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13 storie inospitali

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Hans Henny Jahnn<br />

<strong>13</strong> <strong>storie</strong><br />

<strong>inospitali</strong><br />

avieri


Apparse presso Rowohlt nel 1954, le<br />

<strong>13</strong> <strong>storie</strong> <strong>inospitali</strong> chiudono il cerchio<br />

delle opere narrative di Hans Henny<br />

Jahnn. Questi torsi di prosa ritagliati da<br />

Perrudja (1929) e dallo sterminato corpo<br />

di Fiume senza rive (1949-61) affidano<br />

alle carte una costellazione minima<br />

dei temi e delle ossessioni dell’autore.<br />

Baedeker di Atlantide, canzoniere ultimo<br />

e, stante la sua natura testamentaria,<br />

maschera funebre dello stesso Jahnn, le<br />

Storie rappresentano l’ideale viatico per<br />

un continente inabissato.<br />

Al discrimine tra sogno e mito, i racconti<br />

sono governati dalla follia e dal<br />

doppio, dall’eros e dalla morte, dall’amore<br />

fra consimili e consanguinei: un soffio<br />

tragico attraversa perennemente la natura,<br />

questa macchina fatale. Le invarianti<br />

del potere e della guerra di ogni tempo,<br />

l’urlio del mondo, risplendono in tutta<br />

la loro terribilità, così come la resistenza<br />

e lo scacco perpetuo nei confronti della<br />

Zivilisation, ovvero del «cannibalismo,<br />

travestito da ordine civile, della ratio» (F.<br />

Masini). Il manierismo magico di Jahnn<br />

– campo in cui si trovano combinate le<br />

forze scatenanti dell’Espressionismo –<br />

gemma tredici “leggende spietate” dove<br />

l’elemento fantastico e perturbante reca<br />

lo stigma di una narrazione arcaica e intemporale,<br />

preluterana.<br />

Ancora oggi le sue pagine sono sempre<br />

più numerose dei suoi lettori. Ma il<br />

costruttore d’organi, questo grande eretico<br />

e solitario delle lettere tedesche rimane,<br />

con Döblin e Musil, tra i fondatori<br />

dell’epos moderno.<br />

(D.P.)


collana arno<br />

11


Hans Henny Jahnn<br />

<strong>13</strong> <strong>storie</strong> <strong>inospitali</strong><br />

A cura di Domenico Pinto<br />

Traduzione di Elisa Perotti<br />

Postfazione di Andrea Raos<br />

Con un saggio di Ferruccio Masini<br />

avieri


Hans Henny Jahnn<br />

<strong>13</strong> <strong>storie</strong> <strong>inospitali</strong><br />

Lavieri editore / ISBN 978-88-89312-59-9<br />

A cura di Domenico Pinto<br />

Traduzione di Elisa Perotti<br />

Postfazione di Andrea Raos<br />

Copyright © 2010 Ipermedium comunicazione e servizi s.a.s.<br />

Con un saggio di Ferruccio Masini<br />

Arno n.11<br />

Collana diretta da Domenico Pinto<br />

Titolo originale dell’opera: <strong>13</strong> nicht geheure Geschichten<br />

© 1974 Hoffmann und Campe Verlag, Hamburg, Germany.<br />

I racconti Ragna e Nils, La storia dello schiavo, Il re sassanide, La storia dei due<br />

gemelli, Un fanciullo piange e I mangiatori di marmellata sono tratti da Pe r r u d j a,<br />

pubblicato per la prima volta da Gustav Kiepenheuer Verlag, Berlino 1929.<br />

L’orologiaio, Il coltivatore, Kebad Kenya, Mov, Un signore sceglie il suo servo, Il tuffatore<br />

e Cavalli rubati sono tratti dalla trilogia Fl u s s o h n e Ufer. Le prime due parti<br />

(Das Holzschiff e Die Niederschrift des Gustav Anias Horn nachdem er 49 Jahre alt<br />

geworden war) apparvero inizialmente presso Willi Weismann Verlag (1949-50), la<br />

terza (Epilog) da Europäischer Verlagsanstalt (1961).<br />

Lavieri edizioni<br />

via IV Novembre, 19 - 81020 - S. Angelo in Formis (CE)<br />

via Canala, 55 - 85050 - Villa d’Agri (PZ)<br />

——<br />

www.lavieri.it / info@lavieri.it


Sommario<br />

<strong>13</strong> <strong>storie</strong> <strong>inospitali</strong> . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7<br />

1. Ragna e Nils . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9<br />

2. La storia dello schiavo . . . . . . . . . . . . . . . 17<br />

3. L’orologiaio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31<br />

4. Il re sassanide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35<br />

5. Il coltivatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51<br />

6. La storia dei due gemelli . . . . . . . . . . . . . . 57<br />

7. Un fanciullo piange . . . . . . . . . . . . . . . . 63<br />

8. Kebad Kenya . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75<br />

9. I mangiatori di marmellata . . . . . . . . . . . . . 85<br />

10. Mov . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117<br />

11. Un signore sceglie il suo servo . . . . . . . . . 123<br />

12. Il tuffatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141<br />

<strong>13</strong>. Cavalli rubati . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167<br />

Postfazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177<br />

di Andrea Raos<br />

Perrudja . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179<br />

di Ferruccio Masini


<strong>13</strong> <strong>storie</strong><br />

<strong>inospitali</strong>


12. Il tuffatore<br />

Approdavano alla rada grandi navi cariche di stranieri che avevano<br />

pagato perché gli fossero mostrati una terra magnifica e un clima magnifico,<br />

nonché questa o quella ambiguità. Gli uomini sapevano trovare le<br />

loro vie segrete, e per gli occhi delle donne e delle ragazze, senza rinunciare<br />

all’onorabilità, c’era qualche bell’esemplare di carne maschile.<br />

C’erano sempre dei ragazzi sul molo di Santa Catalina. Portavano le<br />

valigie, vendevano fichi o mandorle, mendicavano o se ne stavano semplicemente<br />

lì a catturare sguardi. Alcuni sedevano nudi, solo un telo ai<br />

fianchi. Erano sempre pronti a saltare in acqua. A tale scopo gli regalavano<br />

sigarette e monetine. Gliele davano quando riemergevano dall’acqua.<br />

Poteva poi capitare di vederli di nuovo seduti sulla banchina o sul<br />

reticolato di un parapetto nudi e bagnati, la pelle lucida e imperlata di<br />

gocce d’acqua, il telo ai fianchi allentato, quasi trasparente.<br />

Erano belli. Si differenziavano l’uno dall’altro; d’altra parte, però, la<br />

differenza non era forte. Le loro sembianze si avvicinavano quasi come<br />

le età.<br />

A volte qualcuno gettava delle monete in mare; i nuotatori si immergevano<br />

e le portavano in superficie. Quando riemergevano, tenevano le<br />

monete per lo più serrate tra le labbra. Stringevano le labbra con singolare<br />

piacere; non si servivano dei denti. L’immersione non era l’apice<br />

della loro bravura. Senza dubbio alcuni di essi, coloro che stavano sul<br />

molo esterno, avevano portato alla perfezione assoluta l’arte di nuotare<br />

nelle acque chiare e profonde dell’oceano, giù nel fondale, accanto<br />

alle pareti di acciaio dei transatlantici. Nelle profondità sembravano<br />

bestie inquietanti. Rammentavano le seppie giganti. Ma a Santa Catalina<br />

la massima bravura consisteva nel correre le acque come un delfino.<br />

I nuotatori remavano nelle immediate vicinanze di traghetti e piccoli<br />

piroscafi a vapore, si immergevano sotto la chiglia delle imbarcazioni,<br />

per poi riapparire subito a sinistra o a destra. Si arrischiavano vicino alle


eliche che giravano vorticose e davano spettacolo fingendo di fermarle<br />

con la mano.<br />

Tutto ciò era molto eccitante. Nessuno pensava che era stata la povertà<br />

a creare queste pericolose abilità, e che le monetine raccolte da quegli<br />

uomini significavano pane. Due o tre di loro avevano i capelli blu. E la<br />

pelle folta come il manto di un animale. Nera. Ma non come quella di<br />

un negro. Il viso colmo del dolore e del disprezzo di tutte le razze umane<br />

oppresse. Eppure proporzionato come la cavità dell’ombelico in una statua<br />

greca. Sedevano per lo più sulle pietre incandescenti della banchina.<br />

Vedevo uomini pallidi dargli delle pacche sulle cosce col palmo della<br />

mano. Vedevo le donne guardar fisso il telo.<br />

Mi sedetti sulla banchina e mi feci un amico. Dissi a uno dei nuotatori:<br />

«Perché ti butti in acqua quando qualcuno perde una monetina»<br />

Non rispose, si limitò a guardarmi sprezzante. Poi si gettò in acqua,<br />

riemerse, aveva una monetina tra le labbra.<br />

«Perché tu non ne hai», mi rispose dopo essersi seduto di nuovo sul<br />

muro rovente della banchina.<br />

Senza proferire parola gli porsi una banconota da mezza sterlina.<br />

«Questo», dissi, «è perché tu non abbia a disprezzarmi».<br />

Anziché gioire, il viso si fece triste. Il labbro inferiore si abbandonò.<br />

«Dove andiamo» chiese.<br />

Scossi il capo. «Parleremo un po’ insieme. E forse sarà una bella chiacchierata».<br />

Tacque. Ero inquietante ai suoi occhi. Trasse a sé la banconota, fissò<br />

il testo stampato per una mezz’ora. (Non sapeva leggere, ma sapeva che<br />

era un biglietto di valore). Lo osservai. Notai una peculiarità che non<br />

avevo mai visto in nessuno prima di lui. I capezzoli erano come di ferro,<br />

ricchi di spigoli, tanto che avresti creduto di ferirti toccandoli. Aveva le<br />

orecchie piccole, quasi tonde, la pelle nera e rossastra, solo su un braccio<br />

c’era un pezzettino di pelle chiara, un anello intarsiato di bianco.<br />

– Che animale, che animale superbo! – pensai. Come molti dei nuotatori<br />

era più robusto che magro. Aveva mani grandi, rozze, ma non<br />

callose, posate sugli alberi delle braccia come monconi di rami fiabeschi.<br />

Non pativa la fame. Raccoglieva le monete di maggior valore col canto<br />

di lode delle sembianze ereditate da madre e padre, sembianze correlate<br />

dalla perfezione interna di polmoni, reni, viscere, vene e cuore. Non ho<br />

144


mai saputo come fosse il cervello. Se non avesse avuto un tratto stanco e<br />

addolorato sulla bocca, si sarebbe potuto pensare che gli fosse risparmiato<br />

il tormento dei pensieri.<br />

Dopo alcuni giorni dava già per scontato che avrei trascorso le mie<br />

ore alla banchina. Aveva un posto fisso. Era impossibile non trovarlo.<br />

Gli arrotolavo le sigarette. Le prendeva con mani umide e salate. Non<br />

ricordo che ci fossimo mai scambiati parole dure. Ci limitavamo ad argomenti<br />

di carattere molto generale. Rimanevamo per lo più in silenzio.<br />

Lo guardavo. Egli non mi guardava. Di tanto in tanto si immergeva. Talvolta<br />

mi chiedeva di buttare in acqua una moneta. Sceglievo monete dal<br />

valore sempre maggiore. E così lo mantenevo senza che si vergognasse. Si<br />

tuffava nelle profondità per portare su ciò che gli apparteneva. Diventò<br />

riservato con gli stranieri che arrivavano a bordo delle navi albergo. Lasciava<br />

di buon grado il magro guadagno agli altri nuotatori. Se fossi stato<br />

attento, avrei potuto notare sin dal primo giorno che non si immergeva<br />

volentieri. Era un delfino, doveva raggiungere di continuo e in fretta la<br />

superficie dell’acqua.<br />

Giungemmo al punto di concordare il valore della moneta per cui<br />

si immergeva tutti i giorni. Strano a dirsi, ma non sono mai venuto a<br />

conoscenza di neppure un minuscolo dettaglio della sfera privata di questo<br />

nuotatore. Non seppi mai come e dove abitava, se avesse genitori o<br />

parenti, se andasse a ballare ogni tanto, se avesse un’amante o un amico.<br />

Non lo vidi mai fare i propri bisogni. Non l’ho mai visto con dei vestiti.<br />

Quando la giornata alla banchina giungeva al termine, scompariva. Per<br />

comparire quando ricominciava. E il nome che mi disse era un nome falso.<br />

«Augustus». Quale donna dalla formazione umanistica poteva avergli<br />

suggerito la follia di farsi chiamare così D’altra parte non era necessario<br />

che conoscessi il suo vero nome. Non lo chiamavo mai, non lo salutavo<br />

mai con le parole. Una volta sola avrei voluto sapere di più su di lui!<br />

Quando morì. Lo vidi morire. Non esalare il suo ultimo respiro. Accadde<br />

in modo diverso.<br />

Ero come una pianta che viene esposta al sole tutti i giorni. Il mio<br />

posto era accanto all’ormeggio dei motoscafi e dei vaporetti inviati dai<br />

transatlantici. Era il suo posto che egli condivideva con me. E nonostante<br />

il traffico intenso e il rumore che proveniva dal porto, era un luogo<br />

appartato. Poteva succedere che delle casse ci ostacolassero la visuale.<br />

145


Venivamo raggiunti quasi sempre da un puzzo intenso. Capitò che mi<br />

tirarono addosso dei frutti marci. In altre occasioni un adolescente volle<br />

dividere con me le conchiglie perché sperava di trarne un tornaconto.<br />

Una volta un vegliardo mi sputò sul piede dal parapetto su cui si era arrampicato.<br />

E dallo stesso parapetto un bambino si svuotò la vescica.<br />

Ma furono avvenimenti sporadici. Le settimane erano estremamente<br />

uniformi. Acquisii l’abilità di seccare al sole senza sogni né pensieri. Mi<br />

nutrivo delle poche parole d’avanzo del nuotatore accovacciato accanto a<br />

me. Era l’unico cibo per la mia anima. Io nutrivo il suo corpo splendido.<br />

Non solo con le monete sonanti. I giorni sono lunghi. Il sole è caldo.<br />

Ci sono la fame e la sete. Ovunque il profumo e la puzza dei frutti che<br />

maturavano o stavano già marcendo. Ne portavo un po’ insieme a pane<br />

e vino. Prendeva solo il pane e il vino. Giunsi alla conclusione che a<br />

piacergli di più era la carne. Quella di capra dura. Minestra salata in cui<br />

nuotava la carne, disgustosa e dalla consistenza del cuoio. Scoprii un fornaio<br />

che faceva dei vol-au-vent la cui pasta sapeva di olive ed era farcita<br />

di code d’aragosta e petto di pollo. Il tuffatore mangiava di gusto questi<br />

vol-au-vent, e anch’io li mangiavo.<br />

La sera, quando ero solo, mi chiedevo a che cosa dovesse mirare il mio<br />

vacuo cameratismo, che cosa mi aspettassi, come si sarebbe concluso.<br />

Non c’era nulla da esaminare, nulla da svelare. Osservavo un bell’animale,<br />

giorno dopo giorno. Se avessi avuto dei cattivi pensieri mi sarei vergognato<br />

davanti a lui. Non ero alla ricerca di occasioni a buon mercato. Ma<br />

per lo meno mi aspettavo ciò che mi era stato destinato.<br />

Non volli tornare. Però tutto ciò che riuscii a ricavare da tale proposito<br />

fu di arrivare due o tre ore in ritardo il giorno successivo, dopo aver<br />

girovagato per strada senza alcun profitto. Mi esercitai in questa intenzione,<br />

perseverando nel mio ritardo sterile. Una volta capitai in una chiesa.<br />

Dalle mura annerite dell’interno si protendevano figure barocche in<br />

oro sbiadito. Pigiati e compressi come una massa umana, si riversavano<br />

giù da un arco angeli grassi, putti, amorini di un tempo. Percepivo quella<br />

carne dorata come una minaccia spaventosa.<br />

Polpacci di bambino, guance paffute, posteriori intagliati, braccia deformi,<br />

ombelichi trapanati, mani semiparalizzate, ali e teli ai fianchi irrigiditisi<br />

a mezzo del movimento. Odoravo il vapore dolciastro dell’incenso,<br />

un’aria che sapeva di bruciato come di polvere incendiata, un’umidità<br />

146


soffocante, come se i cadaveri stessero respirando sotto le mattonelle. E<br />

rimasi lì parecchie ore. Vidi le candele consumarsi. Vidi i più poveri tra i<br />

poveri perdere il loro dolore. Vidi le malattie addensatesi nel petto, nello<br />

stomaco e nelle membra cadenti arginarsi per un istante. Ebbi l’impressione<br />

che parte dell’oro consunto si posasse sulle labbra degli oranti. Vidi<br />

un fiume oscuro e profondo sotto di me separarmi da ogni consolazione<br />

e redenzione. Avvertii la dannazione aderirmi come un abito. Mi salì agli<br />

occhi una lacrima. Ma non avevo rimorsi. Avevo l’orgoglio di un angelo<br />

caduto. Dissacrato e orgoglioso. Senza preghiere nel cervello. Mi presentavo<br />

con delle accuse. C’era un dio da qualche parte, avvolto in un mantello<br />

ampio; sul mento gli cresceva una lunga, vecchia barba. Aveva mani<br />

ossute e occhi miopi. Non era lì per me. Uscii così come ero entrato, non<br />

purificato. Andai alla banchina. Mangiammo i vol-au-vent, bevemmo il<br />

vino. E i miei pensieri si volatilizzarono, come si volatilizzano i pensieri<br />

di fronte ai grandi dolori. E il tempo passava e non cambiava nulla.<br />

L’evento doveva venire da me, non fui io ad andargli incontro.<br />

Accadde che ad Augustus venne voglia di dare sfoggio della sua abilità<br />

di fronte a molte persone. Vinse la pigrizia che lo rivestiva come un<br />

rampicante. Salì a bordo di un pontone su cui avevano preso posto in<br />

tanti. Si sedette sui tiranti della griglia di ferro che circondava la piattaforma<br />

della nave. Curvò la schiena, afferrò uno dei tiranti con la mano<br />

possente. Rivolse lo sguardo verso di me, sprezzante, annoiato, il labbro<br />

inferiore abbandonato, come se fosse stanco di tutti i piaceri, di quelli<br />

già goduti e di quelli futuri. E mi resi conto che, nonostante gli incontri<br />

quotidiani, era un perfetto sconosciuto per me. La sua esistenza e le sue<br />

pulsioni mi erano ignote.<br />

La nave si avvicinò scivolando sull’acqua. L’elica gorgogliava. Verde<br />

intenso, frammisto a bolle bianche, il liquido girava vorticosamente<br />

spingendosi oltre l’involucro piombato della baia del porto. Sul parapetto<br />

gocciolarono alcune monete. Augustus si gettò in mare di schiena;<br />

nuotò a delfino. Riemerse, sputò l’acqua, scomparve di nuovo sotto la<br />

chiglia piatta. La nave scivolò via. Guadagnò una distanza notevole dal<br />

muro della banchina. Gli occhi degli stranieri cozzavano contro la superficie<br />

dell’acqua. Andavano in cerca del punto in cui lo schiavo negro<br />

sarebbe riemerso.<br />

147


Il cuore cominciò a battermi all’impazzata. Dopo pochi minuti persi<br />

ogni speranza. Mi calò sugli occhi un filtro nero. Dissi tra me e me che<br />

non potevo svenire. Il pontone si spinse verso il mare aperto. Non si capiva<br />

che cosa si proponessero di fare i passeggeri infervorati. Forse erano<br />

già tornati tranquilli e si sentivano ingannati.<br />

Guardai se per caso stesse arrivando una barca. Feci scivolare la schiena<br />

lentamente lungo i pioli di una scala della banchina. Sciolsi la gomena<br />

titubante, remavo fiacco. I miei occhi erano alla ricerca. All’improvviso<br />

videro il suo viso galleggiare dondolando tra le onde quiete. Remai fino a<br />

quel punto. Feci cenno ai tuffatori che sedevano alla banchina di nuotare<br />

verso di me e aiutarmi. Non uno si mosse.<br />

Vidi la testa morta. Afferrai quei ciuffi duri e tentai di tirare il corpo<br />

in barca. Invano. Vidi con orrore che l’acqua attorno al corpo senza vita<br />

si stava colorando. Rosso pallido. Gli legai una gomena intorno al capo e<br />

mi annodai l’estremità libera intorno al ventre. Poi ricominciai a remare.<br />

Via dal punto in cui era successo. Un minuto prima avevo ancora sperato<br />

che potesse essere vivo. Non speravo più. La corrente che muoveva<br />

la barca fece emergere il cadavere. Invece della pelle scura della pancia<br />

individuai dei brandelli sparsi rosa pallido e grigi. Guardai e non guardai.<br />

Continuai a remare, sapevo solo che era morto.<br />

Remai a lungo, finché non prese forma dentro di me una risoluzione.<br />

Quella morte era affar mio. Non potevo scappare.<br />

Stavo per spingermi in alto mare. Non era ciò che volevo. Ma guadagnavo<br />

tempo. Mi ripetevo che quella morte era affar mio. Che quel<br />

cadavere era il mio cadavere. Nulla dell’uomo in vita mi era appartenuto,<br />

ad appartenermi erano i suoi resti.<br />

Smisi di remare. Mi sporsi dalla barca. Cullai quel corpo finché non<br />

raggiunse la superficie. Volevo vedere la ferita. Una nebbia fredda avvolse<br />

nel ghiaccio il mio cervello. Gli occhi privi di lacrime videro il ventre<br />

sfondato e lacerato. L’elica della nave doveva aver affondato le pale<br />

nella carne tenera. Affioravano le viscere. Ma la cosa più tremenda era<br />

il bacino fracassato. Lasciai che il cadavere scivolasse via da me un’altra<br />

volta, così che la gomena tornò ad essere il nostro unico legame. Remai<br />

più velocemente possibile verso terra per accelerare il corso degli eventi,<br />

saldo nei miei propositi. Per alcuni minuti avvertii il peso insostenibile<br />

della mia solitudine. Non avevo pensieri se non questo, questo senti-<br />

148


mento lamentoso e annichilente di essere solo e isolato, senza amore,<br />

senza speranza, senza fiducia. Mi salvai pensando che forse la colpa di<br />

quella morte ricadeva su di me. Le mie stolte visite alla banchina avevano<br />

viziato un po’ quel corpo superbo, ingrassandolo, indebolendolo<br />

per il difficile lavoro delle braccia. In ogni caso, sicuramente senza cattive<br />

intenzioni, ma causando un qualche effetto, gli avevo impedito<br />

di esercitarsi meglio nel far fronte ai pericoli. Come avrebbe potuto<br />

sopraffarlo l’elica di un piroscafo se fosse stato nel pieno possesso del<br />

suo vigore (quando lo avevo conosciuto aveva i muscoli straordinariamente<br />

robusti e sodi allo stesso tempo: forse che adesso erano un po’ più<br />

molli, e i nervi meno saldi avevano esitato per una frazione di tempo<br />

irrisoria) Come era potuto succedere Bastava per una spiegazione che<br />

a quel corpo sano si fosse aggiunto del grasso e che alcuni muscoli si<br />

fossero ridotti<br />

Giunsi a un punto del porto dove avevano costruito un piano di<br />

scorrimento inclinato, in granito, per poter tirare le barche a riva. I panconi<br />

rivestiti di ferro entrano in acqua. Su questo scalo di costruzione si<br />

sono insediati alghe e molluschi. La struttura è vuota. Le piante marine<br />

emanano un odore pungente di bromo e liquame.<br />

I piedi scivolavano sulle alghe poltigliose e flosce. Solo i cocci delle<br />

conchiglie schiacciate offrivano loro un sostegno. Tirai su la barca<br />

per metà, l’altra metà la lasciai galleggiare in acqua. Trascinai il cadavere,<br />

che giaceva di schiena come un impiccato, sul piano inclinato,<br />

all’asciutto. Il telo ai fianchi era sparito. Si vedeva l’orrenda mutilazione.<br />

Mi voltai. Mi rivolsi ad alcuni uomini che si erano avvicinati lentamente.<br />

Li pregai di informare un funzionario di polizia. Non volevo<br />

abbandonare il cadavere. Non mi risposero. Osservavano il mutilato.<br />

Pronunciarono l’atrocità, dissero che il morto aveva smesso di essere un<br />

uomo. Aspettavo tenendo in mano il capo della gomena con cui avevo<br />

sollevato il cadavere. Il sole ardeva. Gli uomini aumentavano. Dei bambini<br />

che correvano lì vicino lanciarono strane grida. Alcune donne vennero<br />

allontanate. Stavo per soccombere all’irresolutezza, alla vergogna<br />

e alla tristezza. Mi tenevo in piedi solo perché non volevo abbandonare<br />

il cadavere. Era ciò che mi ero prefissato. Quella morte era affar mio.<br />

Ecco perché ero là, vergognoso, triste, estraneo a me stesso, un nemico<br />

di tutti gli uomini.<br />

149


Coloro che erano lì attorno spiegarono al funzionario di polizia tutto<br />

ciò che sapevano e non sapevano. E presto egli sapeva più di tutti messi<br />

insieme. Mi chiese solo:<br />

«E ora»<br />

La domanda mi stupì. Mi aspettavo infatti che avrebbe cominciato a<br />

dare ordini a destra e a manca, che avrebbe addirittura tentato di separarmi<br />

dal cadavere – e mi ero armato per opporre resistenza ai suoi ordini.<br />

Per questo risposi esitante:<br />

«All’ospedale –».<br />

Dovevo guadagnare tempo, arrivare in un altro ambiente. Una volta<br />

che il mio cervello si fosse abituato allo spavento, avrei potuto mettere in<br />

ordine più facilmente ciò che era da mettere in ordine. In quel momento<br />

tenevo in serbo delle bugie più o meno appropriate per distogliere il funzionario<br />

da qualsiasi provvedimento che avrebbe potuto prendere. Ero<br />

già pentito della mia affermazione. La completai:<br />

«– Non all’ospedale inglese».<br />

Era nelle vicinanze. Si sarebbe impiegato troppo poco tempo per arrivare<br />

là. Ma egli chiese ancora:<br />

«Lei ha del denaro»<br />

Annuii. Infilai la mano in tasca. Tirai fuori una banconota e la porsi<br />

al funzionario. Non la prese.<br />

«Ne ha dell’altro», chiese.<br />

Annuii. Si allontanò. La folla tracciava un cerchio intorno a me e al<br />

morto. Mantenevano una certa distanza, di rispetto, di ripugnanza, di<br />

sconcerto, da «io non voglio essere coinvolto». L’istinto suggeriva loro<br />

che stava succedendo qualcosa di sconveniente, qualcosa di riprovevole<br />

che non potevano impedire perché ne era promotore uno straniero dai<br />

pensieri confusi e dalle usanze impure. Si ricordarono del loro orgoglio.<br />

Erano spagnoli (la maggioranza, e gli altri volevano esserlo). I loro antenati<br />

avevano praticamente sterminato i Guanci. Erano stati come la<br />

peste. E la peste era stata con loro. Ma questo tuffatore o nuotatore era<br />

meno di un guancio dagli occhi verdi. Un mezzo indiano, mezzo negro,<br />

una specie di schiavo, un intero groviglio di schiavi in cui era stato pressato<br />

un pezzo di pelle bianca.<br />

Il funzionario di polizia andava innanzi a una «tartana», un carro a<br />

due ruote trainato da un mulo con un tettuccio rotondo di lino. Si era<br />

150


impossessata di lui un’alterigia di cui non individuai la causa. (Non individuiamo<br />

mai la causa dell’alterigia di coloro che la legge manda contro<br />

di noi). Con voce penetrante mi ordinò di deporre il cadavere sul carro.<br />

Esitai. Egli fece indietreggiare di qualche passo i curiosi. Pensai di adagiare<br />

il morto su una panca e di sedermi sull’altra. Forse il funzionario di<br />

polizia avrebbe ritenuto suo dovere farmi compagnia. Così presi il corpo,<br />

lo sollevai tenendolo tra le braccia e lo portai sul carro.<br />

«Salire», mi intimò il funzionario di polizia. Mi obbligò a prendere<br />

posto di fronte al cadavere. Ordinò al cocchiere di spronare l’animale;<br />

egli seguì il veicolo.<br />

Mi sporsi dal tettuccio.<br />

«Non all’ospedale inglese», ripetei.<br />

Quando il carro sobbalzava sulle asperità, la bocca del mio amico<br />

muto vomitava un po’ di acqua e catarro. Quel non so che di sprezzante<br />

che gli aveva sfiorato il viso in vita aveva ceduto il posto a un’espressione<br />

angosciata. Solo le braccia possenti e il petto magnifico sembravano<br />

immutati. La strada che prendemmo era in salita. A tratti fummo accompagnati<br />

dallo sguardo delle persone. I piedi di Augustus sporgevano<br />

dal carretto. Il funzionario di polizia sollevò il capo verso di me con fare<br />

confidenziale. Io chinai il mio verso di lui con fare confidenziale. Vidi le<br />

sue mani appoggiarsi al bordo del carro, cosa che gli permise di avvicinare<br />

il viso al mio senza perdere l’equilibrio o inciampare.<br />

«Lei aveva una banconota pronta per me», disse.<br />

Stranamente lo capii subito, nonostante lo strepitio delle ruote. Tirai<br />

fuori la banconota e gliela porsi senza dare nell’occhio.<br />

«L’ospedale del Vecchio si trova su un’altura che domina la città»,<br />

disse, «in un castagneto. Vedrà, dovrà sistemare la sua faccenda da solo».<br />

Gridò al guardiano di muli:<br />

«Non disonorare i tuoi genitori e il tuo santo».<br />

L’altro era ancora più superbo. Rispose:<br />

«Non ho mai portato in giro nessuno del genere: un matto e un morto<br />

senza vestiti; ma la mia anima non verrà compromessa perché si sa<br />

adattare. Non priverò il vecchio professore della lordura. Ci si può fidare<br />

di me».<br />

«Il signore paga», disse il funzionario. Scomparve all’improvviso. Scesi<br />

e avanzai di fianco al carretto. Ci lasciammo la città alle spalle. Il sentiero<br />

151


continuava in salita. Si snodava in curve. I campi arati con cura si alternavano<br />

a piantagioni di palme e fichi. In lontananza un boschetto di begli<br />

allori. Dalla strada esalava una polvere calda. Giungemmo a un parco<br />

con dei castagni. Una grande baracca ricoperta di lastre di ferro zincate<br />

– quello era l’ospedale. O di meno, un improbabile reparto medico.<br />

Come avevo posto il cadavere sul carro, così avrei voluto farlo scendere.<br />

Ma non fu possibile. Si presentarono due suore con una barella. Il<br />

frammento di viso lasciato libero dall’abito era dolce e leggiadro; le mani<br />

virili e spietate. Con una risolutezza brutale afferrarono il morto e lo<br />

gettarono sulla barella. Ancor prima che avessi potuto obiettare, avevano<br />

sollevato e portato in casa il lettuccio. Volevo seguirle ma il guardiano di<br />

muli chiedeva la sua ricompensa. Persi minuti preziosi. Feci i conti con<br />

l’uomo in tutta fretta. Poi entrai nella casa. Una volta dentro, una terza<br />

suora mi sbarrò la strada.<br />

«Cosa vuole» chiese aspra e sprezzante.<br />

Persi immediatamente il controllo. La fissai in volto. Era irriconoscibile.<br />

Una maschera dagli occhi vivi, giudicanti.<br />

«Sto vedendo il suo viso intero» chiesi a mia volta, in preda all’odio<br />

e alla paura.<br />

Non si mosse, neanche un battito di ciglia.<br />

«Cosa vuole» ripeté.<br />

Tacqui alcuni istanti, mi ricomposi.<br />

«Vorrei vedere il signor professore – il signor Vecchio – o come si<br />

chiama – ho capito così – ».<br />

Si allontanò in fretta, quasi volando. Dopo un po’ fu di ritorno.<br />

«Qual è la sua richiesta» un’altra domanda anziché una risposta.<br />

«L’ho già detto», risposi, «voglio parlare col signor professore».<br />

«Non è fattibile se lei non mi confida la sua richiesta», disse.<br />

«La morte di un uomo non è un motivo sufficiente» gridai.<br />

«Riferisco», disse e scomparve un’altra volta.<br />

Ritornò e mi comunicò: «Questo non è orario di visita».<br />

«Non lascerò che mi buttiate fuori», ribattei accaldato, «ho portato<br />

qui un morto, occorrerà ascoltarmi».<br />

«Si può sapere che cosa vuole», disse un uomo che mi ritrovai di<br />

fronte all’improvviso. «Com’è arrivato qui Cosa ha lei a che fare con il<br />

cadavere»<br />

152


Capii subito che colui che aveva parlato era il Vecchio. Vidi i suoi<br />

occhi verdi. Furono la prima cosa che vidi. E solo dopo la barba enorme<br />

e incolta che era risalita fin sotto gli occhi. Mi resi conto solo in un secondo<br />

momento che su quel viso c’erano anche alcune macchie di pelle<br />

pallida. La barba era più rossa che bianca. Una fiamma imponente che<br />

divampava verso il basso. La fronte era una lastra di cera senza vita; i capelli<br />

fini erano pettinati come una parrucca (chi lo sa, forse era proprio<br />

una parrucca), con la scriminatura imperlata di grasso. – Ero perduto,<br />

lo sentivo, se non avessi avuto subito una buona idea, perché non sapevo<br />

proprio più che cosa pensare e chi avevo davanti. Quella parola,<br />

«Vecchio», non era sufficiente. Il groviglio della barba mi confondeva<br />

ulteriormente. Dissi tra me e me:<br />

«Non ha mento; nasconde il suo essere ridicolo».<br />

Ma all’improvviso vidi che era alto, robusto, di grande forza fisica;<br />

avrebbe potuto ammazzarmi a mani nude. Era un gigante; cosa che avevo<br />

ignorato al primo impatto; come se in quell’istante fosse cresciuto di<br />

una testa. Mi sfuggiva del tutto come avessi potuto tralasciare l’entità<br />

delle sue dimensioni. Nella mia perplessità cercai di nuovo gli occhi verdi<br />

che, me ne accorsi per la prima volta ora, rilucevano alti sopra di me<br />

come pietre affilate. Brillavano di un’avidità di sapere inquietante, forse<br />

anche maligna. Ma contemporaneamente, o appena dopo il luccichio vetroso,<br />

si spensero o si chiusero dal disgusto e dalla stanchezza. Guardavo<br />

senza pudore quel viso trasparente.<br />

«Cosa ha lei a che fare con il cadavere» chiese un’altra volta.<br />

«Lei è il signor professore» chiesi tremando di fronte alla parete del<br />

suo corpo possente.<br />

«In ogni caso indosso la divisa da medico, come può vedere», replicò,<br />

«il camice di fustagno sbiadito coi bottoni lucidati in nichel». Infilò il<br />

pollice della mano destra in un’asola per spingere in avanti l’occhio del<br />

bottone, affinché mi guardasse ardente. Il bottone saltò in aria e cadde<br />

sul pavimento.<br />

«Disordine», disse, «tutto passa».<br />

Ero completamente annichilito. Dissi il mio nome.<br />

«Bene», disse, «abbia la cortesia di espormi la sua richiesta. Ma che<br />

non mi venga a raccontare, l’avverto, di avere qualcosa a che fare col<br />

morto. Non crederò a niente di insolito. Per lo meno, se proprio ......<br />

153


Postfazione<br />

di Andrea Raos<br />

Gli scrittori davvero grandi sono quelli che sanno rallentare. Fermare<br />

il ritmo, dilatare il respiro, aprire dentro la frase spazi e pulsazioni inattese.<br />

Creano uno spazio sospeso che argina la morte.<br />

Si può rallentare per concisione e per sottrazione, come Pedro Páramo.<br />

Oppure – scelta solo in apparenza più ovvia – per dilatazione, come il<br />

Fiume senza rive* di Hans Henny Jahnn da cui alcuni di questi racconti<br />

sono tratti.<br />

È in senso quasi letterale che Jahnn – scrittore dunque tra i più grandi<br />

– crea spazi sospesi ad arginare la morte. Temi ricorrenti di questi racconti<br />

sono la scomparsa della persona amata e i mille modi per evitarla,<br />

rallentarla, congelarla in un attimo senza tempo. Preludono o scorrono<br />

interni alla visionaria riattivazione nella già citata opera maggiore, Fiume<br />

senza rive, di quella matrice essenziale del pensiero occidentale che è il<br />

rifiuto della morte: il mito di Gilgamesh.<br />

Esplicitato il mito in chiave omosessuale, Jahnn ne fa la lotta titanica<br />

di un uomo per amare il proprio compagno anche oltre la morte. E qui<br />

il rallentare diventa punto essenziale: su centinaia di pagine, il protagonista<br />

di Fiume senza rive descrive l’agonia, la morte del compagno, e<br />

soprattutto il successivo processo di imbalsamazione al quale sottopone<br />

il corpo e – nei minimi dettagli – la costruzione del feretro destinato ad<br />

accoglierlo. Feretro che poi, negli anni successivi, custodirà in casa “travestito”<br />

da cassapanca.<br />

In un’interminabile, sconvolgente seduta di ipnosi narrativa, Jahnn<br />

raggiunge uno dei suoi vertici artistici e concettuali: la creazione perfettamente<br />

laica di uno spazio perfettamente sacro. Uno spazio cioè finalizzato<br />

alla sospensione del tempo e delle contingenze e simultaneamente<br />

rivolto al qui e ora, all’umanissimo bisogno di far toccare terra al dolore<br />

perché se ne scarichi e diffonda la potenza tragica.<br />

Di professione, Jahnn era costruttore e restauratore di organi da chiesa;<br />

e prima dell’avvento del nazismo e della sua conseguente fuga dalla Ger-


mania, aveva fondato una sorta di “comune” libertaria ante litteram. Poi<br />

la fuga, appunto, insieme al compagno: l’isolamento assoluto, il distacco<br />

dai confini fisici e soprattutto mentali dell’Europa. L’utopica sospensione<br />

di tempo e spazio che la sua opera prefigura – sospensione, come si vede,<br />

tutt’altro che indifferente alle tensioni della Storia –, come anche la cattedrale<br />

di parole che la difende nel mondo, hanno radici davvero profonde.<br />

Così, immagine incastonata nella fusione di mito e autobiografia che<br />

è Fiume senza rive, il protagonista di Il tuffatore seppellisce il suo amore<br />

contro uno sfondo narrativo che pecca forse per esotismo – ma che<br />

comunque pone con forza, e non è poco per gli anni in cui fu scritto,<br />

il tema centrale dell’uscita dalle eterne coordinate eurocentriche; così<br />

l’orrore della violenza e della sopraffazione è indagato in chiave miticostorica<br />

in Il re sassanide; così il tema del doppio, della ricerca di sé (del<br />

sé più perfetto) nell’altro, è riflesso nell’intricato gioco di specchi erotici<br />

della Storia dei due gemelli.<br />

Jahnn scrive complesso, stratificato, asimmetrico, crudamente sensuale<br />

e sempre delicatissimo, trasognato, risolutamente non cattolico nel<br />

suo non scindere mai mente e corpo – l’interrelazione è sottile: il corpo<br />

è sì la sede delle più spericolate sperimentazioni escatologiche, ma queste<br />

sono sistematicamente disinnescate da uno “spirito” che, a sua volta, non<br />

è altro che un sogno di carne e sangue.<br />

Non so quanto sia noto Jahnn in Germania – non molto, sospetto;<br />

so invece per certo che i precedenti, sporadici tentativi di renderlo noto<br />

in Italia sono tutti caduti nel vuoto. 1 Ma non è un caso. La scrittura di<br />

Jahnn è una potenza volontariamente staccatasi dal consorzio europeo e<br />

umano, ossessivamente creata su uno sfondo d’esilio. Ricorda l’esistenza<br />

di mondi lontani e non avvicinabili se non a prezzo di un completo tagliare<br />

i ponti con qualunque origine. È un viaggio al termine del quale<br />

si muore, come tutti, ma per l’unico motivo che solo una volta morti si<br />

può tornare al mondo. È forza d’amore, estranea.<br />

1<br />

H.H. Jahnn, La nave di legno, trad. di F. Saba Sardi, Rizzoli 1966 [2 a ed. Archinto 1994];<br />

Medea, trad. e introd. a cura di L. Monti, Aletheia 2000; La notte di piombo, trad. a fronte di A.<br />

Bonacci, Jacques e i suoi quaderni 2001.<br />

180


Perrudja<br />

di Ferruccio Masini<br />

Il paesaggio nordico di Perrudja (1929) (il romanzo, al pari del dramma<br />

Povertà, ricchezza, uomini e bestie [Armut, Reichtum, Mensch und Tier] e, in<br />

parte, del Diario di Gustav Anias Horn [Niederschrift des Gustav Anias Horn]<br />

è ambientato in Norvegia) è un frammento cosmico di preistoria: i suoi deserti<br />

altopiani, le sue cime di granito, la «tormentante luce plumbea» dei suoi<br />

interminati spazi, il respiro gelido dei fiordi e gl’improvvisi sibili e lamenti<br />

che risuonano dalle penombre animali e demoniache dell’«inferno autunnale»,<br />

allorché gli spiriti e i troll, “dall’inaudibile riso del loro volto di roccia”, 1<br />

sembrano riscuotersi nei loro antri, sono gli elementi di uno scenario nella cui<br />

“profondità” da antica saga scandinava si colloca, non a caso, la storia moderna<br />

del suo protagonista, «der zerrüttete Peter», 2 «Pietro lo sconvolto», Perrudja.<br />

Gli “elementi” sono la grande anima cosmica di questo libro, percorso dai<br />

gemiti misteriosi dei pinastri, quando si annuncia la bufera, e dalla timida<br />

ebbrezza del maggio che sembra giungere da un tempo immemorabile «con i<br />

suoi miliardi di rosse, dure, piccole increspate foglie di betulla, con una volta<br />

celeste colma di soli bianchi, con larve di scarabei, con innumerevoli animali,<br />

con un mondo nuovo che ha dimenticato il morire». 3<br />

La stessa modanatura architettonica di questa prosa, con i suoi “staccati”, i<br />

suoi stenogrammi fantastici, le sue prodigiose ellissi, con le sue sequenze asindetiche<br />

di sostantivi e infiniti sostantivati, con i suoi coaguli di aggettivi che<br />

ricordano talora la tavolozza cromatica di un Nolde o di un Munch, sembra<br />

aprirsi di volta in volta ad un continuo flusso e riflusso di percezioni estatiche<br />

e di monologhi interiori, sollevandosi nella compatta valanga delle iterazioni<br />

scompositive e delle epifore, con il respiro ritmico di una scabra paratassi<br />

bloccata all’improvviso dal dilagare formicolante e sensuale delle sinestesie e<br />

delle immagini verbali. 4<br />

1<br />

H.H. Jahnn, Perrudja, Frankfurt am Main s. d. [1958], p. 45.<br />

2<br />

Cfr. nota di Jahnn alla 2 a ed. del Perrudja, pp. 7-8.<br />

3<br />

Perrudja, p. 36.<br />

4<br />

Confrontando lo stile narrativo del Perrudja con l’Ulysses joyciano e di Die drei Sprünge des


L’adolescenza di Perrudja – nato dall’unione di un troll con un essere<br />

umano – la sua solitudine catafratta e selvaggia, i primi turbamenti della<br />

carne per la vaccara Lina, che si farà invece possedere dal servo Hjalmar, la<br />

rivalità con il proprietario terriero Thorstein Hoyer fidanzato della contadina<br />

Signe, uccidendo il quale Perrudja si conquisterà l’amore della donna, le nozze<br />

con questa, subito infrante per quella «viltà del cuore» che gli ha impedito<br />

di confessarle il proprio delitto – tutti questi motivi rappresentano indubbiamente,<br />

nella complessa organatura fonologico-narrativa del romanzo, il<br />

massiccio centrale.<br />

All’oscurarsi, nella parte successiva, dell’orizzonte mitico, nella doppia valenza<br />

rituale-sacrificale e nichilisticamente dissolvente del destino di Perrudja<br />

e dei suoi momenti di trapasso, subentrano i fantastici domini di una «colonia<br />

mondiale» retta da giovani, da uomini forti e pietosi, che nel vagheggiamento<br />

del suo fondatore, Perrudja, ormai unito con un vincolo di consanguineità<br />

omoerotica a Hein, fratello di Signe, dovrebbe costituire l’unica risposta,<br />

resagli possibile dalla favolosa ricchezza di cui è entrato misteriosamente in<br />

possesso, alla civiltà industriale e all’incubo delle sue spinte distruttive.<br />

Il romanzo resta, in certo modo, incompiuto, in quanto avrebbe dovuto,<br />

nelle intenzioni del suo autore, sviluppare alcune situazioni e figure (Signe e<br />

Hein), nonché il tema utopico vero e proprio, in un’opera successiva dal titolo<br />

uguale o simile. 5 Gli avvenimenti politici del ’33 in Germania e soprattutto<br />

«lo sviluppo della moderna scienza della natura» – la bomba atomica – hanno<br />

troncato definitivamente la speranza di una “guerra contro la guerra”, quale<br />

Wang-lun di A. Döblin, uno dei più autorevoli interpreti di Jahnn definisce quello di quest’ultimo<br />

«stile dell’ebbra interiorità», in cui si compenetrano associazioni sensuali e intellettuali (W.<br />

Muschg, Von Trakl zu Brecht, München 1961, pp. 299 sgg.). Il modulo stilistico dello Jahnn<br />

di Perrudja, al quale possono essere avvicinati i modi della «absolute Prosa» propri di un Benn<br />

o di un K. Einstein, sottintende, come nel primo Döblin, il netto rifiuto della psicologia (cfr.<br />

A. Döblin, Aufsätze zur Literatur, a cura di W. Muschg, Olten e Freiburg im Breisgau 1963,<br />

p. 16). Contro l’accusa di Formlosigkeit in Jahnn cfr. W. Emrich, Das Problem der Form in H.<br />

H. Jahnns Dichtungen, in Polemik Streitschriften, Pressefehden und kritische Essays um Prinzipien,<br />

Methoden und Massstäbe der Literaturkritik, Frankfurt am Main e Bonn 1968, pp. 181-95.<br />

5<br />

Sulle ragioni della mancata prosecuzione del romanzo si veda, oltre alla citata nota prefatoria<br />

di Jahnn, la lettera a W. Muschg del 1° maggio 1933. In quello stesso anno Jahnn dichiarerà<br />

a quest’ultimo che intende portare a compimento la stesura di Perrudja II, già avviata per un<br />

buon terzo, entro la fine del ’34 (cfr. W. Muschg, Gespräche mit H. H. Jahnn, Frankfurt am<br />

Main 1967). Il progetto non venne mai realizzato. Nel ’32 erano apparsi in traduzione francese<br />

con il titolo Mission remplie (Episode) nella «Revue d’Allemagne» (6. VI, 59), e nel ’64 in «Text<br />

+ Kritik» (2/3) frammenti della II parte del romanzo. Il materiale inedito del Nachlass, appartenente<br />

al Perrudja II, è stato recentemente pubblicato da R. Burmeister per i tipi di Hoffmann<br />

und Campe di Amburgo.<br />

182


si era venuta preannunciando nei progetti di Perrudja, presidente dell’assemblea<br />

mondiale di uno sterminato Holdingkonzern.<br />

L’asse del romanzo, tuttavia, ci sembra graviti in maniera sufficientemente<br />

autonoma sul motivo della giovinezza mitica di Perrudja, sul paradigma,<br />

cioè, di una Bildung del «non-eroe» destinata a realizzarsi nella<br />

Zwillingsbrüderschaft o Blutsbrüderschaft ideale tra quest’ultimo e Hein, alla<br />

quale potremmo avvicinare il vincolo che lega, anche oltre la morte, Gustav<br />

Anias Horn a Alfred Tutein nel Diario, 6 sulla base di un modulo mitico-arcaico<br />

indubbiamente presente a Jahnn, quello mesopotamico della amicizia<br />

di Gilgamesh per Enkidu, e l’altro, egizio, dell’unione Iside-Osiride. 7 È nella<br />

figura archetipa dei “fratelli” e dell’Eros virile, su cui s’innesta il mitologema<br />

arcaico dello stesso Perrudja, il «fanciullo orfano» studiato da Kerényi, 8 che<br />

possiamo ritrovare l’architrave della costruzione epico-narrativa del romanzo,<br />

concepito come il tentativo, sia pure problematico e contraddittorio, di<br />

ribaltare il processo meccanico-desacralizzante della Zivilisation, con la sua<br />

conseguente nevrosi d’angoscia (il freudiano «Unbehagen in der Kultur»)<br />

nell’universo mitico-religioso e di cogliere nell’elementare, nella riduzione<br />

ad una «semplice legge», plasticamente espressa dall’idolo neolitico della<br />

fecondità, il germe di una palingenesi. L’«invisibile poesia» del «respiro» dei<br />

rilkiani Sonetti a Orfeo [Sonetten an Orpheus] 9 diventa così, in Jahnn, cifra<br />

d’ebbrezza biotica nelle viscere del mondo: «Il mondo era piccolo come una<br />

piccola nave grigia. Le stelle erano trascorse. Un velo avvolgeva il mondo.<br />

Affinché nessun grido potesse penetrare fino ad esso. Affinché lui, Perrudja,<br />

potesse dimenticare. Respirare, respirare. Respirare. Non faceva altro che<br />

respirare». 10<br />

6<br />

La Niederschrift des Gustav Anias Horn nachdem er 49 Jahre alt geworden war (2 voll., München<br />

1949-50; ora Frankfurt am Main 1959-61) è la seconda parte della trilogia Fluss ohne<br />

Ufer, la cui prima parte, intitolata Das Holzschiff, apparve per la prima volta nel 1949, la terza,<br />

a cura di W. Muschg, nel 1961 con il titolo Epilog (Frankfurt am Main).<br />

7<br />

Cfr. L. Secci, Il mito di Medea nella tragedia di H. H. Jahnn, in «Sudi germanici», n. s., vol. V,<br />

1967, n. 2, pp. 233 sgg. e H. Wolffheim, H. H. Jahnn, der Tragiker der Schöpfung, Frankfurt<br />

am Main s. d., pp. 24 sgg. e 32 sgg. Una nuova stesura del saggio di L. Secci è in Il mito greco<br />

nel teatro tedesco espressionista, Roma 1969.<br />

8<br />

K. Kerényi, Origine e fondazione nella mitologia, in C.G. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni<br />

allo studio scientifico della mitologia, trad. it. di A. Brelich, Torino 1948, pp. 50 sgg.<br />

9<br />

R.M. Rilke, Sonetten an Orpheus, II, 1, in Werke in drei Bänden, a cura di B. Allemann,<br />

Frankfurt am Main 1969, I, p. 507.<br />

10<br />

Perrudja, p. 560.<br />

183


«Ich verstand von der Philosophie nur Archaisches» 11 – afferma Jahnn – e<br />

senza dubbio proprio l’ermetica fissità delle divinità chthonie – dalle metopi<br />

del tempio di Selinunte alle cariatidi cretesi, alle immagini effigiate dagli<br />

artisti mesopotamici o egizi – e non la chiara modulazione intellettuale del<br />

dio delfico sembra costituire la nota più profonda di quella oscura totalità<br />

primordiale nella quale rifluiscono i motivi occultamente sacrali e tragicodemoniaci<br />

dello Jahnn tardoespressionista di Perrudja.<br />

Tutta la dimensione mitica di Jahnn s’impernia sulla ambiguità strutturale<br />

della sacralità arcaica, la quale appunto, come risulta dallo stesso significato<br />

delle parole sacer e ἃγιοςάξεσθαι, esprime l’ambivalenza della “consacrazione”<br />

e del divieto, della venerazione e del religioso timore e tremore dinanzi al<br />

mysterium tremendum.<br />

Giocando sulla rigorosa separazione di etica e sacralità Jahnn compie,<br />

sotto la maschera del mito, le sue trasgressioni contro i codici etico-sociali<br />

della civiltà, le istituzioni fabbricate dalla ragione illuministico-borghese, e<br />

le provocazioni “innaturali”, le visioni di mostruosa crudeltà e di assoluto<br />

orrore dello Jahnn drammaturgo rispondono esattamente al proposito di<br />

opporre allo spazio storico uno spazio cosmico-erotico in cui le stesse figure<br />

dell’incesto, dello stupro, dell’assassinio, della sodomia, dell’omosessualità si<br />

caricano di una pregnanza rituale, di una virtualità magica, 12 tendono cioè a<br />

risarcire quell’altro «incesto», quell’altro «stupro contro le cose» <strong>13</strong> perpetrato<br />

dall’homo sapiens. L’organo centrale, il medium totemico di questa regressione<br />

o catabasi nelle profondità del mito matriarcale-chthonio (il rapporto<br />

dello scrittore di Amburgo con Bachofen, da un lato, e con Klages, dall’altro,<br />

è assai indicativo in questo senso) è costituito dal “corpo”. Jahnn denuncia<br />

la scissione operata in particolar modo dal cristianesimo (Hernán Cortés è<br />

chiamato «orante macellaio» 14 ) – ma potremmo parlare, con Nietzsche, della<br />

intera tradizione platonico-cristiana – all’interno dell’essere individuale,<br />

11<br />

H.H. Jahnn, Eine Auswahl aus seinem Werke, a cura di W. Muschg, Olten e Freiburg im<br />

Breisgau 1959, p. 549.<br />

12<br />

Nei suoi Tagebücher Musil sottolineava l’ambivalenza del sentimento amoroso tra fratelli,<br />

che può rimandare sia alla perversione che al mito, e acutamente avvertiva come alla radice di<br />

questa ambiguità ci fosse l’accordo artistico stabilito tra due elementi così radicalmente diversi<br />

come quello «arcaico» e quello «schizofrenico». (R. Musil, Tagebücher, Aphorismen Essays und<br />

Reden, Hamburg 1955, p. 355).<br />

<strong>13</strong><br />

G. Benn, Ithaka, in Gesammelte Werke in vier Bänden, a cura di D. Wellershoff, Wiesbaden<br />

1958-61, II, p. 298.<br />

14<br />

Perrudja, p. 561. Ma si veda l’intero passo.<br />

184


«portatore dell’esistenza», tra cadavere e anima, tra sangue e spirito, tra una<br />

parte impura e animale, perciò malvagia, e un’altra spirituale, degna d’immortalità.<br />

Al privilegio di un’anima «apocrifa», «celebrata nelle cattedrali e<br />

in mostruosi pensieri di resurrezione», 15 Jahnn oppone il circolo mitico di<br />

un’onniavvolgente unità animica-corporea, alla quale è possibile pervenire<br />

solo se si valicano a ritroso i millenni, sprofondando nella Grecia preomerica<br />

e, al di là di questa, nelle antichissime civiltà sumerico-babilonesi (l’epopea<br />

di Gilgamesh).<br />

È il corpo, come plesso simpatetico di omologie anthropo-cosmiche, l’axis<br />

mundi da cui si dipartono i modi di una partecipazione estatica e orgiastica<br />

a questa totalità concepita come ritmica vicissitudine di vita-morte, come<br />

ripetizione sacra del Geschehen mitico, in cui la fine si salda al principio in un<br />

perpetuo ricominciamento. Ed è l’abisso di questa circolarità, che non può<br />

essere mai distrutta né ricreata né minimamente alterata nella pulsazione immutabile<br />

del suo divenire, il fondo tellurico sul quale si protende, con i suoi<br />

avvertimenti precoscienti, i suoi insondabili presagi, le sue oscure fascinazioni,<br />

quell’«Eros cosmogonico» che – come dirà Klages – «celebra le sue orgie<br />

nello spirare delle burrasche primaverili, dinanzi al firmamento disseminato<br />

di stelle, nel croscio della grandine, nel muggito della risacca marina, nei<br />

lampeggiamenti del “primo amore”, ma anche nell’abbraccio del destino, che<br />

stritola chi lo subisce». 16<br />

La «sfera del presessuale vissuto come pansessuale» – di cui parla giustamente<br />

Mittner a proposito del Perrudja 17 – è da intendersi proprio in<br />

senso klagesiano, come quello strato profondo dell’Eros 18 che accoglie in sé<br />

l’ebbrezza del cominciamento al pari di quella della distruzione e che trova la<br />

sua visibilizzazione, ma anche la sua trascendenza, nel corpo, questo «canone<br />

di ciò che è naturale», questo «geroglifico fatto di fantasmi» – come dirà<br />

Benn –. Il significato cosmico-tellurico del “corpo” lo ritroviamo appunto in<br />

15<br />

H.H. Jahnn, Der Dichter und die religiöse Lage der Gegenwart, cit. da H. Schirmbeck, Die<br />

Formel und die Sinnlichkeit, München 1964, pp. 2<strong>13</strong>-14.<br />

16<br />

L. Klages, Vom kosmogonischen Eros, Jena 1930, p. 55.<br />

17<br />

L. Mittner, Storia della letteratura tedesca dal realismo alla sperimentazione, 2 voll., Torino<br />

1971, II, p. 1283.<br />

18<br />

Siamo ben lontani dall’Eros platonico, cui erroneamente rimanda E. Lohner a proposito<br />

dell’Erlebnis erotico che trascenderebbe, secondo Jahnn, il senso di beatitudine del possesso<br />

corporale per attingere uno stato «sacro» a partire dal quale si dovrebbe giungere nell’immediata<br />

prossimità del divino; cfr. E. Lohner, Hans Henny Jahnn, in Deutsche Literatur im 20. Jahrhundert,<br />

2 voll., a cura di O. Mann e W. Rothe, Bern e München 1967, II, p. 321.<br />

185


una pagina di quel Benn che per tanti riguardi è vicino alle concezioni mistiche<br />

di Jahnn: «[…] nella personalità [lo spirito] resta per sempre legato col<br />

corpo, uniti per sempre col corpo nella sua storia per formare l’essere – sempre<br />

ci imbattiamo nel corpo, nella sua enigmatica funzione, nel soma che porta i<br />

misteri; di antichità originaria, straniera, non trasparente, totalmente rivolto<br />

alle origini, carico di un patrimonio ereditario di tempi ed eventi misteriosi<br />

e inesplicabili, eternamente sicuro nello spazio, nient’altro che esperienza del<br />

fondamento eterno e regolatore eternamente naturale della norma». 19<br />

Attraverso il nesso magico-totemico del corpo si dischiude l’ambito caratteristico<br />

della visione sacrale-primitiva dove piante, animali, uomini, demoni<br />

e dèi non appaiono come esistenze distinte e saldamente individuate, ma<br />

risultano coinvolti nel gioco di un’incessante metamorfosi, che fa trapassare<br />

occultamente nell’uno le forme dell’altro (σύμπνοια πάντα). «Particolarmente<br />

nei miti delle religioni arcaiche – nota Cassirer – la raffigurazione teriomorfa<br />

precede quella antropomorfa, come è stato riscontrato a proposito della<br />

religione egizia nella mitologia degli Arcadi e anche negli stessi Veda». 20 Su<br />

questo determinato aspetto dell’interscambiabilità magica, che rinvia ad una<br />

segreta rigenerazione di linfe vitali, si appoggiano i grandi miti epifanici di<br />

Jahnn. La puledra Shabdez di Perrudja – come la cavalla Ilok di Horn o la<br />

Falada di Manao in Povertà, ricchezza, uomini e bestie – può benissimo ricordare<br />

la Demetra dalla testa equina, con tutte le implicazioni relative sul<br />

piano dell’Eros. Allorché Perrudja accarezza «con grande amicizia» il muso<br />

della sua cavalla, si sprofonda nel mistero sensibile della physis, in una sorta<br />

di identità anthropocosmica espressa in cifra teriomorfa; nell’abisso cioè di<br />

quella «vielgestaltige Mutter», 21 da cui proviene il piacere e lo spasimo, l’ebbrezza<br />

e la morte.<br />

Si legge nel romanzo: «Amatemi, amatemi, trovatemi bello come io vi<br />

trovo belli. Benché separante sia stata tra noi l’inimicizia delle speci. Esse<br />

erano divise da migliaia d’istinti e di sensi volti in direzioni diverse, dalla<br />

formazione del loro corpo. Leggi. Ma Perrudja cercava di gettare un ponte<br />

sopra i cupi abissi del sangue. Noi siamo cresciuti ed eravamo una volta come<br />

19<br />

G. Benn, La costruzione della personalità, in Saggi, trad. it. a cura di L. Zagari, Milano 1963,<br />

pp. 49-50. Ma si veda anche ibid., pp. 34-35 (Intorno alla natura della poesia).<br />

20<br />

E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 4 voll., trad. it. di E. Arnaud, Firenze 1961-66,<br />

II, p. 273.<br />

21<br />

Perrudja, p. 58.<br />

186


seme ed uovo». 22 L’amore di Perrudja per la sua puledra, con cui si ripristina<br />

il mito di un’originaria innocenza, di una estatica simbiosi magico-organica<br />

trasfigurata nella immagine del centauro («Quando un uomo prende una<br />

puledra essa genera Centauri»), 23 più che rinviarci alla goldene Zeit di Novalis<br />

o alla fiabesca convivenza animale negli idilli pittorici di Marc, adombra il ritorno<br />

al «seme», un ritorno che dal punto di vista del pensiero arcaico ha una<br />

sua tipica struttura fondativa. In questo senso la puledra è né più né meno,<br />

per Jahnn, che un «mitologema dell’origine» (Kerényi), in quanto il mondo<br />

come totalità “parla” a Perrudja proprio a partire da questa ἀρχή κατ᾿ἐξοχήν<br />

e in questo principio rifluiscono tutte le cose come ad un centro «intorno<br />

a quale e partendo dal quale tutto il nostro essere e tutta la nostra esistenza<br />

si organizzano». 24 Si potrebbe anche dire che nel mitologema del cavallo si<br />

esprime quella totalità infrasoggettiva del Selbst in cui l’io, unitamente alla<br />

sua regione inconscia, è ricompreso (per questo Jung parla del Selbst come<br />

«personalità sopraordinata» 25 ); nel simbolo teriomorfo, infatti, si ha una proiezione<br />

del Selbst, o meglio della sua parte inconscia che non può pervenire<br />

alla coscienza se non indirettamente.<br />

Individuare all’interno della dimensione mitico-arcaica, fondamentale<br />

nell’opera giovanile di Jahnn fino a Perrudja, questa serie di correlazioni<br />

magico-semantiche rinvianti alla struttura del mito delle origini implica certamente<br />

una collocazione del mondo artistico jahnniano in quel vasto contesto<br />

storico-culturale che dal Nietzsche dionisiaco della Nascita della tragedia<br />

[Geburt der Tragödie] e dello Zarathustra si estende fino all’Espressionismo<br />

vitalista di un Benn (Itaca [Ithaka]), di un G. Kaiser (Il corallo [Die Koralle]),<br />

dei prenazisti Bronnen e Johst e affonda le sue radici nella polemica irrazionalista<br />

delle «Lebensphilosophien», nel ricupero del primitivo contro i feticci<br />

di un “mondo senza immagini”, nella resurrezione, non priva di inflessioni<br />

reazionarie, del mito, da W. Otto a K. Jaspers, da Kerényi a M. Eliade.<br />

Indubbiamente, nella posizione di Jahnn, si riproduce la stretta connessione<br />

tra la Kulturkritik dei primi decenni del Novecento e l’irrazionalismo,<br />

vale a dire, la rivendicazione, più o meno esplicita, di un modello di civiltà<br />

22<br />

Perrudja, p. 57.<br />

23<br />

Ibid., p. 44.<br />

24<br />

K. Kerényi, op. cit., p. 23.<br />

25<br />

C.G. Jung, Per la psicologia dell’archetipo del fanciullo, in op. cit., p. 229.<br />

187


precapitalista, agrario-feudale, che per non lasciarsi integrare nell’egemonia<br />

dell’“economico” rifiuta i passaggi storico-razionali di uno sviluppo globalizzante<br />

della società capitalistico-borghese, richiamandosi, da un lato, al<br />

veicolo mitico della creatività individuale come falsa alternativa al mondo<br />

capitalistico di produzione, dall’altro, alla antitesi tra un uso mistificato, in<br />

senso ideologico, della ragione e una fuga à rebours, sia dato o no a questa<br />

il nome di utopia. Ciononostante la figura di Jahnn è essenzialmente quella<br />

di un Einzelgänger, di un solitario, che allo sfaldamento neoromantico della<br />

Jahrhundertwende preferisce il monumentale barocco e anche l’angoscia del<br />

barocco di fronte all’annientamento, 26 così come antepone al pathos l’astrazione<br />

o la stilizzazione mitica, alla «Sympathie mit dem Tode» la ripetizione<br />

rituale che piega il divenire al ritmo e alla volontà del “ritorno”. «Il mio<br />

compito interiore sembra essere stato da sempre quello di tradurre le estrinsecazioni<br />

della mia esistenza nell’astratto, non già nel patetico». 27<br />

E tuttavia l’arte di Jahnn «cresce sul campo dell’Eros». Trasferito dal<br />

dominio delle emozioni cosmiche e delle percezioni primordiali, del sapere<br />

“antepredicativo”, in quello delle astrazioni, il principio dell’Eros acquista<br />

uno spessore non meramente mitico. Diventa cioè la rivolta contro la<br />

norma 28 e gli «steccati della morale», la risposta dell’artista «messaggero del<br />

principio creativo» al Maschinenmensch e al Kulturmensch, protagonista di<br />

una Kolonialgeschichte in cui si esprime la vocazione alla violenza tipica di<br />

una società repressiva, dissumulata sotto l’ipocrisia di una morale classista, la<br />

sistematica sopraffazione dell’uomo occidentale sul non-civilizzato, sul primitivo.<br />

La ragione strumentale e la razionalità tecnologica, di cui parleranno<br />

Horkheimer e Marcuse, rivelano tutta la loro segreta contestura di violenza<br />

e di predominio, allorché si fa chiara nei meandri della coscienza borghese<br />

quella “via all’interiorità” che sia pure attraverso i meandri dell’orrore mitico,<br />

del furor eroticus e dell’orgia cultuale tende a identificare la pura creatività<br />

– in cui sta l’innalzamento e il potenziamento della vita – con la rottura di<br />

26<br />

Nota Jochen Vogt che la tendenza di Jahnn alla tematica della morte e della putrefazione, le<br />

descrizioni dei riti di mummificazione e di seppellimento ecc. rimandano al mondo concettuale<br />

e immaginoso del barocco, come pure ad un consapevole collegamento alle mitologie e ai miti<br />

dell’antico oriente. J. Vogt, Struktur und Kontinuum. Über Zeit, Erinnerung und Identität in H.<br />

H. Jahnns Romantrilogie «Fluss ohne Ufer», München 1970, p. 12.<br />

27<br />

H.H. Jahnn, Über den Anlass, und andere Essays, Frankfurt am Main 1964, p. 9.<br />

28<br />

Aufgabe des Dichters in dieser Zeit, ibid., p. 95.<br />

188


ogni convenzione, dal puritanesimo piccolo-borghese al cannibalismo, travestito<br />

da ordine civile, della ratio. Il tentativo di Jahnn mira a ricostruire<br />

nell’identità arcaica, fisiologica, ateleologica di materia e forma, la base di<br />

una reintegrazione umana che passi, per così dire, attraverso la integrazione<br />

con le origini, con la totalità cosmico-simpatetica, e quindi non si sottragga<br />

alla possibilità di evocare forme «che deviano nel tragico», 29 poiché la stessa<br />

oscura scaturigine dell’evento creativo è proiettata negli albori dell’evento<br />

mitico e anche nell’antico orrore dei suoi conflitti abissali. L’individuazione<br />

dell’evento mitico-epifanico come forma del mistero della vita e perciò come<br />

guisa di quell’elementare flusso di Erlebnisse affioranti nella forma della creatività<br />

artistica (lo Schöpfungsprinzip) si collega, in Jahnn, al ricupero dell’homo<br />

religiosus affondato in un’antichità precristiana o addirittura anticristiana,<br />

nella quale soltanto è possibile l’integrazione tragica di soggetto-oggetto, il<br />

dischiudersi di una prospettiva utopica che opponga paradossalmente alla<br />

consapevolezza atroce della morte e della dissoluzione corporale l’innocenza<br />

del giovane che vive come se si sapesse immortale, alla realtà razionale della<br />

morte la sua “irrealtà” mitica. Si direbbe che Jahnn abbia cercato di superare<br />

il dualismo freudiano di Eros e Thanatos (seconda Trieblehre) sciogliendone<br />

la conflittualità in una convergenza non metapsicologica, come avviene in<br />

Freud, bensì mitica, per cui la “discesa nella morte”, consistente per quest’ultimo<br />

nell’aspirazione della sostanza vivente alla quiete assoluta dell’inorganico,<br />

si trasforma nell’assolutizzazione estetica della tendenza autoconservatrice<br />

dell’Io, espressa come sublimazione plastico-monumentale e “armonicale”. Si<br />

giunge così alla riscoperta dell’homo religiosus sotto la maschera del primitivo<br />

e quindi al tentativo di reagire, mercé il ricorso al paradigma “armonicale”<br />

del “lambdoma” 30 – che mescola insieme matematica pitagorica e teologia<br />

apofatico-nichilista – a quella Enthumanisierung del mito per la quale, nella<br />

trascrizione moderna degli antichi cicli tragici (l’“Orestia” per esempio), si ha<br />

il capovolgimento, in una sorta di “fuga nel vuoto”, della prospettiva classico-<br />

29<br />

Ibidem.<br />

30<br />

Il lambdoma è un diagramma con il quale, nel sistema armonicale elaborato da Albert von<br />

Thimus nell’Ottocento e da Hans Kayser (al quale si rifanno le ricerche dello stesso Jahnn dopo<br />

il ’29) si vuol rappresentare con il punto o/o, posto al di fuori del diagramma stesso, il principio<br />

originario che agisce senza agire (= il Tao) in tutti i valori numerici, vale a dire si esprime come<br />

universale legge della natura organica ed inorganica, nonché dello stesso mondo artistico. Cfr.<br />

R. Wagner, Versuch über den geistesgeschichtlichen und weltanschaulichen Hintergrund der Werke<br />

H. H. Jahnns, in «Text + Kritik», 2/3, novembre 1970.<br />

189


umanista (Goethe), dove la catarsi apollinea del mito rendeva possibile la<br />

coincidenza di un doppio divenire, quella del dio nell’uomo e dell’uomo nel<br />

dio. 31 Un tentativo, questo di Jahnn, troppo nebuloso e troppo compromesso<br />

dalle suggestioni irrazionaliste, per non essere destinato al fallimento. Quella<br />

“via all’interiorità”, con cui lo scrittore di Amburgo cerca di ridestare l’entelechia<br />

mitica della gioia e del possesso cosmico, porta ancora una volta alla “disumanizzazione”,<br />

cioè al riconoscimento che l’uomo, non senza, forse, una<br />

sua leverkühniana «voluttà infernale», si trova in balia, al pari delle cose e degli<br />

animali, di una forza oscuramente avversa che lo dilania e progressivamente<br />

lo distrugge. Si è voluto riconoscere a Jahnn il merito di aver individuato<br />

la genesi del nichilismo. 32 Esemplare, in questo senso, sarebbe lo sgretolarsi<br />

del rapporto amoroso che lega Perrudja a Signe Skaerdal ad opera di quel «secondo<br />

Io esangue», di quell’automutilazione etica nel cui sottile rovello si annebbia<br />

la certezza di un’appartenenza carnale dell’uno all’altra, profonda più<br />

di qualsiasi ragione. Dall’aver smarrito il senso di quella voce “tellurica” che<br />

si leva dal “cupo antro di diamante dei visceri”, 33 nasce quella condanna alla<br />

separazione che va ben oltre l’allontanamento di Signe da Perrudja, giacché<br />

è la separazione stessa dalla vita. È l’inizio di quel disgusto, di quella «nuova<br />

passione fatta di tedio» in cui precipita Perrudja come un cadavere che «sorride<br />

mentre si va disfacendo» e che verrà infine divorato dal mare al termine<br />

del suo lento inabissarsi. 34 Anche se Jahnn sembra darci in questa vicenda<br />

una versione del nichilismo intaccante la tradizione cristiana e umanistica,<br />

concepito come ipostasi di sistemi di valori in permanente conflitto reciproco<br />

e quindi come dissoluzione relativista, non si può dire, tuttavia, che la sua<br />

prospettiva abbia una consistenza d’analisi tale da collocarla su una linea più<br />

avanzata rispetto, poniamo, alla nietzscheana diagnosi critica del nichilismo.<br />

Lo Jahnn poeta delle primavere nordiche e delle torbide mescolanze umanoferine,<br />

della «crudele fraternità», 35 cerca vanamente nel mito un antidoto alla<br />

«catastrofe razionale» e resta pur sempre legato a quella cifra della profondità,<br />

31<br />

O. Seidlin, Von Goethe zu Thomas Mann, Göttingen 1963, p. 2<strong>13</strong>.<br />

32<br />

W. Emrich, Vorwort a J. Meyer, Verzeichnis der Schriften von und über H. H. Jahnn, Neuwied<br />

a. R. e Berlin 1967, p. 14. Per una bibliografia jahnniana si veda, oltre a questo repertorio,<br />

anche C. Hill, The Drama of German Expressionism. A German-English Bibliography, Chapel<br />

Hill 1960 e J. Meyer, Jahnnkritiker, in «Text + Kritik», 2/3 1964, pp. 38-45.<br />

33<br />

Perrudja, p. 392.<br />

34<br />

Ibid., pp. 404-5.<br />

35<br />

H. H. Jahnn, Eine Auswahl aus seinem Werke, p. 571.<br />

190


della «Tiefe» (la «Urwelt der Mütter») che sotto l’involucro del complesso<br />

prelogico, e quindi del ricupero di una «vitale Not» necessaria per reintegrare<br />

l’uomo nelle sue tensioni creative, finisce per darci, ancora una volta,<br />

una metafora neopagana del nichilismo. Le teoriche “armonicali” di Jahnn,<br />

in cui lo sfondo abissale del sacro cerca una sua noetica trasfigurazione e in<br />

cui le fluttuazioni orgiastiche dell’elemento tra Eros e Thanatos tendono ad<br />

una stabilità di visione religiosa, permangono estranee a quel fondamentale<br />

processo regressivo nella cui totalità – come bene dirà Bloch a proposito della<br />

«libido acherontica» di Jung – sono fatalmente coinvolti il bene e il male, il<br />

cielo e l’inferno e in cui la regressione non è soltanto «metodo» ma anche<br />

«contenuto». 36 Sono le «dimensioni di diamante» della creazione, concepita<br />

irrazionalisticamente come potenza onnifondante, a rendere vano il gesto<br />

con cui il pacifista antirazzista e umanitario Jahnn vorrebbe benedire «foreste<br />

e animali»: il mitologema inghiotte nel suo geroglifico l’aspirazione etica di<br />

chi dice di aver scelto il partito dei deboli e dei vinti e lo condanna a ripetere<br />

la rassegnata epigrafe di un mondo ingiusto: «Le cose sono quel che sono». 37<br />

Nota al testo<br />

Il saggio di Ferruccio Masini è originariamente apparso in: Il romanzo tedesco<br />

del Novecento, a cura di G. Baioni, G. Bevilacqua, C. Cases e C. Magris; Einaudi<br />

1973; pp. 205-216. Si ringraziano Costanza e Sabina Masini per averne<br />

consentito la ripresa nel presente volume.<br />

36<br />

E. Bloch, Aus der Begriffsgeschichte der (doppelsinnig) «Unbewussten», in Philosophische Aufsätze,<br />

Frankfurt am Main 1969, p. 1<strong>13</strong>-114.<br />

37<br />

Niederschrift, II, p. 726.<br />

191


avieri<br />

Nella stessa collana<br />

Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno<br />

Marco Palasciano, Prove tecniche di romanzo storico<br />

Maurizio Rossi, Mare Padanum<br />

Walter Kempowski, Tadellöser & Wolff. Un romanzo borghese<br />

Arno Schmidt, Brand’s Haide<br />

Giovanni Cossu, Turritani<br />

Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello<br />

Arno Schmidt, Specchi neri<br />

Antonio Pizzuto, Sinfonia (1927)<br />

Ulrike Draesner, viaggio obliquo<br />

Marco Ceriani, Memoriré


Hans Henny Jahnn (1894-1959) è stato<br />

uno dei maestri segreti della prosa del<br />

Novecento. Le sue vaste architetture narrative<br />

terminano nel delta di Fiume senza<br />

rive * (1949-61).<br />

In italiano sono apparsi: La nave di legno<br />

(Rizzoli 1966; Archinto 1994), Medea<br />

(Aletheia 2000), La notte di piombo (Jacques<br />

e i suoi quaderni 2001).<br />

www.lavieri.it


«Non c’è nessun nesso», disse Ajax von Uchri, «la morale<br />

è un elemento decorativo. Vengono uccise migliaia di<br />

persone tutti i giorni, sulle strade, nelle miniere, nelle<br />

fabbriche, miserabili che muoiono di fame o vanno in rovina;<br />

periscono a centinaia di migliaia perché è giunta la loro<br />

ora. Chi riflette sulle disgrazie trae conclusioni errate.<br />

Il corso degli eventi segue leggi spietate ma non ha una<br />

morale. Le religioni e le nazioni che sono state complici di<br />

milioni di assassinii declinano secoli dopo, e non perché<br />

subiscano vendetta per i loro crimini. I vendicatori sono<br />

altri, a loro volta già da annoverare tra i criminali.<br />

L’uomo ha solo un’anima presuntuosa; al posto di una vera<br />

esistenza ha una ragione che si lascia violentare – che<br />

sembra essere destinata solo all’abuso – non a correggere la<br />

creazione in virtù della misericordia».<br />

ISBN 978-88-89312-59-9<br />

€ 16,00 (i.i.)<br />

isbn 978-88-89312-59-9<br />

9 788889 312599

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