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ammirare il paesaggio. È qualcosa che ho imparato da ragazzina, durante un’escursione sul<br />
Cervino con mio padre: mi fermavo ogni tre passi per scattare una foto. A un certo punto, lui si<br />
irritò: “Credi che questa bellezza e quest’imponenza possano essere contenute in un fotogramma<br />
di pellicola? Racchiudi le immagini nel tuo cuore. È più importante che adoperarsi per mostrare<br />
agli altri ciò che si vive.”<br />
Il mio istruttore, dall’alto dell’esperienza dei suoi ventun anni, comincia a fissare alcune corde<br />
intorno al mio corpo, servendosi di grossi moschettoni di alluminio. Poi l’imbragatura con il doppio<br />
sedile viene agganciata alla velatura con il trapezio dei montanti: io starò davanti, lui dietro. Potrei<br />
ancora rinunciare al lancio, ma ormai non ho più coscienza dei rischi. Ho smarrito la mia volontà.<br />
Ci mettiamo in posizione: il veterano ventunenne e il responsabile dei lanci discutono del vento.<br />
L’istruttore si sistema sul seggiolino. Posso sentire il suo respiro sulla nuca. Sporgo la testa e mi<br />
volto – e<br />
vedo una scena che mi impaurisce: sulla neve bianca campeggia una fila di deltaplani variopinti, i<br />
cui sedili accolgono varie persone. Sull’ultimo, scorgo mio marito: indossa il casco da ciclista.<br />
Probabilmente si lancerà tre o quattro minuti dopo di me.<br />
“Pronta? Via! Cominci a correre.”<br />
Resto immobile.<br />
“Su, avanti, corra.”<br />
Gli dico che non voglio volteggiare nell’aria. Voglio planare dolcemente. Per me, cinque minuti di<br />
volo sono più che sufficienti.<br />
“Me lo spiegherà quando saremo in cielo. Ma adesso, la prego, si muova, c’è la fila. Dobbiamo<br />
lanciarci ora.”<br />
Priva di volontà, obbedisco agli ordini. E comincio a correre verso il baratro.<br />
“Più veloce!”<br />
Accelero: gli stivali fanno schizzare una poltiglia nevosa tutt’intorno. In realtà, non sono io la<br />
persona che corre, ma un automa azionato da comandi vocali. Attacco a urlare – non per la paura<br />
o l’eccitazione: è soltanto l’istinto. Sono di nuovo una donna delle caverne, come diceva lo<br />
sciamano. Una donna che ha paura di ragni e serpenti, e quindi grida. Si grida sempre nella vita,<br />
poiché la paura non ci abbandona mai.<br />
All’improvviso, i miei piedi si staccano dal suolo: stringo forte le corde dell’imbragatura e smetto di<br />
urlare. L’istruttore corre ancora per un paio di secondi, poi…<br />
Poi stiamo volando.<br />
Ora è il vento ad avere il controllo delle nostre vite.<br />
* * *<br />
Durante il primo minuto di volo, non apro gli occhi – non voglio avere alcuna cognizione<br />
dell’altezza, delle montagne, del pericolo. Mi sforzo di immaginarmi a casa, in cucina, mentre<br />
narro ai miei figli un episodio di questo viaggio, qualcosa che riguarda la cittadina, o la camera<br />
d’albergo. Non potrò certo raccontargli che, la prima sera, il loro padre si è ubriacato ed è crollato<br />
sul marciapiedi mentre tornavamo in albergo per andare a dormire. Né posso dirgli che, dopo aver<br />
vinto la paura, ho volato in deltaplano: di sicuro, vorrebbero fare la stessa cosa – o peggio,<br />
costruirebbero una “macchina volante” e si lancerebbero dal primo piano di casa.<br />
A quel punto, mi rendo conto che sto comportandomi da stupida: perché tenere gli occhi chiusi?<br />
Nessuno mi ha costretto a lanciarmi. “Le assicuro che non c’è mai stato alcun incidente,” ha detto<br />
il portiere.<br />
Apro gli occhi.<br />
E quel che vedo – e quel che sento – è qualcosa che non potrò mai descrivere appieno. Ecco la<br />
valle che collega i due laghi, con la cittadina nel mezzo. Volo libera nello spazio, librandomi in cielo,<br />
in un silenzio quasi perfetto: il deltaplano disegna circoli lenti, sorretto e spinto dal vento. Ora le