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Enzo Capua<br />
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camente per migliorare se stessi. Sì, perché una jam a New York<br />
o un’esibizione di fronte a poche decine di spettatori può cambiare<br />
una vita e sicuramente può far fare grandi balzi in avanti nello<br />
st<strong>il</strong>e. Lo sanno bene anche i già affermati Rudresh Mahanthappa<br />
e Christian McBride, che sono nella generazione susseguente o<br />
prima ancora di loro Uri Caine, Joe Locke e Steve Coleman, che<br />
pur non essendo certo anziani sono già considerati come dei<br />
“padri putativi” della scena newyorkese di questi ultimi venti<br />
anni. E lo sanno anche i nostri musicisti italiani: Dado Moroni, ad<br />
esempio, può essere considerato un cittadino newyorkese al<br />
cento per cento, non solo perché ha abitato nella Grande Mela per<br />
alcuni anni, ma anche perché <strong>il</strong> suo st<strong>il</strong>e e le sue “affinità elettive”<br />
lo riconducono comunque e sempre verso l’America, e in questa<br />
terra è apprezzato e amato come uno dei grandi pianisti, uno dei<br />
“cats” come si dice in gergo per definire i musicisti di jazz a New<br />
York. Anche Rosario Giuliani, Paolo Fresu, Gianluca Petrella hanno<br />
suonato a più riprese da questa parte dell’Atlantico. Di Maria Pia<br />
De Vito, poi, ho avuto <strong>il</strong> piacere e l’onore di organizzare <strong>il</strong> suo<br />
straordinario esordio al Blue Note tre anni fa: un successo indimenticab<strong>il</strong>e.<br />
Giovanni Guidi è venuto spesso di recente, ha registrato<br />
un album eccellente in uno degli studi più belli di Manhattan<br />
e più volte mi dice di voler venire a stare per un po’ da queste<br />
parti. New York è come una calamita per chi fa del jazz: non ci si<br />
può sottrarre alla sua azione magnetica. La scena di questi ultimi<br />
anni è particolarmente attiva e si possono individuare alcune tendenze<br />
predominanti: da un lato <strong>il</strong> recupero delle sonorità elettriche,<br />
soprattutto delle tastiere, dopo anni di ritorno al suono rigorosamente<br />
acustico; quindi c’è un nuovo strutturalismo che recupera<br />
in parte l’esperienza del free, ma procede oltre senza dimenticare<br />
la coesione fra i musicisti. In pratica si sta abbandonando<br />
pian piano l’improvvisazione totale e l’esperienza solitaria, che<br />
tanto andavano in voga negli anni settanta-ottanta. E comunque ci<br />
si sta affrancando dal revival del jazz classico che ha dominato gli<br />
anni novanta fino ai primi anni del nuovo m<strong>il</strong>lennio. In pratica sta<br />
nascendo del nuovo e cresce in fretta, traendo energia dal terre-