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Giovanni Cossu<br />
<strong>Turritani</strong><br />
avieri
Messo su carta nel 1985, questo racconto<br />
lungo è l’esito di una traduzione<br />
impossibile: racchiuso nella cintura di<br />
Porto Torres e partorito dalla furia onomastica<br />
dei suoi abitanti, quei turritani<br />
dal sarcasmo acuminato, il testo-fonte<br />
sprigiona beffe di segno boccacciano (è<br />
cionfra, in sassarese, la voce per ‘coglionatura’).<br />
Nelle parole dell’autore il libro<br />
sfida la propria forma: «Solo di questo<br />
infatti si trattava: come rendere credibile<br />
in altra lingua il vero spirito di <strong>Turritani</strong>a».<br />
Fuoruscito da una Sardegna di<br />
gesti arcaici, Giovanni Cossu ne ricostruisce<br />
la storia, proiettando dell’Isola<br />
un’immagine tribale e mitica in cui onnipresente<br />
è la mancanza di un altrove,<br />
di un orizzonte. I personaggi, Tìtto Tauro,<br />
Gio’condo, Ottantasette, che nella<br />
narrazione collettiva subiscono il medesimo<br />
destino «spersonalizzante e ripersonalizzante»,<br />
prendono corpo da un manoscritto<br />
ritrovato – come nel più classico<br />
degli artifici narrativi. Instaurando<br />
un dialogo a distanza con il Gadda della<br />
Cognizione – opera di cui l’Isola, insieme<br />
alla Brianza e all’America del Sud,<br />
rappresenterebbe il terzo strato geologico<br />
– la sintassi spericolata di <strong>Turritani</strong> sottopone<br />
alla prova di resistenza una nota<br />
pointe di Sterne: «incomincio a scrivere<br />
la prima frase—e mi affido a Dio Onnipotente<br />
per la seconda».
collana arno<br />
6
Giovanni Cossu<br />
<strong>Turritani</strong><br />
avieri
Giovanni Cossu<br />
<strong>Turritani</strong><br />
Lavieri editore / ISBN 978-88-89312-54-4<br />
Arno n.6<br />
Collana a cura di Domenico Pinto<br />
Copyright © 2007 Ipermedium comunicazione e servizi s.a.s.<br />
Lavieri<br />
Via IV Novembre, 19<br />
81020 S. Angelo in Formis (CE)<br />
www.lavieri.it / info@lavieri.it
<strong>Turritani</strong>
Viene traversa, la pioggia. Sul legno dei ponti fa uno<br />
scalpiccìo d’inferno, d’una corsa di folletti a piedi<br />
nudi. E sul mare sfrigge come lo trovasse arroventato.<br />
Viene così fitta, a momenti, che dovunque solleva un<br />
vaporìo. La gente in ombrello corre a ripararsi sotto<br />
una tettoia. – Il paese, al di là dei cancelli è piccolo,<br />
è triste nell’acquata.<br />
Elio Vittorini, Sardegna come un’infanzia.
Piove, e vi siete lasciati alle spalle i cancelli del porto.<br />
Alle spalle la vecchia torre, ormai supporto umile al faro,<br />
e l’antica colonna, cippo che segna l’inizio della strada che<br />
attraversa l’Isola. Da poco avete imboccato il Corso, ma la<br />
pioggia non cessa, e vi costringe a cercare rifugio in un bar,<br />
appena più avanti, sulla vostra destra. Dentro notate che<br />
non c’è alcun movimento al banco. Solo nel mezzo del locale<br />
un folto gruppo di persone attorno allo stesso tavolino.<br />
Date uno sguardo a quelle figure, indifferenti alla vostra<br />
presenza, mentre andate a sedervi, discosti, in un angolo in<br />
fondo alla sala.<br />
Iniziate a percepire altro: non ci sono conversazioni lì.<br />
Un’unica voce sembra recitare qualcosa, difficile da capire.<br />
L’atmosfera vi pare strana, abbastanza da farvi intuire che<br />
non è il caso di chiamare ad alta voce il ragazzo del banco per<br />
ordinare da bere.<br />
Provate invece con i gesti della mano, a fatica perché anche<br />
lui, come gli altri, ha gli occhi fissi in un punto: la persona<br />
che parla, al centro del gruppo.<br />
Succede quel che vi sareste dovuti aspettare. Il ragazzo se<br />
ne accorge solo quando, per un momento, le parole cessano,<br />
interrotte dallo stridio metallico di una sedia smossa. Ma non<br />
è che si precipiti, al contrario, sembra concentrarsi ancora di<br />
più su quel punto, quasi avesse timore di perderlo, mentre in<br />
silenzio, quasi con fastidio, si porta verso di voi.
Al centro del gruppo, quello che parla è Baciccia.<br />
Non è più giovane. Gli manca un occhio. Come potete<br />
osservare ha una palpebra chiusa. È massaggiatore e maestro<br />
di pugilato, amante discreto dei giovani allievi.<br />
È anche un grande narratore. Certo il più grande di cui si<br />
conserva memoria in paese.<br />
Gli anziani che gli stanno vicino sono i notabili del posto.<br />
Ma non tutti meritano la vostra attenzione. Spicca, alla sua<br />
sinistra, quello dall’aria arcigna. È Marinaru, nome da lui<br />
usato nell’attività di poeta, rischiando l’immortalità per un<br />
vero gioiello, occultato nell’opera dispersa tra le pagine dei<br />
giornali dell’Isola:<br />
Lu cori meu è manchendi<br />
tuttu è bugiu in giru a me,<br />
e soru ca no cumprendi<br />
s’è priparendi a pignì<br />
Piccadu no possia dì<br />
cantu lu cori meu è ridendi:<br />
risa di Paradisu,<br />
risa chi no fini mai.<br />
Tutti gli altri sono giovani e sembrano assistere, con grande<br />
scrupolo, a una importante lezione di apprendistato.<br />
Baciccia racconta:<br />
Be’già, pa dì Bainzu, abìa dui sori diffetti. Si ni vinìa<br />
troppu in pressa e no éra cuntentu si no si ni fazìa una<br />
a la dì. Si ni vinìa cussì in pressa chi no ha mai fattu in<br />
tempu a iscissinni primma. E cussì, senza abbizassinni,<br />
v’abìa la casa piena di figliori. E puru si éra masthru<br />
d’ascia éra sempri un mosthu di fammi. No abìa dinà<br />
mancu pa cumparassi li ciodi.<br />
10
Lu trabagliu lu fazìa cu l’unica cosa chi pussidìa: una<br />
serra chi l’abìa lassaddu lu babbu – ziu Custhantinu<br />
bon’anima – ch’éra masthru d’ascia eddhu puru.<br />
Bainzu, chi lu sabìa cant’éra impusthanti la serra, no<br />
l’impristhaba mai a nisciunu. Mancu a li parenti. Puru<br />
si in chissu casu la muglieri si punìa sempri in mezzu,<br />
a dilli:<br />
– E davvìra Baì. E dalla. Dalla. Chi no ti si la màgnani.<br />
Ma no v’éra nienti di fà.<br />
La séra l’appiccaba sempri a un ciodu in cuzina e si<br />
l’abbaidaba cument’e un innamuraddu.<br />
Chissà cosa l’ha pigliadd’a cabu, una séra, a Austhinu<br />
– lu figlioru, lu più minori, chiddhu c’ha fattu casch’annu<br />
d’ischora primma d’intrà cantuneri – chi t’ischribi<br />
un bigliettu e l’attacca sott’a la serra appiccadda, cument’e<br />
un nommu di quadru, o òbara d’arte moderna,<br />
ch’abìa bisthu in casche libru:<br />
DALLA. LA SEGA DI FAMIGLIA DI BE’GIÀ<br />
Bainzu, no tantu pa l’alsthru, cantu pa l’immusgi<br />
chi no pudìa suppusthà – e in chissu casu in casa soia e<br />
da lu figlioru – piglia la serra e si poni a pissighì a Austhinu,<br />
chi mancu mari è ridisciddu a fuggì, si no l’abìa<br />
ifriguraddu a costhu d’arruinà la serra e cussì puru la<br />
famiglia.<br />
Baciccia ha finito. Il silenzio si addensa nella sala, e tutti<br />
sembrano pensare, intento ciascuno, in una rammemorazione<br />
personale, a dare figura a ciò che dal racconto è stato<br />
appena evocato.<br />
A posarlo quindi giù, nel catasto della memoria, ancora<br />
una volta nitido e implacabile come una verità.<br />
Anche se niente è mai stato vero.<br />
11
Stava diventando vero. Attraverso quel rito, cui vi è capitato<br />
di assistere. E al quale gli altri hanno assistito un’infinità<br />
di volte, evitando di cogliere, tra una volta e l’altra, gli aggiustamenti,<br />
le novità necessarie per conservare tutto questo<br />
integro, per non lasciarlo morire.<br />
Suggerendole, talora.<br />
Almeno da quando a Baciccia venne in mente di trasformare<br />
un’esclamazione senza senso in un soprannome da dotare<br />
di personaggio vivo.<br />
Poiché si è sempre saputo quanto fosse falso, se non impossibile,<br />
che lui si trovasse sotto la finestra, una notte, ad<br />
ascoltare, mentre la moglie di Be’già, alla fine dell’amplesso,<br />
pronunciava le fatidiche parole.<br />
12
PRIMA PARTE
Creddo habbi nome Gio. Giacomo,<br />
mà non sò la parentella.<br />
Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame<br />
1<br />
Il ragazzo in odor di poesia fin dalla prima adolescenza,<br />
se non altro per quell’aria tra lo svagato e l’abulia che lo distingueva,<br />
pur con qualche difficoltà, tra i compagni, se l’era<br />
proprio voluto, mostrando i primi frutti della malnata propensione,<br />
che quelli gli affibbiassero il nome di Me Lasso.<br />
Per giunta svelando come, per oscuri rimandi, avesse inteso<br />
evocare l’episodio che aveva fatto da forcipe nell’immatura<br />
comparsa di quel talento, di per sé ancora acerbo.<br />
Avevano più o meno la stessa età, quel pomeriggio d’estate,<br />
nella cantina di casa, con l’uscita sul cortile principale, su<br />
quella branda o pagliericcio, quando lei, la prima, lo masturbava,<br />
e sua madre li scoprì, passando davanti alla porta lasciata<br />
inavvertitamente aperta, mentre si recava verso il pollaio<br />
col pastone di crusca e ortica.<br />
A lui diede uno schiaffo, decisamente troppo forte, da<br />
impedirgli qualunque accenno di una dignitosa assunzione<br />
di colpa, e spingendolo invece, in quel suo stupore, a trovare<br />
parole, certo le meno adatte per una situazione a dir poco<br />
sconveniente.<br />
Portava allora i calzoni corti e così trascorreva i pomeriggi<br />
d’estate, venendo la ragazza ad aiutare nelle faccende di casa,<br />
e in altre se la padrona decideva di fare il sonnellino pomeridiano,<br />
non sempre interrotto da improvvise cure per i ventri<br />
vuoti dei gallinacei che abitavano il cortile più interno.
Senza nemmeno immaginare che quell’episodio sarebbe<br />
stato il punto d’inizio di una grave frattura, segnando la sua<br />
vita come un presagio.<br />
Quel nome infatti, Me Lasso, che non stuzzicava altro<br />
che la sua vanità, ebbe corso soltanto in una ristretta cerchia<br />
d’amici, laddove fu sempre, e persino nella sua famiglia,<br />
soltanto Gio’condo. A causa di un nuovo episodio, stavolta<br />
avvenuto in pubblico, e in questo nome così perfettamente<br />
specchiato, da essere subito accolto da tutti, in quasi immediata<br />
unanimità.<br />
Attraversando, quel giorno, la piazza affollata al centro del<br />
paese, si era trovato davanti a tre giovani molto più grandi<br />
di lui, seduti sullo zoccolo di una striminzita aiuola, quando<br />
uno di questi, dopo aver trasferito con un gesto tipico tutto<br />
il prodotto catarroso delle sue vie respiratorie, attraverso il<br />
naso, nello spazio delimitato dalla congiunzione dell’indice<br />
col pollice della mano destra, glielo scagliò diritto in faccia.<br />
Colpendolo vischiosamente tra la bocca e il naso.<br />
Sopra la bocca e sotto il naso.<br />
Dove in genere si portano i baffi.<br />
Allo scherno di quelli non seppe fare altro che un affrettato<br />
gesto di pulizia, rinunciando ad altre reazioni che per la<br />
rabbia e l’umiliazione non potevano essere che di tipo fisico,<br />
presentandosi l’invettiva come debole compromesso, oltre<br />
che di nessun soddisfacimento.<br />
Un’aggressione dunque, ma alla quale dovette rinunciare<br />
nella certezza che, dato il numero e la maggior mole degli<br />
avversari, non si sarebbe potuta risolvere se non in un altro<br />
danno, fisico questa volta, dopo quello morale già patito.<br />
L’espressione di irredimibile stupore che gli si trovò<br />
stampata sul viso, venne scambiata da allora in poi per una<br />
specie di incurabile gaiezza, inscalfibile per quanto efficaci<br />
strumenti la realtà si fosse data in seguito la pena di approntare.<br />
18
2<br />
Tìtto Tauro, detto anche Titto, per un evidente vizio di<br />
pronuncia della madre, che in tal modo l’aveva apostrofato,<br />
sin da piccolo, ogniqualvolta le sue proteste per essere troppo<br />
a lungo, lui, tenuto chiuso in casa, minacciavano con urla e<br />
pianti di sfociare in un’aperta ribellione. Ma che vizio tanto<br />
non era quanto effetto, o conseguenza, di un infelice decorso<br />
postoperatorio, seguito a una banale asportazione chirurgica<br />
di cronicamente infiammate e perciò tumescenti adenoidi. E<br />
che da allora aveva costretto la povera donna a quello strano<br />
eloquire attraverso il naso, benché il naso ormai, e definitivamente,<br />
occluso.<br />
Tìtto Tauro, il cui nome era invece Mauro, ma da lui<br />
stesso abiurato, quasi presa coscienza che mai questo lo<br />
avrebbe potuto rappresentare nella sua intierezza – mancandogli<br />
la necessaria sintomaticità, e perciò accettando<br />
l’altro a disinnescare l’insania – riassumendo quindi, e pertanto<br />
sublimando, il rapporto che da sempre lo legava alla<br />
madre a mo’ di simbiosi, certo distruttiva, se non proprio<br />
fatale.<br />
Rapporto del tutto sbilanciato a causa dell’inesistenza di<br />
quello col padre, troppo preso, negli anni, a svolgere con<br />
mite acribia ciò che per lui era preciso dovere, visto il mestiere<br />
esercitato: l’esecuzione forzata, perché precedentemente<br />
disattesa, di atti e sentenze pretorili.
Costringendo quindi Tìtto Tauro, in un inconscio processo<br />
di sostituzione, a frequentare amici troppo grandi per lui.<br />
Almeno da quando, esaurendo la fase puberale la completa<br />
dipendenza dalla madre, con l’imporre a questa i diritti<br />
dell’età e della forza, e quando il suo corpo, fattosi massiccio,<br />
ancorché sproporzionato, con quella testa la cui massiccità<br />
sembrava appartenere a tutt’altro ordine di grandezza, gli<br />
aveva consentito stavolta di sostituire, anche se non sempre,<br />
un ben assestato manrovescio alle urla e pianti iniziali, e si era<br />
dato a frequentare la più sordida delle bettole del paese.<br />
Un antro seminterrato e puzzolente, con il pavimento in<br />
terra battuta, pieno di vecchie botti dove, secondo il prezzo,<br />
inacidiva o fermentava il vino, segnalato all’incauto o malintenzionato<br />
passante da una fioca lampadina e da un mazzo di<br />
mirto appesi a lato della porta d’ingresso.<br />
Cominciando prematuramente a bere, e non poco, data<br />
l’enormità della sua corpulenza, sicché non si sarebbe detta<br />
sufficiente una cisterna, per intossicare ogni più piccola cellula<br />
di quell’immenso corpo, e tanto da potersi dire lui del<br />
tutto soddisfatto.<br />
Salvo poi, a quel punto, non riuscire non solo a dirsi soddisfatto,<br />
ma a non dirsi nemmeno più Titto, l’ultima possibilità<br />
di un limite facendosi vieppiù lontana e aleatoriamente<br />
raggiungibile, in una dimensione, che seppure ancora umana,<br />
per quanto riguardava gli aspetti esteriori, perveniva1<br />
nella sua essenza a puri vertici di animalità.<br />
Scoppiava allora Titto in irrefrenabili pianti e suppliche,<br />
scorticanti per chi gli stava vicino, affinché lo aiutassero a<br />
uscire di lì. Tanto strazianti da far sì che sempre qualcuno<br />
si trovasse, fra i presenti, che alla fine, purché la smettesse,<br />
afferrata la fascina di mirto che serviva all’oste per un veloce<br />
rimpiazzo di quella esterna, che dopo alcuni giorni, necessariamente<br />
disseccandosi, non poteva non diventare obiettivo<br />
del solito scherzo d’ignoti, che le appiccavano fuoco,<br />
20
costringendolo a un altrettanto veloce rimpiazzo di lampada,<br />
portalampada e mozzicone di filo elettrico, andati in fumo<br />
con essa, e indossato un grembiule raccattato a caso, gli si<br />
parasse davanti a Titto, ancora immerso in quella sua crisi,<br />
impegnandosi in una occlusione, stavolta artificiosa, del<br />
naso, come dicono avvenga nei neonati quando per alcuna<br />
sorte capiti loro di essere immersi completamente nell’acqua,<br />
provvedendo un qualche riflesso condizionato a riportarli<br />
nella originaria posizione di apnea, iniettandosi inoltre<br />
un certa dose di serena convinzione sulle proprie capacità<br />
materne, per dire o sussurrare o proferire comunque quelle<br />
semplici parole: Tìtto Tauro! Tìtto Tauro. Titto.<br />
21
TRADUZIONI DEL TURRITANO
LA POESIA DI MARINARU<br />
Cessa il mio cuore<br />
mi avvolge il buio,<br />
e chi non capisce<br />
si prepara a piangere<br />
peccato non possa dire<br />
quanto rida il mio cuore:<br />
risa di paradiso<br />
senza fine risa
IL RACCONTO DI BACICCIA<br />
Be’già, per dire: Bainzu, aveva due soli difetti. Eiaculatio<br />
precox e una stringente necessità di farsene una al giorno.<br />
Era talmente grave la sua patologia sessuale che mai gli venne<br />
data la possibilità di mettere in atto l’unica pratica allora<br />
conosciuta per il controllo delle nascite: il coitus interruptus.<br />
Conseguenza di tutto questo, una casa piena di figli e, pur<br />
essendo un bravo falegname, la miseria più nera. Tanto da<br />
non aver soldi nemmeno per comprare i chiodi. Il suo lavoro<br />
lo portava avanti con l’unica cosa che possedeva: una sega.<br />
Gliel’aveva lasciata suo padre, maestro Costantino, anche lui<br />
falegname. Vista l’importanza della sega, non la prestava mai<br />
a nessuno, neanche ai parenti. Anche se, in quel caso, come<br />
al solito, la moglie non poteva fare a meno di intervenire: «E<br />
dagliela Bai’. E dalla. Dalla. Che non se la mangiano». Ma<br />
non c’era niente da fare. La sera, finito il lavoro, l’appendeva<br />
a un chiodo, in cucina, e la guardava come fosse innamorato<br />
di lei. Non si saprà mai cosa gli è preso, quella sera, ad Agostino<br />
– il figlio più piccolo di Be’già: quello che frequentò per<br />
qualche hanno le scuole serali, prima di essere assunto come<br />
cantoniere – che, scritto un biglietto lo attacca sotto la sega<br />
appesa alla parete di cucina, come fosse un nome di quadro o<br />
di opera d’arte moderna quale aveva visto in qualche libro:<br />
DALLA. LA SEGA DI FAMIGLIA DI BE’GIÀ<br />
Bainzu, non tanto per lo scherzo in sé, ma per l’uso spregiudicato<br />
di quel soprannome da parte del figlio, e per giunta
dentro la sua casa, staccata la sega dalla parete, iniziò a inseguirlo<br />
per tutto il paese.<br />
Per sua fortuna senza raggiungerlo, ché altrimenti l’avrebbe<br />
sicuramente sfregiato, rovinando la sega e la famiglia<br />
tutta.<br />
80
avieri<br />
Nella stessa collana arno<br />
Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno<br />
Marco Palasciano, Prove tecniche di romanzo storico<br />
Maurizio Rossi, Mare Padanum<br />
Walter Kempowski, Tadellöser & Wolff. Un romanzo borghese<br />
Arno Schmidt, Brand’s Haide
Giovanni Cossu è nato in Sardegna<br />
nel 1945. Dal 1966 vive a Firenze. Di<br />
Mestiere Libraio, ha già pubblicato I tabù<br />
dell’incerto (Franco Cesati Editore,<br />
1985).
Al centro del gruppo, quello che parla è Baciccia.<br />
Non è più giovane. Gli manca un occhio. Come potete<br />
osservare ha una palpebra chiusa. È massaggiatore e maestro<br />
di pugilato, amante discreto dei giovani allievi.<br />
È anche un grande narratore. Certo il più grande di cui si<br />
conserva memoria in paese.<br />
Gli anziani che gli stanno vicino sono i notabili del<br />
posto. Ma non tutti meritano la vostra attenzione. Spicca,<br />
alla sua sinistra, quello dall’aria arcigna. È Marinaru, nome<br />
da lui usato nella’attività di poeta, rischiando l’immortalità<br />
per un vero gioiello, occultato nell’opera dispersa tra le<br />
pagine dei giornali dell’Isola.<br />
ISBN 978-88-89312-54-4<br />
€ 8,50 (i.i.)<br />
ISBN 978-88-89312-54-4<br />
9 7 8 8 8 8 9 312544