Il futuro demografico dell'Italia - Dipartimento di Economia politica

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02.02.2015 Views

ipotizzando una forte crescita del tasso di natalità, non si avrebbero sostanziali differenze nei risultati appena esposti (il fabbisogno di immigrati calcolato dalle Nazioni Unite nei vari scenari) dato che i bambini nati non entrerebbero nella forza lavoro che tra il 2020 ed il 2050.” Va però anche sottolineato che questa ovvia affermazione era seguita da alcune espressioni sibilline che non solo non davano alcun contributo alla soluzione del problema, ma riproponevano il tema della sostenibilita’: “E’ chiaro che le decisioni in merito alla quantificazione dei flussi non possono ridursi ad un mero computo matematico. Non è del resto pensabile di poter sostenere nel prossimo cinquantennio un flusso di immigrati sufficiente ad annullare il calo demografico. Il dato indica, quindi, più un aspetto provocatorio che di reale fabbisogno, ma rimane un indicatore essenziale all’interno di una logica revisionale nella politica migratoria nel suo insieme.” 218 Personalmente ritengo che sul piano politico la Population Division abbia fatto bene a richiamare l’attenzione dei paesi industrializzati sull’inevitabilità di una immigrazione di massa. Sono convinto che il secolo appena iniziato assisterà a flussi migratori senza precedenti storici e che nessuna politica restrittiva potrà bloccare e che sarebbe opportuno che i paesi interessati da serie contrazioni della popolazione in età lavorativa si preparassero seriamente e con anticipo (in alcuni casi, come in quello dell’Italia siamo già in ritardo) a tale evento. Ritengo, però che Coleman fosse nel giusto nell’accusare il rapporto della Population Division di demografismo che egli definì come “an excessive reliance on narrow demographic statistics relating to the numbers of people, without regard to the consequences of such population change on social and political structures, community relations, or social cohesion”. A mio avviso anche le critiche al rapporto peccano però di demografismo che in questo caso definirei come l’incapacità di cogliere le complesse interazioni tra andamenti demografici ed economia. Il punto fondamentale è, infatti, che gli scenari della Population Division sono costruiti prendendo come punto di riferimento degli obiettivi che non hanno alcun significato economico o il cui significato andrebbe specificato all’interno di un modello. Non capisco, ad esempio, quale sia l’interesse analitico di uno scenario che ipotizzi di mantenere costante la popolazione totale al di là del fatto che esso rifletta l’ipotesi di equilibrio tendenziale che percorre il pensiero demografico. Per quanto riguarda lo scenario che prevede il mantenimento del livello della popolazione in età lavorativa, nel lungo periodo una popolazione in età lavorativa costante è consistente solo con una situazione economica che non crea occupazione aggiuntiva o che genera solo quella che può essere gestita da un incremento dei livelli partecipativi, il che richiederebbe assurdi equilibrismi di politica economica, ovviamente privi di qualunque giustificazione. Per quanto riguarda poi l’indicatore di carico senile, le simulazioni del rapporto e le critiche ad esso rivolte sono del tutto squalificate dal fatto che l’indicatore utilizzato sia del tutto privo, come abbiamo visto, di significatività economica. Il punto fondamentale è però che né gli autori del rapporto, né coloro che l’hanno criticato hanno affrontato il tema fondamentale, vale a dire che cosa determini i flussi migratori e la loro dimensione. Sembrerebbe naturale prima di criticare l’utilità di un fenomeno o paventarne i danni chiedersi perché esso si verifichi o dovrebbe verificarsi, essere consapevoli delle sue cause e delle proprie capacità di regolazione. Anche se l’idea di una carenza di lavoro compare qua e là, mi sembra evidente che tra i demografi, e non solo, forte rimanga la convinzione che i flussi migratori hanno la propria determinante principale nelle condizioni dei paesi di partenza e che la carenza di domanda è al massimo una concausa. È pertanto naturale che, in assenza di un modello che determini l’entità dei flussi migratori in funzione di variabili economiche e ne mostri l’inevitabilità a causa della carenza strutturale dell’offerta e della crescita economica, la discussione si limiti agli effetti di eventuali flussi (che vengono visti non come una variabile dipendente, ma come una variabile esogena o una variabile strumentale) sulle variabili demografiche di livello e di struttura. In questo senso sia il rapporto della Population Division, sia i contributi successivi soffrono di una inerzia metodologica che mi pare altrettanto pronunciata dell’inerzia demografica. Ai demografi va comunque riconosciuto il merito di aver cercato ormai da lungo tempo, molto prima della comparsa del rapporto della Population Division, di attrarre l’attenzione di politici e di studiosi su fenomeni di straordinaria gravità che, per essere senza precedenti storici, 218 Ibidem. 105

ichiederebbero una particolare attenzione anche di altre discipline, prima di tutte l’economia e la sociologia. Ho l’impressione che per il momento il tentativo abbia dato scarsi frutti se non tra coloro che si occupano di sistemi pensionistici. C’è pertanto da chiedersi come mai gli economisti, ed in particolare gli economisti del lavoro, non si siano interessati a questo dibattito che pure dovrebbe coinvolgerli in prima persona, dato che tra i problemi centrali che sono stati sollevati vi sono quelli della carenza dell’offerta di lavoro e dei possibili effetti di tale carenza sulla crescita e sulla sviluppo. Non è questa la sede per una risposta articolata a questa domanda e mi limiterò a suggerire alcuni possibili spunti di discussione. In primo luogo, il fatto che la teoria economica, come oggi la conosciamo, si è sviluppata in un contesto di modesta crescita demografica e non si è quindi mai posta il problema di quali dovessero essere le politiche economiche adeguate per un paese la cui popolazione in età lavorativa stesse diminuendo 219 . In sostanza, ci si è sempre posti il problema di saper guidare l’automobile in salita, senza chiedersi se gli stessi strumenti fossero utili anche per guidare in discesa; inoltre, come è tipico della disciplina, si è semplicemente ipotizzato che la benzina fosse disponibile. D’altra parte l’analisi standard del mercato del lavoro non ha mai considerato gli aggregati fondamentali (occupati, disoccupati, forze di lavoro) come delle “popolazioni”, ma come dei “servizi” ed ha sempre ipotizzato che la domanda e l’offerta dei servizi di lavoro potessero trovare un equilibrio o tramite variazioni (aumenti) della produzione o variazioni del salario reale (diminuzioni). È, tuttavia, evidente, che ciò di cui gli economisti si preoccupavano era solo un lato del problema: l’eccesso di offerta di lavoro. È altresì evidente che in questo contesto non vi è posto per il concetto di carenza strutturale di offerta di lavoro in termini di uomini che verrà qui utilizzata e che implica che non vi sia possibilità di raggiungere un equilibrio tramite un aumento del salario reale. In sostanza il modello standard del mercato del lavoro non è in grado di misurare il fabbisogno e quindi di collegare il mercato del lavoro ai flussi migratori, mentre l’ipotesi di mantenere l’equilibrio del mercato del lavoro tramite una contrazione programmata del livello di crescita appare per il momento totalmente esclusa dagli ambiti di discussione e sarebbe probabilmente fortemente avversata sia dai responsabili della politica economica, sia dagli imprenditori. 3. Critiche alle considerazioni in tema di mercato del lavoro 3.1 Programmazione dei flussi e definizione di fabbisogno A partire dalla prima metà degli anni ‘80 l’immigrazione rappresenta uno degli argomenti più controversi del dibattito politico ed accademico del nostro paese. Anche in Italia, il tema immigrazione fu immediatamente inquadrato negli usuali opposti schemi ideologici che lo caratterizzano in tutto il mondo. Malgrado ciò, le norme approvate fino ad ora da governi di destra e di sinistra convergono su alcuni elementi di particolare rilevanza. In particolare esse condividono i seguenti assunti: • Gli ingressi di immigrati provenienti da paesi del terzo mondo non possono avvenire in maniera libera e regolata puramente dal mercato; • Spetta al governo stabilire annualmente il numero dei permessi di soggiorno che possono essere concessi a cittadini extra comunitari per motivi di lavoro; • Il livello e la struttura per professione dei flussi di ingresso devono essere commisurati ai fabbisogni del mercato del lavoro. In sostanza vi è un’opinione condivisa che se è corretto ed opportuno affidare al libero mercato la definizione del livello e della struttura dei beni e dei servizi esportati ed importati dal 219 Credo sia esemplificativo dell’attuale relazione tra teoria economica e teoria demografica il fatto che nei testi di Macroeconomia di Oliver Blanchard, ampiamente utilizzati anche nelle nostre università, la parola popolazione compare solo in riferimento alla definizione della popolazione civile americana e ciò nel contesto di una trattazione dei flussi del mercato del lavoro che rimane poi totalmente inutilizzata nella trattazione successiva. D’altra parte, poiché l’autore non distingue tra flussi generazionali e flussi congiunturali, il modello stock flussi non potrebbe trovare alcun utilizzo in sede macroeconomica. Si veda Oliver Blanchard, Scoprire la macroeconomia, Il Mulino e Oliver Blanchard, Macroeconomia, Il Mulino. 106

ipotizzando una forte crescita del tasso <strong>di</strong> natalità, non si avrebbero sostanziali <strong>di</strong>fferenze nei<br />

risultati appena esposti (il fabbisogno <strong>di</strong> immigrati calcolato dalle Nazioni Unite nei vari scenari)<br />

dato che i bambini nati non entrerebbero nella forza lavoro che tra il 2020 ed il 2050.” Va però<br />

anche sottolineato che questa ovvia affermazione era seguita da alcune espressioni sibilline che non<br />

solo non davano alcun contributo alla soluzione del problema, ma riproponevano il tema della<br />

sostenibilita’: “E’ chiaro che le decisioni in merito alla quantificazione dei flussi non possono<br />

ridursi ad un mero computo matematico. Non è del resto pensabile <strong>di</strong> poter sostenere nel prossimo<br />

cinquantennio un flusso <strong>di</strong> immigrati sufficiente ad annullare il calo <strong>demografico</strong>. <strong>Il</strong> dato in<strong>di</strong>ca,<br />

quin<strong>di</strong>, più un aspetto provocatorio che <strong>di</strong> reale fabbisogno, ma rimane un in<strong>di</strong>catore essenziale<br />

all’interno <strong>di</strong> una logica revisionale nella <strong>politica</strong> migratoria nel suo insieme.” 218<br />

Personalmente ritengo che sul piano politico la Population Division abbia fatto bene a<br />

richiamare l’attenzione dei paesi industrializzati sull’inevitabilità <strong>di</strong> una immigrazione <strong>di</strong> massa.<br />

Sono convinto che il secolo appena iniziato assisterà a flussi migratori senza precedenti storici e<br />

che nessuna <strong>politica</strong> restrittiva potrà bloccare e che sarebbe opportuno che i paesi interessati da<br />

serie contrazioni della popolazione in età lavorativa si preparassero seriamente e con anticipo (in<br />

alcuni casi, come in quello dell’Italia siamo già in ritardo) a tale evento.<br />

Ritengo, però che Coleman fosse nel giusto nell’accusare il rapporto della Population Division<br />

<strong>di</strong> demografismo che egli definì come “an excessive reliance on narrow demographic statistics<br />

relating to the numbers of people, without regard to the consequences of such population change<br />

on social and <strong>politica</strong>l structures, community relations, or social cohesion”.<br />

A mio avviso anche le critiche al rapporto peccano però <strong>di</strong> demografismo che in questo caso<br />

definirei come l’incapacità <strong>di</strong> cogliere le complesse interazioni tra andamenti demografici ed<br />

economia.<br />

<strong>Il</strong> punto fondamentale è, infatti, che gli scenari della Population Division sono costruiti<br />

prendendo come punto <strong>di</strong> riferimento degli obiettivi che non hanno alcun significato economico o<br />

il cui significato andrebbe specificato all’interno <strong>di</strong> un modello.<br />

Non capisco, ad esempio, quale sia l’interesse analitico <strong>di</strong> uno scenario che ipotizzi <strong>di</strong><br />

mantenere costante la popolazione totale al <strong>di</strong> là del fatto che esso rifletta l’ipotesi <strong>di</strong> equilibrio<br />

tendenziale che percorre il pensiero <strong>demografico</strong>. Per quanto riguarda lo scenario che prevede il<br />

mantenimento del livello della popolazione in età lavorativa, nel lungo periodo una popolazione in<br />

età lavorativa costante è consistente solo con una situazione economica che non crea occupazione<br />

aggiuntiva o che genera solo quella che può essere gestita da un incremento dei livelli<br />

partecipativi, il che richiederebbe assur<strong>di</strong> equilibrismi <strong>di</strong> <strong>politica</strong> economica, ovviamente privi <strong>di</strong><br />

qualunque giustificazione. Per quanto riguarda poi l’in<strong>di</strong>catore <strong>di</strong> carico senile, le simulazioni del<br />

rapporto e le critiche ad esso rivolte sono del tutto squalificate dal fatto che l’in<strong>di</strong>catore utilizzato<br />

sia del tutto privo, come abbiamo visto, <strong>di</strong> significatività economica.<br />

<strong>Il</strong> punto fondamentale è però che né gli autori del rapporto, né coloro che l’hanno criticato<br />

hanno affrontato il tema fondamentale, vale a <strong>di</strong>re che cosa determini i flussi migratori e la loro<br />

<strong>di</strong>mensione. Sembrerebbe naturale prima <strong>di</strong> criticare l’utilità <strong>di</strong> un fenomeno o paventarne i danni<br />

chiedersi perché esso si verifichi o dovrebbe verificarsi, essere consapevoli delle sue cause e delle<br />

proprie capacità <strong>di</strong> regolazione. Anche se l’idea <strong>di</strong> una carenza <strong>di</strong> lavoro compare qua e là, mi<br />

sembra evidente che tra i demografi, e non solo, forte rimanga la convinzione che i flussi migratori<br />

hanno la propria determinante principale nelle con<strong>di</strong>zioni dei paesi <strong>di</strong> partenza e che la carenza <strong>di</strong><br />

domanda è al massimo una concausa. È pertanto naturale che, in assenza <strong>di</strong> un modello che<br />

determini l’entità dei flussi migratori in funzione <strong>di</strong> variabili economiche e ne mostri l’inevitabilità<br />

a causa della carenza strutturale dell’offerta e della crescita economica, la <strong>di</strong>scussione si limiti agli<br />

effetti <strong>di</strong> eventuali flussi (che vengono visti non come una variabile <strong>di</strong>pendente, ma come una<br />

variabile esogena o una variabile strumentale) sulle variabili demografiche <strong>di</strong> livello e <strong>di</strong> struttura.<br />

In questo senso sia il rapporto della Population Division, sia i contributi successivi soffrono <strong>di</strong><br />

una inerzia metodologica che mi pare altrettanto pronunciata dell’inerzia demografica.<br />

Ai demografi va comunque riconosciuto il merito <strong>di</strong> aver cercato ormai da lungo tempo, molto<br />

prima della comparsa del rapporto della Population Division, <strong>di</strong> attrarre l’attenzione <strong>di</strong> politici e <strong>di</strong><br />

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218 Ibidem.<br />

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