Testo Prof. Rositi - Economia
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Franco <strong>Rositi</strong><br />
La tolleranza della menzogna nella scena pubblica<br />
in “Quaderni di scienza politica”, 2008, n° 1<br />
Fra i sette vizi capitali non c’è la menzogna. A partire da Gregorio<br />
Magno (eletto papa nel 590), in questo settenario così frequente nella<br />
cultura morale occidentale la menzogna è compresa, del resto molto<br />
marginalmente, solo come “peccato derivato”: per esempio come<br />
strumento dell’avarizia, in particolare nei raggiri e nelle frodi degli avidi<br />
mercanti, e come strumento dell’invidia, in particolare nella forma della<br />
maldicenza 1 . Certo, nella letteratura cristiana medioevale, viene qua e là<br />
ripresa la condanna della menzogna che era già presente nella cultura<br />
greca e nella cultura repubblicana romana e che Sant’Agostino aveva<br />
codificato nella moralità cristiana; ma ora ci si riferisce prevalentemente<br />
allo spergiuro e alla ingannevole somministrazione dei sacramenti, dunque<br />
a scenari di vita privata o di comunità religiosa.<br />
Se si riflette che, in parallelo con la cultura cristiana, resta fiorente<br />
nell’Europa medievale una letteratura popolare o pseudo-popolare che,<br />
con simpatia complice, mette al centro la figura di persone o animali che<br />
hanno estrema abilità nel mentire, in perdurante continuazione con le<br />
mille incarnazioni che il trikster, il “divino briccone” di Kerényi, ha avuto in<br />
tutte le mitologie pre-letterarie (ma anche Atena elogiava l’astuzia di<br />
Ulisse, anche Hermes e Mercurio erano divinità astute) 2 , si potrebbe<br />
sostenere che è soprattutto la modernità a riprendere l’incondizionata<br />
riprovazione della menzogna: nella prima metà del ‘600 con Grozio e con<br />
la sua idea incisiva di una «mutua obbligazione al vero», 150 anni dopo,<br />
com’è noto, con l’intransigente rigorismo di Kant che ignora ogni<br />
eccezione e ogni possibile giustificazione, e per esempio non distingue,<br />
come distingueva San Tommaso, fra bugie utili, giocose e pericolose, né<br />
distingue, come distinguevano i gesuiti, fra il peccatum della menzogna<br />
maligna e il peccatillum della menzogna a fin di bene (“bugie pietose”,<br />
“white lies”), né infine, come concedevano Platone e Machiavelli, concede<br />
ai governanti il diritto di mentire. Con Kant è come se la modernità<br />
individuasse nella menzogna un ottavo vizio capitale, o meglio, come<br />
preciserò in seguito, il primo vizio capitale della politica 3 .<br />
1 Cfr. C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel<br />
Medioevo, Torino, Einaudi 2000. Nell’inferno della Divina Commedia ci sono vari<br />
tipi di peccatori per frode, ma solo due “falsatori di parola”, la moglie di Putifarre<br />
che accusò falsamente Giuseppe di aver attentato alla sua virtù, e Sinone il greco<br />
che, infiltrato fra i Troiani, li convinse a introdurre il cavallo nella città (canto<br />
XXX). Per una ricca casistica delle imposture nel Medioevo, in particolare quelle<br />
relative all’assunzione di false identità, cfr. G. Lecuppre, L’imposture politique au<br />
Moyen Age. La seconde vie des rois, Paris, PUF 2005 (tr. it. L’impostura politica<br />
nel Medioevo, Bari, Dedalo 2007).<br />
2 Si può leggere, per questi e altri riferimenti, l’agile rassegna storica di M.<br />
Bettetini, Breve storia della bugia, Milano, Cortina 2001.<br />
3 Preziosa è l’introduzione di A. Tagliapietra a I. Kant e B. Constant, La verità e la<br />
menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, Milano, Bruno<br />
1
Ovviamente l’affermazione della verità come criterio fondativo della<br />
sfera pubblica è più propriamente da intendersi sul piano degli ideali<br />
politici e delle istanze costituzionali (intendo il riferirsi delle costituzioni a<br />
valori 4 ) che su un piano positivamente normativo, più come l’asintoto<br />
utopico delle moderne democrazie che come una loro reale proprietà.<br />
Probabilmente la quantità di menzogna circolante nel nostro tempo, se<br />
mai si potesse misurarla 5 , non è inferiore a quella di altri tempi. Uno dei<br />
pochi libri che pretendono di trattare sociologicamente la menzogna<br />
comincia con la semplice affermazione: «La menzogna è dovunque» 6 . Pur<br />
se ci limitiamo all’età moderna e ai suoi immediati antecedenti, cioè<br />
all’avvento dell’ideale di una libera informazione di massa, potremmo<br />
anche dire «La menzogna è di ogni tempo». È sufficiente per esempio<br />
leggere le storie del primo sviluppo dei fogli di informazione fra ‘600 e<br />
Mondadori 1996.<br />
4 J. Habermas (Fatti e valori, Milano, Guerini 1996, cap. 6°), la cui teoria della<br />
democrazia è sullo sfondo di questo saggio, ha espresso obiezioni alla tradizione<br />
che vede nelle costituzioni dei moderni stati democratici una componente<br />
valoriale (oltre che, ovviamente, una componente positivamente normativa). Se<br />
le costituzioni avessero una componente valoriale – egli argomenta – e se per<br />
esempio le corti costituzionali dovessero fornire interpretazioni autoritative della<br />
tradizione etica di una nazione, verrebbe a rischio la distinzione fra etica e diritto<br />
che è fondamentale per il mantenimento del pluralismo democratico e della<br />
costruzione discorsiva delle deliberazioni politiche. Ciò che sembra un riferimento<br />
a valori è, nella discutibile lettura habermasiana delle costituzioni, l’enunciazione<br />
di principi che devono organizzare logicamente l’interpretazione delle norme e<br />
che restano dunque su un piano propriamente normativo (non valoriale). Ma lo<br />
stesso autore riconosce (p. 305) che «nel diritto immigrano anche contenuti<br />
teleologici» [valori]; d’altra parte ammette in più luoghi (per es. p. 337) che il<br />
bilanciamento che una “politica deliberativa” compie fra interessi e valori<br />
confliggenti non può portare a risultati che offendano «valori di fondo<br />
culturalmente accreditati» - e prevede perfino una tensione stabile fra «idealismo<br />
costituzionale e materialismo dell’ordinamento legale» (p. 53). Questi<br />
riconoscimenti sono sufficienti perché quello che qui in seguito si dirà non appaia<br />
contraddittorio (anche se in qualche modo divergente) con l’impostazione<br />
habermasiana.<br />
5 In questo saggio non mi impegno in una definizione della menzogna. Il più<br />
recente lavoro di definizione che io conosca è di T. L. Carson, The Definition of<br />
Lying, in “Noûs”, 40:2, 2006, che così conclude «L’individuo S dice una menzogna<br />
all’individuo S1 se: a) S fa una asserzione falsa x; b) S crede che x sia falsa o<br />
probabilmente falsa (o alternativamente, S non crede che x sia vera); c) S<br />
afferma x in un contesto in cui S garantisce la verità di x a S1; d) S sa di garantire<br />
la verità di ciò che dice a S1» (p. 298). Come si vede manca in questa definizione<br />
la condizione che S voglia ingannare S1: si può correttamente dire che ci sia<br />
volontà di mentire anche da parte di chi sa che i suoi interlocutori non gli<br />
crederanno, almeno in alcuni casi particolari (per esempio davanti a un giudice<br />
che è convinto della colpevolezza di un imputato cui resti però qualche vantaggio<br />
a non divenire “reo confesso”).<br />
6 J. A. Barnes, A Pack of Lies. Toward a Sociology of Lie, Cambridge Cambridge<br />
University Press 1994.
‘700 7 (v. Infelise, 2002 e Castronovo e Recuperati, 1976), per costatare<br />
quale intreccio si stabilì fin da quel momento fra “gazzettanti” o<br />
“rapportisti”, da una parte, e diplomazie e potere politico dall’altra:<br />
continue rivendicazioni di disinteresse e di (letteralmente) «dignità del<br />
pubblico», da entrambe le parti, così come, ancora da entrambe le parti,<br />
continui servilismi, mercimoni, «avvisi a piacimento», minacce, bastonate.<br />
Ha già detto Hannah Arendt, in un saggio sui Pentagon Papers:<br />
«Segretezza – quel che in diplomazia si chiamava ‘discrezione’, così come gli<br />
arcana imperii, i misteri del governo – e inganno, la menzogna deliberata e la<br />
totale bugia usati come mezzi per realizzare fini politici sono stati con noi fin<br />
dagli inizi della storia tramandata. La verità non è mai stata inserita fra le virtù<br />
politiche e le menzogne sono state sempre considerate come mezzi giustificabili<br />
dell’azione politica» 8 .<br />
Come è noto, la Arendt, intende idealmente l’azione politica come<br />
libertà che cambia il mondo, e, non potendo ammettere che a pratiche<br />
creative o almeno non adattive corrisponda un pensiero che passivamente<br />
rispecchi la realtà, è disponibile a porre qualche intima «interconnessione<br />
fra la libertà dell’azione e l’umana abilità di negare deliberatamente la<br />
realtà fattuale»; è inoltre ben consapevole della estrema difficoltà dei<br />
nostri tentativi di ricostruire realisticamente il tessuto dei fatti. Immagino<br />
che la Arendt avrebbe volentieri sottoscritto quell’elogio dell’incertezza<br />
che una volta fu pronunciato da Hirschman, il quale appunto ha associato<br />
democrazia e amore dell’incertezza 9 . Nononostante queste premesse e il<br />
complesso concetto di verità che le sostiene 10 , la Arendt non può tuttavia,<br />
7 M. Infelise, Prima dei giornali, Roma, Laterza 2002; V. Castronovo e G.<br />
Recuperati (1976), I primi sviluppi della stampa periodica fra Cinque e Seicento,<br />
Roma, Laterza.<br />
8 Cfr. H. Arendt, Crises of the Republic, San Diego, Harcourt Brace & Company<br />
1972, pp. 4-5 (tr. it. del saggio Lying in Politics in La menzogna in politica,<br />
Marietti 2006). Il saggio che qui interessa, Lying in Politics, era apparso nel 1969<br />
in “New York Review of Books” Cfr. anche il saggio Truth in Politics, in H. Arendt,<br />
Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought, New York 1968 (tr.<br />
it. del saggio Truth in Politics : Verità e politica, Torino, Bollati Boringhieri, 2004).<br />
Cfr. ancora Arendt, Home to root: A bicentennial Adress, in “New York Review of<br />
Books”, 1975, 22. Ma, al di là di questi tre saggi specifici, per il loro sfondo<br />
teorico è rilevante quasi l’intera opera della Arendt. Per una lettura tendenziosa<br />
dei primi due testi citati di Arendt, e per una definizione sui generis, alla<br />
Braudillard, della menzogna nella cultura di massa come regno di simulacri, v. J.<br />
Derrida, Without Alibi, Stanford 2002.<br />
9 A. O. Hirschman, On Democracy in Latin America, in “New York Review of<br />
Books”, 10.5.1986. Fra le virtù essenziali per la democrazia Hirschman include,<br />
oltre a questo love of uncertainty che fra l’altro implica un corretto processo di<br />
formazione dell’opinione pubblica (apertura alla discussione, disponibilità verso<br />
nuove informazioni ecc.) ed è dunque antagonistico verso la comunicazione<br />
menzognera, anche «una certa quantità di pazienza», in particolare per chi ha<br />
perso in una elezione e deve attendere la prossima.<br />
10 La «verità fattuale» si pone, per la Arendt, come coercizione (come barriera al<br />
libero dispiegarsi delle opinioni, come «contingenza brutalmente empirica») e,<br />
3
date le sue salde convinzioni repubblicane, accettare passivamente<br />
«questa attiva e aggressiva capacità di mentire» e, oltre che denunciarla<br />
come abuso di potere, aggiunge:<br />
«Chiunque rifletta su queste materie può solo sorprendersi per quanta poca<br />
attenzione sia stata [loro] data nella tradizione del pensiero filosofico e<br />
politico…».<br />
Sorpresi per la marginalità del tema menzogna dovrebbero per la<br />
verità esserlo soprattutto gli studiosi di scienze sociali empiriche, politologi<br />
e sociologi, in particolare se si riflette che per loro la diffusione e la<br />
visibilità sembrano essere spesso il più forte criterio di rilevanza nella<br />
scelta degli oggetti di ricerca. E la menzogna è diffusa e, quando scoperta,<br />
è visibile. Per quanto riguarda i filosofi, a me sembra che a partire dagli<br />
anni ’70, in coincidenza con una intensa ripresa degli studi di filosofia<br />
morale, il tema abbia ottenuto buona attenzione. Anche fra gli psicologi lo<br />
stato dell’arte sembra essere migliore, soprattutto se si considerano i<br />
territori affini 11 .<br />
Le ragioni della scarsa fortuna del tema fra sociologi e politologi<br />
possono essere varie. Certamente ce n’è una ragione prammatica: una<br />
eventuale misurazione della menzogna chiederebbe un osservatore non<br />
solo onnisciente a riguardo del tessuto dei fatti, ma anche abile a<br />
discernere cose così poco discernibili come la voluntas fallendi,<br />
l’intenzione menzognera, e la non attribuibilità di asserzioni false a errore<br />
o a ideologia 12 . Mostrerò tuttavia in seguito come questa difficoltà<br />
prammatica possa essere, se non superata, almeno aggirata. Immagino<br />
pertanto come più rilevanti le ragioni che potremmo chiamare ideologiche,<br />
da una parte una disposizione irenica, soprattutto presente fra i sociologi,<br />
dall’altra una disposizione cinica, soprattutto presente fra i politologi:<br />
allo stesso tempo, come fondamento di quel senso comune da cui soltanto può<br />
elevarsi la libera discussione politica e da cui soltanto può nascere qualche<br />
smentita alla menzogna sistematica, e fin troppo “logica”, dei totalitarismi; di<br />
contro, la «verità logica», il dispositivo mentale principale dei totalitarismi, è<br />
puramente coercitiva. È come se nell’intero arco della sua riflessione, la Arendt<br />
abbia cercato per la politica, a costo di «tremende» tensioni teoriche, una via<br />
intermedia nella distinzione, probabilmente ereditata dal positivismo e da lei non<br />
problematizzata, fra “verità analitiche” e “verità sintetiche” (assumo così in<br />
breve questa ricostruzione da J. S. Nelson, Politics and Truth: Arendt’s<br />
Problematic, in “American Journal of Political Science”, 22,1978).<br />
11 Per l’Italia, cfr. C. Castelfranchi e I. Poggi, Bugie, finzioni, sotterfugi. Per una<br />
scienza dell’inganno, Roma, Carocci 1998.<br />
12 Per la distinzione fra errore, menzogna e ideologia rimando al mio Ideologia,<br />
in P. Farneti (a cura di), Politica e società, Firenze, La Nuova Italia 1979, vol. I. La<br />
Arendt (Crises of the Republic, op. cit., p. 5), che usa il termine “ideologia” in un<br />
senso particolare, distingue con chiara semplicità fra menzogna e altri<br />
autoinganni della mente: «Questa capacità attiva, aggressiva, è chiaramente<br />
differente dalla nostra passiva predisposizione a cadere preda di errori, di<br />
illusioni, di distorsioni della memoria e di quanto si può attribuire ai fallimenti del<br />
nostro apparato sensuale e mentale».
intendo come irenica la disposizione al ruolo di osservatore educato, non<br />
giudicante – e come cinica, invece, l’idea che, soprattutto nello studio<br />
delle cose politiche, vada evitata ogni attitudine moralistica verso un<br />
oggetto che è pensato come moralmente indifferente o perfino<br />
legittimamente immorale. Intorno a quest’ultima idea deve del resto<br />
essere sottolineato che molta parte del pensiero moderno e<br />
contemporaneo, in particolare di letterati e di filosofi, ha continuato,<br />
nonostante il rigore di Kant e gli ideali della democrazia, a civettare<br />
intorno all’idea di menzogna, perfino a riconoscervi un segno distintivo<br />
dell’essere umano, pienamente umano 13 .<br />
Tuttavia anche quelli che professano una religione di spregiudicato<br />
realismo dovrebbero ammettere che fra le cose reali di molte società<br />
contemporanee sono anche gli ideali democratici e le costituzioni<br />
democratiche. Questi ideali e queste costituzioni sono continuamente<br />
presenti sulla scena pubblica: nelle controversie politiche, nelle dispute sui<br />
valori, nei tribunali, nella didattica, nelle cerimonie pubbliche. Dovrebbe<br />
generare almeno qualche curiosità l’attrito che si genera fra le virtù di<br />
trasparenza comunicativa che così vengono comunemente esaltate e le<br />
smentite che loro derivano da una cattiva pratica comunicativa qual’è la<br />
menzogna.<br />
Anche noi sociologi, che tra l’altro conduciamo molta parte del nostro<br />
lavoro di ricerca avendo in mente un pubblico democratico, vale a dire un<br />
pubblico che si suppone desideri buone informazioni fattuali e buoni<br />
argomenti per deliberare o per valutare deliberazioni, abbiamo nella<br />
13 Sembra che anche qualche altra specie di animale sia in grado di fare cose<br />
che richiamano l’umana menzogna. Ma questa, come infine si dichiara in tutta la<br />
letteratura che la riguarda, è strettamente connessa alle particolari capacità<br />
simboliche della specie umana, e in particolare alle capacità linguistiche (alcuni<br />
pensano che mentire attraverso gesti e azioni non possa sussistere che<br />
appoggiandosi a qualche comunicazione linguistica). Sicché coglierebbe nel<br />
segno la nota definizione che, in forma di aforisma, Umberto Eco (Trattato di<br />
semiotica generale, Milano Bompiani 1975, p. 17) ha dato del segno come di<br />
«tutto ciò che può essere usato per mentire». Come è noto, già Voltaire aveva<br />
attribuito al linguaggio la funzione di nascondere i pensieri del parlante. Del<br />
resto, sembra che l’idea che il linguaggio apra la possibilità di mentire sia<br />
ampiamente diffusa fra tutte le culture: in una ricerca su come i nativi di un<br />
villaggio Zafimary (in Madagascar), l’antropologo Maurice Bloch rileva che la più<br />
comune spiegazione per l’incapacità che i bambini mostrano prima dei 5-6 anni a<br />
comprendere, in un ingenoso esperimento psicologico, atti di inganno, consiste<br />
nel ritenere che gli uomini siano in grado di concepire la menzogna solo quando<br />
diventano pienamente padroni del linguaggio. A tale profonda covinzione Bloch<br />
fa risalire l’universale associazione, presente in quasi tutte le culture, fra verità e<br />
vista, come se il rapporto diretto fra sé e il mondo, che la vista sembra realizzare,<br />
sia l’unica garanzia contro gli inganni della parola (M. Bloch, Truth and Sight, in S.<br />
Borutti, a cura di, Modelli per le scienze umane, Trauben, Torino 2007).<br />
Dovremmo tuttavia chiederci se la nostra capacità di usare il linguaggio per<br />
mentire non sia in sostanza parassitaria della nostra capacità di usare il<br />
linguaggio per dire la verità, tragga anzi tutta la sua “forza” da diffuse e stabili<br />
aspettative di verità.<br />
5
nostra tradizione una serie di limpide testimonianze a favore dell’ideale<br />
democratico. Jürgen Habermas ha ricordato le professioni di fede, a questo<br />
proposito, di Durkheim e di Mead. Pertinente al nostro tema è la seguente<br />
citazione di Durkheim:<br />
«Un popolo è tanto più democratico quanto più la deliberazione, la<br />
riflessione, lo spirito critico svolgono un ruolo considerevole nell’andamento degli<br />
affari pubblici. Lo è tanto meno quanto l’incoscienza, le abitudini inconfessate, i<br />
sentimenti oscuri, in una parola i pregiudizi non sottoposti a critica vi sono<br />
preponderanti» 14 .<br />
Il “positivista” Durkheim non aveva timore di introdurre con queste<br />
parole un giudizio di valore nell’analisi sociologica. In realtà egli aveva in<br />
mente una regola empirica che io trovo ragionevole e troppo spesso<br />
trascurata:<br />
«La società ideale non è al di fuori della società reale; essa ne fa parte.<br />
Lungi dall’essere suddivisi fra di esse come tra due poli che si respingono, noi<br />
non possiamo appartenere all’una senza appartenere anche all’altra» 15 .<br />
Certo, le varie apologie della democrazia potrebbero essere ideologia,<br />
sia nel senso di wishful thinking, sia nel senso di copertura inconsapevole<br />
di giochi più grevi fra interessi. Ma anche in questo caso non dovrebbe<br />
sfuggire che una ideologia è un meccanismo che può incepparsi:<br />
nonostante il pessimismo di Pareto, quando asseriva che lo svelamento di<br />
quelle che egli chiamava “derivazioni” ha «risultamenti insignificanti»,<br />
molte evidenze ci inducono a considerare fattualmente importanti i difetti<br />
di funzionamento e le smentite in quella particolare macchina culturale<br />
che è l’ideologia.<br />
Di per sé la menzogna non è una smentita degli ideali democratici. In<br />
fin dei conti colui che mente mantiene il ruolo di partecipante alla<br />
discussione, e in un certo senso, come nel vecchio aforisma che considera<br />
l’ipocrisia quale omaggio alla virtù, così egli tiene a che il suo dire sia<br />
classificato dagli uditori come omaggio alla groziana «mutua obbligazione<br />
al vero». La menzogna non è neppure violenza, né intimidazione 16 , serve<br />
anzi essenzialmente a evitare l’una e l’altra: se i regimi totalitari praticano<br />
sistematicamente la distorsione delle informazioni, se costruiscono<br />
tradizioni inventate, se occultano i crimini 17 , lo fanno perché sperano,<br />
14 É. Durkheim, Lezioni di sociologia, Milano, Etas 1973, p. 94.<br />
15 É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Comunità 1963,<br />
p. 462.<br />
16 Ci si riferisce, in queste pagine, solo alla menzogna in senso proprio, quella in<br />
cui il parlante è molto attento a nascondere il carattere menzognero delle sue<br />
parole. Esistono ovviamente altri casi, qui trascurati: la menzogna spudorata<br />
(bald-faced), quella ironica, quella coatta ecc. (v. R. Sorensen, Bald-faced Lies!<br />
Lying without the Intent to deceive, in “Pacific Philosophical Quarterly”, 2007,<br />
88). Per l’analisi del discorso politico è a mio parere molto importante la<br />
discordia spudorata, ma dovrò trascurare questo tema.<br />
17 A. Koyré ha scritto a proposito, nel 1943 (anno in cui cominciava a farsi chiaro
spesso invano, che in questo modo possano essere alleggeriti i costi della<br />
pura repressione.<br />
Quanto agli effetti distorsivi sistemici che possono avere comunque,<br />
anche se singolarmente coronate da successo, le pratiche prolungate di<br />
menzogna o perfino singoli atti di particolare rilevanza, per esempio il<br />
nascondimento dei rischi e dei costi di una guerra (fino a ingannare gli<br />
stessi seminatori di false informazioni), qui è preferibile trascurarli, data la<br />
complessità della catena cause-effetti: complessità eccessiva per una<br />
analisi che sta cominciando. Se si trascurano dunque questi effetti<br />
sistemici, si può circoscrivere l’analisi entro i casi di menzogna rivelata.<br />
È anche utile, sempre al fine di procurarsi un vantaggio di semplicità,<br />
almeno temporaneo, distinguere chiaramente, entro le molte forme di<br />
distorsione della comunicazione pubblica, fra menzogna e azioni come<br />
ipocrisia, falsificazione delle preferenze 18 , reticenza, promesse fittizie, patti<br />
non mantenuti, rappresentazioni esasperate o edulcorate di problemi,<br />
manovre di distrazione, inversioni di rilevanza, discorsi fuorvianti o<br />
equivoci ecc. Si tratta pur sempre di cattive pratiche comunicative, ma la<br />
loro analisi richiede una quantità molto elevata di informazioni e di<br />
interpretazioni. C’è infine una ulteriore considerazione che può convincerci<br />
a cominciare da qualcosa che sia relativamente più semplice: nelle nostre<br />
democrazie la legittimazione della “propaganda” continua a produrre<br />
indulgenza sistematica per molte malformazioni dell’opinione pubblica, ma<br />
dovrebbe esserci scarsa tolleranza almeno per i casi in cui qualcuno<br />
coscientemente dice una cosa per l’altra su quelli che la Arendt chiama<br />
«fatti bruti» - non fatti interiori come intenzioni, valori, credenze (in<br />
asserzioni che includono esplicitamente qualcosa come un «io credo»), ma<br />
fatti esterni che potrebbero essere oggettivamente conosciuti, come<br />
debito pubblico o tassi di evasione fiscale o investimenti militari o perfino<br />
atti e biografie individuali.<br />
Solo quando viene scoperto, il mentitore può apparire come un<br />
deviante, come l’aggressore di comuni attese. Se immaginiamo una<br />
società in cui quasi ogni giorno si scopra che sono state propagate notizie<br />
false e si registrino dunque, almeno in qualche comparto dell’opinione<br />
pubblica, contese intorno a questo tipo di impostura, dovremmo prevedere<br />
in essa anche una catastrofe delle idee e delle pratiche democratiche. E<br />
tuttavia le cose non stanno propriamente così: l’osservazione o certe<br />
l’esito della seconda guerra mondiale) un saggio che ha avuto più di una<br />
traduzione in lingua italiana (v. A. Koyré, Riflessioni sulla menzogna politica,<br />
Catania 1994).<br />
18 T. Kuran (Private Truths, public Lies, The Social Consequences of Preference<br />
Falsification, Cambridge, Harvard University Press 1995) intende come<br />
“falsificazione delle preferenze” (manifestare pubblicamente preferenze diverse<br />
da quelle che si hanno in privato) una specifica forma di menzogna, ma dovrebbe<br />
porsi maggiore attenzione alla distinzione fra asserzioni relative al mondo<br />
esterno, e asserzioni che invece riguardano peculiarmente quel mondo interno<br />
cui le preferenze appartengono. Per quest’ultimo caso ci si dovrebbe più<br />
propriamente riferire a un principio di sincerità/non sincerità che, come sarà<br />
accennato fra qualche pagina, pone problemi particolari all’analisi politologica.<br />
7
immediate evidenze ci dicono che sono numerose le vie di adattamento<br />
fra frames democratici e smascheramento di pratiche distorsive della<br />
comunicazione pubblica. Non sappiamo nulla su quanto e con quale<br />
intensità possano durare questi giochi adattivi, ma quel che sappiamo è<br />
che comunque essi possono riuscire in qualche misura. Come sono<br />
possibili queste riuscite, almeno relative, della convivenza fra democrazia<br />
e menzogna rivelata Cercherò di rispondere a questa domanda con<br />
qualche ipotesi.<br />
v v v<br />
Conviene innanzitutto distinguere fra i vari ambiti in cui possono<br />
avvenire episodi di menzogna. In particolare a riguardo delle conseguenze<br />
che arrivano in seguito alla loro rivelazione, mi sembra importante la<br />
distinzione, che per ora lascio molto generica, fra sfera privata e sfera<br />
pubblica. Purtroppo la tradizione della filosofia e della filosofia sociale in<br />
cui siamo è su questo tema costruita in quasi totale indifferenza alla<br />
diversità di queste due sfere 19 . Kant, che pure è fra i fondatori del moderno<br />
(democratico) principio di “pubblicità” e ritiene che la menzogna non solo<br />
«abolisca la società», ma anche «annienti la fonte stessa del diritto»,<br />
svolge i suoi esempi quasi esclusivamente in riferimento a circostanze e a<br />
situazioni che potremmo attribuire alla vita privata: si ricordi il caso della<br />
sua risposta a Maria von Herbert che aveva perso l’amore di un uomo<br />
dopo avergli rivelato di avergli mentito (in realtà, sembra che avesse<br />
taciuto a lungo di un precedente amore e che, alla sua finale confessione,<br />
l’uomo se ne fosse risentito): entusiasta dell’insegnamento morale di<br />
Kant, Maria von Herbert gli scrisse implorandolo di confortarla, ma ebbe<br />
una risposta che la confortava ben poco e che, certo con ammirevole<br />
sintesi ma anche con indelicata crudezza, le ripeteva le convinzioni<br />
dottrinali, perfino accentuandone il rigorismo e indebolendo perfino le già<br />
note concessioni al riserbo 20 .<br />
Due secoli dopo, riprendendo da Kant alcuni elementi sia a riguardo<br />
della sfera pubblica sia a riguardo del dovere di verità, anche Jürgen<br />
Habermas considera i tre criteri di validità dell’agire comunicativo, verità –<br />
giustezza – sincerità, in indifferenza rispetto alla distinzione privatopubblico.<br />
Eppure la comune esperienza ci consegna a questo proposito<br />
19 Nell’importante libro di S. Bok, On Lying and Moral Choice in Private and<br />
Public Life, Pantheon Books 1978 (tr. it. Mentire: una scelta morale nella vita<br />
pubblica e privata, Roma, Armando 2003), ancora largamente diffuso nelle<br />
università americane e inglesi, è centrale l’idea che la vita pubblica può fondarsi<br />
su un «principio di veracità» solo a condizione che la disposizione a dire la verità<br />
sia ampiamente diffusa nella vita quotidiana o privata, quasi l’una fosse la<br />
continuazione dell’altra – una tesi sulla quale si può nutrire qualche dubbio.<br />
“Pubblico”, inoltre, vi si riferisce anche all’idea che le giustificazioni della<br />
menzogna, qualora vi siano, vadano verificate davanti a un «pubblico<br />
ragionevole» (amici, persone di fiducia ecc.).<br />
20 D. Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Napoli,<br />
Bibliopolis, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici 1983.
alcune evidenze che andrebbero per lo meno analizzate. Da una parte,<br />
sembra infatti che negli scambi privati più intimi molti casi di menzogna,<br />
se si esclude la frode, godano comunemente di una maggiore permissività,<br />
in particolare in ragione del fatto che ne sono possibili le più disparate<br />
buone giustificazioni particolaristiche, legate alla saggezza di chi può<br />
conoscere la contingenza dei caratteri, della situazioni, degli stati d’animo<br />
ecc.; dall’altra gli scambi privati sono soggetti, tanto più quanto più intimi,<br />
a esigenti richieste di sincerità: sembra dunque che siano vigenti, in questi<br />
scambi, più lassismo e, al contempo, paradossalmente, più rigore.<br />
Se la virtú di essere veritieri impone di pensare quel che si dice,<br />
dunque impone che qualsiasi enunciato fattuale p sottintenda un illocutivo<br />
«credo che p», la virtú della sincerità impone di dire quel che si pensa,<br />
vale a dire di sottintendere che, su determinati campi di discorso, quel che<br />
si dice è tutto quel che si pensa 21 . È una virtú che appropriatamente<br />
Tagliapietra (2003) ha definito «crudele» 22 . Sebbene l’ideale della sincerità<br />
(nel senso qui adottato) abbia avuto fortuna soprattutto nella modernità, e<br />
ne ottenga ancora nelle molte forme attigue dell’autenticità, della<br />
genuinità, della trasparenza, si può dubitare tuttavia che il senso morale<br />
21 Occorre qui precisare che tratto il criterio della sincerità in modo diverso da<br />
quello di J. Habermas. Spesso in questo autore sincerità e veridicità sono<br />
pressoché sinonimici – e a me sembra che egli tratti la menzogna più che sul<br />
versante della falsità di asserzioni costatative, sul versante di una invalida<br />
illocuzione espressiva: il soggetto sottintende uno stato di coscienza («credo che<br />
p») che non ha. Si veda per esempio questo luogo: «In molte situazioni un attore<br />
ha buone ragioni per nascondere ad altri le proprie esperienze vissute o di<br />
ingannare il suo partner di interazione sulle proprie “vere” esperienze. Allora egli<br />
non solleva alcuna pretesa di veridicità, tutt’al più la simula comportandosi in<br />
modo strategico. Espressioni di questo tipo non possono essere criticate per la<br />
loro falsità; esse devono piuttosto essere valutate in base al successo che si<br />
prefiggono. Manifestazioni espressive possono essere misurate sulla loro<br />
veridicità soltanto nel contesto di una comunicazione che mira all’intesa» (J.<br />
Habermas, Teoria dell’agore comunicativo, Bologna, Il Mulino 1986., vol. I, p. 78).<br />
Così a p. 426: «p diventa “credo che p” e il parlante può essere accusato di non<br />
veridicità». “Credo che p” è per Habermas non semplicemente un pleonasma di<br />
p, ma una «proposizione esperienziale» (ibi, p. 427; cfr. anche vol. II, p. 636).<br />
Sono del resto consapevole che tale questione sul lessico di Habermas non può<br />
essere risolta per via di definizioni stipulative e contiene possibili divergenze<br />
teoriche. Per fare esempi che mi sono noti, insistono sulla “sincerità”, intesa<br />
come rappresentazione veritiera delle credenze, anche Donald Davidson,<br />
Deception and Division, in J. Elster, a cura di, The Multiple Self, Cambridge,<br />
Cambridge University Press 1985 e David Simpson, Lying, Liars and Language, in<br />
“Philosophy and Phenomenological Research”, n. 3, 1992. In B. Williams,<br />
Genealogia della verità, Fazi, Roma, 2005, il termine “sincerità” oscilla dalla<br />
semplice corrispondenza fra asserzioni e credenze (p. 92) a un significato che è<br />
più vicino al nostro e che ha a che fare con la domanda morale su quanta parte di<br />
verità sia da dire (p. 85): ma l’attenzione dell’autore a questo termine è<br />
essenzialmente determinata dal tema degli inganni che si possono produrre con<br />
asserzioni formalmente veritiere.<br />
22 A. Tagliapietra, La virtú crudele. Filosofia e storia della sincerità, Torino,<br />
Einaudi 2003.<br />
9
comune faccia richieste indifferenziate di sincerità. In particolare non le fa<br />
sulla scena pubblica: qui, anzi, dire tutto quello che passa in testa appare<br />
ancora a molti come sconveniente, infantile o inurbano; qui sono anzi<br />
attribuiti a dovere quel riserbo e quella reticenza che da Kant era<br />
giustificata con il perdonabile desiderio di nascondere le nostre debolezze,<br />
a noi stessi ben note, e che noi potremmo anche giustificare come<br />
benevolenza socievole verso quelle debolezze altrui che ci sono forse ben<br />
più note delle nostre. Insomma vige ancora nella scena pubblica il<br />
principio della «dissimulazione onesta» che Torquato Accetto codificò nel<br />
1641 23 e che è comunque distinta dalla dissimulazione fraudolenta.<br />
Quando questo principio decade, e quando si assiste alla fortuna di uomini<br />
pubblici che ostentano sincerità e che fingono, come si dice, di “parlare<br />
con il cuore”, e quando infine vasti pubblici partecipano allo spettacolo<br />
della politica con l’ansia di spiare i segni della sincerità, si può dire, con<br />
Sennet, che la sfera pubblica stia subendo una regressione 24 .<br />
Ma se la sincerità resta, o dovrebbe restare, una virtú confinata a<br />
determinati ambiti (e solo a determinati ambiti) di vita privata, e<br />
probabilmente, almeno in un senso particolare e come Habermas sembra<br />
pensare, anche alla sfera pubblico-espressiva (arte), il criterio di verità è<br />
profondamente fondativo della scena e della sfera pubbliche nella<br />
modernità. Volta a volta il parlante deve ritenere vero ciò che asserisce - e<br />
costituisce devianza non tanto l’asserzione di cose false, ma, come nei<br />
tribunali, l’asserzione di cose false da parte di un parlante che le sapeva<br />
tali, e “non poteva non saperle” tali. Il fatto che qui il pubblico sia<br />
normalmente anonimo, taglia alle radici, come insiste Habermas<br />
introducendo la nozione di pubblico “astratto”, la possibilità di<br />
giustificazioni particolaristiche 25 .<br />
Vige del resto anche l’obbligo, in determinati contesti (per esempio in<br />
una intervista, ma anche nei confronti di contestazioni pubbliche), di<br />
rispondere a domanda – e ciò erode quegli ambiti di riserbo e di reticenza<br />
23 «Si simula quel che non è, si dissimula quello che è» è la precisa definizione<br />
(v. T. Accetto, Della dissimulazione onesta, ed. critica a cura di S. Nigro,<br />
presentazione di G. Manganelli, Genova, Costa & Nolan 1983, 50-51).<br />
24 R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico. La società intimista, Milano, Bruno<br />
Mondadori 2006. Ho svolto considerazioni su tale regressione in F. <strong>Rositi</strong>,<br />
Oscillazioni e turbamenti della distinzione pubblico/privato nella cultura di massa,<br />
in M. Rampazi, a cura, L’incertezza quotidiana, Milano, Guerini 2002.<br />
25 Ma lo stesso Habermas (v. del resto anche nota 21) nomina molto raramente<br />
la menzogna. Sembra che questa si risolva, nella sua opera, nel concetto di<br />
manipolazione. In R. E. Goodin (Manipulatory Politics, New Haven¸ Yale University<br />
Press 1980) 1980) si dispiega una vasta tipologia dei fenomeni manipolativi, sia a<br />
livello di distorsione dell’informazione, sia a livello di pratiche ingannevoli e di atti<br />
linguistici performativi – e non si tratta dunque di un concetto semplice. Per<br />
esempio, esistono “trucchi” retorici, asserzioni implicite, promesse non<br />
realizzate, ma non tutta la retorica, non tutte le asserzioni implicite, non tutte le<br />
promesse non realizzate potrebbe essere legittimamente ascritte all’area<br />
semantica della menzogna. Sono convinto che un approfondimento analitico di<br />
tali questioni darebbe buoni risultati se fosse svolto all’interno dei quadri teorici<br />
di Habermas.
che altrimenti sono pure permessi e che, quando si è sollecitati a parlarne,<br />
possono essere mantenuti soltanto alla condizione onerosa, legittima solo<br />
per alcune posizioni di autorità, di ricorrere a qualcosa come il “segreto di<br />
Stato”. Il parlante in una scena pubblica non è propriamente un imputato a<br />
cui viene concesso il diritto di tacere, ma è un testimone che è obbligato a<br />
rispondere, salvo casi eccezionali, senza reticenza: obbligato alla risposta,<br />
comunque, non a deposizioni spontanee.<br />
Il principio di pubblicità vigente nelle democrazia non obbliga dunque<br />
a rendere tutto pubblico, ma a dichiarare in modo veritiero tutto quello<br />
che è pertinente a questioni che insorgano. Diversamente dalla sfera<br />
privata intima, nella quale possono trovarsi innumerevoli giustificazioni<br />
ragionevoli per asserzioni non veritiere che è conveniente ora chiamare<br />
bugie piuttosto che menzogne, sulla scena pubblica vigono solo<br />
pochissime giustificazioni per eventuali comunicazioni intenzionalmente<br />
false: esse sono così codificate, ed hanno del resto così precise<br />
circoscrizioni temporali e congiunturali, per esempio dichiarazioni<br />
ottimistiche contro il panico o questioni di sicurezza interna e<br />
internazionale, che nel nostro contesto di discorso possono essere<br />
trascurate.<br />
Se le cose stanno in questo modo, ci si potrebbe attendere che nelle<br />
moderne democrazie la rivelazione di menzogne avvenute generi reazioni<br />
scandalistiche tanto più profonde quanto più rilevante sia ciò su cui si è<br />
mentito e tanto più in posizioni alte di responsabilità ne siano gli autori.<br />
Non solo formuliamo in questo modo una ipotesi empirica, ma la<br />
formuliamo anche in termini di buona verificabilità. Come ho già detto, è<br />
difficile conoscere quanta menzogna circoli in una società, anche per la<br />
sola ragione che il mentire su stati di cose complessi (per esempio,<br />
bilancio, confronti internazionali o temporali sulla criminalità, relazioni e<br />
patti politici ecc.) lascia meno tracce visibili di altri delitti più “materiali”<br />
ed è un agire strategico che può ottenere facilmente successo – cosicché,<br />
se affermassimo l’ipotesi di una correlazione fra democrazia e verità, si<br />
tratterebbe ancora di una ipotesi empirica, ma resterebbe molto dubbia la<br />
sua verificabilità. Più verificabili sono invece ipotesi sul grado di tolleranza<br />
della menzogna rivelata.<br />
Per quel che so, la relazione fra menzogna rivelata e scandalo, o in<br />
altri termini il grado di tolleranza della menzogna, non ha eccitato la<br />
ricerca sociologica empirica 26 . Già soltanto l’analisi di alcuni casi<br />
26 Nella sociologia italiana ho trovato solo spunti per questa tematica in F.<br />
Battisti, Sociologia dello scandalo, Bari, Laterza 1982; ancora più marginali i<br />
riferimenti nella pur interessante analisi di P. P. Giglioli, S. Cavicchioli e G. Fele,<br />
Rituali di degradazione, anatomia del processo Cusani, Bologna, Il Mulino 1997.<br />
Di maggior rilievo è la letteratura teorica sulla fiducia, e qui devo purtroppo<br />
trascurarla (v. in particolare D. Gambetta, a cura di, Trust. Making and Breaking<br />
Cooperative Relations, New York, Basil Blackwell 1988; A. Mutti, Le inerzie della<br />
fiducia sistemica, in “Rassegna italiana di sociologia”, 2004, n° 3 e A. Mutti<br />
(2006), Sfiducia, in “Rassegna italiana di sociologia”, 2006, n° 2. Può infine<br />
essere utile ricordare che negli ultimi tempi hanno qualche buona frequenza in<br />
Italia le denunce pubblicistiche della cattiva informazione (cfr. G. Bosetti, Spin.<br />
11
opportunamente selezionati di menzogna rivelata e delle reazioni che ne<br />
sono registrabili nell’opinione pubblica, in una serie di paesi democratici e<br />
di momenti storici, potrebbe essere molto utile. Il mio contributo si limita<br />
qui a disegnare gli argomenti di una possibile ipotesi.<br />
Riferendomi a ciò che è più comunemente noto dalla lettura della<br />
stampa e avendo in mente in particolare il caso italiano che a prima vista<br />
può sembrare particolarmente grave, ma evitando di portare esempi la cui<br />
improvvisazione e la cui imprecisa definizione potrebbero ingiustamente<br />
indebolire sul nascere i miei argomenti, avanzo in una prima provvisoria<br />
formulazione l’ipotesi che il grado di tolleranza della menzogna rivelata è<br />
direttamente proporzionale, sulla scena pubblica e più propriamente<br />
politica, al grado di dissociazione fra parti politiche. Più si ha dissociazione,<br />
più si tollera non solo ovviamente la menzogna della propria parte, ma<br />
anche quella della parte nemica o radicalmente avversaria. Il meccanismo<br />
che vedo all’opera consiste semplicemente nel fatto che, se la situazione è<br />
definita in termini di ostilità, la menzogna del nemico-avversario è attesa,<br />
e dunque, se pure rivelata, non può generare scandalo.<br />
Se Benjamin Constant sostenne, ragionevolmente e con la<br />
disapprovazione di Kant, che «dire la verità è un dovere, ma solo nei<br />
confronti di chi ha diritto alla verità», potremmo aggiungere che la<br />
sottrazione reciproca di tale diritto rende superflua, perfino inconcludente,<br />
la condanna della menzogna. Va solo precisato che il problema classico<br />
della filosofia morale che si è impegnata su questo tema – il diritto di<br />
mentire nei confronti di chi non ha diritto alla verità, per esempio nei<br />
confronti di un potenziale assassino – si complica notevolmente quando si<br />
parla di scena pubblica nelle moderne democrazie: qui, quando si mente,<br />
si mente davanti a un pubblico, a una generica audience, e di certo lo si fa<br />
con voluntas fallendi, ma la voluntas nocendi non è necessariamente<br />
rivolta verso questo stesso pubblico (si può ritenere perfino che,<br />
ingannandolo, si faccia il suo bene), ma verso la parte avversa,<br />
sottraendole consenso. Sebbene qui concretamente/materialmente si<br />
realizzi quel «crimine contro l’intera umanità» che Kant ha indicato nella<br />
menzogna (la genericità della audience produce ora oggettivamente<br />
umanità generale), tuttavia l’intenzione malevola si concentra su<br />
interlocutori specifici, gli avversari che competono sulla scena pubblica.<br />
Affinché la rivelazione della menzogna non generi scandalo, occorre<br />
comunque che o l’intero pubblico abbia forti e quasi-belligeranti<br />
Trucchi e tele-imbrogli della politica, Padova, Marsilio 2007; M. Travaglio, La<br />
scomparsa dei fatti, Roma, Editori Riuniti 2007; F. Colombo, Postgiornalismo.<br />
Notizie sulla fine delle notizie, Roma, Editori Riuniti 2007 e varie traduzioni, fra<br />
cui G. Vidal, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità, Roma, Fazi 2002). Se<br />
sul web italiano si cerca alle voci “Bush” e “menzogna”, si ottengono oggi più di<br />
200 mila segnalazioni. Il Center for Public Integrity e il Fund for Indipendence in<br />
Journalism hanno documentato 935 bugie dette, nei due anni seguiti all’11<br />
settembre 2001, da esponenti della Casa Bianca (1,2 al giorno: Bush 260; Powell<br />
244; Rumsfeld 109; Rice 56; Cheney 48 ecc. Cfr. www.iraqbodycount.org. Cfr.<br />
anche D. Kellner, Lying in Politics. The Case of George W. Bush and Iraq, in<br />
“Cultural Studies ↔ Critical Methodogies”, 2007, 2).
appartenenze partigiane (ma in questo caso i guadagni della menzogna<br />
sarebbero scarsi) o che la condizione di ostilità sia propria soprattutto di<br />
quelli che hanno diritto o potere di parola sulla scena pubblica (politici,<br />
giornalisti, opinionisti ecc.), cioè degli stessi che potrebbero disporre dei<br />
mezzi più adatti per sollevare scandalo di fronte a episodi di menzogna. Si<br />
tratta ovviamente di due casi ipotetici estremi – e nella realtà,<br />
probabilmente, le condizioni intermedie sono le più frequenti.<br />
Non so quanto controintuitiva sia una ipotesi così provvisoriamente<br />
espressa, ma è certo che, per renderla più credibile e meritevole di<br />
indagine, occorrono alcune precisazioni. Innanzitutto può sembrare<br />
opportuno limitarsi ai casi di grande scena pubblica, sostanzialmente ai<br />
casi di opinione pubblica nazionale. Esistono ovviamente anche scene<br />
pubbliche più limitate, entro specifiche organizzazioni, per esempio una<br />
facoltà universitaria o una corporazione professionale. Come è<br />
probabilmente vera l’ipotesi di Olson che la strategia del free rider<br />
incontra maggiori difficoltà nei piccoli gruppi, così forse la rivelazione della<br />
menzogna è sempre molto dannosa in piccoli ambienti (escluse<br />
comunque, per quanto già detto, le sfere di intimità privata): innanzitutto<br />
perché sono molto bassi i costi che chi solleva lo scandalo deve sostenere,<br />
almeno a livello della mobilitazione della voice; in secondo luogo perché<br />
piccole organizzazioni non facilitano la formazione di parti o “partiti”<br />
rigidamente definiti, più facilmente prevedono “cordate” o “aggregazioni”<br />
dai confini incerti e continuamente superabili almeno dagli attori più<br />
intraprendenti, cosicché è più difficile costruire simulacri o “fantasmi”<br />
pubblici e coerenti del nemico-avversario e quindi stabilizzare le<br />
aspettative ostili nei suoi confronti. Ovviamente anche in piccoli gruppi e<br />
associazioni gli individui sono soggetti e oggetti di attività fantasmatiche,<br />
ma la costruzione di stereotipi, da parte loro e nei loro confronti, resta una<br />
attività idiosincratica, che può generare attese pubbliche negative e<br />
stabilizzate solo in casi estremi.<br />
In secondo luogo va meglio definito il concetto di dissociazione fra<br />
parti politiche. È stato già notato che il concetto di conflitto nella<br />
tradizione sociologica, a parte la grande apertura della definizione<br />
weberiana, è andato voltandosi verso l’idea di conflitto regolato, cosicché<br />
la complessa tipologia ne resta inesplorata. Né è sufficiente cavarsela con<br />
una variabile continua come quella di radicalità del conflitto, che non può<br />
cogliere alcune importanti distinzioni qualitative. Nella tradizione della<br />
filosofia politica è viceversa antica la cura di pensare a diversi tipi di<br />
conflitto. Già per esempio i romani distinguevano nettamente fra cose<br />
come tumultus, secessio, seditio ecc.; Machiavelli sembra molto<br />
interessato a definire le condizioni perché le lotte civili siano «moderate» o<br />
violente, così Spinoza, così altri 27 .<br />
La guerra può essere considerata un caso estremo di conflitto, ma il<br />
fatto particolare che essa riguardi normalmente gruppi che hanno<br />
costruito una stabile e quasi-totale estraneità reciproca fa pensare,<br />
27 Ho letto a questo riguardo l’interessante saggio di F. Del Lucchese, Sedizione<br />
e modernità, in “Quaderni materialisti”, 2006, n° 5.<br />
13
nonostante von Clausewitz e Schmitt, più a un tipo specifico che al polo di<br />
un continuum. Del resto in guerra la menzogna si risolve praticamente in<br />
inganno e va perduta la prestazione che è tipica del mentitore e che<br />
consiste nell’esibizione, mentre si mente, di buona fede: se vogliamo che il<br />
nemico abbia false informazioni, non dobbiamo dirgliele noi stessi, ma<br />
fargli credere che lui è riuscito a sottrarcele. Sulla scena pubblica resta<br />
invece essenziale, come si è già detto, che il mentitore continui ad<br />
apparire come partecipante di un comune spazio di discussione: solo dopo<br />
la rivelazione si potrà dire che quel comune spazio, almeno per qualche<br />
sua rilevante caratteristica, non c’era.<br />
Ci si può giovare di una riflessione sulla tipologia del conflitto che è<br />
stata avanzata da Gaspare Nevola 28 : sulla scorta di una proposta di Poggi 29<br />
(1965), Nevola esplora la distinzione fra conflitti intra-unit e conflitti extraunit.<br />
Più che a una tassonomia, egli si orienta in senso propriamente<br />
tipologico e mette in campo un ridotto numero di dimensioni 30 . Un conflitto<br />
extra-unit è precisamente caratterizzato da 6 proprietà, delle quali a me<br />
sembrano rivelanti, ai fini del nostro tema, soltanto due: a) assenza o<br />
sottodeterminazione di orientamento normativo/autoritativo condiviso<br />
dalle parti; b) mix di conflitto e cooperazione 31 .<br />
Come possiamo dunque immaginare una situazione in cui il sistema<br />
normativo sia debole o addirittura indeterminato e ci sia nello stesso<br />
tempo, accanto al conflitto, cooperazione A me sembra che una<br />
situazione del genere possa essere caratterizzata innanzitutto dal fatto<br />
che gli attori in conflitto escludano la guerra: anzi che essere una<br />
dimensione latente o «potenziale» (Miglio), come alcuni teorici schmittiani<br />
pensano per qualsivoglia conflitto politico, la guerra (nel caso guerra<br />
civile) è qui esclusa. A ciò si aggiunga che per gli attori, o per almeno<br />
alcuni degli attori, democrazia significa esclusivamente o quasi<br />
esclusivamente una serie di procedure deliberative atte a evitare la<br />
violenza in senso proprio: non è uno spazio comune, non costituisce<br />
dunque una sfera pubblica, è quella che possiamo chiamare “democrazia<br />
al grado zero” 32 . Se gli attori pensano in questo modo la democrazia, è<br />
28 G. Nevola, Confltto e coercizione. Modello di analisi e studio dei casi, Bologna,<br />
Il Mulino 1994.<br />
29 G. Poggi, Appunti critici sulla tematica dominante della sociologia<br />
contemporanea, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, 1965, n° 6.<br />
30 Si tratta dunque di un modello davvero parsimonioso. H. M. jr. Blalock, Power<br />
and Conflict. Toward a General Theory, London, Sage 1989 ha messo invece<br />
in campo ben 40 variabili e dimensioni e, annota Nevola (p. 64n), ha avuto<br />
bisogno di ulteriori specificazioni.<br />
31 Dirò qui in nota perché le altre 4 dimensioni mi sembrano trascurabili:<br />
«Risorse scarse in assoluto come posta in gioco» è una condizione quasi<br />
tautologica se si sta considerando la risorsa “potere”; «incompatibilità di<br />
interessi, obiettivi, valori» è quasi-deducibile dal punto a) per quanto riguarda i<br />
valori, e comunque compatibile con il punto b) per quanto riguarda la trama degli<br />
scambi di interesse; infine, «intenzionalità del conflitto» e «pluralità di opzioni di<br />
azione» servono a escludere casi speciali che qui non considereremo.<br />
32 Per molti aspetti l’idea di “democrazia al grado zero” ci rimanda all’idea
perché comunque non desiderano interrompere cooperazioni possibili in<br />
una serie di comparti e di istituzioni della vita sociale (economia,<br />
amministrazione, scuola, giustizia), da cui privatamente traggono risorse.<br />
Possono anche animatamente scontrarsi sull’assetto presente (o futuro) di<br />
questi comparti, ma in nessun caso desiderano che il loro funzionamento<br />
si interrompa. In un certo senso, e se ci si vuole concedere una immagine<br />
estrema, siamo perfino al di qua dell’ambito che Hannah Arendt ha<br />
chiamato della «biopolitica»: ciò che interessa non è tanto la gestione<br />
efficiente e conservatrice della vita, né ovviamente, al contrario,<br />
l’introduzione di inedite forme di vita (ciò che per la Arendt è la buona<br />
politica), ma la pura gestione del potere entro questa esistente,<br />
indisturbata quotidianità 33 .<br />
Si può dire che in questo caso la democrazia è delegittimata Si tratta<br />
probabilmente di un caso che da una parte può essere attribuito alla<br />
riduzione della legittimità in legalità, dall’altra però detiene una sua<br />
legittimazione positiva che consiste precisamente nell’esclusione di un<br />
animus bellandi in senso proprio. In tale situazione non solo la menzogna<br />
su fatti di rilevanza pubblica non contraddice alcun ordinamento<br />
normativo, ma essa è attesa da tutti gli attori della scena pubblica, come<br />
normale strategia per la conquista del consenso 34 . La regola del gioco non<br />
consiste qui, ovviamente, nel non mentire, ma nel successo di credibilità<br />
del mentitore 35 . Rivelare una menzogna può essere un successo per chi ne<br />
avrebbe patito le conseguenze, ma non può generare scandalo.<br />
Può accadere che solo alcuni degli attori della scena pubblica vivano<br />
integralmente entro lo spazio della democrazia al grado zero, o almeno<br />
siano comunemente considerati come appartenenti a questo spazio;<br />
liberale di una democrazia che esclude un ethos collettivo e deve soltanto<br />
mantenere, attraverso la legge, la libera circolazione di scambi fra cittadini<br />
privati. Ma si sa come la tradizione liberale abbia dovuto complessificarsi davanti<br />
ai rischi di arbitrio del potere politico e delle fazioni (Madison): rischi esistenti sia<br />
nella stessa produzione di leggi, sia nella definizione e nella gestione, non<br />
completamente regolabili per via giuridica, dei beni pubblici. Ma credo che si<br />
possa dire che i meccanismi individuati dalla tradizione teorica liberale per<br />
attenuare tali rischi (divisione dei poteri, pluralismo diffuso degli interessi, ecc.)<br />
non siano centrati sul controllo di quei processi di formazione dell’opinione<br />
pubblica che più si approssimano all’area della formazione di etica collettiva.<br />
33 Non siamo neppure nel «caso-limite», pensato da Max Weber (Saggi sul<br />
metodo delle scienze storico-sociali, tr. di P. Rossi , Milano, Comunità 2000, p.<br />
531) di una «lotta priva di qualsiasi specie di accomunazione con l’avversario».<br />
34 Ciò implica che non tutta la popolazione appartenga agli schieramenti belligeranti – e che residui una quota di<br />
popolazione che è “conquistabile”. Se per assurdo tutti fossero schierati, probabilmente la menzogna perderebbe<br />
la sua utilità. Si può dunque ipotizzare che maggiore è il numero dei conquistabili, maggiore è l’utilità della<br />
menzogna, salva la precisazione che, se gli schieramenti avversi sono alla pari, anche un piccolo numero di<br />
conquistabili diventa rilevante: così in Italia l’elevata stabilità del voto, variamente rilevata (v. da ultimo Itanes,<br />
Dov’è la vittoria, Il Mulino, Bologna 2006), accentua il conflitto attorno alla piccola ma decisiva schiera che i<br />
due schieramenti, partendo press’a poco alla pari, possono conquistare per aggiudicarsi la vittoria elettorale.<br />
35 È propriamente questa, a mio avviso, quella «post-truth democracy» di cui ha parlato il “New York Times”<br />
dopo le presidenziali americane del 2005 (ne riferisce J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Bari 2007, p. 47,<br />
insistendo sulla distanza di una siffatta democrazia dallo Stato costituzionale democratico che dovrebbe restare<br />
«una forma di governo esigente, per così dire sensibile alla verità»).<br />
15
accanto a loro, altri attori continuano a riferirsi agli ideali democratici in<br />
modi più comprensivi, sulla base di una più larga fondazione etico-politica<br />
o perfino in riferimento a un contesto universalistico e ideale di società (o<br />
almeno siano così comunemente considerati essere): questo caso<br />
rivelerebbe forse il paradosso, se la nostra ipotesi divenisse plausibile, che<br />
quelli che pagano un costo maggiore di scandalo per la rivelazione<br />
pubblica di loro menzogne, sarebbero proprio questi ultimi: decisivo è,<br />
semplicemente, che da loro è attesa più verità che dai primi.<br />
Il grado di attesa di verità è dunque, secondo questa ipotesi,<br />
inversamente proporzionale alla tolleranza della menzogna. A sua volta il<br />
grado di attesa di verità è inversamente proporzionale all’intensità del<br />
conflitto politico (non in genere, ma) fra parti estranee e pur determinate a<br />
convivere. Forse esistono altre componenti che interpretano logicamente il<br />
variabile grado di tolleranza della menzogna in diverse situazioni, per<br />
esempio una particolare tradizione etico-politica orientata da un tollerante<br />
scetticismo, o facilitazioni derivanti da un particolare assetto del potere sui<br />
media, o ancora, più generalmente, una cultura in cui la fabulazione<br />
immaginaria sia diventata preponderante e abbia per così dire indebolito il<br />
realismo del senso comune 36 , ecc., ma si potrebbe ragionevolmente<br />
proporre che queste altre componenti vadano innanzitutto definite, a<br />
livello concettuale, nella loro intrinseca relazione con il tipo di conflitto<br />
osservabile: ciò che alla fine è decisivo, secondo la nostra ipotesi, è il tipo<br />
di conflitto.<br />
v v v<br />
Alcuni ritengono che il tipo di conflitto emergente nel nostro paese sia<br />
anomalo rispetto a un “normale” svolgimento della dialettica democratica:<br />
da un lato dispersione degli attori politici, dall’altro delegittimazioni<br />
reciproche estreme. Si susseguono pertanto gli appelli a modelli<br />
bipartisan, a non “demonizzare” gli avversari, a restaurare un comune<br />
orizzonte di vita e di partecipazione, a ritrovare cosiddetti “valori<br />
comuni”. Tuttavia, se la condizione è questa, e se, in un ambiente ancora<br />
pervaso dagli echi dell’ideale democratico, esistono volenterosi che<br />
desiderano uscire da questa flemmatica belligeranza, si dovrebbe porre<br />
maggiore attenzione alla diffusione di atteggiamenti tolleranti verso la<br />
36 Escluderei comunque che la diffusione di una mentalità relativista abbia<br />
rilievo sul grado di tolleranza della menzogna. Anche nell’ipotesi che per primo<br />
espresse Tocqueville, esserci relazione fra uguaglianza e quel particolare<br />
relativismo che è nel trionfo dell’opinione (misurata, quest’ultima, non su<br />
parametri di verità, ma sul consenso), si prevede propriamente che nella sfera<br />
pubblica non si cerchi verità e dunque, solo un po’ paradossalmente, che le<br />
menzogne non siano neppure mai rivelate (R. Boudon, Il senso dei valori,<br />
Bologna, Il Mulino 2000, pp. 191 e sgg. ha dedicato alcune pagine a questi luoghi<br />
di Tocqueville). Quel che qui invece propriamente ci interessa è il tipo di reazioni<br />
a eventi che consistono nella rivelazione di menzogne e che pur continuano a<br />
accadere sulla scena dell’opinione pubblica: una serie di microscandali che<br />
incidono poco sull’opinione pubblica e che, in definitiva, non suscitano sanzioni.
menzogna rivelata. Si può dire a tale riguardo che la tolleranza della<br />
menzogna nasce da una democrazia a grado zero, ma che a sua volta ne è<br />
l’incunabolo e una potente conferma.<br />
Avere l’obiettivo di soluzione giuridiche del tipo di quelle che vigono<br />
nella sfera economica (falso in bilancio, aggiotaggio ecc.) non sembra la<br />
cosa migliore, sebbene certe procedure americane per l’impeachment<br />
andrebbero attentamente considerate 37 . Vige comunque, con buoni<br />
argomenti, l’antico timore di una “ragione di Stato”.<br />
Più produttivo potrebbe essere assumere finalmente in tutta la sua<br />
rilevanza il problema del sistema informativo e collegarlo a un ideale e a<br />
una pratica di fondamentale e autentica “terzietà”.<br />
37 Trovo particolarmente interessanti due episodi avvenuti di recente sulla scena<br />
delle democrazie europee: l’approvazione in prima lettura da parte del<br />
parlamento francese, con 106 voti a favore e 19 contrari, in data 12 ottobre<br />
2006, di una legge che punisce, con la reclusione fino a un anno e con una multa<br />
fino a 45 mila euro, chi neghi il genocidio degli armeni intrapreso dal governo<br />
turco nel 1915 (probabilmente questa legge non sarà più ripresa e resa definitiva<br />
dal parlamento francese; si ricorderà che in Francia lo studioso del Medio Oriente<br />
Bernard Lewis fu trascinato in giudizio nel 1994 per aver negato il genocidio; cfr.<br />
G. Lewy, Il massacro degli armeni, Torino, Einaudi 2006, pp. 344 e sgg.); la<br />
sentenza con cui la Corte d’Assise di Vienna ha condannato (20 febbraio 2006) lo<br />
storico David Irving per le sue tesi “negazioniste” dell’Olocausto. Se le ragioni di<br />
chi ha valutato negativamente questi due episodi sono chiare, non sono però<br />
sufficienti a riflettere sul significato che essi hanno come segnalazione di un<br />
campo di problemi sul quale le democrazie dovranno pur un giorno impegnarsi.<br />
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