Prof. Emilio Baccarini Alla ricerca del significante. Il sé e il suo futuro
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<strong>Prof</strong>. <strong>Em<strong>il</strong>io</strong> <strong>Baccarini</strong><br />
<strong>Alla</strong> <strong>ricerca</strong> <strong>del</strong> <strong>significante</strong>.<br />
<strong>Il</strong> sé e <strong>il</strong> <strong>suo</strong> <strong>futuro</strong><br />
(testo provvisorio)<br />
Premessa<br />
Io sono, questa è la constatazione elementare, l’asserto ontologico fondamentale che precede<br />
ogni domanda, da cui ciascuno di noi prende le mosse quando inizia a riflettere sulla propria esistenza.<br />
Chi sono? Perché sono? Da dove vengo e dove si dirige la mia esistenza? Qual è <strong>il</strong> significato <strong>del</strong>la<br />
mia vita? Sono alcune <strong>del</strong>le questioni ‘classiche’, che potremmo definire primarie che ci scuotono dal<br />
torpore <strong>del</strong>l’esistenza anonima e che manifestano l’interrogatività come caratteristica peculiare<br />
<strong>del</strong>l’umano. Solo l’uomo interroga e si interroga e questa capacità è essa stessa segno <strong>del</strong> limite e <strong>del</strong><br />
bisogno di trascendimento che struttura l’umano. L’essere umano consiste nel proiettarsi<br />
continuamente oltre e fuori di sé; l’interrogatività è la manifestazione <strong>del</strong>la sua finitezza e, al tempo<br />
stesso, <strong>del</strong>la perenne insoddisfazione che lo definisce. L’esercizio <strong>del</strong>la domanda esprime <strong>il</strong> bisogno<br />
ontologico <strong>del</strong>la chiarezza e <strong>del</strong>la presenza a sé che qualifica ogni essere umano, <strong>il</strong> bisogno di ‘essere<br />
desti’, per ut<strong>il</strong>izzare l’espressione di Edmund Husesrl. Naturalmente questa struttura non si esaurisce e<br />
non si chiude in una prospettiva esclusivamente teoretica, non vuole soltanto ‘sapere’ <strong>il</strong> <strong>suo</strong> essere, ne<br />
vuole anche gustare <strong>il</strong> ‘sapore’, è anche all’origine <strong>del</strong>la particolare prassi <strong>del</strong>l’umano nel mondo. La<br />
struttura inter-rogativa colloca l’essere umano in una posizione inter-media, in mezzo, tra una<br />
trascendenza che sfugge alla possib<strong>il</strong>ità <strong>del</strong>la ‘tenuta’ e un’immanenza, <strong>il</strong> mondo, che dall’uomo<br />
attende una donazione di senso che altrimenti non saprebbe darsi da sola. <strong>Il</strong> mondo ha bisogno<br />
<strong>del</strong>l’uomo per ‘esprimere’ <strong>il</strong> <strong>suo</strong> significato e l’uomo nel mondo trova l’orizzonte <strong>del</strong>l’esercizio<br />
possib<strong>il</strong>e <strong>del</strong>la sua umanità, <strong>del</strong>la sua medialità, <strong>del</strong>la sua capacità di operare mediazioni. In ultima<br />
istanza <strong>il</strong> sapere scientifico non è altro che <strong>il</strong> risultato di questa attività mediatrice che fornisce le<br />
coordinate capaci di organizzare <strong>il</strong> caos in un cosmos.<br />
Queste riflessioni iniziali costituiscono l’ottica fondamentale <strong>del</strong> mio approccio all’umano<br />
inteso come un significato <strong>significante</strong> alla <strong>ricerca</strong> <strong>del</strong> proprio <strong>significante</strong>. <strong>Il</strong> <strong>significante</strong> e non<br />
soltanto <strong>il</strong> significato che ciascuno cerca è la sfida che costituisce lo stesso evento <strong>del</strong>l’esistenza. Non<br />
possiamo vivere al buio, abbiamo bisogno di un senso che costituisce l’orientamento esistenziale, la<br />
posizione di fini da raggiungere. <strong>Il</strong> problema fondamentale <strong>del</strong>l’uomo è proprio quello <strong>del</strong> fine, di ciò<br />
che dà significato, <strong>il</strong> <strong>significante</strong> appunto che o ha la struttura <strong>del</strong>l’assoluto o si muta in assoluti<br />
molteplici che disperdono l’esistenza in <strong>il</strong>lusioni multiple. <strong>Il</strong> <strong>significante</strong>, per definizione, o è<br />
indicazione di senso e quindi compimento, proiezione in un ald<strong>il</strong>à irriducib<strong>il</strong>e all’orizzonte <strong>del</strong>la<br />
storia, altrimenti si muta in una variazione strumentale attraverso cui ognuno costruisce <strong>il</strong> proprio<br />
<strong>significante</strong> in un processo di relativizzazione attraverso cui ciascuno è telos a se stesso. La storia <strong>del</strong><br />
XX secolo, breve nella sua inimmaginab<strong>il</strong>e lunghezza, è la successione di ‘significanti’ totalizzanti<br />
più o meno fallimentari, le molte ideologie che lo hanno attraversato e che in qualche caso<br />
permangono ancora. Quella storia è alle nostre spalle, e se vogliamo guardare davanti, non possiamo<br />
non esercitare un sereno quanto urgente esercizio <strong>del</strong>la memoria. La nostra identità futura, ciò che<br />
vogliamo essere, l’altra umanità che vogliamo contribuire a costruire non può prescindere dalla<br />
memoria. La memoria è in molti casi la memoria <strong>del</strong> male, poiché <strong>il</strong> secolo che ci siamo da poco<br />
lasciato alle spalle ne è stato artefice spietato 1 <strong>Il</strong> terzo m<strong>il</strong>lennio potrebbe essere un’altra storia, la<br />
1<br />
La riflessione sul male costituisce certamente un capitolo decisivo per la ricostruzione <strong>del</strong> secolo XX.<br />
1
storia di un diverso paradigma <strong>del</strong>l’umano, sebbene le prime luci <strong>del</strong>l’alba <strong>del</strong> m<strong>il</strong>lennio non siano<br />
propriamente rassicuranti e promettenti.<br />
Vorrei proporre nella mia riflessione un percorso problematico che si faccia carico, senza<br />
pretesa di esaustività, dei molti interrogativi che ci ass<strong>il</strong>lano, <strong>del</strong>le contraddizioni, <strong>del</strong>le ansie e <strong>del</strong>le<br />
speranze. L’unica preoccupazione reale è cercare di reperire un senso che possa rendere significativo<br />
in maniera autenticamente efficace <strong>il</strong> cammino <strong>del</strong>l’uomo nella sua storia perché diventi una storia<br />
autenticamente umana. L’implicito di queste mie affermazioni è che l’umano costituisce una qualità<br />
ontologica che non ha ancora strutturato veramente la riflessione <strong>del</strong>l’uomo su di sé. Cosa significa<br />
pensare umanamente l'uomo? Pensare l’uomo in termini umani significa dare una qualificazione<br />
autoreferenziale a questo termine, che deve trovare in se stesso i criteri di conoscib<strong>il</strong>ità e di<br />
definib<strong>il</strong>ità; questo è <strong>il</strong> senso più autentico <strong>del</strong>l’espressione kat’auto riferita all’essenza <strong>del</strong>l’umano.<br />
L’autoreferenzialità a cui mi riferisco significa semplicemente che per pensare e definire l’umano non<br />
dobbiamo ricorrere a elementi estrinseci, perché <strong>il</strong> criterio di misura o è al di sopra di lui o, in quanto<br />
inferiore, lo sminuisce. L’umanesimo biblico e la prospettiva evangelica potrebbero avanzare la<br />
pretesa di essere paradigmi per pensare altrimenti l’uomo cioè pensarlo umanamente. Detto con<br />
estrema laconicità, nell’ottica biblica pensare umanamente l’uomo significa pensarlo divinamente.<br />
Questa è l’origine di una logica qualitativamente diversa. La logica <strong>del</strong>l’unicità e <strong>del</strong>la sua preziosità.<br />
E tuttavia, pensare ‘divinamente’ non significa rimandare a un immediato riferimento fondativo<br />
teologico, ma si pone come una qualificazione <strong>del</strong> pensiero. <strong>Il</strong> resto <strong>del</strong> mio percorso giustificherà<br />
questa affermazione.<br />
Per pensare <strong>il</strong> senso <strong>del</strong>l’identità umana ricorrerò ad alcune figure <strong>del</strong>la mitologia greca e al<br />
loro superamento nella provocazione biblica: Prometeo – Narciso - Abramo.<br />
L’uomo come vivente nel mondo: Prometeo<br />
Un primo approccio, un primo passo <strong>del</strong> nostro percorso, possiamo farlo considerando che<br />
l’essere umano nella immediatezza <strong>del</strong> <strong>suo</strong> darsi è un vivente spirituale che abita un mondo. Vivente<br />
spirituale vorrebbe essere una traduzione più adeguata <strong>del</strong>la definizione aristotelica <strong>del</strong>l’uomo come<br />
Zoon Logichon. Non siamo soltanto ‘animali ragionevoli’ siamo dei ‘viventi che hanno <strong>il</strong> logos’. Ciò<br />
che mi preme sottolineare è che se ci collochiamo di fronte all’uomo come vivente siamo sempre di<br />
fronte a un participio presente, a un dinamismo inafferrab<strong>il</strong>e e inarrestab<strong>il</strong>e, a un agente che in quanto<br />
attivo non può essere considerato nella sua oggettività di cosa. Se decidessimo di proseguire<br />
nell’analisi di questo dato ci accorgeremmo che <strong>il</strong> vivente in quanto tale sfugge alla riduzione, alla<br />
standardizzazione <strong>del</strong>l’oggetto. <strong>Il</strong> tema <strong>del</strong>la vita nella sensib<strong>il</strong>ità contemporanea ha assunto una<br />
r<strong>il</strong>evanza che non possiamo trattare qui. Essere un vivente significa al tempo stesso avere la vita e<br />
patire la vita. La vita ci sopraggiunge continuamente come qualcosa di assolutamente imprevisto, ci è<br />
data o ci accade, è un dono o è semplice frutto <strong>del</strong> caso, di una combinazione biochimica che si<br />
rinnova in sintesi ininterrotte. <strong>Il</strong> vivente è tale in quanto organismo corporeo 2 . Essere corpo, e non<br />
soltanto avere un corpo, è un guadagno importante <strong>del</strong>l’antropologia <strong>del</strong> XX secolo. E, tuttavia noi<br />
siamo organismi liberi, questo esprime la dimensione <strong>del</strong>lo spirito, ma la libertà dice intrinsecamente<br />
possib<strong>il</strong>ità di bene e di male. La libertà si manifesta attraverso quella soggettività agente che dicevamo<br />
e la prima capacità di esercizio <strong>del</strong>la libertà l’uomo la rivolge a stesso preoccupandosi di sé.<br />
Prendendo a prestito i termini greci abbiamo una duplice forma di ‘preoccupazione’: la cura <strong>del</strong> corpo<br />
(therapeia tou somatou) e <strong>il</strong> prendersi cura <strong>del</strong>l’anima (epimeleia thes psychès). Oggi forse<br />
l’attenzione è sb<strong>il</strong>anciata verso la prima. La cura <strong>del</strong> corpo è la <strong>ricerca</strong> di un ‘benessere’ che ispira una<br />
peculiare arte di vivere che andrebbe indagata per coglierne le valenze profonde (<strong>il</strong> moltiplicarsi dei<br />
centri benessere è un dato eloquente). Prendersi cura <strong>del</strong>la vita è anche <strong>il</strong> senso da cui nasce per<br />
esasperazione <strong>il</strong> grande dibattito sulla tecnicizzazione come gestione <strong>del</strong>la vita. Curare e prendersi<br />
cura non sempre intendono la stessa cosa e soprattutto non sempre perseguono lo stesso fine.<br />
2<br />
Si veda a questo proposito l’opera di H. Jonas, Organismo e libertà.<br />
2
L’esercizio tecnico in questo ambito è <strong>il</strong> processo prometeico che vedremo all’opera anche in altri<br />
contesti. Anche <strong>del</strong>la vita si può parlare diversamente ‘nell’epoca <strong>del</strong>la sua riproducib<strong>il</strong>ità tecnica’.<br />
Questo però sarebbe un argomento di grande suggestione certamente, ma anche di grande difficoltà<br />
perchè ci costringerebbe a ripensare i paradigmi fondativi <strong>del</strong>la cultura occidentale. Sono d’altronde<br />
questi i temi laceranti <strong>del</strong> dibattito bioetico.<br />
In quanto vivente spirituale, l’uomo non occupa semplicemente un luogo, bensì abita un<br />
mondo. <strong>Il</strong> mondo è certamente la casa <strong>del</strong>l’uomo, che esige <strong>il</strong> rispetto di una normatività rigorosa;<br />
l’economia è in prima istanza la capacità che l’uomo ha di gestire <strong>il</strong> <strong>suo</strong> mondo. Proviamo a far<br />
interagire brevemente questi termini e forse ci accorgeremo che uno dei drammi <strong>del</strong> mondo<br />
contemporaneo è legato proprio alla distorsione <strong>del</strong>l’economia, al travisamento <strong>del</strong>l’idea di mondo<br />
come casa e soprattutto come casa condivisa. La crisi economica <strong>del</strong> mondo è allora una crisi<br />
antropologica, l’economia veicola una distorta immagine di sé. Si può abitare <strong>il</strong> mondo secondo una<br />
logica <strong>del</strong>lo sfruttamento sregolato <strong>del</strong>le risorse, <strong>del</strong> profitto a ogni costo e come unico fine, oppure<br />
attraverso una gestione attenta <strong>del</strong>le risorse. La modernità ha prodotto un soggetto prometeico 3<br />
esasperato che ha trovato nella risoluzione tecnica <strong>del</strong>la scienza le possib<strong>il</strong>ità di trascendere se stesso, i<br />
propri limiti attraverso l’eliminazione, o almeno, la riduzione dei limiti stessi. La macchina ha reso<br />
insieme l’uomo antiquato, per usare l’espressione di G. Anders 4 , e presuntivamente onnipotente. La<br />
rivoluzione tecnica ha prodotto un’identità umana che ha smesso di abitare semplicemente <strong>il</strong> mondo,<br />
ma ha iniziato a trasformarlo secondo una logica strumentale che ha dimenticato <strong>il</strong> senso originario<br />
<strong>del</strong> mondo come dimora per l’uomo. La nostra identità tecnica si limita alla temporalità strumentale<br />
presente <strong>del</strong> funzionamento <strong>del</strong>l’oggetto o <strong>del</strong>la risorsa senza la capacità <strong>del</strong>la connessione in una<br />
continuità temporale qual è quella <strong>del</strong> succedersi <strong>del</strong>le generazioni. Questa assenza di prospettiva<br />
progettuale si traduce nella postmodernità, in un anarchico esercizio <strong>del</strong>la libertà che produce la<br />
società <strong>del</strong> rischio 5 . La soggettività prometeica, attraverso la tecnica ha mutato l’orizzonte di senso <strong>del</strong><br />
mondo e con questa mutazione noi oggi facciamo i conti. La globalizzazione, non è soltanto un dato<br />
socio-economico, come ha mostrato Bauman, comporta una mutazione <strong>del</strong>la visione antropologica<br />
che fa perdere <strong>il</strong> senso <strong>del</strong>l’identità e sollecita una ‘liquefazione’ <strong>del</strong>le coscienze.<br />
Nel 1979 Hans Jonas apriva la sua opera <strong>Il</strong> principio responsab<strong>il</strong>ità. Un’etica per la civ<strong>il</strong>tà<br />
tecnologica con queste parole: “<strong>Il</strong> Prometeo irresistib<strong>il</strong>mente scatenato, al quale la scienza conferisce<br />
forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante autorestrizioni<br />
impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo” 6 . Attraverso un’euristica<br />
<strong>del</strong>la paura, Jonas proponeva un nuovo imperativo categorico: “Agisci in modo che le conseguenze<br />
<strong>del</strong>la tua azione siano compatib<strong>il</strong>i con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra” (p. 18).<br />
<strong>Il</strong> nuovo imperativo proposto da Jonas, invita a riformulare, prima <strong>del</strong>l’etica, le leggi<br />
<strong>del</strong>l’economia e i controlli <strong>del</strong>la tecnica, ma soprattutto a pensare una diversa nozione di soggettività,<br />
consapevole di abitare <strong>il</strong> mondo con altri e che quindi è necessaria una ‘nuova narrazione <strong>del</strong> mondo’ 7<br />
in cui ci sia posto per la solidarietà come percezione <strong>del</strong> bene condiviso, sia per ciò che concerne le<br />
risorse, sia per i beni prodotti. La condivisione è una parola che trova poco spazio nell’economia, lo<br />
comincia a trovare oggi nell’economia di comunione, che tuttavia rimanda al primato <strong>del</strong> bene<br />
comune. Nozione anche questa da ritrovare in maniera più consapevole come possib<strong>il</strong>ità di<br />
riformulazione di un’identità ‘bisognosa degli altri’.<br />
L’uomo allo specchio: Narciso – Abramo<br />
3<br />
Un’interessante interpretazione <strong>del</strong> mito di Prometeo la leggiamo nel dialogo Protagora di Platone (320 C - 324 A)<br />
4<br />
L’opera si compone di due volumi che hanno rispettivamente i segg. Titoli: L'uomo è antiquato. Vol. 1: Considerazioni<br />
sull'anima nell'epoca <strong>del</strong>la seconda rivoluzione industriale; L'uomo è antiquato. Vol. 2: Sulla distruzione <strong>del</strong>la vita<br />
nell'epoca <strong>del</strong>la terza rivoluzione industriale. M<strong>il</strong>ano 2007<br />
5<br />
Rimando per queste questioni alle analisi, ormai classiche di U. Beck, La società <strong>del</strong> rischio. Verso una seconda<br />
modernità, Roma 2000. L’edizione tedesca risale al 19886/1999. Dello stesso autore si veda anche I rischi <strong>del</strong>la libertà.<br />
L’individuo nell’epoca <strong>del</strong>la globalizzazione, Bologna 2000.<br />
6<br />
<strong>Il</strong> principio responsab<strong>il</strong>ità, Torino 1990 p. XXVII.<br />
7<br />
Si veda <strong>il</strong> bel libro di R. Petrella, Una nuova narrazione <strong>del</strong> mondo, Bologna 2007<br />
3
Ho iniziato queste riflessioni con l’asserto Io sono in cui però l’affermazione <strong>del</strong>la prima<br />
persona non ha ancora <strong>il</strong> peso <strong>del</strong>la consapevolezza di sé. Perché questa consapevolezza divenga<br />
effettiva occorre duplicare <strong>il</strong> soggetto: io sono io. <strong>Il</strong> principio di identità ha <strong>il</strong> sapore<br />
<strong>del</strong>l’autoaffermazione che produce una sorta di staticità impenetrab<strong>il</strong>e e non ci si rende conto che la<br />
vera identità sorge dalla posizione <strong>del</strong>la differenza. Mi affermo come io perché prendo le distanze, mi<br />
differenzio, dal tu. L’identità non è originaria è preceduta dalla differenza.<br />
In questo secondo passaggio <strong>del</strong>la mia riflessione vorrei riflettere sul senso <strong>del</strong>l’essere-io e lo<br />
farò richiamando queste due figure. Narciso e Abramo, tra di loro assolutamente incommensurab<strong>il</strong>i e<br />
che tuttavia, a mio avviso, hanno strutturato in maniera diversa le modalità con cui l’Occidente ha<br />
pensato l’identità <strong>del</strong> soggetto. Per brevità potemmo dire che uno definisce l’identità statica, mentre<br />
l’altro esprime l’identità dinamica. La differenza tra le due non potrebbe essere più radicale e oggi<br />
rappresenta una sfida di portata epocale, come vedremo. Su Narciso e <strong>il</strong> narcisismo si è molto<br />
esercitata la psicologia, la psicoanalisi e la letteratura, forse meno l’antropologia f<strong>il</strong>osofica. A me<br />
sembra che quella di Narciso sia la malattia fondamentale <strong>del</strong>l’Occidente, addirittura l’alternativa più<br />
radicale alla proposta cristiana. Non è certamente <strong>il</strong> caso di commentare qui la narrazione che Ovidio<br />
fa nelle sue Metamorfori, ma ritengo che un commento f<strong>il</strong>osofico-antropologico sarebbe di grande<br />
ut<strong>il</strong>ità. Un dato che possiamo cogliere nel <strong>suo</strong> senso universale è che l’identità speculare riempie di sé<br />
<strong>il</strong> mondo. La lettura di qualche riga può essere di grande aiuto alla nostra riflessione:<br />
“Qui <strong>il</strong> ragazzo, spossato dalle fatiche <strong>del</strong>la caccia e dal caldo,<br />
venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza <strong>del</strong> posto e dalla fonte,<br />
ma, mentre cerca di calmare la sete, un'altra sete gli nasce:<br />
rapito nel porsi a bere dall'immagine che vede riflessa,<br />
s'innamora d'una chimera: corpo crede ciò che solo è ombra.<br />
Attonito fissa sé stesso e senza riuscire a staccarne gli occhi<br />
rimane impietrito come una statua scolpita in marmo di Paro.<br />
Disteso a terra, contempla quelle due stelle che sono i <strong>suo</strong>i occhi,<br />
i capelli degni di Bacco, degni persino di Apollo,<br />
e le guance lisce, <strong>il</strong> collo d'avorio, la bellezza<br />
<strong>del</strong>la bocca, <strong>il</strong> rosa soffuso sul niveo candore,<br />
e tutto quanto ammira è ciò che rende lui meraviglioso.<br />
Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e oggetto amato,<br />
mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde.<br />
Quante volte lancia inut<strong>il</strong>i baci alla finzione <strong>del</strong>la fonte!<br />
Quante volte immerge in acqua le braccia per gettarle<br />
intorno al collo che vede e che in acqua non si afferra!<br />
Ignora ciò che vede, ma quel che vede l'infiamma<br />
e proprio l'<strong>il</strong>lusione che l'inganna eccita i <strong>suo</strong>i occhi.<br />
Ingenuo, perché t'<strong>il</strong>ludi d'afferrare un'immagine che fugge?<br />
Ciò che brami non esiste; ciò che ami, se ti volti, lo perdi!<br />
Quella che scorgi non è che <strong>il</strong> fantasma di una figura riflessa:<br />
nulla ha di <strong>suo</strong>; con te venne e con te rimane;<br />
con te se ne andrebbe, se ad andartene tu riuscissi.”<br />
Narciso suggerisce l’identità statica incapace di attraversare <strong>il</strong> mondo <strong>del</strong>le differenze, neanche<br />
quella che un altro mi rimanda come mia eco, secondo <strong>il</strong> mito. Nella tradizione f<strong>il</strong>osofica e<br />
psicologica occidentale ciò si è tradotto nell’essere in sé e per sé, nella specularità, nell’identità<br />
soddisfatta e che non ha bisogno di null’altro per esistere; identità senza relazione, senza differenze,<br />
identità unica. Se proviamo ad applicare queste note a contesti più ampi, ma anche decisivi, quali<br />
l’identità personale, sociale, nazionale, culturale ci accorgiamo che la staticità e la soddisfazione che<br />
dicevo sono meno innocue o neutre di quanto a prima vista potrebbe sembrare, esiste un narcisismo<br />
culturale, sociale o nazionale che rifiuta ogni differenza. Questa identità senza relazione rischia di<br />
porsi come ripiegamento ster<strong>il</strong>izzante (nel senso <strong>del</strong>la fecondità e <strong>del</strong>l’igiene) che non vuole avere<br />
confronti e che affermandosi come l’unica libertà produce intorno a sé esclusivamente negazione e<br />
violenza. Ogni forma di violenza, infatti, può ridursi ad autoaffermazione, come l’esperienza tragica<br />
<strong>del</strong> Novecento ci ha insegnato.<br />
4
Abramo è in questa prospettiva esattamente l’opposto; la sua è l’espressione di un’identità<br />
dinamica che abita <strong>il</strong> mondo in maniera totalmente diversa. La storia di Abramo, come si sa, è<br />
raccontata nei capitoli 12-25 <strong>del</strong> libro biblico <strong>del</strong>la Genesi. Queste pagine di straordinaria intensità,<br />
ma anche complessità, sono state lette e interpretate nei modi più diversi nelle diverse epoche e<br />
orizzonti culturali. <strong>Il</strong> personaggio è complesso, non abbiamo notizie fondate sulla sua storicità e<br />
ciononostante è un personaggio ‘realissimo’, poiché a lui, come fondatore <strong>del</strong> monoteismo, si<br />
richiamano le religioni abramitiche 8 , ebraismo, cristianesimo e islam. Letteralmente, la figura di<br />
Abramo attraversa in maniera multipla tutta la tradizione f<strong>il</strong>osofica e religiosa, ma anche artistica e<br />
letteraria, occidentale.<br />
<strong>Il</strong> viaggio <strong>del</strong> patriarca inizia con un imperativo che è anche l’aspetto più r<strong>il</strong>evante,<br />
l’intenzionalità profonda <strong>del</strong> viaggio: «<strong>Il</strong> Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua<br />
patria e dalla casa di tuo padre verso <strong>il</strong> paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti<br />
benedirò, renderò grande <strong>il</strong> tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti<br />
benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie <strong>del</strong>la<br />
terra”. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato <strong>il</strong> Signore…» (Gn 12, 1-4). Questo inizio mette in<br />
questione la struttura stessa <strong>del</strong> viaggio. Non c’è una meta da raggiungere, almeno non è una meta che<br />
può essere considerata <strong>il</strong> riempimento <strong>del</strong>l’intenzione; non è previsto un ritorno, altra intenzione<br />
vuota. Tutto è orientato verso un <strong>futuro</strong> che si lascia alle spalle un passato che non potrà più essere<br />
recuperato, neppure con la memoria. Lo schema <strong>del</strong> tempo è messo in questione, come vedremo. Ciò<br />
che conta è <strong>il</strong> presente orientato esclusivamente al <strong>futuro</strong>. Questo è <strong>il</strong> carattere fondamentale<br />
<strong>del</strong>l’identità dinamica. Le tappe <strong>del</strong> viaggio di Abramo non hanno nulla di casuale, piuttosto ciascuna<br />
rappresenta un evento <strong>del</strong> tempo e <strong>del</strong>lo spazio. L’imprevedib<strong>il</strong>ità <strong>del</strong> <strong>futuro</strong> non può essere assunta da<br />
nessuno schema pre-dato, occorre soltanto attendere. Per questo mi sembra più opportuno cogliere <strong>il</strong><br />
senso di alcuni gesti di questo viaggio. Uno degli episodi più noti, ma anche più densi di significato è<br />
certamente quello <strong>del</strong>la Querce di Mamre («Poi Abram si spostò con le sue tende e andò a stab<strong>il</strong>irsi<br />
alle querce di Mamre che sono a Ebron e vi costruì un altare al Signore» Gn 13, 18). Qui si celebra<br />
l’ospitalità di Abramo, la capacità di vedere la differenza, farglisi incontro e accoglierla come dono<br />
(cfr Gn 18, 1 e sgg). Nel <strong>suo</strong> viaggio, nella sua condizione nomadica, l’accoglienza <strong>del</strong>l’estraneostraniero<br />
è esattamente corrispondente alla percezione di sé come straniero. In più luoghi questa<br />
convinzione viene ribadita in maniera esplicita. Dopo la distruzione di Sodoma «Abramo levò le tende<br />
di là, dirigendosi nel Negheb, e si stab<strong>il</strong>ì tra Kades e Sur; poi soggiornò come straniero a Gerar» (Gn<br />
20, 1). A Bersabea, è questo <strong>il</strong> luogo <strong>del</strong> sacrificio di Isacco, dopo aver stab<strong>il</strong>ito l’alleanza con<br />
Abimèlech, «Abramo piantò un tamerice a Bersabea, e lì invocò <strong>il</strong> nome <strong>del</strong> Signore, Dio<br />
<strong>del</strong>l’eternità. E fu forestiero per molto tempo nel paese dei F<strong>il</strong>istei» (Gn 21, 33-34). La separazione è<br />
totale, assoluta e irreversib<strong>il</strong>e. Quando si trovava tra i Cananei, Abramo manda <strong>il</strong> <strong>suo</strong> servitore, sotto<br />
giuramento, a cercare «nel mio paese, nella mia patria» una moglie per Isacco: «Gli disse <strong>il</strong> servo: “Se<br />
la donna non mi vuol seguire in questo paese, dovrò forse ricondurre tuo figlio al paese da cui tu sei<br />
uscito?”. Gli rispose Abramo: “Guardati dal ricondurre là mio figlio! <strong>Il</strong> Signore, Dio <strong>del</strong> cielo e Dio<br />
<strong>del</strong>la terra, che mi ha tolto dalla casa di mio padre e dal mio paese natio, che mi ha parlato e mi ha<br />
giurato: <strong>Alla</strong> tua discendenza darò questo paese, egli stesso manderà <strong>il</strong> <strong>suo</strong> angelo davanti a te, perché<br />
tu posa prendere di là una moglie per <strong>il</strong> mio figlio. Se la donna non vorrà seguirti, allora sarai libero<br />
dal giuramento a me fatto; ma non devi ricondurre là <strong>il</strong> mio figlio”» (Gn 24, 5-8). Dopo l’incontro con<br />
Rebecca, che sarà la sposa di Isacco, <strong>il</strong> servitore racconta la ‘consegna’ ricevuta da Abramo e<br />
aggiunge un passaggio che mi sembra la chiave di volta <strong>del</strong> viaggiare di Abramo. «Io dissi al mio<br />
padrone: “Forse la donna non mi seguirà”. Mi rispose: “<strong>Il</strong> Signore alla cui presenza io cammino,<br />
manderà con te <strong>il</strong> <strong>suo</strong> angelo e darà felice esito al tuo viaggio…”» (Gn 24, 39-40).<br />
Ho intenzionalmente sorvolato sull’episodio più tragico <strong>del</strong> viaggio di Abramo, quello su cui si<br />
è più esercitata la f<strong>il</strong>osofia, la teologia, la letteratura, l’arte, e cioè <strong>il</strong> sacrificio <strong>del</strong> figlio <strong>del</strong>la<br />
promessa Isacco di cui si parla al capitolo 22. La richiesta di Dio oltrepassa i limiti <strong>del</strong>la<br />
comprensione, ma anche in questo caso Abramo cammina alla presenza <strong>del</strong> <strong>suo</strong> Signore, si fida e<br />
questa fiducia, che è <strong>il</strong> senso più vero e profondo <strong>del</strong>la speranza, farà di lui <strong>il</strong> ‘cavaliere <strong>del</strong>la fede’,<br />
8<br />
Un suggestivo ‘resoconto’ <strong>del</strong>la figura di Abramo è <strong>il</strong> libro di A. Ségal, Abraham. Enquête sur un patriarche, Paris 1995.<br />
5
per riprendere Kierkegaard e <strong>il</strong> padre di una moltitudine di genti. Questa fiducia-speranza è <strong>il</strong> novum<br />
che fa <strong>del</strong> viaggio di Abramo un continuo evento, una continua risposta agli eventi che parlano e gli<br />
indicano la strada da percorre “verso la terra che io ti mostrerò”. Proviamo a questo punto a dare un<br />
senso all’‘altrove’ <strong>del</strong>la speranza. Qui infatti, non c’è sofferenza, bensì la continua, avvincente, a volte<br />
dolorosa certo, scoperta di una strada che si fa nel <strong>suo</strong> stesso essere percorsa. <strong>Il</strong> senso <strong>del</strong> viaggio è lo<br />
stesso viaggiare. Questa è la connotazione più radicale <strong>del</strong> nomadismo, di un’esistenza nomadica.<br />
L’altrove <strong>del</strong>la speranza, non è in realtà un altrove, non occupa nessuno spazio e nessun<br />
tempo. Non è posto da nessuna intenzione perché assolutamente ‘imprevedib<strong>il</strong>e’. Tenendo conto <strong>del</strong>lo<br />
statuto <strong>del</strong>l’anticipazione intenzionale che Husserl ha definito come ‘anticipazione memorativa’, qui è<br />
impedito lo stesso esercizio <strong>del</strong>l’intenzionalità. Non c’è anticipazione perché non c’è memoria, è puro<br />
<strong>futuro</strong>. Questo è l’evento nella sua espressione più radicale. Abramo abbandona la staticità residente e<br />
si mette in cammino fidandosi di un invito al <strong>futuro</strong>. <strong>Il</strong> tempo si tramuta nell’accadere <strong>del</strong> tempo, nella<br />
temporalizzazione <strong>del</strong>lo spazio che ora si abita e che soltanto in questo ora è significativo. Ma è un<br />
‘ora’ proiettato in avanti, si abita <strong>il</strong> <strong>futuro</strong>. <strong>Il</strong> qui è abitato in vista di un là e di un domani, questo mi<br />
sembra <strong>il</strong> senso più profondo di un’esistenza esodica, nomadica.<br />
La speranza struttura, quindi, una soggettività che non ritorna su se stessa, ma la cui identità<br />
forte consiste nell’ ‘uscire da sé’, nell’abbandonarsi 9 . <strong>Il</strong> ‘verso dove’ <strong>del</strong>la speranza descrive un luogo<br />
e un tempo che non mi appartengono e che, tuttavia, mi riguardano. <strong>Il</strong> tempo accade nella novità<br />
continua <strong>del</strong>l’evento e che definisce <strong>il</strong> tempo messianico 10 .<br />
Di fronte agli altri: l’identità come prossimità. <strong>Il</strong> Samaritano<br />
Nel contesto etico-antropologico <strong>il</strong> pensiero nomade manifesta tutta la sua carica di<br />
provocazione. La <strong>ricerca</strong> <strong>del</strong>la propria identità passa attraverso la differenza. Ciò vuol dire che <strong>il</strong> sé,<br />
come proprio sé, è fuori di sé, senza tuttavia essere alienato. <strong>Il</strong> pensiero nomade, cercando di<br />
riformulare i paradigmi, intende essere una risposta alla «convocazione etica» che mi proviene<br />
dall’altro. Questo percorso identitario si muta in un passaggio epocale: dall'ontologia all'etica; <strong>il</strong><br />
«bisogno ontologico» che costituisce ogni essere umano ha una duplice valenza: da un lato io sono un<br />
essere-di-bisogno, al tempo stesso però ogni altro, in quanto anch'egli essere-di-bisogno, mi chiede di<br />
uscire dal mio isolamento dolente per preoccuparmi <strong>del</strong> <strong>suo</strong> dolore. L'etica oltrepassa l'ontologia. Più<br />
radicalmente, la gratuità mette in questione la necessità <strong>del</strong>l'identico. <strong>Il</strong> bisogno ontologico è <strong>il</strong><br />
bisogno <strong>del</strong>l'altro nell'ambivalenza <strong>del</strong> genitivo. In questa nuova ottica vorrei mostrare come <strong>il</strong><br />
paradigma descritto dalla parabola evangelica <strong>del</strong> samaritano sia perfettamente leggib<strong>il</strong>e e ut<strong>il</strong>izzab<strong>il</strong>e<br />
per una visione etico-antropologica, una nuova identità.<br />
<strong>Il</strong> desiderio <strong>del</strong>la felicità è, secondo Aristotele, ciò che accomuna tutti gli uomini. Scopo<br />
<strong>del</strong>l'etica sarà quindi, come egli dice nell'Etica nicomachea, quello di raggiungere la felicità.<br />
All'eudaimoníá greca, la felicità come raggiungimento di uno stato di beatitudine, corrisponde nella<br />
visione ebraica e poi cristiana, <strong>il</strong> raggiungimento <strong>del</strong>la vita eterna, una vita in cui <strong>il</strong> tempo diviene<br />
pienezza di compimento, tempo senza tempo, tempo compiuto. La vita eterna desiderata e cercata<br />
coinciderà quindi con <strong>il</strong> senso ultimo e intimo <strong>del</strong> proprio essere, <strong>il</strong> compimento di sé.<br />
Questa breve premessa intende inquadrare le riflessioni di carattere antropologico ed etico che<br />
faremo a partire dal testo <strong>del</strong> Vangelo di Luca 10,25-37: la «parabola <strong>del</strong> buon samaritano». <strong>Il</strong><br />
preludio è una domanda: «Maestro che debbo fare per ereditare la vita eterna?». Vale la pena<br />
sottolineare la relazione dinamica che viene istituita nella vita quotidiana intesa come esercizio per<br />
raggiungere <strong>il</strong> proprio telos. L'ortoprassi, l'agire etico sono la via. Gesù, coerentemente alla sua fede<br />
ebraica, rimanda alla Torah: «cos'è scritto nella Legge?». In due passi paralleli (Mt 22,35 e Mc 12,28),<br />
9<br />
Su questo ‘uscire’ hanno scritto pagine di grande forza e provocazione Rosenzweig e Levinas.<br />
10<br />
Non si possono dimenticare le pagine di grande suggestione di Rosenzweig o di Benjamin, ma non si può neanche<br />
dimenticare che soltanto su questo fondamento è possib<strong>il</strong>e una f<strong>il</strong>osofia e una teologia <strong>del</strong>la storia. <strong>Il</strong> “verso dove ti<br />
mostrerò” <strong>del</strong>la promessa ad Abramo inaugura un percorso rivelativo che costituisce anche <strong>il</strong> ‘senso’ <strong>del</strong>la stessa storia. La<br />
strada che si percorre non è soggetta né a un destino cieco, né all’assurdità, ha un senso, si muove verso una direzione<br />
anche se questo senso è nello stesso camminare.<br />
6
Gesù alla domanda sul comandamento più grande rimanda sempre a Lv., 19,18. Nella Torah dunque è<br />
scritto: «Amerai <strong>il</strong> Signore Dio tuo con tutto <strong>il</strong> tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e<br />
con tutta la tua mente, e <strong>il</strong> prossimo tuo come te stesso». Nella conclusione di Gesù («Hai risposto<br />
bene, fa' questo e vivrai») è indicato <strong>il</strong> paradigma o, se si vuole, le coordinate per <strong>il</strong> compimento <strong>del</strong><br />
senso <strong>del</strong>l'esistenza. <strong>Il</strong> livello conoscitivo intellettuale non è sufficiente per raggiungere <strong>il</strong> proprio<br />
senso ultimo, occorre «fare». Possedere la propria vita è l'atto di una responsab<strong>il</strong>ità che «obbedisce» al<br />
comandamento. L'agire etico è quindi di fronte ai <strong>suo</strong>i elementi fontali auto-evidenti. <strong>Il</strong> primo in<br />
particolare: «Amerai <strong>il</strong> Signore Dio tuo» è l'assolutamente indiscutib<strong>il</strong>e soprattutto perché è memoria<br />
di una signoria di Dio, unica garanzia etica: «Io sono <strong>il</strong> Signore». Che si debba amare Dio è quindi<br />
fuori discussione, appartiene alla dimensione <strong>del</strong> riconoscimento <strong>del</strong>l'assoluto ontologico-metafisico<br />
che ci costituisce nell'essere e soprattutto, biblicamente, ci mantiene nell'essere. Ciò che invece non è<br />
altrettanto autoevidente è <strong>il</strong> perché, <strong>il</strong> come amare <strong>il</strong> proprio prossimo e, soprattutto, «chi è <strong>il</strong> mio<br />
prossimo?». La parabola intende rispondere a questo interrogativo radicale che, in forma narrativa<br />
certamente, ribalta i paradigmi etici tradizionali e introduce, anche figurativamente, l'elemento <strong>del</strong>la<br />
gratuità liturgica (in senso etimologico originale <strong>del</strong> termine) che si fa carico <strong>del</strong> malessere <strong>del</strong>l'altro<br />
attraverso la responsab<strong>il</strong>ità.<br />
Leggiamo ancora una volta <strong>il</strong> testo. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò<br />
nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso<br />
un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche<br />
un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio,<br />
passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi<br />
olio e vino; poi caricatolo sopra <strong>il</strong> <strong>suo</strong> giumento lo portò a una locanda e si prese cura di lui. <strong>Il</strong> giorno<br />
seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: "Abbi cura di lui e ciò che spenderai<br />
in più te lo rifonderò al mio ritorno". Chi di questi tre ti sembra sia stato (sia divenuto) <strong>il</strong> prossimo di<br />
colui che è incappato nei briganti? Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse:<br />
"Va' e fai lo stesso " » .<br />
L'elemento narrativo che immediatamente risalta agli occhi è la strada. Quattro uomini in<br />
cammino, ciascuno con un'avventura esistenziale diversa. Da un punto di vista antropologico, la strada<br />
è una metafora fin troppo abusata per descrivere <strong>il</strong> percorso esistenziale e ciò nonostante mi pare<br />
importante insistervi. Non si tratta soltanto di una figura <strong>del</strong>la vita; possiamo leggere nella metafora<br />
<strong>del</strong>la strada anche lo st<strong>il</strong>e nomadico <strong>del</strong>l'esistenza; un andare alla <strong>ricerca</strong> di un senso che si incrocia<br />
con altri percorsi al punto che si può pensare <strong>il</strong> senso <strong>del</strong>la propria vita come <strong>il</strong> risultato di queste<br />
intersezioni e <strong>del</strong>le risposte che in questi incontri vengono date. <strong>Il</strong> percorso esistenziale è sempre un<br />
camminare-con. A volte <strong>il</strong> «con» si trasforma e allora <strong>il</strong> senso <strong>del</strong> nostro percorso, orientato da un<br />
intrinseco progetto teleologico da perseguire, si concretizza in incroci che costringono a decidere,<br />
fermarsi o passare oltre. In queste due forme verbali è <strong>del</strong>ineata in nuce una fenomenologia<br />
<strong>del</strong>l'incontro nel <strong>suo</strong> aspetto positivo e in quello negativo, patologico, <strong>del</strong> rifiuto. Passare oltre è non<br />
voler incontrare.<br />
Sulla struttura narrativa <strong>del</strong>la strada si potrebbe parlare a lungo; dalla parabola ricaviamo<br />
almeno tre dati, tre tipi di incontri, di cui due mancati (quello con i briganti e quello con <strong>il</strong> sacerdote e<br />
<strong>il</strong> levita) e uno positivo, efficace (con <strong>il</strong> samaritano). L'uomo lasciato mezzo morto è ancora<br />
paradigmatico per un'altra lettura che, da un punto di vista antropologico è particolarmente r<strong>il</strong>evante:<br />
l'uomo che siamo e che abbiamo di fronte è sostanzialmente un essere di bisogno. Non possiamo qui<br />
insistere oltre su questo aspetto che permette di ridefinire l'antropologia e l'etica su nuove basi.<br />
Cerchiamo ora di leggere brevemente i comportamenti dei personaggi che diventano<br />
paradigmatici per la riflessione etica. <strong>Il</strong> sacerdote e <strong>il</strong> levita percorrono la stessa strada, vedono <strong>il</strong><br />
malcapitato, ma tirano dritto. La coscienza non è turbata, non si lascia mettere in questione, bisogna<br />
puntare diritti al proprio progetto senza distrazione. L'invocazione <strong>del</strong> bisogno <strong>del</strong>l'altro non può<br />
fermare <strong>il</strong> mio cammino che mira al perseguimento <strong>del</strong> proprio télos senza fratture. <strong>Il</strong> sacerdote e <strong>il</strong><br />
levita «scendevano anch'essi», quindi è molto probab<strong>il</strong>e che venissero dal servizio al Tempio dove è<br />
possib<strong>il</strong>e <strong>il</strong> «contatto», l'incontro con Dio. II «passare oltre» <strong>del</strong> sacerdote e <strong>del</strong> levita si fa ancora più<br />
drammatico se lo si colloca nello spazio memoriale <strong>del</strong>l'Esodo, dove si narra di un altro «passare<br />
7
oltre», quello <strong>del</strong>l'angelo sterminatore nella notte <strong>del</strong>la pasqua in Egitto. La memoria <strong>del</strong>la pasqua,<br />
memoria fondativa di sacralità e di libertà/liberazione, dovrebbe costituirsi come paradigma di<br />
benevolenza etica. Nella narrazione di Gesù sembra prefigurata la frattura tra comportamento morale<br />
ed esercizio religioso. Nell'insistenza con cui <strong>il</strong> testo fa notare che i due personaggi «vedono», ma non<br />
si fermano, si può ascoltare l'eco di Mt 25,31-46: «Signore quando mai ti abbiamo visto...?». II<br />
«vedere» a cui qui si fa allusione è la capacità di accogliere <strong>il</strong> bisognoso e prendersene cura. Vedere<br />
l'altro e nell'altro scorgere <strong>il</strong> comandamento etico che non si frappone a interruzione <strong>del</strong> mio<br />
cammino, ma si colloca quasi come pietra m<strong>il</strong>iare che segna <strong>il</strong> mio cammino. Dal percorso isolato alla<br />
strada che si incrocia continuamente con altri percorsi tra cui bisogna riconoscere e costruire <strong>il</strong><br />
proprio. Ciò significa che la meta non è già data da subito, è un percorso nomadico continuamente in<br />
cerca di un senso nella dialettica tra l'essere in sé e rimanervi e l'uscire da sé in uno smarrimento che<br />
non ha però <strong>il</strong> sapore amaro <strong>del</strong>la perdizione.<br />
Anche <strong>il</strong> samaritano vede, ma non passa oltre. Anch'egli è in viaggio (odeuón, iter faciens),<br />
forse per affari, ma ciò che è accaduto in quella strada lo riguarda; si ferma e compie alcuni gesti<br />
paradigmatici: gli si avvicina ed è mosso a compassione, se lo carica e si prende cura di lui e, infine,<br />
investe <strong>del</strong> proprio denaro in maniera totalmente gratuita. I1 primo gesto è segno <strong>del</strong>l'iniziativa<br />
personale, <strong>del</strong>l'interessamento, <strong>del</strong>la disponib<strong>il</strong>ità a lasciarsi interrompere e infine, <strong>del</strong>la generosità.<br />
Solo se ci sono questi caratteri personali è possib<strong>il</strong>e muoversi a compassione. Vale la pena notare che<br />
nel testo <strong>il</strong> verbo è espresso nella forma grammaticale passiva, ciò significa che la «compassione» è in<br />
qualche modo l'atteggiamento conseguente una provocazione che, a sua volta, suscita misericordia<br />
(éleos). La memoria <strong>del</strong> «discorso <strong>del</strong>la montagna» è automatica (Mt 5,7): «Beati i misericordiosi<br />
perché avranno misericordia». L'essere mosso a compassione significa riconoscere nell'altro qualcosa<br />
che me lo assim<strong>il</strong>a nella differenza (com'è suggerito dal termine greco), l'elemento accomunante di<br />
umanità che oltrepassa le distinzioni di razza, cultura, religione, o, meglio, le precede. Non si<br />
dimentichi che <strong>il</strong> samaritano è per gli Israeliti lo straniero eretico.<br />
Avere compassione non basta, bisogna farsi carico, caricarsi <strong>del</strong>le sofferenze <strong>del</strong>l'altro.<br />
Rispondere all'appello <strong>del</strong>l'altro significa sollevare l'altro (epibibázo) e portarlo sulle nostre spalle. In<br />
tal modo ci si prende cura l'uno <strong>del</strong>l'altro. L'epiméleia, la cura, è per <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo un termine carico di un<br />
peso semantico incredib<strong>il</strong>e. La epiméleia tes psyches, la cura <strong>del</strong>l'anima, è <strong>il</strong> messaggio platoniconeoplatonico<br />
fondamentale, trasmesso in eredità dal pensiero greco a quello europeo. Gesù qui indica<br />
invece la pista <strong>del</strong>l'uscire da sé per prendersi cura <strong>del</strong>l'altro che, si badi, è anche <strong>il</strong> recupero<br />
<strong>del</strong>l'ortoprassi giudaica, sempre attenta alla cura <strong>del</strong> povero, <strong>del</strong>la vedova e <strong>del</strong>l'orfano. L'aver cura va<br />
oltre l'immediatezza <strong>del</strong> bisogno presente, ma «investe per <strong>il</strong> <strong>futuro</strong>», per un tempo che può non essere<br />
<strong>il</strong> mio tempo e che quindi non posso ipotecare. <strong>Il</strong> tempo <strong>del</strong>l'altro che incontro come tempo <strong>del</strong><br />
bisogno, acquista per me <strong>il</strong> senso di una temporalità che convocandomi mi oltrepassa, e in questo<br />
superamento <strong>il</strong> tempo <strong>del</strong>l'altro si produce come <strong>il</strong> risultato di una gratuità liturgica. <strong>Il</strong> mio tempo è <strong>il</strong><br />
tempo che incontra l'altro come misura <strong>del</strong>la propria temporalità.<br />
Torniamo alla domanda finale di Gesù che sposta significativamente e in maniera decisiva<br />
quella <strong>del</strong> dottore <strong>del</strong>la legge. Gesù domanda: «Chi dei tre si è fatto, è divenuto(ghegonénai)<br />
prossimo?». II mutamento <strong>del</strong> verbo indica che la prossimità non è uno status tranqu<strong>il</strong>lo e<br />
acquisito,bensì piuttosto un continuo nascere alla prossimità. È prossimo colui che si fa prossimo e<br />
nel farsi prossimo si erediterà la vita eterna. <strong>Il</strong> Dio di misericordia lo si ama concretamente nell'essere<br />
misericordiosi. Dio-bontà vuole che si arrivi a Lui attraverso un'irrettitudine di percorso che è<br />
esercizio di bontà. Per questo si erediterà la vita eterna, per questo i due comandamenti sono sim<strong>il</strong>i. In<br />
una sorta di consequenzialità s<strong>il</strong>logistica, che ha tuttavia una cogenza etico-antropologica ben diversa<br />
- la consequenzialità tra farsi prossimo ed eredità - troviamo <strong>il</strong> senso profondo <strong>del</strong>la parabola letta con<br />
attenzione ai gesti narrativi che nascondono una struttura da creare, ma non in teoria, bensì ancora una<br />
volta nell'ortoprassi, nella correttezza etica che esige una riformulazione antropologica: «va' e anche<br />
tu fa' lo stesso».<br />
<strong>Il</strong> Samaritano esprime la logica <strong>del</strong>la prossimità come attesa <strong>del</strong>l’altro e come attenzione<br />
all’altro. Attesa e attenzione sono le categorie di un’identità che si definisce a partire dalla prossimità.<br />
Attendere e essere attento, la mia identità mi arriva da fuori di me. Rispondendo obbedisco.<br />
8
Cristo e <strong>il</strong> <strong>futuro</strong> <strong>del</strong>l’uomo.<br />
L’utopia <strong>del</strong>la croce: l’identità come sostituzione<br />
In quest’ultima parte ella nostra riflessione mi riferirò allo specifico cristiano che potrebbe<br />
divenire possib<strong>il</strong>ità di definire altrimenti l’identità umana e quindi nuovo paradigma.<br />
Paradossalmente, ma non credo possib<strong>il</strong>e un accesso diverso se non quello <strong>del</strong> paradosso, non ci si<br />
può accostare al kerygma evangelico se non nella sua dimensione di esperienza credente e quindi la<br />
riflessione f<strong>il</strong>osofica si eserciterà più sulle modalità e sul senso di quest’esperienza che non nella<br />
<strong>ricerca</strong> di una giustificazione razionale <strong>del</strong> messaggio stesso 11 . Logos tou staurou, la parola <strong>del</strong>la<br />
croce, quest’espressione di Paolo è di grande potenza, poiché ci conduce dentro una altra modalità <strong>del</strong><br />
pensiero e <strong>del</strong> dire che ha avuto un notevole impatto sulla f<strong>il</strong>osofia e che potremmo chiamarla con<br />
Hegel, l’‘immane potenza <strong>del</strong> negativo’. Una negatività però, che non produce <strong>il</strong> nulla e non si<br />
rovescia dialetticamente, bensì piuttosto opera l’oltrepassamento definitivo <strong>del</strong>la potenza <strong>del</strong> negativo<br />
e <strong>del</strong> male 12 . <strong>Il</strong> sacrificio <strong>del</strong>la croce si colloca al punto terminale in cui la parola <strong>del</strong>la croce acquista<br />
<strong>il</strong> <strong>suo</strong> senso ultimo, dove si manifesta un’altra modalità di dire l’umano e di vedere la ‘gloria di Dio’.<br />
<strong>Il</strong> messaggio <strong>del</strong>l’eu-angelos, <strong>del</strong> buon annuncio, si concentra sulla croce di Cristo. Per trovare <strong>il</strong><br />
senso peculiare <strong>del</strong> sacrificio <strong>del</strong>la croce vorrei richiamare ancora due testi paolini che hanno<br />
esercitato una grande suggestione sulla f<strong>il</strong>osofia e che qui possono introdurci in una diversa direzione<br />
di pensiero.<br />
Per l’avvio <strong>del</strong>le nostre riflessioni sul sacrificio è ut<strong>il</strong>e iniziare dal passo <strong>del</strong>la lettera agli Ebrei<br />
in cui l’autore 13 presenta la novità <strong>del</strong> sacrificio <strong>del</strong> Cristo. Facendo esplicito riferimento ai sacrifici al<br />
tempio e contrapponendogli <strong>il</strong> nuovo sacrificio l’Autore scrive:<br />
“Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non<br />
costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con <strong>il</strong><br />
proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna. Infatti, se <strong>il</strong><br />
sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano,<br />
purificandoli nella carne, quanto più <strong>il</strong> sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a<br />
Dio, purificherà la nostra coscienza dalla opere morte, per servire <strong>il</strong> Dio vivente?” (Ebr. 9, 11-14 corsivi miei).<br />
<strong>Il</strong> secondo testo, tratto dalla lettera ai F<strong>il</strong>ippesi e che probab<strong>il</strong>mente costituisce un inno cristologico<br />
precedente allo stesso Paolo, completa e fonda, dal punto di vista ontologico e teologico, quello <strong>del</strong>la<br />
lettera agli Ebrei.<br />
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, <strong>il</strong> quale, pur essendo di natura divina, non considerò<br />
un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso (eauton ekenosen, ipsum exinanivit) assumendo la<br />
11<br />
Nella prima lettera ai Corinzi (1, 18-25) troviamo quelle note e forti parole di Paolo che costituiscono <strong>il</strong> nucleo <strong>del</strong>la<br />
riflessione sull’esperienza cristiana, sulla sua logica paradossale: “La parola <strong>del</strong>la croce infatti è stoltezza per quelli che<br />
vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti:<br />
‘Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti’. Dov’è <strong>il</strong> sapiente? Dov’è <strong>il</strong> dotto ? Dove<br />
mai <strong>il</strong> sott<strong>il</strong>e ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché,<br />
infatti, nel disegno sapiente di Dio <strong>il</strong> mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i<br />
credenti con la stoltezza <strong>del</strong>la predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi<br />
predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei<br />
che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli<br />
uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”.<br />
12<br />
Su questa connessione si potrebbe aprire una lunga discussione e una <strong>ricerca</strong> che metterebbe al centro la possib<strong>il</strong>ità che<br />
la croce segna di vittoria definitiva sul male. Ha molto riflettuto in questa direzione Luigi Pareyson negli ultimi anni <strong>del</strong>la<br />
sua vita. Si veda di lui Ontologia <strong>del</strong>la libertà. <strong>Il</strong> male e la sofferenza, Torino 1995.<br />
13<br />
Com’è noto, la lettera agli Ebrei, pur mostrando una intrinseca ispirazione paolina, presenta differenze di st<strong>il</strong>e e di lingua<br />
che non consentono l’attribuzione diretta all’apostolo Paolo.<br />
9
condizione di servo e divenendo sim<strong>il</strong>e agli uomini; apparso in forma umana, um<strong>il</strong>iò se stesso facendosi obbediente<br />
fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato <strong>il</strong> nome che è al di sopra di ogni altro<br />
nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che<br />
Gesù Cristo è <strong>il</strong> Signore, a gloria di Dio Padre” (F<strong>il</strong>. 2, 5-11 corsivi miei).<br />
Questo è <strong>il</strong> testo <strong>del</strong>la kenosis di Dio che ha dato molto da pensare ai f<strong>il</strong>osofi soprattutto<br />
perché in essa si annuncia la morte di Dio 14 , ma che ha anche permesso di confrontarsi su una<br />
questione di r<strong>il</strong>evanza decisiva, la questione <strong>del</strong>l’onnipotenza. Come può un Dio che muore essere al<br />
tempo stesso considerato onnipotente? Proviamo a riflettere sui due testi per ricavarne <strong>del</strong>le<br />
suggestioni ut<strong>il</strong>i al nostro percorso.<br />
Svuotandosi 15 <strong>del</strong>la sua divinità offrì se stesso senza macchia a Dio, se collochiamo vicine le<br />
due espressioni dei due testi possiamo vedere con maggiore evidenza lo specifico <strong>del</strong> sacrificio <strong>del</strong>la<br />
croce. Nell’espressione è rivendicata l’innocenza <strong>del</strong>la vittima e quindi l’oltrepassamento immediato<br />
<strong>del</strong> meccanismo vittimario; ma viene anche rovesciata la prospettiva propria <strong>del</strong>la sacralità e quindi<br />
<strong>del</strong>la religione. Offrendo se stesso in sacrificio <strong>il</strong> Cristo chiude definitivamente <strong>il</strong> valore sacrale di<br />
ogni altro sacrificio e inaugura un diverso modo di rapportarsi a Dio. Dopo <strong>il</strong> sacrificio <strong>del</strong>la croce si<br />
trasforma anche <strong>il</strong> desiderio mimetico generatore di violenza e giustificazione <strong>del</strong> meccanismo<br />
vittimario. <strong>Il</strong> Dio che, entrando nella storia, si fa uomo, che diviene carne, che assume tutte le<br />
caratteristiche <strong>del</strong> limite, “meno <strong>il</strong> peccato”, che sceglie di morire in croce, pone se stesso come<br />
mo<strong>del</strong>lo di mimesis 16 . Si aprono qui spazi di riflessione di grande spessore teologico, ontologico,<br />
antropologico che potremmo sintetizzare nell’espressione con cui Gesù, come abbiamo visto sopra,<br />
conclude la narrazione <strong>del</strong>la parabola <strong>del</strong> Samaritano: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.<br />
Qual è <strong>il</strong> proprium <strong>del</strong>la parola <strong>del</strong>la croce? Quale immagine di Dio si manifesta sulla croce?<br />
La risposta a questi due interrogativi è ciò che segna la differenza. Quella <strong>del</strong>la croce è certamente<br />
una ‘parola diffic<strong>il</strong>e’, perché ‘inaudita’ in quanto parola originaria. È una parola diffic<strong>il</strong>e su due<br />
versanti, quello soggettivo e quello oggettivo, quello <strong>del</strong>la storia e quello <strong>del</strong>l’eternità. Tuttavia, si<br />
presenta come la specifica parola con cui <strong>il</strong> Dio <strong>del</strong>l’evento cristiano ha parlato e parla all’umanità.<br />
Nel sacrificio <strong>del</strong>la croce assistiamo all’epifania più propria di Dio, una teofania in cui Dio si<br />
manifesta ritraendosi e in tal modo si approssima all’uomo invitandolo a prendere a sua volta la sua<br />
croce e a seguirlo. Se si accosta <strong>il</strong> logos <strong>del</strong>la croce con quello proprio <strong>del</strong>la f<strong>il</strong>osofia scopriamo che<br />
quel logos dice parole non umane eppure è possib<strong>il</strong>e intenderle, ma soltanto se si esce dai limiti <strong>del</strong><br />
sapere. Questa dura parola è anche <strong>il</strong> luogo proprio e peculiare <strong>del</strong>la pensab<strong>il</strong>ità di Dio. Dio diventa<br />
pensab<strong>il</strong>e a partire dal fatto che Egli stesso rivelandosi rende possib<strong>il</strong>e <strong>il</strong> pensiero. Su questa<br />
dimensione dia-logica ha molto insistito <strong>il</strong> pensiero contemporaneo, ebraico e cristiano. Scrive <strong>il</strong><br />
grande teologo E. Jüngel: “Ora questa parola che era fin dal principio si è fatta carne e si è rivelata<br />
con la morte in croce. Anzi, “La teologia <strong>del</strong> crocifisso è discorso su Dio come amore avvenuto nella<br />
morte <strong>del</strong>l’uomo Gesù. L’amore è essenzialmente potenziamento <strong>del</strong>l’essere. Lo è anche, anzi lo è<br />
proprio nella dimenticanza di sé che gli è propria. Perciò secondo una parola di Gesù (Mt. 10, 39)<br />
avrà la propria vita chi la darà” 17 . La parola <strong>del</strong>la croce è la parola che rivela un Dio amore e secondo<br />
14<br />
<strong>Il</strong> dibattito su questo tema soprattutto attraverso la ripresa di Schelling e Hegel prima e poi di Nietzsche è certamente<br />
uno dei capitoli più problematici , ma anche più affascinanti <strong>del</strong>la f<strong>il</strong>osofia contemporanea. Certamente una questione<br />
aperta che costringe <strong>il</strong> credente e <strong>il</strong> pensatore credente a fare i conti con l’affermazione <strong>del</strong>la ‘morte di Dio’. Oltre alle<br />
bibliografie specifiche dei singoli autori si rimanda per una prima introduzione al problema nel contesto specifico <strong>del</strong>la<br />
nostra <strong>ricerca</strong> alle opere di S. Breton e in particolare a La passione di Cristo e le f<strong>il</strong>osofie, Pescara 1982 (ed. orig. 1954) e<br />
alle lunghe analisi cristologiche di X. T<strong>il</strong>liette in particolare a F<strong>il</strong>osofi davanti a Cristo (Brescia 1989) e soprattutto La<br />
settimana santa dei f<strong>il</strong>osofi (Ivi, 1992). La riflessione sul rapporto <strong>del</strong> f<strong>il</strong>osofo con la passione di Cristo occupa le pagine<br />
(63-107) dedicate al venerdì santo.<br />
15<br />
La traduzione francese <strong>del</strong>la Bibbia di Chouraqui e quella tedesca (Einheitsübersetzung) mantengono questa idea di<br />
svuotamento, che è più vicina all’annich<strong>il</strong>imento che ri<strong>suo</strong>na nel termine greco e che costituisce <strong>il</strong> paradosso peculiare<br />
<strong>del</strong>l’incarnazione e <strong>del</strong>la morte in croce.<br />
16<br />
Nella storia <strong>del</strong> pensiero e <strong>del</strong>la spiritualità cristiani nei secoli <strong>il</strong> problema si è posto nella forma <strong>del</strong>la imitatio Christi<br />
(cfr. per es. Paolo 1Cor., 11,1) o ancora <strong>del</strong>la sequela. Tra le figure più r<strong>il</strong>evanti vicine a noi nel tempo rimando a<br />
Kierkegaard e a Bonhoeffer.<br />
17<br />
Ibid., p. 478.<br />
10
<strong>il</strong> Cantico dei cantici: “Forte come la morte è l’amore” 18 . In questa ottica acquista pieno senso la<br />
discepolanza di cui si diceva: “Allora Gesù disse ai <strong>suo</strong>i discepoli: ‘Se qualcuno vuol venire dietro a<br />
me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua’” (Mt. 16, 24). <strong>Il</strong> risvolto antropologico di<br />
questo rinnegamento sta nell’assunzione <strong>del</strong>la logica <strong>del</strong> servizio molto ben espressa in un passo <strong>del</strong>la<br />
lettera di Paolo ai Galati (5, 13): “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa<br />
libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità (agape) siate a<br />
servizio gli uni degli altri”. Concludiamo questo momento <strong>del</strong>la nostra riflessione ricordando che<br />
eravamo partiti dal passo <strong>del</strong>la lettera ai F<strong>il</strong>ippesi in cui si diceva che “Gesù spogliò se stesso<br />
assumendo la condizione di servo”. <strong>Il</strong> servire è la logica <strong>del</strong>la croce che non è negazione <strong>del</strong>la libertà<br />
bensì affermazione <strong>del</strong>la prossimità.<br />
L’esperienza credente consiste in un certo senso nell’appropriazione <strong>del</strong>l’evento fondativo<br />
originario per farne memoria incarnata. Naturalmente non si tratta di un’appropriazione oggettivante,<br />
bensì <strong>del</strong>l’ingresso nell’orizzonte onniavvolgente <strong>del</strong>l’evento, <strong>del</strong>l’esperienza appunto e solo a questa<br />
condizione è possib<strong>il</strong>e farne memoria. La memoria <strong>del</strong>l’evento nella forma <strong>del</strong>la sequela <strong>del</strong> discepolo<br />
struttura una temporalità esperienziale assolutamente peculiare: <strong>il</strong> tempo <strong>del</strong>la presenza che permane<br />
presente. Soltanto a queste condizioni la parola <strong>del</strong>l’evento continua a essere viva. Nello specifico<br />
<strong>del</strong>l’evento cristiano la presenza non è una contemplazione teoretica, un sapere, ma una prassi; è un<br />
vedere che si compie nell’agire. In che modo <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo credente può calarsi dentro la sua esperienza<br />
per coglierne una valenza universalizzab<strong>il</strong>e? È un’operazione f<strong>il</strong>osoficamente corretta o mostra un<br />
movimento surrettizio? D’altra parte è possib<strong>il</strong>e per <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo esercitare <strong>il</strong> <strong>suo</strong> pensiero al di fuori<br />
<strong>del</strong>la sua esperienza personale? La questione è che nell’esperienza <strong>del</strong>l’evento si cerca di far venire a<br />
manifestazione le strutture stesse <strong>del</strong>l’evento nella misura in cui l’esperienza soggettiva ne è <strong>il</strong> venire<br />
all’aperto. A questo titolo sarebbe giustificata la ‘ripresa’ <strong>del</strong>l’esperienza all’interno di una<br />
comprensione che, per la sua tipicità, potremmo definire comprensione testimoniale.<br />
La categoria che vogliamo riprendere e che costituisce l’assunto fondamentale <strong>del</strong> pensiero<br />
moderno è quella di soggetto. La crisi <strong>del</strong>la f<strong>il</strong>osofia <strong>del</strong> soggetto e l’esigenza di una sua nuova<br />
formulazione consentono di rimodularla applicandola all’esperienza <strong>del</strong>l’evento cristiano. La nuova<br />
categoria che ripete una teoria <strong>del</strong> soggetto, ma radicalmente mutata e adatta a rispondere alle nuove<br />
domande di senso è quella <strong>del</strong>la sostituzione. La logica <strong>del</strong> sacrificio <strong>del</strong>la croce è appunto quella<br />
<strong>del</strong>l'assunzione <strong>del</strong>la categoria <strong>del</strong>la sostituzione come possib<strong>il</strong>ità <strong>del</strong>l'interumano prima <strong>del</strong>l'etico. La<br />
tensione <strong>del</strong>la <strong>ricerca</strong> consisterà quindi, nel cominciare a pensare nell’ordine <strong>del</strong> per-l’altro: un<br />
pensiero <strong>del</strong>la pace, <strong>del</strong>la non violenza, <strong>del</strong>l’umanesimo <strong>del</strong>l’altro uomo, un pensiero agapico. <strong>Il</strong><br />
termine sostituzione inserisce nella soggettività una nuova destinazione che la spinge fuori di sé e la fa<br />
consistere nel <strong>suo</strong> essere altro. Ci troviamo a un punto di svolta se si considerano le prospettive <strong>del</strong><br />
per l’altro di Hegel o di Sartre. Non alienazione da superare, non smarrimento, ma affermazione di<br />
una soggettività che è se stessa in quanto è destinata ad altri. Si tratta, tuttavia, di una destinazione<br />
che, dentro di sé, non ha nulla <strong>del</strong>l’ineluttab<strong>il</strong>ità <strong>del</strong> destino, bensì ridefinisce <strong>il</strong> senso e la portata <strong>del</strong>la<br />
libertà che privata <strong>del</strong>la potenza ‘negativa’ <strong>del</strong>l’autoaffermazione produttrice di violenza si esercita<br />
come responsab<strong>il</strong>ità.<br />
La riflessione di Bonhoeffer in questa direzione, ha esercitato e continua ad esercitare un<br />
grande fascino, non soltanto per la grandezza <strong>del</strong>la sua testimonianza di martire <strong>del</strong>la resistenza al<br />
nazismo, ma anche per la lucidità anticipatrice con cui ha presentato alcune sue tesi. La sua<br />
prospettiva è incentrata in una cristologia forte che nella Gestaltung (conformazione) a Cristo trova <strong>il</strong><br />
paradigma esistenziale fondamentale. È nel saggio centrale <strong>del</strong>l’Etica, opera rimasta incompiuta e<br />
pubblicata con redazioni diverse, intitolato La storia e <strong>il</strong> bene che <strong>il</strong> teologo tedesco si confronta con <strong>il</strong><br />
nostro tema. In modo assolutamente categorico Bonhoeffer afferma: “Non esiste uomo che possa<br />
sfuggire alla responsab<strong>il</strong>ità e cioè alla sostituzione vicaria”. Poco oltre, in una pagina di rara densità<br />
leggiamo: “Poiché Gesù – la vita, la nostra vita – è vissuto in qualità di Figlio di Dio fattosi uomo<br />
vicariamente per noi, ogni vita umana è attraverso di lui essenzialmente una vita vicaria. Egli non era<br />
<strong>il</strong> singolo che volesse pervenire alla propria perfezione, bensì visse solo come colui che ha assunto e<br />
porta in sé l’io di tutti gli uomini. <strong>Il</strong> <strong>suo</strong> vivere, fare, soffrire, nella loro interezza furono sostituzione<br />
18<br />
Si veda ancora di Jüngel <strong>il</strong> par. 24, “Dio come evento <strong>del</strong>lo Spirito”, pp. 482 sgg.<br />
11
vicaria. Quanto gli uomini dovrebbero vivere, agire e soffrire si adempì in lui. In questa sua reale<br />
sostituzione vicaria, in cui si riassume la sua esistenza umana, egli è <strong>il</strong> responsab<strong>il</strong>e per eccellenza.<br />
Poiché egli è la vita, attraverso di lui tutta la vita è destinata alla sostituzione vicaria. Essa potrà<br />
opporsi a questo fatto, ma ciò malgrado rimane vicaria per la vita o per la morte... si ha sostituzione<br />
vicaria e quindi responsab<strong>il</strong>ità solo nella dedizione piena <strong>del</strong>la propria vita all’altro uomo. Solo chi<br />
non è legato al proprio sé vive responsab<strong>il</strong>mente e cioè, solo chi non è legato al proprio sé vive” (p.<br />
225). “<strong>Il</strong> responsab<strong>il</strong>e è rinviato al prossimo concreto nella sua concreta realtà” (p. 227). Come si<br />
vede siamo di fronte al capovolgimento <strong>del</strong> narcisismo che dicevamo sopra.<br />
Ciò che Bonhoffer chiama 'sostituzione vicaria ”, in modo più deciso e senza, e al di fuori, dei<br />
riferimenti e parametri cristiani, E. Lévinas lo definisce semplicemente 'sostituzione'. Per <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo<br />
franco-lituano, di matrice ebraica, la mia esistenza è determinata da una chiamata e ne costituisce la<br />
risposta. Rispondere all'altro significa immediatamente rispondere di lui. <strong>Il</strong> senso totale <strong>del</strong>l'esistere è<br />
essere-per-gli altri 19 . In questo nuovo contesto la responsab<strong>il</strong>ità non è più ‘donazione’ di senso<br />
secondo l’insegnamento <strong>del</strong>la fenomenologia di Husserl, ma ‘assunzione’ (Eccomi!). L'esistenza,<br />
nella risposta a una vocazione, assume dimensioni inedite che richiedono disponib<strong>il</strong>ità per<br />
trasformarsi in novità radicale.<br />
La <strong>ricerca</strong> <strong>del</strong>la propria identità passa, attraverso la differenza. Ciò vuol dire che <strong>il</strong> sé, come<br />
proprio sé, è fuori di sé, senza tuttavia essere alienato. Forse è questa la nuova categoria che può dar<br />
forma a una nuova attitudine, la prossimità vissuta come la peculiarità <strong>del</strong>l’umano.<br />
19 Accenno soltanto schematicamente al problema che ho trattato più analiticamente nel mio volume su Lévinas, Studium ,<br />
Roma, 1985 e in altri saggi successivi dedicati al f<strong>il</strong>osofo francese. Pur rimanendo fuori <strong>del</strong> nostro percorso in maniera<br />
esplicita, è opportuno ricordare brevemente l’altro grande riferimento di Levinas che Franz Rosenzweig. Nella Stella <strong>del</strong>la<br />
redenzione, Casale Monferrato 1985 al Wort originario, la parola di Dio, è posto di fronte un Antwort, la risposta <strong>del</strong>la<br />
dedizione ubbidiente, che diviene, a sua volta, parola, nella temporalizzazione <strong>del</strong>la risposta, nella Verantwortung, nella<br />
responsab<strong>il</strong>ità. <strong>Il</strong> percorso rosenzweighiano può essere quindi sintetizzato con un’espressione di forte contrapposizione<br />
hegeliana dal per sé al per-l’altro. L’elemento di mediazione è appunto l’evento <strong>del</strong>l’amore di Dio. L’amore <strong>del</strong> prossimo<br />
è la forza che deve completare la dedizione esigita dal comandamento <strong>del</strong>l’amore di Dio. “L’amore <strong>del</strong> prossimo è ciò che<br />
ad ogni istante supera la semplice dedizione e tuttavia sempre la presuppone”… “L’uomo può esternarsi nell’atto d’amore<br />
soltanto dopo essere divenuto anima destata da Dio. Solo <strong>il</strong> <strong>suo</strong> essere-amata da Dio fa sì che per l’anima l’atto d’amore<br />
sia più che un semplice atto, sia l’adempimento di un comandamento d’amore”(p. 230).<br />
In questa prospettiva <strong>il</strong> per-l’altro <strong>del</strong>la prossimità ridefinisce anche la temporalità <strong>del</strong>l’uomo che in ogni istante è<br />
attento (e attende) a colui che è di volta in volta ‘prossimo’, “<strong>il</strong> più vicino, colui che, comunque, qualunque cosa sia stato<br />
prima di questo istante d’amore o sarà in seguito, è per me in questo istante soltanto <strong>il</strong> prossimo”(p. 234). Concludiamo<br />
queste poche riflessioni con un passaggio particolarmente significativo in cui la correlazione tra prossimità e ‘sé’ ci<br />
rimanda allo spirito profondo <strong>del</strong>la dialogicità, che oltrepassa la dimensione etica per farsi semplicemente segno<br />
d’umanità. Scrive Rosenzweig: “… L’uomo deve amare <strong>il</strong> <strong>suo</strong> prossimo come se stesso. Come se stesso. <strong>Il</strong> tuo prossimo è<br />
‘come te’. L’uomo non deve negare se stesso. Proprio qui, nel comandamento <strong>del</strong>l’amore <strong>del</strong> prossimo, <strong>il</strong> <strong>suo</strong> ‘sé’ viene<br />
per la prima volta confermato/stab<strong>il</strong>ito definitivamente nel <strong>suo</strong> luogo stab<strong>il</strong>e. … Tratto fuori dal caos infinito <strong>del</strong> mondo,<br />
gli viene posto innanzi all’anima un prossimo, <strong>il</strong> <strong>suo</strong> prossimo e di questo, e per ora/come prossimo solo di questo, gli<br />
viene detto: egli è come te. ‘Come te’, quindi non ‘te’. Tu rimani tu e devi rimanere tale. Ma per te egli non deve rimanere<br />
un <strong>il</strong>le, e quindi un semplice <strong>il</strong>lud per <strong>il</strong> tuo ‘tu’; bensì egli è come te, come <strong>il</strong> tuo ‘tu’, un ‘tu’ come te, un io…anima”(p.<br />
257-258).<br />
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