ci siamo messi a lavorare, e devo confessare<br />
che all’inizio ero un pezzo di legno e mi chiedevo<br />
come il povero Ambrosini avrebbe potuto pilotarmi<br />
verso un qualche traguardo. Per tantissimo<br />
tempo ho continuato a pensare che se al posto<br />
mio ci fosse stato un attore professionista ne sarebbe<br />
nato qualcosa di meraviglioso.<br />
A un certo punto però ho smesso di<br />
fare questo tipo di considerazioni,<br />
perché ho cominciato a identificarmi<br />
nel testo. Ambrosini<br />
è stato molto bravo nel do-<br />
sare pazienza e fermezza, senza intervenire brutalmente,<br />
anzi lasciandomi abbastanza fare e allo<br />
stesso tempo correggendomi sempre più, finché abbiamo<br />
trovato insieme il giusto tono. Quindi ho deciso di allestire<br />
questo piccolo lavoro per gli amici e qualche addetto<br />
ai lavori. Non mi sembra il caso di proporlo a un pubblico<br />
indiscriminato, ma invece secondo me può essere<br />
divertente se presentato a persone che conoscono il teatro.<br />
Penso che Bernhard sia adatto all’operazione, non<br />
solo per il mio riconoscimento personale nelle sue parole,<br />
ma anche perché gioca sempre sul rapporto tra realtà<br />
e finzione, tra finti personaggi che hanno nomi di veri<br />
attori e cose di questo genere. Ecco dunque che vedere<br />
un vero critico che diventa un finto Goethe o un finto<br />
critico che diventa un vero attore secondo me può creare<br />
una giusta componente di ambiguità all’interno della<br />
quale uno spettatore può trarre qualcosa. O meglio in<br />
realtà me lo auguro, perché è la prima volta che non vedo<br />
uno spettacolo da fuori. A me piacerebbe creare imbarazzo<br />
o disagio in chi mi guarda, desidererei che non riuscisse<br />
bene a collocarmi. Poi non so se colgo nel segno o<br />
l’imbarazzo è solo mio...<br />
L’elemento più interessante di questa operazione per me<br />
sta proprio in questo aspetto di estraneità, nel non sapere<br />
bene chi è la persona che ti sta di fronte, dove situarla<br />
e perché sta facendo tutto ciò. Vorrei che fosse un misto<br />
tra un gioco e una provocazione intellettuale, non del<br />
tutto gioco e non del tutto provocazione: se si riesce a trovare<br />
questo tono ambiguo e mediano il tutto può assumere<br />
un senso. Ed effettivamente mi accorgo che quando<br />
ne parlo tutti restano colpiti, anche i colleghi. Probabilmente<br />
il fatto che uno come me, che non è un attore,<br />
dopo quarant’anni di militanza si cimenti in un’avventura<br />
del genere può avere un significato, magari appunto<br />
provocatorio. Ma voglio sottolineare che io non sono<br />
e non sarò mai un attore e anzi guai se tentassi di diventarlo.<br />
Chi assisteva alle prove spesso mi consigliava di<br />
asciugare, ripulire: ma dare l’impressione che non si stia<br />
recitando richiede proprio un talento interpretativo che<br />
io non ho. È la cosa più difficile. Comunque devo ammettere<br />
che quarant’anni di critica mi sono serviti, perché<br />
– senza volermi mettere al livello di un attore – un<br />
pochino ho visto come si fa e un po’ di orecchio e di occhio<br />
me li sono fatti... Mi piacerebbe portare<br />
Goethe schiatta anche a casa di qualche<br />
attore, chiedendogli poi di recensirmi,<br />
per arrivare al ribaltamento totale. ◼<br />
Renato Palazzi.
Al via il nuovo<br />
«Festival del Teatro<br />
Contemporaneo<br />
Veneto»<br />
ideata daLL’associazione produttori professiona-<br />
Li Teatrali Veneti (PPTV), la nuova rassegna «Sguardi<br />
– Festival del Teatro Contemporaneo Veneto» ha<br />
come obiettivo quello di creare un’occasione di confronto<br />
sulla realtà teatrale locale, in costante movimento e<br />
continua crescita, e allo stesso tempo istituire un momento<br />
di visibilità nel panorama nazionale dedicato a ciò<br />
che viene prodotto in Veneto. La rassegna – che andrà<br />
dal 16 al 18 settembre – si snoderà in cinque diverse sedi<br />
padovane – Teatro Verdi, Teatro alle Maddalene, Teatro<br />
Studio, Cinema Teatro MPX e Cinema Lux – e ospiterà<br />
le più recenti produzioni delle formazioni teatrali regionali,<br />
tra cui – per citare soltanto alcuni tra i diciotto<br />
appuntamenti – Rivelazione di Anagoor (cfr. VMeD n. p.<br />
70), Pop Star di Babilonia Teatri (cfr. VMeD n. 35, p. 69),<br />
Annibale non l’ha mai fatto di Tam Teatromusica e Galileo di<br />
Tib Teatro (cfr p. 68).<br />
Tre i lavori degli artisti emergenti selezionati – su sessantasei<br />
domande di partecipazione – da un comitato<br />
artistico costituito da Massimo Munaro, Daniela Nicosia,<br />
Pierantonio Rizzato e Maria Cinzia Zanellato e<br />
presieduto da Andrea Porcheddu (cfr. l’articolo a fianco):<br />
Sogno Creativo del performer Juri Roverato, Veneti<br />
Fair di Marta dalla Via, critica al provincialismo in dialetto<br />
vicentino, e Insorta Distesa, spettacolo concettuale<br />
e astratto di Silvia Costa per Plumes dans la tête.<br />
Previsti poi due debutti: lo spettacolo Amleto del Teatro<br />
del Lemming e l’anteprima del nuovo lavoro di Vitaliano<br />
Trevisan La Bancarotta, o sia il mercante fallito.<br />
Da segnalare infine il carattere itinerante della manifestazione,<br />
che partendo da Padova e con cadenza annuale<br />
raggiungerà le città capoluogo di provincia: a ogni nuova<br />
edizione una compagnia associata alla PPTV si farà<br />
carico dell’organizzazione della kermesse, che occuperà<br />
più spazi della stessa città, con eventi spettacolari<br />
e dibattiti che si alterneranno dalla mattina alla sera. ◼<br />
Juri Roverato (foto di Riccardo Ghinelli).<br />
di Leonardo Mello<br />
«Sguardi #0»:<br />
numero zero,<br />
anno zero<br />
prosa — 63<br />
di Andrea Porcheddu<br />
inizia così, forse un po’ in sordina ma con determinazione,<br />
una nuova avventura.<br />
L’obiettivo è chiaro: fare il punto – tutto teatrale,<br />
si intende – in una realtà in costante movimento, in flagrante<br />
crescita. Sembra proprio, infatti, che il teatro sia<br />
una risposta concreta, un anticorpo attivo alle derive<br />
più superficiali e diffuse che considerano il Veneto terra<br />
di capannoni industriali e di ottusi capitalisti.<br />
«Sguardi» si affianca al lavoro egregio svolto da tempo<br />
da realtà consolidate, da teatri e festival (Bassano,<br />
Fondamenta Nuove, Aurora di Marghera per citarne<br />
alcuni) che operano costantemente per la crescita e la<br />
diffusione di una cultura, non solo teatrale, che pensa a<br />
un presente vivibile e a un futuro possibile. Nasce dalla<br />
proposta di un consorzio di produttori teatrali: e volentieri<br />
ho accettato l’invito di coordinare il comitato artistico<br />
che aveva il compito di «selezionare» tra le tante<br />
domande pervenute.<br />
Compito non facile: avremmo voluto avere molti più<br />
spazi a disposizione nel palinsesto del numero<br />
Zero di questa manifestazione. Ma siamo certi<br />
che il numero Uno, che si ipotizza ad aprile<br />
in una città-simbolo come <strong>Venezia</strong>, avrà altrettante<br />
(e forse più) domande e potrà presentare<br />
nuove e diverse proposte. Per questa edizione<br />
di «Sguardi #0» abbiamo cercato – d’accordo<br />
con Cinzia Zanellato, Daniela Nicosia, Pierantonio<br />
Rizzato, Massimo Munaro, e con la preziosa<br />
assistenza di Susanna Piccin – di fornire<br />
una prospettiva ampia, sfaccettata per codici e<br />
stili. Quel che ne emerge è un panorama variegato,<br />
vivacissimo, con punte eccellenti. Le poetiche<br />
– come è giusto che sia – sono le più diverse:<br />
da un teatro di impianto e canone tradizionale,<br />
a tensioni più estreme e performative,<br />
passando per suggestioni di teatro-danza o di nuove<br />
drammaturgie.<br />
Per quel che riguarda la selezione, «Sguardi #0» è<br />
dunque una vetrina, una ipotesi, una proposta possibile.<br />
Abbiamo preferito lasciar crescere e maturare –<br />
dando loro appuntamento alla edizione 2011 – alcune<br />
giovani realtà sicuramente interessanti e promettenti.<br />
Poi abbiamo cercato di dar spazio a strutture e artisti<br />
che da tempo operano nel territorio, ma che non giovano<br />
ancora di visibilità nazionale e internazionale.<br />
Nella vastità della proposta (degna di un festival nazionale<br />
di medie dimensioni) non tutto è condivisibile,<br />
non tutto è capolavoro. La commissione ha discusso a<br />
lungo, sono entrati in gioco elementi di valutazione diversi,<br />
criteri non solo artistici. Ma il risultato finale, nel<br />
suo complesso, mi sembra davvero soddisfacente.<br />
Attendiamo, dunque, operatori, studiosi, critici e spettatori<br />
e li invitiamo a un confronto e a una riflessione.<br />
«Sguardi» è una full immersion nel teatro del Veneto,<br />
in questi anni dieci del nuovo secolo: per provare a capire<br />
assieme cosa sta succedendo in questa regione. ◼<br />
prosa
prosa<br />
64 — prosa<br />
Alcune considerazioni<br />
sull’estate teatrale<br />
di Renato Palazzi<br />
La stagione dei festivaL ha riservato quest’anno,<br />
a mio avviso, alcuni momenti particolarmente interessanti,<br />
e ha offerto diversi spunti di riflessione<br />
che vorrei qui tentare brevemente di inquadrare. Non<br />
ho seguito direttamente tutte le manifestazioni previste<br />
dal vasto calendario estivo, e non ho visto personalmente<br />
tutti gli spettacoli che sarebbe stato necessario prendere<br />
in considerazione per arrivare a un’opinione più defi-<br />
nita: preferisco quindi, in questo caso, limitarmi<br />
a esporre una serie di considerazioni<br />
sparse, senza pretendere di farle rientrare<br />
in un discorso organico e in<br />
qualche modo esaustivo.<br />
1) I festival stanno sempre più diventando<br />
i luoghi della creazione<br />
contemporanea. È qui che nascono<br />
le nuove produzioni, è qui che<br />
si confrontano i nuovi linguaggi,<br />
è qui che trovano immediato<br />
approdo i nuovi gruppi ancora in<br />
cerca di occasioni per far conoscere<br />
il proprio lavoro. I teatri, soprattutto<br />
quelli istituzionali, si stanno ormai<br />
trasformando nei passivi terminali<br />
di qualcosa che avviene altrove. Nella migliore<br />
delle ipotesi vanno a rimorchio, nella<br />
peggiore sono fermi, completamente tagliati fuori.<br />
2) Si sta sempre più scavando la distanza fra i festivalvetrina,<br />
dove si va per assistere a dei prodotti finiti, e i festival<br />
che si seguono per ricavarne delle idee: a Spoleto<br />
può capitare di vedere un bellissimo spettacolo di Bob<br />
Wilson, a Napoli si può restare colpiti dalla crescita complessiva<br />
di una macchina organizzativa creata per gestire<br />
una quarantina di eventi in meno di un mese: ma i veri<br />
laboratori del teatro che cambia – quelli da cui si torna<br />
sempre con la sensazione di avere scoperto qualcosa,<br />
quelli concepiti per aprire inediti orizzonti, per suggerire<br />
da che parte stanno andando le esperienze più avanzate –<br />
sono sempre gli stessi degli ultimi anni: passato in secondo<br />
piano, almeno per ora, Castiglioncello, c’è Santarcan-<br />
gelo, Dro, Castrovillari, Bassano.<br />
3) Anche in quei festival dove accanto a un programma<br />
«ufficiale» si sviluppa un settore «off», un Fringe, come<br />
a Napoli, non a caso le cose più interessanti le fa vedere<br />
quest’ultimo. Le grandi produzioni, le coproduzioni<br />
internazionali risultano molto spesso dei gusci vuoti:<br />
colpiscono di più, in questa fase della vita del teatro, delle<br />
piccole proposte fatte con nulla, ma mettendoci idee controcorrente<br />
e invenzioni spiazzanti. Non è un problema<br />
di singole messinscene, ma di spostamento complessivo<br />
del gusto e delle aspettative, specialmente da parte di un<br />
certo tipo di spettatori più attenti e informati.<br />
4) L’appuntamento-clou dell’estate è stato, quest’anno,<br />
Santarcangelo, col suo programma «a tesi», interamente<br />
costruito intorno ai temi della trasformazione dei rap-<br />
porti tra scena e platea, tra realtà e finzione: è<br />
proprio attraverso questa capacità di sviluppare<br />
un disegno unitario, in grado<br />
di indirizzare le ricerche più diverse<br />
verso una sorta di obiettivo comune,<br />
che un festival prende senso,<br />
anche al di là della qualità dei vari<br />
titoli presentati. In questa chiave<br />
il direttore artistico di turno, Enrico<br />
Casagrande, ha dimostrato<br />
grande lucidità e intelligenza nel<br />
trascinare il pubblico all’interno<br />
di un percorso frastagliato ma coerente,<br />
tale da coinvolgerlo e al tempo<br />
stesso da fornirgli continui e non banali<br />
interrogativi sui ruoli di chi assiste e<br />
di chi agisce e sull’evoluzione del concetto<br />
stesso di rappresentazione.<br />
Dirò di più: Casagrande ha rivelato un talento progettuale<br />
insolito in un regista legato alle sorti del proprio<br />
gruppo, che indurrebbe a considerarlo pronto – come<br />
d’altronde altri artisti della stessa generazione «anni Novanta»<br />
– a guidare qualche teatro di rilevanza nazionale.<br />
5) Pur costretti a spezzettare il proprio cammino in<br />
una miriade di «studi» e di costruzioni a tappe, i gruppi<br />
dell’ultima, impetuosa ondata di questo primo decennio<br />
del Duemila non accennano a declinare: i Babilonia<br />
Teatri appaiono sempre più sulla cresta dell’onda, il Te-<br />
Dal Festival di Santarcangelo: in alto, Roger Bernat, Dòmini Public<br />
(foto di Cristina Fontsaré);Alessandro Sciarroni, Lucky Star<br />
(foto di Leonardo Rinaldesi).
atro Sotterraneo è ormai una realtà consolidata, Anagoor<br />
ha fornito una piena conferma della maturità che già si<br />
era colta lo scorso anno: il suo Wish Me Luck, realizzato a<br />
Dro, è parso perfetto dal punto di vista compositivo, più<br />
complesso, più articolato di Tempesta, dalle cui atmosfere<br />
è partito. L’unico consiglio che darei a Simone Derai e<br />
compagni è di cercare di introdurre qualche elemento di<br />
attrito nel loro alto rigore formale, per sottrarsi alla tentazione<br />
del puro esercizio stilistico. A questi nomi affermati<br />
occorre aggiungere poi le sorprese di stagione, come<br />
Fagarazzi e Zuffellato o Alessandro Sciarroni.<br />
6) Complessivamente, l’impressione più forte che<br />
si ricava da quanto visto nelle scorse settimane<br />
è quella di un teatro che sta andando,<br />
in un modo o nell’altro, verso lo scavalcamento<br />
della figura dell’attore professionista.<br />
Non sarà una messa da<br />
parte assoluta, nel senso che ampi<br />
settori della scena continueranno<br />
ad appoggiarsi a una recitazione<br />
«tradizionale», non sarà una messa<br />
da parte definitiva, visto che<br />
si sta parlando di suggestioni del<br />
momento, chissà fino a che punto<br />
destinate a durare. Forse, anzi,<br />
questa progressiva utilizzazione di<br />
presenze anomale e inconsuete non<br />
farà che esaltare sempre più le doti tecniche<br />
di poche personalità dall’estro quasi<br />
virtuosistico.<br />
Sta di fatto, però, che alcuni degli spettacoli più importanti<br />
proposti ai festival erano praticamente realizzati<br />
senza attori. Nell’emozionante Dòmini Public del catalano<br />
Roger Bernat, ad esempio, al centro dell’azione era il<br />
pubblico stesso, guidato a spostarsi nella piazza di Santarcangelo<br />
in risposta alle domande poste da una suadente<br />
voce in cuffia. In Enimirc di Fagarazzi e Zuffellato – un<br />
intricato stratificarsi di linguaggi e punti di vista – a fare<br />
Dalla Centrale Fies di Dro invece arrivano Wish Me Luck di<br />
Anagoor, in alto, e Wunderkammern di Virgilio Sieni<br />
(entrambe immagini di Paolo Rapalino).<br />
prosa — 65<br />
lo spettacolo erano dieci spettatori, portati in palcoscenico,<br />
manovrati, messi in posa dai due registi, e ripresi in<br />
video perché il tutto fosse mostrato alla fine da un’altra<br />
prospettiva. E lo straordinario Wunderkammern di Virgilio<br />
Sieni consisteva di cinque brevi performance ambientate<br />
in altrettante case di Dro, i cui protagonisti erano i<br />
loro stessi abitanti, la famiglia tunisina, il ciabattino col<br />
gozzo, il baffuto proprietario di una Harley-Davidson, il<br />
vecchio maestro che leggeva Rousseau, l’anziana signora<br />
che danzava a piedi nudi fra le pagnotte appena sfornate.<br />
Sono figure ben diverse da quelle degli attori «sociali»<br />
imposti in questi anni da Pippo Delbono o da<br />
Armando Punzo, portatori di un disagio, di<br />
una sofferenza collettiva assurta a oggetto<br />
del «dramma» in sostituzione del dramma<br />
immaginato da un autore: qui non<br />
c’erano disagi o sofferenze collettive,<br />
solo persone inserite in quanto<br />
tali nella dimensione del teatro a<br />
sovvertirne i canoni rappresentativi,<br />
a suggerire una «verità», uno<br />
spessore di realtà che il teatro in<br />
sé ha probabilmente ormai perduto<br />
di vista.<br />
7) Questo ci porta all’ultimo argomento<br />
sollevato dalle suggestioni<br />
dell’estate: la ricerca teatrale sembra<br />
andare verso una diffusa esigenza<br />
di sostituire schegge di realtà, di esistenza<br />
quotidiana alla finzione, all’artificio: ma è<br />
una realtà solo apparentemente diretta e immediata, in<br />
effetti sempre ambigua, sottilmente manipolata, mediata<br />
da un format di domande precostituite, come nel caso<br />
di Bernat, o da un sommario ma ben visibile intervento<br />
dell’artista, che altera sottilmente l’aspetto dei luoghi<br />
e i gesti più banali degli interpreti, come nel caso di<br />
Sieni. Il teatro, nel suo bisogno di reinventarsi, si lascia<br />
penetrare dalla realtà, ma al tempo stesso la contamina,<br />
la trasforma in qualcosa d’altro che non è più né totalmente<br />
vero, né totalmente falso, un ibrido, una sfera<br />
sospesa e misteriosa della vita. Il che, probabilmente,<br />
ci darà materia di discussione per i prossimi mesi. ◼<br />
prosa
prosa<br />
66 — prosa<br />
All’Olimpico<br />
è di scena l’«Oreste»<br />
di Euripide<br />
Il Teatro Nazionale Greco<br />
apre il lxiii Ciclo<br />
di Spettacoli Classici<br />
di Leonardo Mello<br />
con iL suo intorno di sangue e<br />
orrore, la saga degli Atridi occupa<br />
un posto centrale nella letteratura<br />
drammatica del V secolo a. C.<br />
La fosca vicenda dell’assassinio<br />
di Agamennone per mano della<br />
moglie Clitennestra – che dà<br />
luogo al matricidio della stessa<br />
operato dal figlio Oreste insieme<br />
alla sorella Elettra, con tutte<br />
le terribili conseguenze che<br />
quest’atto reca con sé – è trattato<br />
da tutti e tre i grandi tragici,<br />
a cominciare da Eschilo, che le<br />
dedica un’intera trilogia, l’Orestea<br />
(suddivisa in Agamennone, Coefore<br />
ed Eumenidi e datata 458) per<br />
passare alla bellissima Elettra di<br />
Sofocle, di più di quarant’anni<br />
posteriore, e ai due drammi euripidei,<br />
un’altra Elettra, coeva alla<br />
sofoclea, e Oreste, la cui rappresentazione<br />
è attestata senza dubbio<br />
nel 408, poco prima che il<br />
poeta lasciasse Atene alla volta<br />
della Macedonia.<br />
Trattandosi dunque di uno degli<br />
ultimi testi composti dall’autore<br />
di Medea (che muore nel 406<br />
alla corte del re Archelao), l’Oreste possiede<br />
tutti gli elementi della tarda produzione<br />
euripidea: è una tragedia manieristica,<br />
tutta all’insegna di una ricercata<br />
e insistita spettacolarità, che si serve<br />
di ripetuti colpi di scena e lascia spesso<br />
ampio spazio alla musica. Forse anche per questa serie<br />
di motivi ebbe, durante l’antichità, una notevole fortuna<br />
teatrale, di cui generalmente non gode invece ai giorni<br />
nostri.<br />
La situazione di partenza riporta al momento in cui si<br />
chiudono le Coefore eschilee: nella città di Argo Oreste,<br />
ispirato da Apollo e con l’aiuto e la complicità di Elettra<br />
e del fraterno amico Pilade, ha ucciso la propria madre<br />
e giace preda di delirio e follia, tormentato dalla visione<br />
delle Erinni, dee primordiali e vendicatrici del sangue<br />
materno. Vegliato dalla sorella, il giovane eroe prostrato<br />
alterna momenti di veglia ad altri di angoscioso delirio.<br />
Da qui inizia una nutrita serie di incontri, difficilmen-<br />
Scene dall’Oreste secondo Yannis Houvardas.<br />
A ottobre Maria Paiato<br />
vestirà i panni<br />
dell’Erodiade testoriana<br />
Vicenza – Teatro Olimpico<br />
Oreste di Euripide<br />
24-26 settembre, ore 21.00<br />
Erodiade di Giovanni Testori<br />
14-16 ottobre, ore 21.00<br />
te riassumibili in poche righe, che vedono protagonisti<br />
Oreste, suo zio Menelao (accompagnato dalla consorte,<br />
quell’Elena sorella di Clitennestra e causa unica della<br />
guerra di Troia) e suo nonno Tindaro, padre a sua volta<br />
di Elena e Clitennestra. Dopo che l’assemblea di Argo<br />
ha decretato a votazione la pena di morte per i due fratelli,<br />
gli avvenimenti prendono un ritmo ancora più vorticoso,<br />
che – tra il tentato omicidio di Elena e il rapimento<br />
di sua figlia Ermione da parte di Oreste, Pilade ed Elettra<br />
– non potrà che essere risolto dall’intervento divino<br />
di Apollo, che magicamente appiana i conflitti e crea un<br />
nuovo ordine, facendo assurgere Elena al rango di dea e<br />
ordinando di celebrare le nozze di Oreste con Ermione e<br />
di Elettra con Pilade.<br />
Ma al di là della mera trama, dalla lettura<br />
emerge una scarsa caratterizzazione<br />
e coerenza dei personaggi (che acquistano<br />
però profondità se analizzati non individualmente<br />
ma nelle relazioni<br />
familiari, parentali e affettive<br />
che li uniscono, come suggerisce<br />
Anna Beltrametti nel magnifico<br />
volume Euripide, Le tragedie,<br />
Einaudi, Torino 2002) e<br />
soprattutto un’atmosfera di meschinità<br />
diffusa, in cui con ogni<br />
probabilità Euripide intenzionalmente<br />
ritraeva il clima malato<br />
nel quale versava la polis greca<br />
negli ultimi anni del suo secolo<br />
d’oro. Le descrizioni accurate<br />
e quasi caricaturali dei molti personaggi<br />
minori, le stesse diatribe<br />
dialettiche che contrappongono<br />
i protagonisti sembrano<br />
alludere a un mondo disordinato<br />
in cui tutti pensano al proprio<br />
tornaconto senza esitare a tradire<br />
gli amici e a passare con disinvoltura<br />
da uno schieramento<br />
all’altro. Un mondo che soltanto<br />
l’intervento divino può dall’alto<br />
della sua autorità rimettere a posto<br />
nel bizzarro happy end. E forse sono<br />
proprio questi elementi di stridente somiglianza<br />
con la realtà contemporanea<br />
che hanno spinto Yannis Hourvadas,<br />
direttore artistico del Teatro Nazionale<br />
Greco, ad allestire ora l’Oreste, che vedremo<br />
all’Olimpico di Vicenza in settembre in una versione<br />
in greco moderno e con un cast di venticinque attori.<br />
A seguire, in ottobre, sarà la volta del<br />
primo studio dell’Erodiade di Testori,<br />
diretta da Pierpaolo Sepe e interpretata<br />
da una grande attrice<br />
come Maria Paiato. ◼
A Vicenza<br />
una giornata per<br />
Heiner Müller di Leonardo Mello<br />
aLL’interno deL Lxiii cicLo di Spettacoli<br />
Classici dell’Olimpico di Vicenza c’è spazio<br />
anche per un grande contemporaneo<br />
come Heiner Müller (1929-1955), che del resto<br />
nel corso della sua carriera ha più volte incontrato<br />
gli antichi, riscrivendo in modo straordinario<br />
e assai personale capolavori come Filottete e Medea,<br />
per citare soltanto due esempi.<br />
All’autore tedesco il Teatro Stabile del Veneto – in collaborazione<br />
con il Comune di Vicenza – dedica una giornata<br />
di studio, ideata e coordinata da Franco Quadri, tra i<br />
massimi esperti della sua drammaturgia, la quale ha contribuito<br />
in molti modi a far conoscere in Italia. Il convegno,<br />
previsto per il prossimo 27 settembre, vanta un ragguardevole<br />
numero di invitati illustri, che si dividono tra<br />
studiosi dell’opera mülleriana e artisti che hanno incontrato<br />
nel proprio percorso (o intendono incontrare in futuro)<br />
i testi di questo scrittore geniale e anticonformista.<br />
Tra i primi – oltre allo stesso Quadri – si ricordano Peter<br />
Kammerer e Wolfgang Storch, che presenzieranno, qualche<br />
giorno prima, anche a un altro incontro incentrato<br />
su Müller a <strong>Venezia</strong>, nell’ambito della Biennale Musica di<br />
Luca Francesconi (cfr. p. 24).<br />
I registi che interverranno saranno invece Alessandro<br />
Gassman, direttore artistico dello Stabile veneto, Matthias<br />
Langhoff, Antonio Latella, Lorenzo Loris e Virginio<br />
Liberti (al cui Egumteatro si devono memorabili allestimenti<br />
di Quartett, 2002, e di Hamletmaschine, 2003).<br />
Sarà inoltre presente anche Christoph Rüter, autore di<br />
un prezioso documentario sulle prove di Hamletmaschine<br />
a Berlino durante la caduta del Muro, che verrà proiettato<br />
per l’occasione.<br />
Agli interventi si alterneranno momenti destinati<br />
all’ascolto, in cui saranno lette porzioni di testi mülleriani.<br />
Tra gli interpreti ci sarà Maria Paiato,<br />
che poco tempo dopo debutterà<br />
all’Olimpico con<br />
l’Erodiade di Giovanni<br />
Testori nella versione<br />
di Pierpaolo Sepe. ◼<br />
Vicenza<br />
Teatro Olimpico<br />
27 settembre<br />
dalle ore 10.00<br />
La giornata,<br />
coordinata da Franco Quadri,<br />
vedrà la partecipazione,<br />
tra gli altri,<br />
di Alessandro Gassman,<br />
Matthias Langhoff,<br />
Antonio Latella,<br />
Virginio Liberti<br />
e Maria Paiato<br />
Qualche frammento mülleriano<br />
prosa — 67<br />
Inondazione<br />
«Quando scrivo provo sempre l’esigenza di imporre contemporaneamente<br />
al pubblico fardelli così numerosi che non<br />
saprà più quale caricarsi per primo, e credo proprio che sia<br />
l’unica strada percorribile. Il problema sta tutto nel modo in<br />
cui viene realizzato a teatro. Non come si faceva al tempo di<br />
Brecht, presentando gli elementi uno dopo l’altro. Ora è necessario<br />
mettere in campo contemporaneamente tanto materiale,<br />
in modo che il pubblico si trovi obbligato a scegliere.<br />
Magari non è più in grado di farlo, ma in ogni ca-<br />
so deve decidere rapidamente cosa recepire subito...<br />
E non si può più dare un’informazione sottolineando<br />
al contempo “attenzione, qui c’è dell’altro”. Il meccanismo<br />
a mio parere funziona soltanto provocando<br />
un’inondazione».<br />
L’impulso alla distruzione<br />
«Il mio principale interesse nello scrivere per il teatro viene<br />
da un impulso alla distruzione. Per trent’anni Amleto ha costituito<br />
un’ossessione, e alla fine ho scritto un breve testo, Hamletmaschine,<br />
per tentare di distruggere Amleto. La storia tedesca<br />
è stata un’altra ossessione, e ho cercato di eliminare anche<br />
questa, l’intero complesso storico. Credo che il mio impulso<br />
più forte sia quello di ridurre le cose al loro scheletro, spogliarle<br />
della loro superficie, della carne. Dopodiché si è a posto».<br />
Complessità e semplicità<br />
«Il mio linguaggio viene stranamente considerato difficile,<br />
proprio per la sua semplicità, per la sua espressività diretta e<br />
precisa. Non si è più abituati ad ascoltare testi semplici; appena<br />
si offrono formulazioni precise il pubblico non capisce; nessuno<br />
crede che possa essere vero ciò che ascolta, perché è troppo<br />
semplice, deve esserci qualcosa dietro! È così che nasce il mito<br />
della difficoltà dei miei testi, dalla ostinata ricerca di significati<br />
reconditi, e il linguaggio si trasforma subito in un materiale<br />
ostico».<br />
La curva dell’orgasmo<br />
«Si può leggere il testo di Hamletmaschine come un dramma<br />
in cinque atti, con una struttura drammaturgica assolutamente<br />
classica. Ogni testo che abbia una forza teatrale non fa altro<br />
che descrivere la curva del grafico di un orgasmo, che è il modello<br />
base. Ogni persona, ogni autore ha una curva di orgasmo<br />
diversa. Ho letto la relazione di uno studioso, linguista e matematico,<br />
sicuramente un pazzo, nella quale si rappresentavano<br />
graficamente in oltre centoventi pagine le strutture drammaturgiche<br />
da Eschilo fino a Brecht, ricostruendovi le curve orgasmatiche.<br />
Era sorprendente. In Büchner – significativamente,<br />
considerata la sua morte precoce – la curva saliva in modo<br />
brusco e poi subito precipitava; in Brecht<br />
formava una curiosa struttura quadrango-<br />
lare; Shakespeare aveva invece la curva più<br />
intricata. Lo studio mi sembrava convincente,<br />
è quanto basta per afferrare la struttura<br />
delle commedie».<br />
I brani citati sono tratti da: Heiner Müller,<br />
Tutti gli errori. Interviste e conversazioni<br />
1974-1989, Ubulibri, Milano 1994, pp. 19,<br />
84, 88, 91.<br />
Heiner Müller (foto di Anita Schiffer-Fuchs – freelens.com).<br />
prosa
prosa<br />
68 — prosa<br />
Daniela Nicosia<br />
racconta<br />
l’uomo Galileo<br />
a cura di Leonardo Mello<br />
in settembre, all’interno del festival<br />
«Sguardi» (cfr. p. 63) sarà di scena Galileo,<br />
uno spettacolo di Daniela Nicosia,<br />
affermata regista e anima di Tib Teatro, una<br />
delle formazioni di punta del teatro di ricerca<br />
veneto. Le chiediamo di raccontarci questo lavoro,<br />
che ha debuttato a marzo durante le celebrazioni<br />
per l’anno galileiano promosse dall’ateneo<br />
patavino.<br />
Parlare di Galileo mi spinge prima di tutto a spiegare<br />
perché io faccio teatro. Ed è presto detto: lo<br />
faccio perché mi interessa l’umano, entrare in relazione<br />
con l’altro, sollecitare percezioni. Il teatro<br />
è per me un luogo elettivo delle emozioni. Nel caso<br />
di Galileo questo è particolarmente vero, perché<br />
ho inteso parlare dell’uomo più che dello scienziato,<br />
e l’ho fatto costruendo un accuratissimo lavoro<br />
di drammaturgia a partire dai materiali di prima<br />
mano che mi sono stati forniti dal Dipartimento<br />
di Astronomia dell’Università di Padova.<br />
Ma provenendo io dalla ricerca degli anni settanta<br />
e da un teatro d’immagine e gestuale, anche il testo<br />
che ne è scaturito non poteva che essere un punto<br />
d’approdo per i due interpreti. Le parole infatti,<br />
una volta consegnate agli attori, sono state digerite<br />
e nuovamente riversate attraverso il loro corpo<br />
e le energie che esso sprigiona. Così il costrutto<br />
testuale stesso ha acquisito un peso scenico significativo<br />
ed è diventato veicolo di emozioni al pari<br />
della scenografia, delle luci e di tutti gli altri elementi<br />
di cui si compone l’arte teatrale.<br />
Lo spettacolo è un percorso diacronico nella vicenda<br />
umana di quel grande intellettuale. Lo incontriamo<br />
quando è già vecchio, nel momento in<br />
cui riemergono ricordi, memorie e tutto ciò che è<br />
sommerso sotto la polvere del tempo. Di lui mi ha<br />
affascinato soprattutto l’amore per la vita, addirittura<br />
devastante, che ritroviamo anche nella sua<br />
abiura. Può forse risultare un vigliacco, ma chi di<br />
noi non tremerebbe di fronte agli strumenti di tortura<br />
che usava l’Inquisizione? La cosa che ritengo<br />
però importantissima è che questa sua rinuncia a<br />
se stesso, che lui compie nel momento dell’abiura,<br />
è una rinuncia soltanto apparente, è perdita e vittoria<br />
insieme. Perché rinnegando le sue scoperte<br />
riesce a continuare a vivere e a studiare. E poi c’è<br />
un altro aspetto, che nello spettacolo è molto evidente:<br />
il piacere quasi sensuale del pensiero. Il piacere di<br />
pensare. Nella sua inesausta ricerca della verità, lui rintraccia<br />
Dio nella materia, superando la scissione tra spirito<br />
e immanenza, che è un tema molto dibattuto ed estremamente<br />
attuale.<br />
Inoltrandomi nella tessitura della messinscena, ho scelto<br />
come dicevo di raccontare il lato umano di Galileo, e<br />
di raccontarlo attraverso la relazione con quattro donne<br />
Padova – Teatro Verdi<br />
17 settembre, ore 21.00<br />
Galileo<br />
testo, regia e scene Daniela Nicosia<br />
interpreti<br />
Solimano Pontarollo e Piera Ardessi<br />
produzione Tib Teatro<br />
determinanti nella sua vita. La prima è la madre, che segna<br />
pesantemente la sua infanzia (e l’intera sua esistenza),<br />
e di cui si occuperà sempre, pur vivendo un rapporto<br />
doloroso e minato dai frequenti accessi di follia di lei.<br />
Poi c’è la relazione più forte intellettualmente e umanamente,<br />
quella con la figlia Suor Maria Celeste, mandata<br />
dallo stesso scienziato in un convento di clausura<br />
dove muore giovane, a trentatré anni, poco tempo dopo<br />
il processo intentato al padre. Un’altra<br />
figura che compare nell’allestimento<br />
è la sua amante (dai documenti emerge<br />
l’idea di un Galileo godereccio, estimatore<br />
della buona cucina e del buon vino,<br />
oltre che delle belle donne). Ma di questa<br />
avvenente veneziana, Marina Gamba,<br />
si innamora perdutamente, tanto da<br />
restarle sempre legato, anche se non la<br />
sposerà mai pur dandole tre figli. È una<br />
grande passione amorosa, che però non si conclude né<br />
con un matrimonio né con una convivenza. Alla fine comunque<br />
Galileo cerca di mettere tutto a posto: a questa<br />
donna che è l’amore della sua vita trova perfino un marito.<br />
Infine la governante, una donna schietta e impervia<br />
che lo seguirà fedelmente fino alla fine dei suoi giorni. ◼<br />
Scene da Galileo di Daniela Nicosia.