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SUPPLEMENTO DI<br />
Periodico di Informazione coordinato dall’Azienda Ospedaliera e Polo Universitario di Tricase<br />
Anno 9, n. 1- 2010, registrazione n. 795 del Reg. della Stampa del Trib. di Lecce<br />
Un anno di attività dell’Hospice “Casa di Betania”<br />
Stanze di Luce
SOMMARIO<br />
Un anno di attività dell’Hospice “Casa di Betania”<br />
Stanze di luce<br />
Editoriale<br />
Suor Margherita Bramato - Direttore Generale 4<br />
La comunità dell’Hospice “Casa di Betania” che accompagna il sofferente<br />
dott. Aldo Cafarelli - Direttore Hospice “Casa di Betania” 6<br />
L’assistenza spirituale all’hospice di Tricase<br />
Fra Massimo Tatullo OFM - Cappellano Hospice “Casa di Betania” 11<br />
Infermieri nelle cure palliative: la sofferenza quando si cura<br />
Infermieri dell’Hospice “Casa di Betania” 13<br />
Dal curare al prendersi cura: l’esperienza della psicologa<br />
Dott.ssa Fabiana Merico - Psicologa Hospice “Casa di Betania” 16<br />
Quando il lavoro dà un senso alla vita<br />
Personale di Supporto dell’Hospice “Casa di Betania” 18<br />
La presenza del volontariato “A.V.O.” in Hospice “Casa di Betania”<br />
Gruppo A.V.O. “Agape” di Tricase 21<br />
La formazione del personale<br />
Dott. Antonio Negro - Coordinatore Infermieristico Hospice “Casa di Betania” 23<br />
Hospice: curare sulla soglia della vita<br />
Inf. Laura Bramato 26<br />
L’accompagnamento psicologico dei familiari in Hospice “Casa di Betania”<br />
Dott.ssa Fabiana Merico - Psicologa Hospice “Casa di Betania” 28<br />
L’Hospice nel territorio del distretto socio sanitario di Gagliano del Capo<br />
dott. Giuseppe Guida - Direttore del Distretto Sanitario di Gagliano del Capo 33<br />
I primi dati di attività 38<br />
Ecco il volto della “buona sanità”<br />
Premio 2010 di Cittadinanzattiva “Umanizzazione buone pratiche in Sanità” 40<br />
Testimonianze 42
Inaugurazione dell’Hospice “Casa di Betania”<br />
Da sinistra: S.Ecc. Mons. C. Cassati, S.Em. Card. S. De Giorgi, S. Ecc. Mons. V. De Grisantis
Sr. Adriana Silvagni,<br />
Presidente della <strong>Pia</strong> <strong>Fondazione</strong><br />
“Card. G. <strong>Panico</strong>”<br />
Sr. Mariangela Agostoni,<br />
Madre Generale<br />
delle Suore Marcelline
EDITORIALE<br />
Bisogna per forza/ attraversare alla<br />
fine/ la porta dello spavento supremo”,<br />
canta Franco Battiato sull’esperienza ultima<br />
della vita umana.<br />
Esistono tuttavia porte al di là delle<br />
quali la morte riesce a trovare una propria<br />
dimensione per essere compresa, accolta<br />
come manifestazione dell’esistenza, supportata<br />
con arte, pazienza, tempo, disponibilità<br />
e amore.<br />
Stiamo parlando dell’Hospice, luogo<br />
chi è vicino al transito, voglia donare a chi<br />
resta, cose che non ha detto o fatto quando<br />
la vita era ancora certezza, mentre ora che<br />
essa fugge, diventano importanti.<br />
Perciò occorre consentire al malato di<br />
esprimere i propri vissuti, le sue percezioni<br />
interiori, le sue preoccupazioni, i suoi rimpianti,<br />
il suo desiderio di prendere commiato<br />
da ciò che ama…<br />
Anche per il familiare il tempo ultimo<br />
diventa quello dell’intimità, del ringraziamento,<br />
della condivisione, dell’accettazione<br />
della presenza del limite… Mi vengono alla<br />
mente le parole che ho letto da qualche parte:<br />
“Almeno lascia che un’estrema tenerezza<br />
copra l’allontanarsi dei tuoi passi...”.<br />
da sn.: Sig.ra Lucia Di Moia, Sr. Margherita Bramato, Dr. Aldo Cafarelli<br />
dove ci si “prende cura” del malato, attraverso<br />
una relazione empatica e profonda, dove<br />
il malato possa trovare, insieme alle cure<br />
palliative, calore umano, sincerità e competenza,<br />
per vivere al meglio l’ultimo tratto<br />
della sua storia.<br />
Cicely Saunders, fondatrice degli Hospices,<br />
diceva ai suoi ammalati: “Tu sei importante<br />
perché sei Tu e sei importante sino<br />
alla fine”.<br />
Molte testimonianze dimostrano come<br />
Centralità del malato <strong>qui</strong>ndi, ma anche<br />
centralità della sua famiglia.<br />
Anche <strong>qui</strong> l’Hospice interviene offrendo<br />
sostegno al parente che deve affrontare<br />
la difficile prova di continuare a vivere,<br />
mentre il proprio caro lo sta lasciando, per<br />
sempre.<br />
L’Hospice risponde alle sue domande<br />
che sono bisogni: ricevere assicurazioni che<br />
il malato non stia soffrendo, essere informato<br />
sulle reali condizioni, trovare il giusto<br />
6
modo di comunicare le proprie emozioni,<br />
capire che non è importante quanto, ma<br />
come vivere, questo immisurabile tempo insieme<br />
al proprio caro.<br />
Stanze di luce, è il titolo di questo<br />
opuscolo, perché attraverso la voce discreta<br />
degli operatori, degli ospiti e dei loro familiari,<br />
racchiude il tentativo di far emergere<br />
l’anima di un luogo e delle vite che lo popolano.<br />
Manifesta la volontà di “portare alla<br />
luce”, nella maniera più delicata e discreta<br />
possibile, ciò che normalmente rimane celato,<br />
quasi nel mistero…, il silenzioso ed<br />
amorevole servizio che quotidianamente<br />
viene offerto ad ogni ammalato ed ai propri<br />
parenti.<br />
“Sussurra”, a chi lo legge, una realtà fatta<br />
di dolore composto e dignitoso, di amorevoli<br />
gesti di cura quotidiani, di sentimenti<br />
profondi di gratitudine, di fede ritrovata o<br />
rafforzata e soprattutto di tanta serenità e<br />
pace.<br />
La vita umana è un cammino, un viaggio<br />
sul mare, talvolta in burrasca, nel quale<br />
scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta<br />
per giungere fino a Cristo, che è la nostra<br />
vera luce eterna.<br />
La stella più luminosa che ci guida<br />
nella navigazione della vita, sino alla fine, è<br />
Maria luce di speranza.<br />
Ma accanto a Maria vi sono luci di persone<br />
a noi vicine, che accompagnano con<br />
la loro amorevole presenza la nostra vita<br />
e che, perciò, diventano anch’esse luci di<br />
speranza, in quanto ci donano la luce che<br />
traggono dall’amore. Queste sono le vere<br />
stelle della nostra vita. Questi sono gli angeli<br />
dell’Hospice Casa Betania.<br />
Ad ognuno di loro, agli Amici e sostenitori<br />
di Casa Betania, a tutti i nostri Ospiti<br />
con i loro familiari, va il mio profondo ed<br />
affettuoso ringraziamento e l’augurio di un<br />
luminoso Natale 2010.<br />
Suor Margherita Bramato<br />
Direttore Generale
LA COMUNITÀ DELL’HOSPICE<br />
“CASA BETANIA” CHE ACCOMPAGNA<br />
IL SOFFERENTE<br />
trascorso un anno e mezzo dal mio<br />
trasferimento da Bari a Tricase: un radicale<br />
cambiamento della mia vita e di quella<br />
di mia moglie che mi ha seguito anche in<br />
questa esperienza.<br />
La mia mente torna indietro nel tempo<br />
e penso alla esperienza personale, a<br />
come ho accompagnato la mia amatissima<br />
figlia Antonella alla morte, al dolore<br />
che ancora oggi provo con mia moglie e<br />
mio figlio Angelo nel ricordare quei mesi,<br />
quei giorni, quelle ore disperate. Momenti<br />
in cui vivi il rifiuto, la paura del distacco,<br />
la rabbia dell’impotenza, l’angoscia della<br />
solitudine, il dilemma del cosa fare, cosa<br />
dire; ore in cui vorresti allo stesso tempo<br />
qualcuno accanto con cui condividere<br />
l’angoscia e rinchiuderti nella più totale<br />
solitudine, in cui vorresti urlare e soffocare<br />
ogni gemito.<br />
Sono questi i pensieri che mi hanno<br />
incoraggiato e, poi, convinto ad accettare<br />
l’incarico offertomi da Suor Margherita di<br />
dirigere il Reparto di Cure Palliative e terapia<br />
del dolore presso l’Hospice Casa di<br />
Betania di Tricase e a mettermi al servizio<br />
di quei malati gravi, di quei sofferenti e<br />
delle loro famiglie che hanno bisogno di<br />
un accompagnamento discreto, rispettoso,<br />
empatico.<br />
Spiegare il perché della sofferenza è<br />
quanto mai complicato e, forse, non è del<br />
tutto spiegabile.<br />
Il credente trova la sua spiegazione<br />
nell’accostamento a Cristo e alla sua sofferenza<br />
che si completerebbe in noi in<br />
quanto facenti parte del Suo Corpo.<br />
Per il non credente il discorso è più<br />
arduo o, forse, quasi impossibile da sostenere<br />
considerando la sua diffidenza per tutto<br />
ciò che non ha spiegazioni scientifiche.<br />
Sappiamo come alcune gravi patologie<br />
producano inevitabilmente nei malati<br />
momenti di crisi, di smarrimento e un<br />
serio confronto con la propria situazione<br />
personale.<br />
I progressi nelle scienze mediche<br />
spesso offrono gli strumenti necessari<br />
ad affrontare questa sfida almeno per<br />
quanto riguarda gli aspetti fisici. Tuttavia<br />
non è sempre possibile trovare una cura<br />
per ogni malattia e, di conseguenza, negli<br />
ospedali e nelle strutture sanitarie ci si<br />
imbatte sovente nella sofferenza di tanti<br />
fratelli e sorelle.<br />
Oggi la prevalente mentalità efficientistica<br />
tende spesso ad emarginare queste<br />
persone, ritenendole un peso ed un problema<br />
per la società.<br />
Chi ha il senso della dignità umana<br />
sa, invece, che esse vanno rispettate e sostenute<br />
mentre affrontano le difficoltà e<br />
le sofferenze legate alle loro condizioni di<br />
salute.<br />
Accanto alle indispensabili cure cliniche,<br />
occorre offrire ai malati gesti concreti<br />
di amore, di vicinanza e di cristiana<br />
solidarietà per venire incontro al loro bisogno<br />
di comprensione, di conforto e di<br />
costante incoraggiamento.<br />
È certamente difficile entrare in relazione<br />
con un malato grave, un malato<br />
terminale o, ancor più, con un malato destinato<br />
ad una lunga e lenta progressione<br />
(sclerosi multipla, AIDS, dialisi ecc...). Eppure<br />
un buon “approccio comportamentale”<br />
può ridurre sensibilmente la presenza<br />
di ansia e depressione o di sintomi<br />
specifici, come dolore diffuso o nausea o<br />
vomito anticipatori (il vomito in previsione<br />
della chemioterapia o della medicazione<br />
di decubiti, ecc...); questo indipenden-<br />
8
temente dalla posizione della fede del<br />
paziente e di chi lo assiste: il rispetto del<br />
malato come persona e il rispetto della<br />
sacralità della vita possono certamente<br />
migliorare la qualità della vita anche di<br />
un paziente non cristiano.<br />
Per un malato cambia la percezione<br />
del tempo, che viene scandito non più<br />
da eventi naturali come le stagioni, le<br />
giornate, ma dagli eventi della malattia<br />
(prima della radioterapia, dopo la chemio<br />
e così via); tutto viene avvolto in<br />
un’attesa costante e angosciata, descritta<br />
come sindrome di Damocle.<br />
Dobbiamo imparare ad utilizzare<br />
questo calendario “biologico” e a riconoscere<br />
i tempi buoni e meno buoni.<br />
Nessuno è da considerarsi inadatto<br />
per stare accanto a chi soffre: chi si autodefinisce<br />
troppo sensibile è solo troppo<br />
egoista per prendere in considerazione<br />
la possibilità di essere di aiuto a prezzo<br />
di un coinvolgimento e di una sofferenza<br />
personale, inavvertitamente mettiamo<br />
ogni volta sulla bilancia il peso del<br />
fardello e quello della nostra serenità.<br />
È sicuramente normale scegliere la<br />
serenità, ma è cristiano scegliere il fardello.<br />
Nessuno è da considerarsi<br />
insufficiente per stare vicino<br />
a chi soffre. Confrontarsi con<br />
il malato significa confrontarsi<br />
con sè e con tutte le proprie<br />
paure irrisolte (malattie, morte,<br />
abbandono, dolore fisico ecc...);<br />
significa realizzare che la compassione<br />
è molto differente<br />
dall’identificazione.<br />
Troppe volte il nostro approccio<br />
all’ammalato risente<br />
della nostra incapacità di affrontare<br />
l’idea della sofferenza.<br />
Esempio tipico di questa<br />
incapacità è in ogni reparto di<br />
ospedale la stanza di chi muore,<br />
dove nessuno entra più se non<br />
in silenzio per cambiare la flebo.<br />
Da questa incapacità di affrontare<br />
la verità nascono poi le discrepanze<br />
del comportamento dei medici, infermieri,<br />
familiari che inducono il paziente<br />
a percepire un clima di menzogna e a<br />
sentirsi abbandonato.<br />
Se nel mondo sanitario c’è la tendenza<br />
a dividere l’essere umano in<br />
scompartimenti e ad affidare ognuno di<br />
tali scompartimenti a diversi specialisti<br />
in maniera frammentaria, senza continuità,<br />
nell’approccio palliativo, olistico<br />
e globale, invece c’è la consapevolezza<br />
di vincere tale tendenza, di compiere un<br />
passo in più, quello che porta a vedere<br />
la persona come un mistero, una realtà<br />
che non può essere racchiusa completamente<br />
entro gli schemi della nostra<br />
comprensione.<br />
La rivoluzione culturale in medicina,<br />
proposta dalle cure palliative, è il<br />
passaggio dal “curare” al “prendersi cura”<br />
della persona. Un passaggio culturale<br />
che riscopra la missione propria della<br />
professione medica, che rivaluti il rapporto<br />
medico-paziente, che riconsideri<br />
la inscindibilità tra il corpo e la mente.<br />
da sn.: Dr.ssa R. Zuccarone, Dr. A. Cafarelli,<br />
Sig.ra L. Di Moia
“Prendersi cura” significa considerare<br />
il malato nella sua interezza, come<br />
uomo che soffre nella totalià delle sue<br />
dimensioni. Una medicina che si concentra<br />
sull’organo malato, invece, sempre più<br />
specialistica, rischia di oggettivare la sofferenza<br />
spersonalizzandola, creando in<strong>qui</strong>etudine,<br />
paura e senso di smarrimento.<br />
Le cure palliative diventano, <strong>qui</strong>ndi, una<br />
concreta possibilità perché la frattura tra<br />
potere della tecnologia e desideri dell’uomo,<br />
tra operatore sanitario e paziente,<br />
possa iniziare ad essere sanata.<br />
In tutte le fasi della vita, fin da quella<br />
prenatale e neonatale, non possiamo fare<br />
a meno di essere un insieme di corpo-psiche-spirito<br />
un tutt’uno in cui convivono<br />
la nostra fisicità, le nostre emozioni e il<br />
pensiero a un...qualcosa di più, che va oltre,<br />
che ci procede, ci accompagna, forse<br />
ci attende.<br />
Chi ha una fede religiosa dice di avere<br />
speranza, iniziali certezze, forse - come<br />
insinua il non credente - per sentirsi un<br />
po’ rassicurato.<br />
È la spiritualità che appare come<br />
una dimensione essenziale dell’uomo,<br />
che coordina e organizza tutte le altre dimensioni<br />
della persona umana-fisica, psichica,<br />
affettiva. Si tratta di quello spazio in<br />
se stessi in cui ogni individuo s’interroga<br />
sul senso della sua vita, della sua presenza<br />
nel mondo. Questa domanda di senso è<br />
presente durante tutto il percorso di una<br />
vita, anche se si accentua nei periodi di<br />
crisi e, specialmente, nella sofferenza e in<br />
vicinanza della morte.<br />
Questa spiritualità non è religiosa e<br />
non presuppone necessariamente una religione,<br />
anche se non la esclude.<br />
Nell’approccio ad un sofferente, un<br />
malato, <strong>qui</strong>ndi, non si può non dare grandissima<br />
importanza alla spiritualità intesa<br />
appunto nel senso di attenzione alle attese<br />
e alle domande umane più profonde.<br />
Il malato si deve sentire accompagnato<br />
da persone che si prendono cura<br />
del suo corpo e, al tempo stesso, delle sue<br />
emozioni, relazioni e del suo spirito: perché<br />
riesca ad affrontare il più serenamente<br />
possibile, secondo i suoi modi e desideri<br />
e le sue capacità, questo periodo di<br />
crisi, di sofferenza. Nel suo dolore o, più<br />
in generale, nella sua sofferenza, il malato<br />
ha bisogno di essere ascoltato, accudito<br />
fisio-psico-spiritualmente. Il medico e l’infermiere<br />
devono offrire, insieme al loro<br />
lavoro specifico, la loro umanità.<br />
L’attenzione alla dimensione spirituale,<br />
ai bisogni spirituali e non, rientrano<br />
in quel processo di “umanizzazione” che<br />
non può essere variabile di un progetto o<br />
di un’organizzazione sanitaria, ma il sine<br />
qua non.<br />
Ma quali sono i bisogni spirituali di<br />
cui parliamo È possibile elaborarne una<br />
lista Più che una lista di bisogni, si tratta<br />
di indicare una dinamica, secondo la quale<br />
una persona malata cerca di ristrutturare<br />
il proprio spazio interiore-spirituale,<br />
aggredito violentemente dalla malattia.<br />
La malattia, infatti, costringe ad un lavoro<br />
psichico intenso di ricerca e di ricostruzione<br />
dell’identità. Abitato dal desiderio<br />
di essere riconosciuto come soggetto,<br />
il malato grave tenta un lavoro di verifica<br />
della propria vita, elabora attorno a sè una<br />
rete di solidarietà, s’interroga sull’aldilà.<br />
In sintesi, l’eperienza di chi accompagna<br />
gli ammalati, personale sanitario<br />
e volontari che siano, porta a coagulare<br />
questi bisogni in questo elenco, fatto salvi<br />
i bisogni fisici (trattamento del dolore e<br />
sintomi fisici):<br />
Esigenza da parte del sofferente di<br />
essere e continuare ad essere considerato<br />
un soggetto. Per tutto questo il malato ha<br />
bisogno di sentirsi come abbracciato da<br />
un mantello (pallium, da cui cure palliative)<br />
di cure e di aiuti che coprano tutta<br />
la sua persona e, <strong>qui</strong>ndi, la sua spiritualità:<br />
cure che passano attraverso una pillola<br />
data con affetto o attraverso una crema<br />
antidecubito spalmata con delicatezza o<br />
attraverso gesti affettuosi della mano o,<br />
ancora, attraverso una cordiale conversazione,<br />
o un rispettoso silenzio, o una<br />
preghiera. Spesso la semplice presenza, si-<br />
10
lenziosa e affettuosa, accanto a un malato<br />
che dorme e si sveglia di tanto in tanto<br />
guardandoti con un occhietto, vale più<br />
di mille interventi di alta tecnologia. In<br />
sintesi, il malato deve sentirsi ancora importante,<br />
non un peso per la famiglia, per<br />
la società, come affermava giustamente la<br />
Saunders “Tu sei importante perché sei tu<br />
e sei importante fino alla fine”<br />
Ricerca di un significato della vita e<br />
dell’esperienza vissuta nell’approssimarsi<br />
della morte. Trovare un senso a quanto gli<br />
accade;<br />
Riconciliazione (con le persone, con<br />
il Signore per il credente);<br />
Solidarietà attraverso la presenza e la<br />
prossimità di coloro che gli sono familiari,<br />
degni di fiducia;<br />
Essenzialità: la vita viene sfrondata<br />
da tutto ciò che è orpello, sovrastruttura,<br />
inutilità;<br />
Separazione: il bisogno di “dire addio”<br />
in modo adeguato alle persone, alle cose, a<br />
tutto ciò che costituisce la sua vita.<br />
Come soddisfare questi bisogni del<br />
sofferente<br />
Un primo modo è l’accompagnamento.<br />
È una parola di grande fascino perché<br />
evoca un accompagnarsi, un farsi<br />
compagni di viaggio...<br />
Accompagnare non allude ad una<br />
visita fugace. Non è semplicemente una<br />
visita toccata e fuga. Accompagnarsi vuol<br />
dire fare un pezzo di strada insieme. Ed<br />
è reciproco. Perché anche noi siamo in<br />
viaggio, nel viaggio della vita. Il sofferente<br />
non è solo uno a cui prestare la cura;<br />
la cura non va in direzione unica. Noi ci<br />
prendiamo cura di lui, ma, se il viaggio è<br />
vero, autentico, se l’accompagnarsi è vero,<br />
sentito, anche lui o lei si prende cura di<br />
noi, della nostra vita rendendoci infinitamente<br />
più ricchi. È un prendersi cura reciproco,<br />
come evoca la parola com-pagno<br />
(cum-pane: condividere lo stesso pane<br />
lungo il viaggio).<br />
Altri modi di soddisfare tali bisogni<br />
sono: accogliere, ascoltare, toccare.
Noi abbiamo privilegiato, quasi assolutizzato,<br />
la comunicazione verbale, le parole,<br />
a scapito della comunicazione corporea.<br />
La comunicazione corporea è meno<br />
sospetta, perché possiamo imbrogliare<br />
meno col corpo mentre con le parole possiamo<br />
imbrogliare o fingere tanto.<br />
Quelle mani che tengono le mani<br />
comunicano; questa è comunicazione.<br />
Ecco chi soffre o sta per morire sente che<br />
ci sono mani a cui affidarsi, quelle mani<br />
sono sicurezza per un affidamento, quelle<br />
mani sono segno di altre Mani. Poi possono<br />
venire anche parole, ma per le parole<br />
c’è un tempo opportuno e un tempo non<br />
opportuno. Di questa comunicazione tra<br />
sofferente e operatore sanitario o volontario<br />
che l’accompagna possiamo indicare<br />
alcune fasi:<br />
a) essere in contatto con la propria<br />
spiritualità: condizione indispensabile che<br />
consente di avvicinarsi alle problematiche<br />
di un’altra persona con quella libertà<br />
interiore necessaria onde evitare indebite<br />
proiezioni;<br />
b) considerare la persona come un<br />
mistero: tipico dell’approccio globale, olistico<br />
al malato;<br />
c) non dimenticare che ogni richie-<br />
sta, anche spirituale, è una richiesta umana:<br />
è una domanda d’amore, di una certa<br />
felicità di essere riconosciuto e amato. È<br />
un appello all’amore, personale, autentico<br />
e vero;<br />
d) rispettare il ritmo del paziente:<br />
la speranza non è solo nella guarigione<br />
fisica ma anche nella proposta di un’altra<br />
terapia, nella assicurazione che non<br />
sarà abbandonato, nella promessa che<br />
si farà ogni sforzo per alleviare il dolore,<br />
nell’aver qualcuno accanto nei momenti<br />
di solitudine e sconforto. La tentazione è<br />
quella di voler fare tutto in fretta, rispondere,<br />
consigliare, rassicurare e interrogare.<br />
Tutto questo prima ancora che l’interlocutore,<br />
il sofferente, abbia anche solo potuto<br />
esprimersi: saper ascoltare!;<br />
e) stabilire un rapporto di vicinanza:<br />
la relazione tra il malato e chi l’assiste costituisce<br />
il punto cruciale dell’accompagnamento.<br />
Essa deve essere tale da favorire<br />
nel malato il difficile processo interiore<br />
finalizzato ad accettare la realtà, a cogliere<br />
il senso di quanto sta vivendo, ad apprezzare<br />
quei valori che l’esperienza di sofferenza<br />
mette in luce;<br />
f) aiutare la persona ad utilizzare le<br />
proprie risorse: in ogni individuo vi è una<br />
potenziale risposta a questo interrogativo:<br />
cos’è che mi fa vivere Si tratta di aiutare<br />
la persona ad utilizzare tale potenziale, fatto<br />
di dati, cultura, esperienza e fede;<br />
g) aiutare a soddisfare il bisogno<br />
di autotrascendersi: la parola che nasce<br />
dall’ascolto, dalla relazione autentica deve<br />
mirare ad aiutare il paziente alla soddisfazione<br />
di quel bisogno di superamento<br />
che è presente in ogni persona. Si tratta di<br />
aprire la persona al mistero, di accompagnarla<br />
entrando in rapporto profondo con<br />
lei (esperienza eccezionale, unica, appassionante).<br />
Accompagnare i sofferenti ha<br />
un fascino particolare, forse perché senti<br />
di percorrere la strada che è veramente di<br />
tutti, al di là di ogni differenza e di ogni<br />
fede o ateismo e questo ti familiarizza, per<br />
quanto è possibile, con il Mistero che sta<br />
dentro e sopra di noi. È questa la missione<br />
propria del medico o, meglio, più in generale,<br />
di qualunque operatore sanitario o<br />
volontario. Se si riesce a soddisfare queste<br />
esigenze che ha ogni persona sofferente,<br />
possiamo essere certi che non ci saranno<br />
più richieste di eutanasia da parte di chi<br />
pur soffrendo ha recuperato la propria dignità<br />
di persona.<br />
Dott. Aldo Cafarelli<br />
Direttore Hospice “Casa di Betania”<br />
12
L’ASSISTENZA SPIRTUALE<br />
ALL’HOSPICE DI TRICASE<br />
osì si esprimeva il Papa Benedetto<br />
XVI rivolgendosi ai malati nella sua visita<br />
all’Hospice “Sacro Cuore” di Roma il 13<br />
dicembre del 2009: «La vostra malattia è<br />
una prova ben dolorosa e singolare, ma<br />
davanti al mistero di Dio, che ha assunto<br />
la nostra carne mortale, essa ac<strong>qui</strong>sta<br />
il suo senso e diventa dono e occasione<br />
di santificazione. Quando la sofferenza e<br />
lo sconforto si fanno più forti, pensate<br />
che Cristo vi sta associando alla sua croce<br />
perché vuole dire attraverso voi una<br />
parola di amore a quanti hanno smarrito<br />
la strada della vita e, chiusi nel proprio<br />
vuoto egoismo, vivono nel peccato e<br />
nella lontananza da Dio. Infatti, le vostre<br />
condizioni di salute testimoniano che la<br />
vita vera non è <strong>qui</strong>, ma presso Dio, dove<br />
ognuno di noi troverà la sua gioia se avrà<br />
umilmente posto i suoi passi dietro a<br />
quelli dell’uomo più vero: Gesù di Nazaret,<br />
Maestro e Signore».<br />
Il Santo Padre, con queste sue parole,<br />
ci riporta al “mistero” della sofferenza<br />
umana che trova solo in Cristo un senso<br />
ed un beneficio. A conferma di quanto<br />
sottolineato dal Papa vi è l’esperienza di<br />
chi opera pastoralmente con la tipologia<br />
del malato in cure palliative. Infatti, con<br />
l’ospite dell’Hospice, diviene rilevante<br />
l’esercizio del cosiddetto “ministero<br />
della consolazione” che si traduce nel<br />
modello cristiano di condivisione della<br />
sofferenza. Nello scambio il sofferente<br />
riceve il conforto – sollievo e l’operatore<br />
pastorale arricchisce il suo bagaglio di<br />
fede con l’esperienza della condivisione<br />
– partecipazione all’indigenza. In questo<br />
esercizio, ha grande importanza il dialogo<br />
fraterno basato sulla speranza e sul<br />
fiducioso abbandono alla volontà di Dio.<br />
Un dialogo volto a dare significato alla<br />
sofferenza alla luce del Cristo crocifisso.<br />
Quest’aiuto ha come scopo il vivere con<br />
maggior serenità la propria indigenza.<br />
È, fra l’altro, nostra esperienza che<br />
il malato in cure palliative desidera fortemente<br />
avere persone che sappiano tenergli<br />
la mano, che sappiano farsi compagni<br />
per aiutarlo a vivere quel difficile<br />
tratto della vita. È noto che quello che<br />
maggiormente angoscia il malato è la<br />
preoccupazione di essere lasciato solo,<br />
di non avere accanto qualcuno che sappia<br />
rispondere ai suoi bisogni più autentici.<br />
In realtà, da parte dell’operatore pastorale,<br />
riuscire ad entrare in confidenza<br />
col malato non è sempre facile, ma sempre<br />
reputato possibile e cristianamente<br />
di considerevole valore. Infatti questo<br />
impegno di elevato esercizio della carità<br />
è una delle sfide più interessanti ed urgenti<br />
per la comunità cristiana.<br />
Chi vive accanto ai malati gravi sa<br />
come la malattia ponga loro domande<br />
13
fondamentali sull’esistenza, quali quelle<br />
sul significato del soffrire. Ogni operatore<br />
di pastorale della salute, impara a conoscere<br />
i problemi che pongono al malato<br />
il dolore fisico, la sofferenza psichica,<br />
la paura dell’isolamento, il rimpianto di<br />
un passato non integrato, la ipersensibilità<br />
verso gli altri, l’ansia per le terapie da<br />
sostenere, una fede od un credo religioso<br />
messi in crisi.<br />
L’assistenza spirituale all’Hospice,<br />
difatti, prevede un impegno molteplice<br />
fatto di osservazione, ascolto, conoscenza,<br />
consiglio e rilevanza del dato di fede<br />
di ciascun destinatario, tenendo in debito<br />
conto l’impostazione spirituale ac<strong>qui</strong>sita<br />
da ciascuno per poter proporre un<br />
approccio personalizzato.<br />
In questo modo, al centro dell’attività<br />
spirituale all’Hospice vi è sempre<br />
il malato che assieme ai suoi parenti,<br />
chiede o accoglie un cammino spirituale<br />
proposto. Infatti, compito dell’Assistenza<br />
spirituale è integrare alle cure ed<br />
alle attenzioni impartite, la dimensione<br />
spirituale quale bisogno dell’uomo globalmente<br />
considerato.<br />
A questo scopo nel rispetto di ogni<br />
esperienza, si cerca, oltre il dialogo ed il<br />
collo<strong>qui</strong>o spirituale, anche momenti di<br />
condivisione del proprio vissuto che si<br />
alternano a celebrazione di atti di culto.<br />
Non a caso a “Casa di Betania” in questo<br />
se pur breve periodo di esercizio, abbiamo<br />
celebrato tre battesimi fra cui uno di<br />
un adulto e due di infanti, una cresima,<br />
tutti di familiari dei nostri ospiti.<br />
Anche ai familiari dell’ospite in<br />
cure palliative è riservata un’attenzione<br />
particolare, poiché anche questi affrontano<br />
un periodo difficile di grande sofferenza.<br />
Con questi, ha parte rilevante<br />
l’accompagnamento e la vicinanza allo<br />
stato di sofferenza. Ricercando insieme<br />
la fiducia e la speranza nel buon Dio, in<br />
cui confidare e sperare e si ricerca l’accoglienza<br />
serena dello stato di indigenza<br />
del proprio parente.<br />
Infatti, scopo dell’assistenza spirituale<br />
al parente, è quello di caricare di<br />
significato la propria esistenza, nonostante<br />
l’impossibilità di poter protrarre<br />
un’esistenza normale con il parente gravemente<br />
infermo.<br />
Anche il personale dell’Hospice ha<br />
la possibilità di trovare nell’assistenza<br />
spirituale la possibilità di fortificare spiritualmente<br />
la propria persona. Lo scopo<br />
di questo ausilio è quello di elevare<br />
la qualità del proprio servizio perché si<br />
passi dalla semplice professionalità alla<br />
Carità di ogni gesto e di ogni rapporto<br />
sia con i degenti, sia con i familiari che<br />
con il personale con cui si coopera.<br />
Fra Massimo Tatullo O.F.M.<br />
Cappellano dell’Hospice<br />
“Casa di Betania”.<br />
14
INFERMIERI NELLE CURE PALLIATIVE:<br />
LA SOFFERENZA QUANDO SI CURA…<br />
a medicina moderna è nata e si<br />
è sviluppata attraverso l’analisi e la catalogazione<br />
di combinazioni morbose,<br />
ha costruito se stessa sull’idea di corpo<br />
sano, riducendo i corpi a organismi,<br />
dove confinare le malattie. Il medico ha<br />
aderito a questo concetto di malattia<br />
come deviazione dalla norma di variabili<br />
da misurare, oggi si occupa solo della<br />
patologia, della malattia, non del malato,<br />
riduce i segni sintomatici a un quadro<br />
clinico, a processi somatici, biochimici e<br />
genetici, ma così facendo il suo occhio<br />
clinico finisce per vedere solo i segni di<br />
una malattia e non più la biografia della<br />
persona malata; così nell’ospedale,<br />
luogo per eccellenza deputato alla cura,<br />
il malato diventa “un caso” possibile di<br />
catalogazione e di confronto con altri<br />
“casi” colpiti da simili eventi patologici.<br />
Quando però il sintomo è quello di<br />
una malattia grave ed inguaribile questo<br />
sistema ma soprattutto questo modo di<br />
approcciarsi non funziona mettendo<br />
così a nudo tutti i limiti della medicina<br />
moderna. Ogni individuo, di fronte ad<br />
una malattia inguaribile, è costretto a<br />
confrontarsi con l’idea concreta della<br />
propria morte, realtà talmente complessa<br />
e contraddittoria che spesso necessita<br />
di un aiuto per accettarla ed adattarsi ad<br />
essa, aiuto che si può trovare in persone<br />
che scelgono una professione d’aiuto: gli<br />
infermieri.<br />
Le persone che scelgono questa<br />
professione, ma soprattutto in determinati<br />
luoghi di sofferenza come le cure<br />
palliative, sono spinte da una particolare<br />
capacità di intuire i segnali di bisogno<br />
che arrivano, soprattutto inconsciamente,<br />
dagli altri, capacità chiamata empatia,<br />
possibilità di intendere l’altro al di là della<br />
sua comunicazione esplicita; questa<br />
sensibilità empatica, originata a livello<br />
da sn.: Dr. C. Cazzato, Caposala A. Negro, Dr.ssa R. Zuccarone
profondo dalla necessità di adattamento<br />
ai bisogni degli altri, può appunto diventare<br />
fonte di sofferenza durante lo svolgimento<br />
della professione stessa; quando<br />
la sensibilità stessa produce modi di<br />
comportamento che proteggono dalla<br />
fatica dolorosa di integrare esperienze<br />
spiacevoli e difficili come quelle delle<br />
malattie appunto inguaribili.<br />
Ma in che modo allora essere in<br />
contatto con aspetti emozionali della<br />
persona con malattia terminale, senza lasciarsi<br />
travolgere da atteggiamenti altrettanto<br />
difensivi, anche se opposti, come<br />
la pietà o l’indifferenza<br />
Per ogni individuo sarebbe meglio<br />
che degrado fisico e malattia, fossero<br />
problemi dell’altro, sui quali soffermarsi<br />
il meno possibile, però, nel caso di noi<br />
infermieri, ignorarli è impossibile.<br />
Nella persona con malattia terminale<br />
il limite diventa certezza, scandita a<br />
volte da tempi precisi e può sorgere allora<br />
in chi cura l’atteggiamento di impedire<br />
che il malato stesso ne abbia coscienza,<br />
per evitare che coscienza, e <strong>qui</strong>ndi<br />
depressione e sofferenza della persona,<br />
inneschino la propria depressione e sofferenza.<br />
Al contrario, comprendere l’esperienza<br />
della sofferenza implica anzitutto<br />
essere disponibili a coinvolgersi personalmente,<br />
perché l’accompagnamento<br />
di chi soffre riporta in definitiva a noi<br />
stessi.<br />
Allora compito di chi cura diventa<br />
forse anche quello di essere capace di<br />
ascoltare la paura, la disperazione, l’angoscia<br />
di chi sta facendo i conti con i<br />
propri limiti biologici, con la certezza<br />
di aver esaurito il proprio tempo, e di<br />
aiutare a esprimere e ad elaborare tutte<br />
le emozioni evocate in quella fase e da<br />
ogni persona. Gli infermieri nelle cure<br />
palliative devono riuscire a considerare<br />
i pazienti come individui che stanno<br />
vivendo un’esperienza “umana”, perché<br />
ciò permette un’identificazione e un’autentica<br />
comprensione di quando hanno<br />
bisogno e dei mezzi con i quali aiutarli,<br />
mezzi che spesso non sono farmaci; l’accompagnamento<br />
non significa soltanto<br />
lasciare agire comprensione, amore,<br />
condivisione, ma ammettere l’irrompere<br />
di sentimenti anche di ostilità, come frustrazione,<br />
stanchezza, rabbia, ambivalenza,<br />
odio. Si può perciò capire che l’incontro<br />
con una persona affetta da malattia<br />
inguaribile possa mettere in moto nella<br />
persona stessa un nuovo programma di<br />
vita, seppur limitato, perché incontrare<br />
chi si cura di noi riattiva la speranza co-
nosciuta in tempi lontani, è come se il<br />
programma espresso da quella persona<br />
trovasse nell’ascolto e nell’opera dell’infermiere<br />
comprensione e amore al posto<br />
della sofferenza, è come se fosse l’ultima<br />
possibilità di avere amore, forse proprio<br />
quello che nel profondo è mancato da<br />
sempre, e in questo modo la malattia<br />
può diventare anche uno strumento di<br />
affetto, forse l’unico ancora possibile.<br />
Appare però ovvio che, affinché<br />
questo possa accadere, ci deve realmente<br />
essere un incontro con persone<br />
disponibili, che ascoltano, che hanno<br />
pazienza, competenza, compassione,<br />
che hanno il coraggio di immedesimarsi<br />
nel dolore dell’altro come evento compatibile<br />
con loro stessi, con la consapevolezza<br />
che tutti apparteniamo alla medesima<br />
dimensione e verifichiamo che<br />
comprendere la sofferenza degli altri è<br />
inevitabilmente fare i conti con la propria:<br />
l’accompagnamento ci riporta in<br />
definitiva a noi stessi, alle nostre reazioni<br />
personali di fronte alla paura della degradazione,<br />
della separazione, della perdita;<br />
ci riporta all’essenziale: trovare un senso<br />
alla propria vita.<br />
Fino ad oggi tutto questo non è stato<br />
possibile realizzarlo, perché di fatto<br />
abbiamo abbandonato il malato a se stesso,<br />
pensando di aver esaurito il nostro<br />
compito, e le cure palliative non erano<br />
altro che rappresentate da una stanza in<br />
fondo alla corsia dove venivano confinati<br />
i pazienti scomodi e dove si entrava<br />
solo per la terapia antalgica che spesso<br />
era al bisogno e su chiamata del paziente<br />
di turno.<br />
Oggi invece la realtà sta cambiando,<br />
abbiamo alzato il livello di cura, abbiamo<br />
sostituito quella stanza con veri e propri<br />
centri di cure, abbiamo linee guida OMS,<br />
abbiamo leggi (Legge 38 del 15 Marzo<br />
2010 ndr), abbiamo società di cure palliative,<br />
abbiamo scuole di specializzazione,<br />
ma forse non abbiamo più scuse e<br />
abbiamo il dovere di dare qualità di vita<br />
ai nostri assistiti, una qualità tangibile e<br />
non più astratta; l’infermiere perciò deve<br />
necessariamente ritrovare l’essenza della<br />
professione, nata 100 anni fa con l’obiettivo<br />
di curare la sofferenza dell’uomo, e<br />
questo lo sa bene chi opera nell’Hospice<br />
Casa di Betania perché non si occupa di<br />
malati terminali ma di persone con malattie<br />
terminali.<br />
Gli Infermieri<br />
dell’Hospice “Casa di Betania”<br />
17
DAL CURARE AL PRENDERSI CURA:<br />
L’ESPERIENZA DELLA PSICOLOGA<br />
a malattia imprigiona spesso il<br />
paziente e il familiare. Raccontare il proprio<br />
dramma aiuta a ricostruire la propria<br />
identità.<br />
Utilizzare le abilità interpretative<br />
del malato valorizzandone la storia<br />
come strumento di conoscenza è essenziale<br />
per costruire un efficace progetto<br />
terapeutico.<br />
Attraverso la narrazione si stimola<br />
l’esplorazione di quanto si nasconde dietro<br />
le difese. Il dolore connesso al ricordo<br />
risvegliato porta con sè l’intera storia,<br />
che rinnovata nel racconto diventa esperienza<br />
viva.<br />
Quando si aprono le porte ai vissuti<br />
affettivi e ai ricordi connessi c’è spazio<br />
per il sè reale. La narrazione dell’esperienza<br />
personale ha un ruolo significativo<br />
nella relazione di cura, perché la<br />
sofferenza richiede di essere inserita<br />
in racconti reali per ac<strong>qui</strong>sire un senso<br />
preciso, diventare condivisibile e trasformarsi<br />
in risorsa.<br />
Nei collo<strong>qui</strong>, la narrazione della<br />
propria esperienza aiuta la persona a ricostruire<br />
le proprie potenzialità e a rafforzare<br />
l’armonia con il proprio mondo<br />
interiore: permette ai pazienti di narrare<br />
la propria malattia, esprimerla con le<br />
proprie parole. Ciò è indispensabile per<br />
lo psicologo per conoscere quali sono i<br />
timori, il sistema di valori e di priorità, le<br />
ipotesi diagnostiche e causali, le aspettative<br />
e l’ immaginario terapeutico.<br />
Il paziente con malattia avanzata<br />
sperimenta numerose cause di sofferenza<br />
attribuibili sia alla distruzione organica,<br />
sia alla possibile destrutturazione<br />
psicologica di sé e delle relazioni sociali.<br />
Il compito dello psicologo è di creare<br />
un contesto relazionale che permetta al<br />
paziente di uscire da una percezione di<br />
un’esistenza schiacciata sul presente, recuperando<br />
una prospettiva che consideri<br />
l’evento malattia all’interno di un suo<br />
percorso esistenziale.<br />
Nell’ottica del sollievo dalla sofferenza<br />
il mio intervento si è attuato attraverso<br />
un ascolto attivo, un supporto<br />
verbale promuovendo la libera comunicazione<br />
e una profonda partecipazione<br />
emotiva all’interno di una relazione clinica<br />
autentica. È stata offerta al paziente<br />
l’opportunità di condividere e rielaborare<br />
con un’ esperta i sentimenti, le emozioni,<br />
i bisogni e le speranze che si alternano<br />
in questa particolare fase della vita.<br />
Occuparsi di un malato in fase avanzata<br />
di malattia, vuol dire confrontarsi quotidianamente<br />
con i bisogni, le paure e angosce<br />
sue e dei suoi familiari.<br />
La presa in carico di un paziente<br />
comporta, sia pur in maniera implicita,<br />
la presa in carico del caregiver.<br />
Nella fase avanzata di malattia, le<br />
reazioni emozionali della famiglia raggiungono<br />
il loro livello di massima intensità.<br />
La famiglia si confronta con un conflitto<br />
di ruolo. Si pone al contempo sia<br />
come soggetto che cura, data la funzione<br />
di supporto primario per il proprio congiunto<br />
e di strumento co- terapeutico<br />
che affianca l’e<strong>qui</strong>pe assistenziale, sia<br />
come soggetto di cura, data la necessità<br />
che i suoi bisogni siano accolti e soddisfatti.<br />
Il supporto psicologico alla famiglia<br />
si pone come momento essenziale e imprescindibile<br />
nell’intervento palliativo.<br />
Gli interventi di counselling psicologico<br />
si sono posti in quest’ottica come<br />
momenti importanti per: monitorare le<br />
modalità con cui i familiari vivono le<br />
18
La Dr.ssa F. Merico con un paziente<br />
tappe della malattia per poter poi intervenire<br />
nelle situazioni problematiche.<br />
Nelle condizioni di dimostrata sofferenza<br />
emozionale familiare, di conflittualità<br />
francamente patologica all’interno della<br />
famiglia, lo scopo dell’intervento è stato<br />
invece di migliorare le possibilità che la<br />
famiglia possa essere aiutata attraverso<br />
un intervento specialistico che migliori<br />
le capacità di adattamento ai problemi<br />
determinati dalle terapie, dai cambiamenti<br />
dei ruoli causati dalla malattia .<br />
Il contatto permanente con crisi<br />
che si susseguono le une con le altre e<br />
che si sovrappongono all’interno di uno<br />
stesso luogo ha delle ripercussioni anche<br />
sul personale.<br />
Le frequenti riunioni d’e<strong>qui</strong>pe hanno<br />
offerto il contesto adatto per lo scambio<br />
di informazioni riguardanti i pazienti,<br />
per condividere decisioni e interrogativi<br />
e per esprimere i differenti aspetti della<br />
sofferenza del personale.<br />
Il lavoro dello Psicologo è un pezzetto<br />
dentro uno scenario più ampio,<br />
una sfumatura dentro una vastità di<br />
colori che rispondono alle varie figure<br />
professionali con cui collaboriamo. È<br />
una sfumatura importante, senza la quale<br />
il disegno sarebbe diverso per colore<br />
e luminosità, ma è una sfumatura che si<br />
interseca in un disegno più ampio, chiamata<br />
a collaborare e a mischiarsi con altri<br />
colori.<br />
Nel supporto psicologico è importante<br />
stabilire una relazione con chi<br />
soffre, un’alleanza su ciò che genera in<br />
loro angoscia, questa capacità empatica<br />
relazionale è il fattore trasversale che negli<br />
studi di efficacia del lavoro psicoterapico<br />
favorisce l’elaborazione dell’esperienza<br />
dolorosa e l’attenuazione dei suoi<br />
effetti negativi sull’affettività.<br />
È proprio nella capacità di stabilire<br />
un forte rapporto empatico l’arricchimento<br />
della dimensione umana, indispensabile<br />
per la professione dello Psicologo<br />
in Hospice.<br />
Dott.ssa Fabiana Merico<br />
Psicologa Hospice<br />
“Casa di Betania”<br />
19
QUANDO IL LAVORO<br />
DÀ UN SENSO ALLA VITA<br />
Se io sono tutto quello che ho e<br />
perdo tutto quello che ho, allora chi<br />
sono” (Mildrend Lisette Norman)<br />
Ad un anno e mezzo dall’esordio,<br />
noi tutti, Ausiliari Socio Sanitari e Operatori<br />
Socio Sanitari, testimoniamo il nostro<br />
vivere l’Hospice “Casa di Betania”,<br />
un luogo in cui il corpo e tutto ciò che<br />
è materiale perdono il loro significato<br />
ordinario e diventano, malgrado tutto,<br />
strumenti per arrivare a qualcosa di più<br />
profondo.<br />
Siamo personale che opera a diretto<br />
contatto con il paziente terminale e con<br />
la loro famiglia subendo costantemente<br />
l’impatto psicologico che ne deriva.<br />
La figura dell’OSS, in virtù delle<br />
mansioni a cui deve assolvere, è portata<br />
a trascorrere la maggior parte del tempo<br />
lavorativo affianco al malato grave<br />
andando inevitabilmente ad imbattersi<br />
in una delle realtà più difficili: la perdita<br />
della propria autonomia con conseguente<br />
incapacità a compiere le cosiddette<br />
“Azioni di Vita Quotidiana (AVQ)”.<br />
Si tratta di soddisfare quei bisogni<br />
fisici (alimentazione, igiene, eliminazione)<br />
collocati al primo posto nella “scala<br />
di Maslow”, bisogni che creano indubbiamente<br />
imbarazzo quando a permetterne<br />
la realizzazione deve essere un perfetto<br />
estraneo.<br />
Nello stesso scenario, il compito<br />
dell’ASS deve andare ben oltre le proprie<br />
mansioni. L’Ass in Hospice rimuove<br />
la polvere della superficialità della vita<br />
di tutti i giorni per riscoprirne un valore<br />
più profondo. Il suo intervento è, spesso<br />
e tra l’altro, finalizzato all’accoglienza,<br />
facendo da intermediario (come spesso<br />
accade) tra la famiglia del paziente e il<br />
suo bisogno di quotidianità, di comunicazione,<br />
ed il personale medico-infermieristico<br />
con il quale a volte il confronto<br />
ovvero l’esposizione di alcune problematiche<br />
possono risultare difficoltosi.<br />
Per questa ragione, l’obiettivo comune<br />
è quello di creare col malato un<br />
rapporto di familiarità, “modulandone”<br />
di volta in volta, il modo di rapportarsi<br />
perché ciascuno di loro ha una propria<br />
storia, delle proprie abitudini, un proprio<br />
modus vivendi.<br />
Il nostro entrare in scena in punta di<br />
piedi ci permette di stabilire un rapporto<br />
di fiducia e di amichevole complicità col<br />
paziente che, nonostante la sofferenza<br />
20
e la consapevolezza del suo stato, cerca<br />
attraverso noi di riappropriarsi del ruolo<br />
sociale di uomo, donna, lavoratore, lavoratrice,<br />
padre, madre, figlio, figlia… ruolo<br />
che la malattia gli ha strappato, spesso<br />
con violenza e senza alcun preavviso!<br />
E tutte le volte in cui riusciamo a<br />
soddisfare il più insignificante dei suoi<br />
desideri, riusciamo ad esprimere solidarietà<br />
ed affetto senza ostentare le nostre<br />
capacità, trasmettiamo il messaggio che<br />
non è solo, che non sarà dimenticato e<br />
che perfino le richieste più assurde hanno<br />
un senso profondo e vero.<br />
Non neghiamo difficoltà nell’approccio.<br />
È scientificamente provato che<br />
il percorso di un malato grave è caratterizzato<br />
da 5 fasi. In una di queste (fase<br />
depressione) il paziente è silente ed è<br />
necessario riuscire ad interpretare la<br />
“voce del silenzio”; in altre (fase rabbia<br />
e fase accettazione) ci vengono poste<br />
domande “pesanti” alla quali non è semplice<br />
dare una risposta nonostante si sia<br />
personale formato.<br />
C’è da pensare che, il nostro lavoro<br />
sia una missione frutto non solo di una<br />
scelta personale ma, probabilmente, anche<br />
di una “chiamata” ed è, certamente,<br />
un’esperienza formativa e forgiante a<br />
livello emotivo, psicologico e spirituale,<br />
un’esperienza ricca e gratificante quando<br />
si riesce ad instaurare col paziente un<br />
rapporto bidirezionale; noi diamo professionalità,<br />
competenza, disponibilità,<br />
condividendo ed accogliendo la realtà<br />
delle sue giornate ma, ciò che noi diamo<br />
cresce e si arricchisce di giorno in giorno<br />
attraverso i vissuti, l’esperienza e gli<br />
innumerevoli insegnamenti di cui ognuno<br />
di loro ci rende destinatari.<br />
Ci insegnano l’umiltà di un grazie,<br />
di un per favore, ecc.<br />
Nella loro condizione di estrema<br />
sofferenza, sono testimonianza di forza e<br />
coraggio (Don Tonino Bello, durante la<br />
sua malattia, disse: “…è una lotta difficile<br />
ma non mi spaventa…”.<br />
Rafforzano il legame con le nostre<br />
famiglie e sono motivo di confronto con<br />
le nostre situazioni facendoci apprezzare<br />
ciò che abbiamo e facendoci sentire<br />
“ricchi”.<br />
Ci fanno capire che nessuno è davvero<br />
solo perché la sofferenza ci avvicina<br />
a Gesù, l’unico vero Amico, l’unico vero<br />
“Medico dell’Animo” come qualcuno lo<br />
definiva.<br />
Ci insegnano l’amore vero, quello<br />
gratuito, quello rivolto a chi non si conosce.<br />
Ci liberano da quello stupido orgoglio<br />
di non saper dire Ti Voglio Bene,<br />
intendendo questo un momento di debolezza<br />
e non un gesto che perfeziona<br />
l’essere uomo.<br />
Soprattutto, ci insegnano a valorizzare<br />
il dono più grande, la vita, che con i<br />
suoi alti e bassi, con i suoi colori chiari e<br />
scuri, vale la pena custodire perché tutto<br />
è transeunte, essa stessa lo è. La vita infatti<br />
è un dono che non ci appartiene… la<br />
vita si ridona…<br />
21
Può sembrare strano ma ci capita<br />
spesso di ricordare con affetto ogni singola<br />
persona che abbiamo avuto il piacere<br />
e l’onore di accompagnare, come<br />
semplici traghettatori, fino al porto della<br />
serenità e della pace esaltandone con<br />
ogni mezzo l’unicità.<br />
La vita merita rispetto anche quando<br />
la sua qualità è scarsa. È rispetto<br />
condividere la sofferenza del paziente<br />
alleviandone il dolore fisico e il dolore<br />
psichico, mostrando disponibilità, comprensione,<br />
affetto, solidarietà e accompagnandolo<br />
in questo percorso di vita che<br />
lo vedrà poi partecipe del “Sole Eterno”<br />
… poiché “Il sole esiste per tutti”.<br />
Il Personale di Supporto<br />
dell’Hospice “Casa di Betania”<br />
22
LA PRESENZA DEL VOLONTARIATO<br />
“A.V.O.” IN HOSPICE CASA BETANIA<br />
ra un pomeriggio dell’estate del<br />
1975. Il Prof.re Longhini, primario alla<br />
Divisione Campari dell’Ospedale di Sesto<br />
San Giovanni, passando in una corsia<br />
sentì un gemito. Si guardò attorno: una<br />
donna, accasciata in un letto, mormorava<br />
alcune parole incomprensibili. D’istinto,<br />
Longhini le si avvicinò. “Le serve qualcosa”,<br />
le chiese. “Acqua. Acqua. Ho tanta<br />
sete…”. Il medico si guardò attorno<br />
e vide una ragazza in camice bianco<br />
intenta a pulire il pavimento senza interessarsi<br />
a quanto le succedeva attorno.<br />
“Scusi”, disse Longhini rivolgendosi alla<br />
ragazza. “Non sente che quella signora<br />
sta chiamando Forse ha bisogno di aiuto”.<br />
“Non tocca a me”, gli rispose. “Non<br />
sono un’infermiera. Sono solo un’inserviente”<br />
e riprese la pulizia della stanza.<br />
Chiamò l’infermiera e la pregò di interessarsi<br />
di quanto le serviva e se ne<br />
andò all’appuntamento che l’aspettava.<br />
Ma anche l’infermiera disse “Non tocca<br />
a me”. E il Prof.re Longhini continuava<br />
a domandarsi “a chi tocca” Alla fine della<br />
sua giornata lavorativa scoprì che la<br />
risposta non avrebbe potuto essere che<br />
una: “A ciascuno di noi. A ogni cittadino”.<br />
E così fu fondata la prima A.V.O. il 6 maggio<br />
1976.<br />
Il Volontariato, pur ricoprendo un<br />
ruolo complementare e non sostitutivo a<br />
quello dell’operatore sanitario, non deve<br />
considerarsi come un servizio prestato<br />
da una “mano d’opera a basso prezzo”:<br />
questo gli farebbe perdere qualsiasi significato<br />
e lo metterebbe in conflitto con<br />
chi svolge un’attività qualificata (medici,<br />
infermieri, ecc.). Il Volontariato deve offrire<br />
qualcosa di più e di diverso: l’umanizzazione<br />
in ospedale ma anche una sua<br />
specifica collaborazione e una presenza<br />
testimone della comunità civile.<br />
“Il malato, per un volontario, scrive<br />
Padre Perico, “è un poco lui stesso. Il malato<br />
esce dalle nostre famiglie. Porta con<br />
sé le nostre stesse limitazioni, le nostre<br />
comuni aspirazioni alla felicità, al godere,<br />
alla bellezza, alla propria dignità. Ha<br />
gli stessi nostri destini nel tempo e fuori<br />
dal tempo. Ha come destino l’infinito<br />
che tutti ci attende. Il malato è uno che<br />
ha bisogno di noi: colpito dal male, è sofferente<br />
nel corpo ma anche in difficoltà<br />
con se stesso. La malattia lo ha reso bisognoso<br />
di tutto. E soprattutto da questa<br />
solitudine che ha preso il via il volontariato<br />
ospedaliero, nella profonda convinzione<br />
che tutti noi siamo una cosa sola.<br />
Proprio come ci si sente una cosa sola in
una cordata che sale verso la stessa cima<br />
e, quando l’arrampicata è dura, il più debole<br />
è sorretto da tutti. E la salvezza di<br />
uno solo, del più debole, è la salvezza di<br />
tutta la comunità. Il volontario ospedaliero<br />
che, esce dall’ambiente abituale della<br />
sua vita per sostare alcune ore accanto<br />
al malato, aiuta questo fratello, tormentato,<br />
debole che sta cadendo nella grande<br />
cordata. Quando questo accade, ne resta<br />
coinvolta la comunità tutta intiera…e il<br />
malato si rianima. Non si sente più solo.<br />
Crede ancora al mondo, agli uomini. Alle<br />
cose. Ha ancora il coraggio di battersi<br />
contro il male. Ha trovato gente che si<br />
è accorta di lui e del suo soffrire. Gente<br />
che gli vuol bene. E questo è il compito<br />
del Volontario ospedaliero”.<br />
La parola “servizio” è molto usata e<br />
spesso bistrattata. Alle volte le si dà un<br />
significato di inferiorità, di dipendenza e<br />
di servitù. “Servizio” traduce il vocabolo<br />
greco “diaconia”, in uso nella Chiesa fin<br />
dagli inizi ad indicare l’attività di aiuto<br />
a chi è nel bisogno. Il termine è entrato<br />
anche nell’ambito sociale per significare<br />
attività o prestazioni che soddisfano<br />
situazioni di necessità o esigenze dei cittadini.<br />
L’Hospice è stato un vero “miracolo”<br />
come accoglienza della persona ammalata,<br />
rispetto della sua sofferenza e, a<br />
volte, del suo fine vita. Ed è per questo<br />
che, al gruppo dei Volontari AVO in Hospice<br />
e tramite un Corso di Formazione,<br />
si richiede una certa competenza che sia<br />
frutto di preparazione e formazione del<br />
servizio, allo scopo di possedere quelle<br />
nozioni, quelle attitudini e quella abilità<br />
assistenziale che sono opportune per assicurare<br />
al proprio intervento, sia pure<br />
gratuito, una concreta efficacia e rendere<br />
il proprio servizio idoneo, qualificato<br />
e benefico.<br />
Gruppo AVO “Agape” di<br />
Tricase
LA FORMAZIONE DEL PERSONALE<br />
educazione e la formazione del<br />
personale che opera nel Centro di Cure<br />
Palliative Casa Betania assumono un<br />
ruolo fondamentale per conseguire lo<br />
scopo prioritario della medicina palliativa<br />
e cioè il caring dei pazienti, ovvero<br />
il prendersi cura della persona in senso<br />
globale, per conservare e promuovere la<br />
qualità di vita della persona stessa.<br />
La medicina palliativa è un campo<br />
nel quale è difficile muoversi, dal<br />
momento che non è facile approcciare<br />
pazienti con determinate patologie. Talvolta<br />
molti operatori ac<strong>qui</strong>siscono conoscenze<br />
e metodi per “osmosi”, ovvero<br />
assorbono informazioni dall’ambiente<br />
nel quale lavorano e ac<strong>qui</strong>siscono dei<br />
modelli mentali di comportamento; questo<br />
è il cosiddetto “hidden curriculum”,<br />
modello che non sempre risponde alle<br />
esigenze dei pazienti più deboli. Oggi i<br />
percorsi formativi degli operatori prelaurea<br />
o pre-qualifica contengono scarse<br />
o nulle informazioni sulle cure di fine<br />
vita, se si esclude ciò che riguarda la prognosi;<br />
ciò può spiegare perché gli operatori<br />
sanitari dichiarino spesso di non<br />
sentirsi preparati nel comunicare cattive<br />
notizie, controllare i sintomi o aiutare i<br />
malati a prendere decisioni difficili. Questa<br />
carenza può anche spiegare perché i<br />
malati vengano inviati troppo tardi alle<br />
cure palliative o non vengano indirizzati<br />
affatto. Tuttavia, esistono evidenze incoraggianti<br />
in base alle quali molte di queste<br />
capacità si possono ac<strong>qui</strong>sire successivamente,<br />
ed è proprio su questo punto<br />
che è stata indirizzata la formazione del<br />
personale di Casa Betania.<br />
I programmi di educazione e formazione<br />
si basano sulle conoscenze legate<br />
ai bisogni assistenziali della popolazione<br />
25
ed alla struttura e sono così articolati:<br />
• Audit clinici bimensili;<br />
• Incontri con tutto il personale<br />
ogni due mesi;<br />
• Incontri con ogni figura professionale<br />
su argomenti specifici;<br />
• Incontri di gruppo su temi psicologici;<br />
• Partecipazione a convegni di rilevanza<br />
provinciale e nazionale.<br />
Lo sviluppo dei programmi di formazione<br />
tiene conto dei concetti di:<br />
• Medicina palliativa e assistenza<br />
palliativa;<br />
• <strong>Pia</strong>nificazione organizzativa.<br />
La metodologia consente l’apprendimento<br />
da parte dei membri dell’ è<strong>qui</strong>pe<br />
di modi di lavorare insieme efficacemente<br />
e di comprendere: la responsabilità<br />
del team come è<strong>qui</strong>pe professionale;<br />
il ruolo di ciascun membro nel portare a<br />
termine il proprio piano di lavoro; fino a<br />
che punto si estendono i ruoli dei membri<br />
del gruppo; il processo di lavorare<br />
insieme; il ruolo svolto dal gruppo nel<br />
sistema di cure.<br />
Per poter ottenere migliori risultati,<br />
i metodi di insegnamento sono vari, adattati<br />
al contesto e tarati appropriatamente<br />
sul gruppo, infatti si preferiscono:<br />
• Lezioni frontali: teoria e pratica<br />
• Lavori di gruppo, sia mono che<br />
multidisciplinari: studio di casi, analisi di<br />
incidenti critici, riflessioni con utilizzo<br />
di materiali, pianificazione assistenziale.<br />
• Role play e dimostrazioni pratiche<br />
I risultati sin <strong>qui</strong> ottenuti sono da<br />
ritenersi assolutamente soddisfacenti sia<br />
per l’aspetto formativo che per quello<br />
motivazionale con conseguente influenza<br />
sulla qualità assistenziale.<br />
Inf. Antonio Negro<br />
Coordinatore Infermieri<br />
Hospice “Casa di Betania”<br />
26
HOSPICE: CURARE SULLA<br />
SOGLIA DELLA VITA<br />
“Indagine conoscitiva sulla qualità<br />
dell’integrazione tra infermiere e caregiver”<br />
Hospice Casa di Betania è un Centro<br />
di Cure Palliative che fa parte della<br />
rete di assistenza ai malati con patologie<br />
terminali della regione Puglia e promuove<br />
il progetto di assistenza personalizzata<br />
alle singole esigenze della persona<br />
basandosi su una filosofia che considera<br />
prioritaria la qualità di vita.<br />
Ciò che differenzia il nostro Hospice<br />
da un qualsiasi reparto di degenza ordinaria<br />
è:<br />
− l’approccio multidisciplinare nelle<br />
cure con logica di umanizzazione e<br />
visione olistica della persona;<br />
− l’alternativa al domicilio quando<br />
non è più possibile erogare le cure in<br />
ambiente domestico;<br />
− il movimento culturale che offre<br />
un’é<strong>qui</strong>pe interdisciplinare di professionisti<br />
che focalizzano l’attenzione terapeutica<br />
sulla percezione soggettiva del<br />
paziente e sul sostegno attivo e attento<br />
che lo aiuti nel combattere la depressione<br />
e frustazione, altre al compito di assicurare<br />
la loro assistenza di base.<br />
L’accesso alle prestazioni erogate<br />
dall’ Hospice Casa di Betania sono regolate<br />
dai principi generali di universalità,<br />
e<strong>qui</strong>tà e appropriatezza oltre a rispettare<br />
dei criteri generali quali l’aspettativa di<br />
vita, l’elevato livello di necessità assistenziale,<br />
una ridotta autonomia funzionale,<br />
problemi di tipo socio-economico. Questo<br />
pone al centro la persona attorno alla<br />
quale ruotano tutte le figure professionali<br />
e non (volontari, caregivers) che, collaborando,<br />
svolgono ognuna il proprio<br />
compito nei confronti della persona.<br />
Nell’esperienza diretta effettuata<br />
nel corso dei sei mesi di tirocinio clinico<br />
presso l’Hospice ho voluto incentrare la<br />
mia tesi di ricerca su due di queste figure<br />
che quotidianamente e più di altre<br />
sono a stretto contatto con l’ammalato:<br />
l’integrazione tra infermiere e caregiver.<br />
L’Infermiere che opera nell’ Hospice<br />
Casa di Betania oltre a possedere tutte<br />
quelle competenze assistenziali deve<br />
avere anche quelle comunicative atte ad<br />
aiutare il malato affinché possa parlare<br />
ed esternare le proprie sensazioni liberandosi<br />
da ansia e angoscia, creando così<br />
un legame di fiducia ed empatia con chi<br />
ha di fronte. Per fare questo bisogna far<br />
dono di sé all’altro, staccarsi dai propri<br />
schemi di pensiero e di vita per introdursi<br />
nel mondo altrui, rendendosi disponibile<br />
anche al contatto fisico senza<br />
aver paura di stringere la mano o donare<br />
una carezza, attraverso modalità relazionali,<br />
atteggiamenti, gesti che devono<br />
accogliere, assistere, comunicare, lenire.<br />
Il nostro ruolo di infermiere in Hospice<br />
non è facile ed è per questo che bisogna<br />
perfezionare la nostra formazione in<br />
modo continuo anche con corsi di carattere<br />
psicologico.<br />
Il caregiver! Questa figura, sebbene<br />
non ancora ben riconosciuta nel nostro<br />
contesto culturale, è sempre esistita ed<br />
è da sempre presente; è una figura non<br />
professionale, spesso coincide con il coniuge,<br />
la progenie o il genitore e segue il<br />
paziente assumendosi anch’esso il compito<br />
del prendersi cura; specie a casa, si<br />
dedica all’attività di accudimento e cura,<br />
28
si confronta purtroppo spesso con il<br />
senso di impotenza legato al progredire<br />
della malattia, con il senso delle preoccupazioni<br />
sull’impatto economico, con<br />
lo stress accumulato dall’assistenza continua,<br />
per questi motivi, il caregiver deve<br />
avere delle qualità come adattabilità, flessibilità,<br />
responsabilità, disponibilità. Nel<br />
momento in cui è presente nell’Hospice,<br />
egli viene ugualmente coinvolto ma senza<br />
essere sovraccaricato nell’assistenza,<br />
lasciandogli invece più spazio in quella<br />
parte di assistenza di tipo affettivo e<br />
famigliare dove con tutta la volontà noi<br />
operatori non possiamo arrivare.<br />
In ultimo posso confermare positivamente<br />
come la ricerca effettuata ha<br />
evidenziato che l’integrazione tra infermiere<br />
e caregiver assicura un’assistenza<br />
completa verso la persona proprio perché<br />
il caregiver non è solo una risorsa<br />
ma rappresenta un tassello imprescindibile<br />
su cui impiantare un processo assistenziale<br />
olistico.<br />
Laureanda Infermiera<br />
Laura Bramato
L’ACCOMPAGNAMENTO PSICOLOGICO<br />
DEI FAMILIARI IN HOSPICE CASA BETANIA<br />
a malattia rappresenta un evento<br />
stressante per tutto il sistema familiare<br />
cui appartiene il paziente poiché ne influenza<br />
la struttura, le relazioni ed i ruoli<br />
al suo interno. Apre una crisi che richiede<br />
e comporta importanti cambiamenti.<br />
La profondità del legame con la<br />
persona malata determina l’ampiezza<br />
del coinvolgimento e l’intensità del dolore<br />
del familiare, soprattutto di fronte al<br />
progredire della malattia.<br />
Le difficoltà di una famiglia nel gestire<br />
un malato in fase avanzata nascono<br />
dall’impatto della straordinarietà della<br />
situazione, che impone aspetti nuovi da<br />
capire e da risolvere e uno sconvolgimento<br />
della routine quotidiana.<br />
Le reazioni delle famiglie alla malattia<br />
non sono accomunabili, sono<br />
sempre differenti e per questo occorre<br />
entrare in relazione con tutto il sistema<br />
familiare.<br />
La comprensione del sistema familiare,<br />
della sua organizzazione e funzionamento,<br />
l’adattabilità, la definizione<br />
dei ruoli e il livello delle relazioni sono<br />
il presupposto per erogare un’assistenza<br />
specifica e a loro mirata.<br />
La famiglia è un sistema di relazioni,<br />
caratterizzato da un costante flusso<br />
di messaggi tra i suoi membri e da una<br />
tendenza a mantenere un e<strong>qui</strong>librio interno.<br />
L’impatto con una malattia grave<br />
rischia di destabilizzare profondamente,<br />
sia dal punto di vista emotivo che organizzativo,<br />
l’e<strong>qui</strong>librio familiare preesistente,<br />
obbligando ciascun componente<br />
a ridefinirsi e a ridefinire i rapporti alla<br />
luce dell’evento destabilizzante.<br />
Nessuna famiglia reagisce alla malattia<br />
nello stesso modo e <strong>qui</strong>ndi è necessario,<br />
in modo diverso, aiutare i familiari<br />
ad affrontare le difficoltà che la malattia<br />
di un congiunto comporta.<br />
Spesso la famiglia è impreparata<br />
perché è trascorso troppo poco tempo<br />
dalla diagnosi, e <strong>qui</strong>ndi non ha avuto il<br />
tempo di adattarsi ai cambiamenti che la<br />
malattia comporta; altre volte è stanca o<br />
con poche risorse perché ha dovuto affrontare<br />
un lungo periodo assistenziale;<br />
oppure, in altri casi, si è confrontata con<br />
situazioni di solitudine e di scarso sostegno<br />
sociale, o ancora vive troppi sensi di<br />
colpa e il timore di non aver fatto abbastanza,<br />
e a tutto questo, spesso si aggiungono<br />
problemi pratici ed economici.<br />
Genericamente, nella “fase acuta” di<br />
una malattia di solito c’è la coesione dei<br />
membri familiari e il rafforzamento delle<br />
relazioni familiari. Nella “fase cronica” è<br />
più facile osservare un progressivo deterioramento<br />
dei rapporti familiari, e questo<br />
comporta un processo di aggiustamenti<br />
costanti del sistema di relazioni,<br />
da parte dei componenti della famiglia,<br />
passando da una serie di disorganizzazioni<br />
a successive riorganizzazioni.<br />
Affrontare la riorganizzazione cognitiva<br />
ed emotiva che la malattia impone,<br />
trovare punti di forza delle semantiche<br />
proprie di ogni famiglia, scoprire<br />
vincoli e risorse che aiutino il paziente<br />
e l’e<strong>qui</strong>pe curante ad evolvere all’interno<br />
dei processi di cambiamento sono<br />
alcuni degli obiettivi dello Psicologo in<br />
Hospice.<br />
La presa in carico dei familiari inizia<br />
dal primo collo<strong>qui</strong>o, il collo<strong>qui</strong>o di<br />
accoglienza con il medico e la psicologa<br />
e continua durante tutto il periodo di degenza<br />
di Hospice.<br />
Dal punto di vista psicologico, durante<br />
i collo<strong>qui</strong>, si verificano le modalità<br />
30
e i contenuti relativamente alla comunicazione<br />
al paziente e alla famiglia del<br />
passaggio alle cure palliative valutando<br />
cosa sanno della malattia e del decorso<br />
paziente e familiare e si monitora l’evoluzione<br />
delle diverse relazioni familiari:<br />
- “lo sviluppo della famiglia”, in<br />
quanto la famiglia ha un livello di maturazione<br />
progressivo;<br />
- la “storia familiare”, intesa come<br />
esperienze già vissute e modalità adottate<br />
per superare altri eventi critici;<br />
- I “valori e la cultura”, intesa come<br />
concezione che si ha della malattia e della<br />
morte insieme alla capacità di esprimere<br />
ed elaborare sentimenti ed emozioni;<br />
- Il “tipo di relazioni interne” relativo<br />
alle modalità di funzionamento e di<br />
comunicazione tra i componenti, alla rigidità<br />
o meno dei ruoli familiari;<br />
- La “rete sociale” intesa come la<br />
rete di rapporti significativi esterni alla<br />
famiglia, che permette o meno di condividere<br />
e <strong>qui</strong>ndi alleggerire il carico<br />
familiare;<br />
- Grado di consapevolezza attuale e<br />
pregressa sulla diagnosi e prognosi;<br />
- Aspettative della famiglia rispetto<br />
al reparto e all’assistenza;<br />
Il tutto è riportato in una cartella<br />
appositamente creata per la valutazione<br />
psicologica.<br />
La presa in carico contiene, oltre<br />
all’aspetto tecnico, anche la componente<br />
affettiva ed empatica ed una corretta<br />
comunicazione che aiuti i familiari a<br />
comprendere la natura, l’evoluzione della<br />
malattia e gli stadi psicologici che il<br />
congiunto percorre.<br />
Questo permette di creare un’alleanza<br />
con la famiglia, individuare eventuali<br />
problematicità e risorse, mettere in<br />
discussione “false aspettative” e fornire<br />
un contenimento emotivo alla famiglia.<br />
Nella fase avanzata di malattia i familiari<br />
vivono intensi e poliedrici stati<br />
emozionali.
Nell’accompagnamento psicologico<br />
del familiare uno degli obiettivi primari è<br />
il contenimento della sofferenza emotiva<br />
finalizzato al sostegno e all’accettazione e<br />
adattamento del periodo di criticità che<br />
sta vivendo.<br />
Dall’ analisi dei contenuti emersi più<br />
frequentemente durante i collo<strong>qui</strong> con i<br />
pazienti e i familiari ho analizzato i loro<br />
vissuti e i bisogni ed infine valutato il grado<br />
di soddisfazione dell’utenza nei confronti<br />
del servizio e l’utilità del counselling<br />
psicologico.<br />
Frequenti sono state le situazioni in<br />
cui il familiare ha manifestato sentimenti<br />
di intensa paura. Questa poteva riguardare<br />
il timore di non essere in grado di affrontare<br />
i momenti critici ( “E se accade<br />
qualcosa, cosa devo fare”).<br />
Sentimenti di colpa si sono presentati<br />
come reazione al pensiero di non essere<br />
stati o non essere sufficientemente<br />
presenti nella condizione di maggior bisogno,<br />
oppure di aver commesso qualche<br />
errore, o di aver provato rabbia verso il<br />
proprio congiunto, o di aver desiderato in<br />
maniera egoistica che tutto finisse in tempi<br />
rapidi, o di non riuscire a reggere un<br />
ruolo a cui non si è abituati.<br />
Sentimenti di tristezza legati alla perdita,<br />
graduale e inesorabile della propria<br />
identità familiare si sono associati a sentimenti<br />
di vuoto, inutilità e impotenza.<br />
Altrettanto frequente è stata l’espressione<br />
della rabbia, indirizzata verso persone<br />
o istituzioni e proiettata in senso impersonale<br />
all’esterno. Reazioni indicanti<br />
meccanismi di minimizzazione o negazione<br />
come modalità per difendersi dall’angoscia<br />
e proteggersi da quanto non si vorrebbe<br />
avvenisse. Molto spesso la famiglia<br />
ha chiesto di non rivelare la diagnosi e la<br />
prognosi. Per quanto spesso la motivazione<br />
del familiare sia comprensibile e legata<br />
alla protezione del proprio caro, tale meccanismo<br />
crea notevoli problemi per tutti<br />
i protagonisti della relazione. I familiari<br />
non hanno l’opportunità di vivere in maniera<br />
autentica con il proprio caro il percorso<br />
doloroso della malattia e vengono<br />
poi frequentemente travolti da sentimenti<br />
di angoscia o di colpa<br />
In quest’ottica ho posto in essere<br />
interventi di counselling come momenti<br />
importanti sia per monitorare le modalità<br />
con le quali i familiari vivevano le tappe<br />
della malattia de proprio congiunto, sia<br />
per intervenire nelle situazioni problematiche.<br />
Quando l’e<strong>qui</strong>librio familiare risultava<br />
sufficientemente adeguato, ho indirizzato<br />
l’intervento di counselling per ottimizzare<br />
il supporto fornito dalla famiglia al paziente,<br />
mediante l’assunzione di un ruolo d’appoggio<br />
stabile che il membro sano può assumere<br />
verso il congiunto malato.<br />
Il counselling ha inoltre avuto un<br />
ruolo specifico nella fase del lutto anticipatorio,<br />
permettendo al familiare l’espressione<br />
di sentimenti di inutilità, rabbia, colpa<br />
e vuoto.<br />
Nelle condizioni di dimostrata sofferenza<br />
emozionale familiare, di conflittualità<br />
francamente patologica all’interno della<br />
famiglia, lo scopo dell’intervento è stato<br />
invece di migliorare le possibilità della<br />
famiglia di poter essere aiutata attraverso<br />
32
un intervento specialistico per migliorare<br />
le capacità di adattamento ai problemi determinati<br />
dalle terapie, ai cambiamenti dei<br />
ruoli causati dalla malattia o dalla perdita.<br />
Esaminando le caratteristiche dei caregiver<br />
nella nostra realtà, il dato identificativo<br />
più evidente è che si tratta nell’80%<br />
dei casi di donne. Complessivamente l’età<br />
media dei caregiver è risultata pari a 55<br />
anni.<br />
Il caregiver viene identificato, nella<br />
maggior parte dei casi, come una donna<br />
di mezza età, spesso coniuge o figlia del<br />
malato, non sempre in condizioni di salute<br />
ottimali che accudisce la persona malata<br />
in maniera continuativa o quasi.<br />
Un numero rilevante di caregiver ha<br />
riferito durante i collo<strong>qui</strong> la presenza, a<br />
livelli di intensità elevata, di una serie di<br />
disturbi psicologici come ansia e preoccupazione,<br />
tristezza, paura e irritabilità.<br />
Accanto ai sentimenti negativi, si segnalano<br />
però anche stati d’animo positivi,<br />
indicativi di una differente modalità di<br />
approccio alla malattia del proprio congiunto<br />
e, probabilmente, di una maggiore<br />
capacità di introspezione, spesso conseguente<br />
a una precedente esperienza dei<br />
sentimenti negativi.<br />
Infatti, seppur in una percentuale<br />
minore, alcuni familiari hanno individuato<br />
nella malattia del proprio familiare anche<br />
un’occasione, seppur dolorosa, per:<br />
- Conoscere meglio se stessi, le proprie<br />
potenzialità e i propri limiti e ridefinire<br />
il proprio ordine di valori e/o priorità<br />
(anteporre la dimensione affettiva alla dimensione<br />
economica e organizzativa della<br />
vita quotidiana)<br />
- Riscoprire l’amore nei confronti del<br />
proprio familiare e della famiglia sino al<br />
punto da sciogliere negli ultimi giorni o<br />
mesi nodi della comunicazione familiare<br />
o da risolvere conflitti pregressi<br />
- Riscoprire ed esplorare una propria<br />
dimensione spirituale ( indicata nella<br />
maggior parte dei casi come “bisogno di<br />
religiosità” o “riscoperta della fede”).<br />
Spazio all’amore rinnovato e ritrovato<br />
per il proprio caro, non solo un moderato<br />
volersi bene, ma riconoscimento di<br />
un amore che riprende la sua potenza iniziale<br />
nella relazione del primo incontro.<br />
Riscoperta della forza e del coraggio, la revisione<br />
profonda del proprio stile di vita,<br />
tensione a ritmi antichi più naturali, rifiuto<br />
della civiltà contemporanea che consente<br />
solo parzialmente di rallentare o fermarsi<br />
come si vorrebbe di fronte all’avvicinarsi<br />
della fine della vita sono stati elementi ricorrenti<br />
nelle testimonianze.<br />
Il supporto psicologico è stato accolto<br />
in modo molto favorevole. Sia i pazienti,<br />
sia i familiari hanno mostrato l’esigenza<br />
di essere ascoltati e di condividere<br />
le proprie emozioni e stati d’animo.<br />
Questo è servito sia ad approfondire<br />
la relazione con i pazienti e i loro familiari<br />
sia per poter trasmettere informazioni<br />
utili a tutti gli operatori per una migliore<br />
presa in carico e gestione del paziente e<br />
della sua famiglia.<br />
Dott.ssa Fabiana Merico<br />
Psicologa Hospice<br />
“Casa di Betania”<br />
33
L’HOSPICE NEL TERRITORIO DEL DISTRETTO<br />
SOCIO SANITARIO DI GAGLIANO DEL CAPO<br />
n un quadro del pittore tedesco<br />
Overbeck, “Sulamit e Maria”, sono raffigurate<br />
due donne che sono il segno di<br />
due anime: l’una mesta e attraversata da<br />
un’intima sofferenza, l’altra impegnata<br />
a sostenerla, a darle appoggio con<br />
lo sguardo, ad accoglierla attraverso lo<br />
straordinario intreccio delle mani. Bene.<br />
Questo quadro potrebbe essere assunto<br />
a paradigma del dovere della “CURA” che<br />
le aziende sanitarie hanno nei confronti<br />
dei cittadini.<br />
Il termine “terapia” deriva dal greco<br />
antico “therapeuein”, parola che contiene<br />
una gamma di significati assai interessanti<br />
per ripensare l’atto terapeutico<br />
nella sua giusta profondità. Significa infatti<br />
medicare, curare con un farmaco;<br />
allo stesso tempo anche occuparsi di<br />
qualcuno, averne cura; ma ha anche il significato<br />
di rispettare, onorare qualcuno<br />
nel mentre lo si cura. Al di là del servizio<br />
offerto, tecnicamente inteso, qualsivoglia<br />
“terapia”, per essere autenticamente tale,<br />
deve dare il giusto spazio alla cura che<br />
va posta nel costruire un’arricchente e<br />
non mortificante relazione con l’utente<br />
- paziente. Ha senso in un’ottica di salute<br />
e di completo ben essere separare il<br />
curare dal prendersi cura Non è forse<br />
quest’ultimo a fornire alla prestazione<br />
il suo senso più umano e più autentico<br />
Una parola, un gesto, un ambiente possono<br />
rispondere a quella fondamentale<br />
esigenza di sentirsi accolto, considerato,<br />
ascoltato, e per davvero curato, che prova<br />
chiunque abbia la necessità di fruire<br />
del nostro aiuto.<br />
Questa premessa per dar modo al<br />
lettore di focalizzare il senso delle CURE<br />
PALLIATIVE che sono assicurate dalla<br />
presenza dell’HOSPICE nel territorio del<br />
Distretto Socio Sanitario di Gagliano del<br />
Capo.<br />
Palliativo non significa “inutile”, la<br />
sua definizione esatta deriva dalla parola<br />
in latino “pallium”: mantello, protezione.<br />
Le cure palliative, nate circa 30 anni fa in<br />
Inghilterra, sono la cura globale e multidisciplinare<br />
per i pazienti affetti da una<br />
malattia che non risponde più a trattamenti<br />
specifici e di cui la morte è diretta<br />
conseguenza.<br />
Nelle cure palliative il controllo del<br />
dolore, degli altri sintomi e dei problemi<br />
psicologici, sociali e spirituali è di importanza<br />
fondamentale. Esse si propongono<br />
di migliorare il più possibile la qualità di<br />
vita sia per i pazienti che per le loro famiglie.<br />
Le cure palliative: affermano la vita<br />
e considerano la morte come un evento<br />
naturale; non accelerano né ritardano la<br />
vita; provvedono al sollievo dal dolore e<br />
dagli altri sintomi; integrano gli aspetti
psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza;<br />
offrono un sistema di supporto<br />
per aiutare la famiglia durante la malattia<br />
e durante il lutto.<br />
Le cure palliative sono state definite<br />
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità<br />
come “…un approccio che migliora la<br />
qualità della vita dei malati e delle loro<br />
famiglie che si trovano ad affrontare le<br />
problematiche associate a malattie inguaribili,<br />
attraverso la prevenzione e il<br />
sollievo della sofferenza per mezzo di<br />
una identificazione precoce e di un ottimale<br />
trattamento del dolore e delle altre<br />
problematiche di natura fisica, psicofisica<br />
e spirituale”.<br />
La legge nazionale del 9 marzo<br />
2010 sulle cure palliative e la terapia del<br />
dolore ha previsto la rete degli Hospice<br />
che mettono al centro l’interesse per la<br />
qualità della vita del malato e della sua<br />
rete affettiva. E la Regione Puglia ha definito<br />
il “Programma regionale di completamento<br />
per la realizzazione di centri di<br />
cure palliative”con l’obiettivo di identificare<br />
gli Hospice programmati e distribuire<br />
alle varie aziende sanitarie regionali<br />
i finanziamenti ministeriali ex Legge n.<br />
39/99 erogati per la loro realizzazione.<br />
Con la Delibera del Direttore Generale<br />
n. 2156 del 02/07/09, è stato stipulato<br />
l’accordo contrattuale tra la ASL di<br />
Lecce e la Direzione della <strong>Pia</strong> <strong>Fondazione</strong><br />
“Cardinale G. <strong>Panico</strong>” di Tricase per la<br />
erogazione di cure palliative, in regime<br />
residenziale, a pazienti affetti da patologie<br />
in fase terminale nel numero di 30<br />
posti letto. Essendo classificato l’Hospice<br />
quale struttura territoriale, l’ammissione<br />
degli assistiti in Hospice è stata<br />
subordinata alla valutazione dell’Unità di<br />
valutazione Multidimensionale del DSS<br />
di Gagliano del Capo.<br />
Nei primi mesi di apertura dell’Hospice<br />
“Casa di Betania” di Tricase si è registrata<br />
una tiepida risposta da parte del<br />
territorio sia per la scarsa conoscenza<br />
del servizio sia per la rete familiare ancora<br />
forte nei nostri comuni che vive<br />
l’evento della morte come un fatto privato,<br />
rinchiuso nelle mura domestiche,<br />
con rassegnazione.<br />
Con il passare dei mesi, grazie anche<br />
ad una maggiore informazione e<br />
alla consapevolezza di quanto il servizio<br />
possa sostenere sia il malato nei difficili<br />
momenti del dolore che il carico, anche<br />
psicologico, dei familiari, la richiesta di<br />
accesso è andata aumentando arrivando<br />
da 191 richieste di accesso in Hospice<br />
da Luglio 2009 a giugno 2010 a 79 da<br />
luglio 2010 al 20 novembre 2010.<br />
Tale risultato è, difatti, il frutto della<br />
interazione di due elementi.<br />
Da un lato di un’opera capillare di<br />
informazione al personale (MMG, PLS,<br />
operatori sanitari del Distretto) e agli<br />
utenti da parte della Direzione Sanitaria<br />
del Distretto, di promozione del servizio<br />
come un tassello essenziale che si aggiunge<br />
sul territorio alla rete dei servizi<br />
36
sociosanitari, assumendo il principio che<br />
assistenza e cura ai malati terminali rientrano<br />
nei livelli essenziali di assistenza<br />
che vanno strutturati e garantiti per tutti,<br />
con gratuità, capillarità, e<strong>qui</strong>tà, qualità.<br />
Dall’altro un approccio sanitario<br />
olistico- da parte degli operatori dell’Hospice<br />
“Casa di Betania” - che va oltre<br />
l’aspetto puramente medico della cura,<br />
intesa non tanto come finalizzata alla<br />
guarigione fisica (spesso non più possibile)<br />
ma letteralmente al “prendersi<br />
cura” della persona nel suo insieme, accompagnandolo<br />
nelle ultime fasi della<br />
sua vita con un appropriato sostegno<br />
medico, psicologico e spirituale affinché<br />
le viva con dignità nel modo meno traumatico<br />
e doloroso possibile, includendo<br />
anche il sostegno psicologico e sociale<br />
delle persone che sono particolarmente<br />
legate al paziente (familiari e partners<br />
principalmente, ma anche amici).<br />
L’accordo prevede delle procedure<br />
di presa in carico del paziente snelle per<br />
evitare quanto più possibile lungaggini<br />
e burocrazie.<br />
La segnalazione avviene telefonicamente<br />
dal Direttore dell’Hospice, dai<br />
MMG, PLS, Direttori delle UU.OO. Ospedaliere<br />
cui segue la valutazione da parte<br />
della UVM che nei casi di competenza<br />
distrettuale si assolve, compresa l’autorizzazione<br />
qualora il paziente risulti<br />
elegibile al ricovero, nelle 24 ore dalla<br />
richiesta. Ciò accade anche quando si<br />
tratta di paziente appartenente ad altri<br />
Distretti grazie alla collaborazione informale<br />
avviata tra i referenti degli altri<br />
Distretti.<br />
A distanza di sedici mesi dall’apertura<br />
dell’Hospice possiamo senza dubbio<br />
registrare delle ricadute positive<br />
sul territorio che vanno dalla offerta di<br />
opportunità assistenziali adeguate per<br />
pazienti con gravissime problematiche<br />
allo sgravio ai familiari assolutamente<br />
impreparati ad affrontare, sia psicologicamente<br />
che nella gestione pratica assistenziale,<br />
situazioni così difficili.<br />
Altro aspetto importante da considerare<br />
è quello di non far passare l’idea<br />
dell’Hospice come “luogo di morte”, ma<br />
il luogo in cui, superata la fase critica<br />
della malattia, ci può essere una stabilizzazione<br />
clinica di pazienti che, seppur<br />
in fase terminale, possono rientrare nel<br />
proprio domicilio. Ciò consente altresì<br />
un contenimento dei costi di degenza<br />
ospedaliera per i ricoveri impropri.<br />
Per concludere ribadiamo che l’Hospice<br />
è un importante tassello nella rete<br />
dei servizi territoriali. Rete vuol dire:<br />
centralità del territorio/Distretto che ha<br />
la visione e gestione d’insieme, la supervisione<br />
e la verifica di tutte le fasi; vuol<br />
dire coordinamento del rapporto con<br />
gli ospedali, con gli altri Distretti, con i<br />
MMG, con tutte le U.O. che hanno rapporti<br />
con l’inguaribilità e la terminalità,<br />
a cominciare dall’U.O. di Oncologia, Chirurgia<br />
Oncologica, Ematologia, Medicina<br />
37
Interna, Pneumologia, Cardiologia, Neurologia,<br />
vuol dire ancora garanzia della continuità<br />
terapeutico assistenziale resa possibile<br />
dall’integrazione tra la Rete dei servizi<br />
ospedalieri e territoriali e la Rete delle Cure<br />
Palliative (per il momento solo residenziali<br />
con l’Hospice).<br />
Ci si augura al più presto l’implementazione<br />
di una adeguata assistenza domiciliare<br />
che completi sul territorio la rete delle cure<br />
palliative, in quanto l’Hospice non può essere<br />
l’unica alternativa, ben sapendo che le<br />
logiche di ben essere e di eccellenza delle<br />
prestazioni possono svilupparsi a patto che<br />
vengano sollecitate tanto le energie individuali<br />
quanto la tensione etica del Sistema.<br />
Dr. Giuseppe Guida<br />
Direttore del Distretto<br />
Sociosanitario di Gagliano del Capo<br />
38
I PRIMI DATI DI ATTIVITÀ<br />
Hospice “ Casa di Betania” di Tricase<br />
ha iniziato la sua attività il 1° luglio<br />
2009.<br />
Volutamente curato anche nei dettagli<br />
architettonici, con i suoi 30 posti<br />
letto, con il suo personale di medici,<br />
infermieri, OSS, ausiliari, psicologi, assistenti<br />
spirituali, fisioterapisti e volontari,<br />
è pronto ad offrire ogni conforto al paziente,<br />
ed assicurare la migliore qualità di<br />
vita possibile, il calore della famiglia perché,<br />
anche laddove la malattia costringa<br />
ad affrontare, in modo più o meno consapevole,<br />
questa fase della propria vita,<br />
ogni essere umano gradisce un sorriso,<br />
ama i colori, apprezza il contatto fisico<br />
di una persona conosciuta o estranea,<br />
purché si avvicini spoglia di ogni certezza,<br />
ma piena di un profondo amore.<br />
In Hospice c’è spazio anche per<br />
momenti di gioia, per il sorriso. Tante<br />
sono state le occasioni che hanno portato<br />
buon umore: la presenza periodica di<br />
clown, le feste di compleanno, i tre battesimi<br />
e la cresima di un adulto celebrati<br />
nella cappella, le visite di spose novelle,<br />
le dolci melodie suonate al pianoforte,<br />
ecc. Sono stati organizzati anche corsi<br />
di formazione e due convegni (27 luglio<br />
2009 e 1-3 luglio 2010).<br />
A poco più di un anno di attività si<br />
possono fare bilanci<br />
Il vero bilancio è nascosto, sta<br />
nell’esperienza ricca e gratificante,<br />
nell’aver scoperto la gioia del dare più<br />
che ricevere degli operatori sanitari e<br />
dei volontari, ma soprattutto nelle tante<br />
vite umane sofferenti, malate e ferite raggiunte,<br />
curate e soprattutto restituite alla<br />
speranza.<br />
Quello visibile è sotto gli occhi di<br />
tutti: la qualità del servizio reso con impegno<br />
di grandi sacrifici e a costi molto<br />
contenuti, a vantaggio del servizio Sanitario<br />
Regionale, della ASL di Lecce, del<br />
Territorio, e soprattutto dei cittadini.<br />
Alcuni semplici dati lo confermano.<br />
Dal 1° Luglio 2009 a fine Novembre<br />
2010 sono stati ricoverati 255 pazienti:<br />
Uomini: 55%<br />
Donne: 45%<br />
Età media: 71 aa (range 17-100)<br />
Giornate medie di degenza: 35,6 gg.<br />
40
Provenienza dei pazienti:<br />
Distretti di provenienza dei pazienti:<br />
41
ECCO IL VOLTO DELLA “BUONA SANITÀ”<br />
Premio 2010 di Cittadinanzattiva<br />
“Umanizzazione buone pratiche in Sanità”<br />
dott. ALDO CAFARELLI<br />
Medaglia d’oro al merito della Sanità Pubblica<br />
premio 2010 “Umanizzazione buone pratiche in Sanità”<br />
“Per la grande umanità, la passione, la<br />
genrosità profusi nell’esercizio della sua<br />
professione ospedaliera su un terreno<br />
di servizio, nella convinzione di essere<br />
servo della sofferenza umana per scelta<br />
di vita e di Fede Cristiana.<br />
Per l’umiltà con cui accanto al dolore<br />
estremo egli sa costruire quotidianamente<br />
ponti di comunicazione e rapporti di<br />
solidarietà con i pazienti e con le loro<br />
famiglie nell’Hospice Casa di Betania di<br />
Tricase, dove la speranza è appena un<br />
alito di vita e la vita è carità cristiana.<br />
Un Uomo, un Medico e un Padre che<br />
ha saputo trasformare l’esperienza più<br />
dolorosa per un genitore, in un Amore<br />
sublime al capezzale di ogni malato”.<br />
Lecce, 26 Giugno 2010<br />
42
Il Dr. A. Cafarelli e la moglie Sig.ra Lucia Di Moia
TESTIMONIANZE<br />
Natale 2009<br />
A tutto il Personale di<br />
Questa grande famiglia,<br />
un Augurio grande ed<br />
un infinito ringraziamento<br />
per l’amore, la dedizione<br />
ed il rispetto verso di noi,<br />
che col vostro sostegno ci<br />
aiutate a percorrere questo<br />
cammino lungo e difficile.<br />
Siete tutti delle persone<br />
speciali.<br />
Estendo gli Auguri a tutte le<br />
vostre famiglie.<br />
Con affetto<br />
G. Tarantino e famiglia<br />
Sanarica, 22 marzo 2010<br />
Al dottor Cafarelli<br />
e a tutto il personale dell’Hospice,<br />
un grandissimo ringraziamento<br />
per la dedizione con cui<br />
vi siete presi cura di nostro padre.<br />
La vostra bontà è stata ineguagliabile:<br />
ci siete stati vicino dandoci<br />
con le vostre parole e<br />
la vostra costante presenza,<br />
la forza di poter accettare<br />
ciò che non ci aspettavamo<br />
potesse accadere.<br />
È stato meraviglioso conoscervi:<br />
non vi dimenticheremo.<br />
Un abbraccio<br />
I familiari di Egidio Rametta<br />
01 settembre 2009<br />
Vi voglio tanto bene<br />
a tutte che siete molto<br />
generose vi ricordo<br />
sempre<br />
<strong>Pia</strong> Gabriella<br />
“L’avete fatto a me …”<br />
Così il Signore Gesù dirà a quanti,<br />
per amor suo, avranno “FATTO”<br />
per i fratelli più piccoli e<br />
li chiamerà “Benedetti dal Padre mio”.<br />
Noi veniamo a ringraziarvi<br />
sia per il vostro servizio pratico,<br />
ma soprattutto per la vostra<br />
“COSTANTE” presenza fisica…<br />
“questo aiuta di più” quanti,<br />
prossimi all’incontro col Padre<br />
Celeste, si affidano alle vostre mani<br />
ACCOGLIENTI.<br />
La Santissima Trinità benedica voi,<br />
i vostri cari e realizzi i vostri ideali.<br />
Grazie a tutti !<br />
In particolari momenti della vita<br />
lo sconforto è grande ma siamo<br />
riusciti a superarlo grazie al vostro<br />
aiuto e vicinanza costante.<br />
Ringraziamo il Signore che in<br />
questo cammino abbiamo incontrato<br />
degli Angeli.<br />
I familiari di Annunziata Gianfreda<br />
44
Noi siamo <strong>qui</strong> per la vita<br />
e non per la morte...<br />
Il cancro è quanto di più drammatico si<br />
possa vivere, ti cambia la vita da un giorno<br />
all’altro e ti sottopone a dura prova<br />
non solo con il corpo ma anche con la<br />
mente. Ti ritrovi a lottare contro un male<br />
che toglie ogni certezza, in un attimo la<br />
tua vita subisce un profondo cambiamento.<br />
È un’esperienza che ti induce a<br />
non perdere un solo attimo di lucidità.<br />
È una battaglia durissima quella contro<br />
il cancro, perché coinvolge tutto della<br />
persona che si trova a doverla combattere<br />
e coinvolge anche tutte le persone<br />
che vi sono accanto. È una battaglia che<br />
a volte si vince con grande fatica e il più<br />
delle volte si perde con grande sofferenza.<br />
Non ho vissuto quest’esperienza in<br />
prima persona ma in tre anni ho perso<br />
tre persone a me molto care. Prima mia<br />
suocera con un cancro al seno, poi mia<br />
mamma con un cancro al retto e appena<br />
tre mesi e mezzo fa è morto mio marito<br />
Francesco con un cancro al polmone.<br />
Veder morire le persone che più ami al<br />
mondo giorno dopo giorno è veramente<br />
dura. Non volevo veder morire mio<br />
marito come purtroppo ho visto morire<br />
prima mia suocera in delle strutture<br />
poco adatte e poi mia mamma assistita<br />
dall’assistenza domiciliare una volta a<br />
settimana, dove non veniva fatto nemmeno<br />
il minimo indispensabile. L’idea<br />
di portare mio marito in un luogo dove<br />
venisse minimamente maltrattato o dove<br />
non venisse fatto il necessario mi faceva<br />
impazzire, non sapevo cosa fare per poterlo<br />
aiutare a soffrire il meno possibile.<br />
Purtroppo giorno per giorno la situazione<br />
peggiorava e io mi sentivo sempre<br />
più impotente, nonostante facessi l’impossibile<br />
mi rendevo conto che doveva<br />
essere seguito più approfonditamente<br />
per poter ricevere tutti gli aiuti di cui<br />
aveva bisogno. Nell’ospedale dove veniva<br />
curato non veniva più preso in considerazione<br />
perché in ogni caso oramai<br />
sarebbe dovuto morire.<br />
45
Io invece nel suo sguardo dignitoso<br />
e silenzioso leggevo la sua disperazione:<br />
voleva vivere, desiderava ardentemente<br />
fare il papà e il marito perfetto, mentre<br />
io, invece, dovevo purtroppo pensare a<br />
come aiutarlo a morire. Un giorno mi<br />
parlarono di una struttura particolare<br />
nata da poco che sembrava funzionasse<br />
abbastanza bene, almeno così si diceva..<br />
ed io presa dalla disperazione decisi di<br />
andare a vederla. Appena entrata avvertii<br />
subito qualcosa di speciale, stranamente<br />
non avvertii aria pesante e disperata<br />
come invece mi aspettavo. Vidi tanti visi<br />
segnati dalla malattia, mi chiesi se quella<br />
che respiravo era atmosfera di serenità o<br />
di rassegnazione. Mi accolse un medico<br />
con uno sguardo e un sorriso rassicurante<br />
che mi mostrò la struttura e mi spiegò<br />
l’iter che avremmo dovuto seguire. Decisi<br />
a pelle quasi subito di far ricoverare<br />
mio marito, perché doveva essere aiutato<br />
il prima possibile. Prima di uscire mi<br />
fu presentato colui che in modo egregio<br />
porta avanti questa struttura, colui che<br />
dopo il ricovero di mio marito mi disse<br />
una frase che mi colpii molto: “Noi siamo<br />
<strong>qui</strong> per la vita e non per la morte”. Vi<br />
chiederete.. ma come si può pensare alla<br />
vita in un luogo dove si va per morire!<br />
Questa fu la frase che mi diede la<br />
conferma di quello che avevo percepito<br />
e cioè che in quella struttura sarebbe<br />
stato fatto tutto ciò che era possibile<br />
fare. Più passavano i giorni più notavo<br />
l’impegno, la professionalità e soprattutto<br />
l’amore che veniva donato a tutti<br />
i pazienti, indipendentemente dall’età<br />
che ognuno avesse. Venivano fatte loro<br />
tutte le cure necessarie anche se dovevano<br />
morire, cure che non ho visto fare né<br />
a mia mamma né a mia suocera. Notavo<br />
con quanto amore facevano il loro lavoro,<br />
aiutavano i pazienti e le loro famiglie,<br />
ascoltandoli e sostenendoli nel difficile<br />
percorso della malattia, dando importanza<br />
a chi c’era su quel letto e intorno<br />
a quel letto. Finalmente qualcuno che<br />
comprende che su quel letto e intorno<br />
a quel letto ci sono delle persone fatte<br />
di carne, piene di sentimenti che devono<br />
affrontare tutto quello che comporta<br />
la malattia e il triste destino che è spettato<br />
purtroppo a mio marito Francesco.<br />
Ci hanno aiutati a percorrere questo tristissimo<br />
e doloroso cammino nel modo<br />
più affettuoso e familiare possibile. Con<br />
tutto il bene del mondo a volte neanche<br />
i propri amici, i propri familiari riescono<br />
a sostenerti per svariate ragioni o per la<br />
delicatezza stessa che comunque la situazione<br />
comporta.<br />
Amare, donare il proprio essere<br />
è quello che Casa di Betania mi ha trasmesso.<br />
Una lezione di vita molto importante<br />
per il mio futuro. Spero che quello<br />
che ho visto e che mi avete trasmesso<br />
non sia solo un punto di partenza e che<br />
negli anni non svanisca. Vorrei che tanti<br />
altri dottori, tanti altri infermieri e operatori<br />
prendessero spunto dalla Casa di Betania,<br />
che regalassero così tanto amore,<br />
così tanta umanità, accompagnata dalla<br />
professionalità. Tutto quest’amore, tutta<br />
questa umanità e questa professionalità<br />
vi posso assicurare che non si trovano<br />
tanto facilmente in altre strutture. Oltre<br />
al mio passato ho sentito storie che<br />
mi hanno raccapricciato, per i maltrattamenti<br />
subiti e perché oltre che combattere<br />
con la malattia purtroppo il più<br />
delle volte bisogna lottare per ricevere<br />
un minimo di umanità e professionalità.<br />
Come si può essere disumani di fronte<br />
ad un male così atroce!<br />
Perciò io oggi sono <strong>qui</strong> per rendere<br />
testimonianza di come tutti loro abbiano<br />
aiutato mio marito Francesco nella<br />
sua sfortunata sorte a morire nel modo<br />
più sereno e dignitoso possibile. Vorrei<br />
che quest’evento servisse a far capire a<br />
tante altre strutture che prima di tutto,<br />
nel difficile percorso della malattia, c’è il<br />
bisogno di essere sostenuti umanamente<br />
e poi professionalmente.<br />
Dare sostegno alle persone malate<br />
ti cambia veramente la vita e l’animo.<br />
Dopo la morte di mio marito mi è cadu-<br />
46
to il mondo addosso, in quanto mamma<br />
sto cercando di ricostruire la mia anima<br />
caduta in pezzi e la mia immagine devastata<br />
dal dolore. Nonostante mio marito<br />
non ci sia più io e Marta siamo comunque<br />
rimaste legate a questa struttura,<br />
dove continuano a darci ancora tanto<br />
affetto e tanto sostegno cercando di aiutarci<br />
a ripristinare un progetto di vita,<br />
trovando ogni giorno un motivo in più<br />
per andare avanti.<br />
Abbiamo avuto nella sfortuna la<br />
fortuna di incontrare medici e operatori<br />
non solo preparati ma anche estremamente<br />
sensibili e così disponibili da farci<br />
sentire addirittura coccolate e protette.<br />
Prima di ringraziare voi tutti per quello<br />
che fate quotidianamente mi sento in<br />
dovere di ringraziare una persona in particolare,<br />
vorrei ringraziare Antonella, Antonella<br />
Cafarelli, perché sono convinta<br />
che sia stata lei, insieme al suo splendido<br />
papà e alla sua splendida mamma, a mettere<br />
in moto questa struttura in modo<br />
così eccellente.<br />
Grazie Antonella, e grazie di cuore a<br />
tutti voi per quello che fate.<br />
Nadia<br />
47
Chicco e casa di Betania<br />
Abbiamo accompagnato il mio caro<br />
papà nel suo ultimo viaggio, mano per<br />
mano, il 27 Novembre del 2009. Papà<br />
aveva 84 anni, ma quando si perde una<br />
persona cara l’età non conta. Papà era un<br />
uomo d‘altri tempi, forte, coraggioso, di<br />
poche parole e con un cuore grande.<br />
Aveva sempre più spesso dolori alle<br />
ossa e i medici hanno sempre sostenuto<br />
che erano dovuti all’età, ad un po’ di<br />
artrosi e cose simili. Durante l’ultimo ricovero<br />
per problemi polmonari, la situazione<br />
è precipitata. I dolori erano insopportabili<br />
e dopo una serie di esami, tra<br />
cui una scintigrafia siamo stati informati<br />
che papà aveva metastasi ossee e che i<br />
dolori che sentiva erano dovuti a queste.<br />
Ha avuto inizio così il nostro, ma soprattutto<br />
il suo, calvario. I medici da subito ci<br />
hanno detto che, considerato lo stato di<br />
avanzamento della malattia, non serviva<br />
più un oncologo ma un medico in grado<br />
di alleviare i dolori che papà aveva. Quale<br />
medico, dove<br />
Suor Maria Rosaria, che avevamo<br />
conosciuto in occasione dell’ultimo ricovero<br />
di papà, cogliendo il mio sconforto,<br />
mi parlò di Casa di Betania dicendomi<br />
che sarebbero stati in grado di aiutarci.<br />
Ringraziai, ma mi sembrò tanto<br />
una soluzione per sollevare la famiglia<br />
dall’impegno di assistere una persona<br />
sofferente, più che una soluzione per alleviare<br />
le sofferenze del paziente.<br />
Ne parlai a casa con mia madre e<br />
mia sorella. Ovviamente erano dello stesso<br />
parere anche perché quello che avevamo<br />
sentito dire di Casa di Betania era<br />
che si trattava di un posto dove andare a<br />
morire e soprattutto era rivolto a persone<br />
sole con nessuna assistenza parentale.<br />
Non era il caso di papà! Contattammo<br />
<strong>qui</strong>ndi un oncologo il quale confermò e<br />
prescrisse la terapia del dolore e così cominciò<br />
la nostra lotta. Abbiamo provato<br />
di tutto, ma non c’era nulla che funzionasse.<br />
Ogni giorno andava peggio. Più di<br />
una volta abbiamo rischiato di perderlo<br />
perché i vari farmaci lo facevano collassare.<br />
Papà vedeva che i dolori aumentavano<br />
e non erano gestibili. Non ce la<br />
faceva più e noi non sapevamo a quale<br />
santo votarci.<br />
Il cinque novembre il nostro medico<br />
di famiglia, ci venne a trovare e ci<br />
disse che aveva partecipato ad un incontro<br />
su Casa di Betania rivolto ai medici.<br />
In tale occasione aveva conosciuto un<br />
medico esperto in terapia del dolore. Gli<br />
sembrava una brava persona e gli parlò<br />
di papà: era il dott. Cafarelli che subito fu<br />
disponibile a venire a casa per controllare<br />
la situazione.<br />
Vedendo questo strano medico, il<br />
pensiero andò a quei loschi figuri imbonitori<br />
che pensano solo a “reclutare” pazienti<br />
per le proprie strutture sanitarie<br />
anche perché, poche ore dopo, era già a<br />
casa nostra.<br />
Conversammo per circa un’ora sulle<br />
varie possibilità terapeutiche di Casa<br />
di Betania convincendo noi e soprattutto<br />
papà, distrutto dal dolore, a provare.<br />
Ancora un po’ incerti pensammo che in<br />
fondo peggio di così non poteva andare<br />
48
e poi in qualsiasi momento avremmo potuto<br />
firmare per riportarlo a casa.<br />
Fummo ospiti di Casa di Betania il<br />
giorno successivo e già questa velocità<br />
ci sorprese favorevolmente. Papà entrò<br />
con tanta voglia di trovare una soluzione<br />
al suo problema.<br />
Le sorprese continuarono con la<br />
splendida accoglienza ricca di amore e<br />
di attenzioni: di solito un paziente anziano<br />
non è ben accetto in reparto... ricordo<br />
ancora le parole di Antonio (l’infermiere<br />
che ci accolse): “<strong>qui</strong> non ci sono<br />
pazienti ma ospiti!”<br />
Cambiammo decisamente atteggiamento<br />
nei confronti dello “strano dottore”<br />
e della sua “strana e<strong>qui</strong>pe”: con tanto<br />
calore umano ci tornò la voglia di sperare.<br />
Già il giorno successivo ci rendemmo<br />
conto che l’aria che si respirava in<br />
reparto era ben diversa dal solito ospedale:<br />
è bello salutare il nuovo giorno<br />
quando qualcuno entra nella tua stanza<br />
con un sorriso.<br />
Proprio così: avevamo una stanza<br />
tutta nostra, accogliente e confortevole.<br />
Potevamo ridere, scherzare e anche<br />
lamentarci senza la preoccupazione di<br />
dar fastidio a qualcuno. C’era un comodo<br />
letto per papà che ha impedito il formarsi<br />
delle piaghe da decubito. Affianco<br />
al letto c’era una poltrona letto per noi<br />
parenti sulla quale riposare senza più<br />
trascorrere lunghe nottate seduti. C’era<br />
a disposizione un televisore da poter<br />
guardare senza l’assillo della scheda che<br />
finisce; nei giorni in cui papà stava meglio<br />
poteva scandire la sua giornata con<br />
i suoi programmi preferiti, come a casa.<br />
Abbiamo potuto portare le nostre cose<br />
e soprattutto le cose di papà. Non eravamo<br />
più “accampati”. Ci sembrava quasi<br />
di essere a casa. Potevamo aiutarlo in<br />
tutte le sue cose e spesso si sentiva, per<br />
certi versi, ancora autonomo.<br />
Potevamo entrare e uscire senza<br />
problemi di orario, permessi e ancora di<br />
più potevamo portare le sue amate nipotine<br />
a trovarlo. È stata una gran cosa per<br />
papà e per le mie bambine.<br />
Ogni volta che papà era in ospedale<br />
era una tragedia. Papà si intristiva perché<br />
non vedeva le bambine anche se capiva<br />
che per paura di contagi era preferibile<br />
fare così. Molto più difficile era farlo<br />
capire alle bimbe. Questa volta invece<br />
no! Potevano venire ogni volta che volevano,<br />
compatibilmente con lo stato di<br />
papà. Quando arrivavano in reparto tutto<br />
il personale le accoglieva con tanto<br />
affetto.<br />
Ci è stata data la possibilità di usufruire<br />
della cucina, potevamo preparare cose<br />
che a papà piacevano anche se, come<br />
diceva lui, in questo strano ospedale gli<br />
sembrava di essere al ristorante perché<br />
il giorno prima gli chiedevano cosa gradiva<br />
mangiare. Poteva evitare finalmente<br />
quegli odiosi brodini; potevamo pranzare<br />
con lui. Potevano venire a trovarlo tutti i<br />
suoi cari: parenti ed amici.<br />
Era bello anche vedere dall’ampia<br />
finestra tutto il verde che ci circondava:<br />
ti metteva di buon umore. Ma impagabile<br />
era l’atteggiamento del personale,<br />
Antonio, Luigi, Federica, Roberta, Ros-<br />
49
sella, Antonella, Luciana, Gabriella e tutti<br />
gli altri: angeli a cui mancano solo le ali;<br />
avevano preso in cura amorevolmente<br />
il loro “Chicco” e non il sig. De Marco.<br />
Quanta pazienza, quanta professionalità,<br />
quanta cortesia e passione. Non mancava<br />
giorno che non venissero in stanza<br />
per parlare con noi e con Chicco, sempre<br />
disponibili ed amorevoli. Lo vedevi<br />
dai loro sorrisi, dai loro modi teneri che<br />
lavoravano col cuore, con interesse ed<br />
abnegazione. Ogni intervento terapeutico<br />
a partire dalla semplice pulizia della<br />
stanza era subordinato allo stato e ai<br />
tempi di Chicco.<br />
E quanto conforto a noi familiari.<br />
Ogni qualvolta che la paura e l’angoscia<br />
ci assalivano c’erano sempre delle braccia<br />
fraterne pronte a darci conforto.<br />
Abbiamo conosciuto altre persone<br />
che stavano vivendo il nostro stesso<br />
dramma a Casa di Betania e, sia che<br />
fossero pazienti sia familiari di pazienti,<br />
quanta forza ci hanno dato. Quanti nuovi<br />
rapporti umani sono nati, rapporti umani<br />
che ci porteremo nel cuore per tutta<br />
la vita.<br />
I primi 10 giorni sono stati difficili,<br />
ma stava andando meglio. Avevano trovato<br />
la terapia giusta che ovviamente non<br />
faceva guarire papà, ma gli faceva sentire<br />
meno dolore. Finalmente gli era tornata<br />
la voglia di scherzare e si era incoraggiato<br />
perché aveva capito che poteva ritornare<br />
a casa e avere ancora una vita dignitosa.<br />
La situazione è precipitata a casa di<br />
un ictus che ce lo ha portato via dopo<br />
dieci giorni di lunga e dolorosa sofferenza.<br />
Non so come avremmo fatto senza il<br />
loro aiuto. Ci sono stati tanti momenti<br />
difficili, lunghe nottate in cui papà è stato<br />
male. Quante ore hanno trascorso con<br />
noi al suo capezzale. Ci hanno aiutato sia<br />
terapeuticamente sia psicologicamente.<br />
A Casa di Betania abbiamo trovato<br />
una nuova famiglia, ma la novità più sorprendente<br />
è che il dott. Cafarelli insieme<br />
a tutta la sua squadra ha trattato papà<br />
come persona e non come un paziente<br />
che sta vivendo le sue ultime ore.<br />
Nei venti giorni trascorsi a Casa di<br />
Betania ci sono stati tanti momenti di<br />
sconforto, ma abbiamo avuto modo di<br />
toccare con mano con quanto amore si<br />
prendono cura delle persone. Abbiamo<br />
imparato ad avere fiducia delle persone<br />
che operano a Casa di Betania . Credo<br />
che la selezione del personale sia stata<br />
basata sul grado di umanità di ciascuna.<br />
Un grazie di cuore alla dott.sa Zuccaroni,<br />
a suor Maria Rosaria, alla sig.ra<br />
Lucia, a Luigi, Antonio, Roberta, Ivana, alla<br />
dolce Federica (quanta pazienza che ha<br />
avuto), Rossella, alla cara Luciana, Antonella,<br />
Gabriella e continuare con l’elenco<br />
sarebbe lungo e comunque rischierei di<br />
dimenticare qualcuno: oltre a prendersi<br />
cura del corpo curano l’anima.<br />
Infine, ma non per ultimo, grazie al<br />
caro dott. Cafarelli. Non so quanto tempo<br />
ha trascorso in stanza con papà e con<br />
noi. Ha saputo ascoltare papà, ha saputo<br />
rincuorarlo, dargli fiducia, facendolo sentire<br />
ancora vivo. Ogni volta che si scoraggiava<br />
bastava una chiacchierata con lui<br />
che subito gli ritornava il sorriso. Aveva<br />
fiducia nel suo Dottore!<br />
Ne abbiamo avuta anche noi. Certe<br />
volte lo abbiamo stressato un po’, lo ammetto,<br />
ma mai si è mostrato scortese o<br />
scostante. Quando entrava in stanza per<br />
papà entrava l’amico e non il dottore.<br />
Non ha mai avuto fretta, non ha mai delegato<br />
se c’è stato qualcosa da fare. Si è<br />
preso cura di papà e nello stesso tempo<br />
si è fatto “carico” del resto della famiglia.<br />
È stato sempre presente, ha ascoltato le<br />
nostre paure, i nostri dubbi. Ha saputo<br />
confortarci e nello stesso tempo ci ha<br />
fatto guardare in faccia la realtà, ci ha<br />
aiutato ad affrontare il momento che da<br />
lì a poco avremmo dovuto vivere.<br />
Il giorno in cui papà ci ha lasciato<br />
è stato un via vai di tutte le persone<br />
che abbiamo conosciuto di questa nuova<br />
famiglia. Ci hanno saputo confortare,<br />
consigliare e hanno saputo accettare<br />
e accontentare ogni nostro desiderio.<br />
50
Quanto affetto e amore abbiamo sentito<br />
intorno a noi!<br />
Quando è subentrato lo sconforto e<br />
l’abbandono non so come avremmo fatto<br />
se non ci fosse stata questa oasi.<br />
Sono passati sette mesi da quanto<br />
papà non c’è più e ripensare a quanto<br />
abbiamo vissuto è doloroso, ma so che<br />
abbiamo fatto per lui quanto di meglio<br />
potevamo. Ha vissuto la fine della sua<br />
vita fuori da casa sua, ma in una nuova<br />
casa, circondato dalla sua famiglia e da<br />
tanti nuovi amici.<br />
Ancora oggi il rapporto sincero<br />
continua a riempire la nostra vita, è bello<br />
rivedersi, è bello continuare a sorridere<br />
insieme.<br />
Casa di Betania non è un posto dove<br />
andare a morire, ma un posto dove aiutano<br />
a vivere meglio e con maggiore serenità<br />
il resto della vita di chi sta soffrendo<br />
e delle persone che gli stanno vicino<br />
riscoprendo ciò che di più speciale c’è<br />
negli uomini: l’amore per il prossimo.<br />
Grazie.<br />
Gina<br />
51
Corato, 27 gennaio 2010<br />
Egregio Dr.Cafarelli,<br />
A nome mio e i miei figli sento il dovere<br />
ed il piacere di ringraziarla, unitamente<br />
a tutto il suo personale infermieristico e<br />
volontario della “Casa di Betania – Hospice”<br />
di Tricase da lei retta.<br />
È la prima volta che scrivo ad una persona<br />
importante e umana come lei.<br />
Luigi, mio marito, per i seri gravi problemi<br />
di salute e di malattia ha terminato<br />
di vivere circondato – dal primo giorno<br />
– da persone disponibili, umane, preparate<br />
e professionali.<br />
Non mi dilungo ulteriormente a ringraziarla<br />
di tutto quello che ci ha fatto.<br />
Il mio, l’unico amore, che era mio marito<br />
Luigi, ha sempre detto e sostenuto che<br />
nella vita è importante essere umili, poveri,<br />
ma ricchi di dignità umana.<br />
La prego voler accettare queste umili e<br />
piccole offerte, per un’eventuale sostegno<br />
per gli ospiti che saranno calorosamente<br />
seguiti da lei.<br />
Non voglio menzionare nessuno per timore<br />
di dimenticare qualcuno dei suoi<br />
validissimi collaboratori, la prego con la<br />
presente di essere portavoce.<br />
Lei è stato e sarà tutt’ora molto importante<br />
per me e la mia famiglia.<br />
Grazie !!<br />
Luisa Torelli,<br />
con i figli Vito, Teresa, Marisa e Giuseppe<br />
Bel Paese del 23 dicembre 2009<br />
Egregio direttore,<br />
scrivo queste righe cercando di raccontare<br />
brevemente il cammino percorso<br />
da mio padre Rocco verso l’ultimo viaggio<br />
durante i tre mesi e mezzo trascorsi<br />
presso l’Hospice “Casa di Betania” ...<br />
La nuova struttura accoglie i malati<br />
in fase terminale ed oltre ad essere<br />
all’avanguardia come apparecchiature<br />
e trattamento terapeutico, rappresenta<br />
un innovativo modello di erogazione<br />
di servizi integrati che racchiude in sé<br />
l’aspetto più importante che è l’essenza<br />
della struttura stessa; l’evidente presenza<br />
dell’Altissimo manifestata attraverso il<br />
primario dr. Aldo Cafarelli, sua moglie e<br />
tutto il suo staff medico-specialistico.<br />
La loro continua presenza accanto a mio<br />
padre, accompagnata sempre dal sorriso<br />
confortante a dalla ferrea volontà di fare<br />
del bene, rende l’Hospice un eccellente<br />
luogo di sollievo e serenità per noi familiari<br />
e per i nostri malati. Mio padre,<br />
durante la decenza, per manifestare la<br />
sua tran<strong>qui</strong>llità diceva sempre alle Suore<br />
Marcelline che curano l’aspetto spirituale<br />
di tutti i malati: “Alezio, il mio paese,<br />
è bello ma <strong>qui</strong> mi sento in Paradiso” e<br />
baciava il crocefisso di suor Margherita<br />
Bramato, direttrice dell’Ospedale, a cui<br />
lui tanto teneva.<br />
Si è spento con serenità e tanta dignità.<br />
Flavio Calasso – Tricase
Approfittando di questi giorni di grazia,<br />
in cui i dolori mi stanno concedendo un<br />
po’ di tregua, voglio cercare di fermare<br />
su carta alcune mie modeste riflessioni<br />
su come e quanto la fede e le strutture,<br />
idonee alla cura del corpo, della mente e<br />
dell’anima, possono aiutare a vivere con<br />
serenità una malattia.<br />
A tal proposito mi sorge spontanea la<br />
domanda: - Esiste una differenza tra un<br />
credente dalla fede radicata e profonda e<br />
quello dalla fede vacillante e flebile come<br />
una lucerna che sta per spegnersi<br />
Alla luce della mia attuale esperienza rispondo<br />
di “si”, con fermezza e determinazione.<br />
Infatti il cristiano convinto considera la<br />
malattia quasi un privilegio che il Signore<br />
gli concede per salvarsi e redimersi; il<br />
cristiano dalla fede tiepida e superficiale<br />
la ritiene un castigo di Dio verso cui inveire<br />
e, a volte, anche imprecare.<br />
In tutta sincerità devo affermare che tale<br />
interrogativo non me lo sarei mai posto<br />
se non fossi stata toccata da questo periodo<br />
di sofferenza, che, da oltre cinque<br />
mesi, sta mettendo a dura prova il mio<br />
fisico, la mia psiche e, in alcuni momenti,<br />
anche il mio spirito.<br />
Il tutto è iniziato in una serena serata di<br />
giugno, quando all’improvviso, dei dolori<br />
addominali, di indescrivibile intensità<br />
ed atrocità, uniti ad una febbrona da cavallo,<br />
mi hanno costretto ad un urgente<br />
ricovero presso il nostro Ospedale “Card.<br />
G.<strong>Panico</strong>”, con conseguenti trasferimenti<br />
in alcuni reparti, ossia dalla Medicina alla<br />
Chirurgia, da <strong>qui</strong> all’Ematologia e ancora<br />
in Medicina, per poi approdare presso la<br />
“Casa di Betania”, ove sono tutt’ora.<br />
Ricordo, come fosse ieri, quale tristezza<br />
e quali pensieri pervasero la mia mente<br />
il giorno in cui mi fu proposto di essere<br />
trasferita all’Hospice, che, a loro dire,<br />
rappresentava per me il luogo per continuare<br />
serenamente la terapia.<br />
A tale richiesta mi venne spontaneo pensare:<br />
- ormai ho capito, questa sarà per<br />
me l’ultima spiaggia, ove terminare la<br />
mia vita terrena (tenuto conto che tale<br />
era il concetto di molti, compreso il mio,<br />
nei riguardi della struttura).<br />
Ma ecco, dopo i primi attimi di scoramento<br />
psicologico ebbi una improvvisa<br />
ripresa all’idea che, quel luogo, così negativamente<br />
considerato, avrebbe potuto<br />
rappresentare per me l’approdo sicuro<br />
dopo un travagliato naufragio.<br />
Fu un pensiero passatomi per la testa<br />
forse per ac<strong>qui</strong>etare la mia ansia Con la<br />
conferma derivante dal mio vissuto quotidiano<br />
energicamente rispondo di “no”.<br />
Con commozione ricordo ancora il momento<br />
del trasferimento presso l’Hospice.<br />
Con le lacrime che mi irroravano il<br />
volto salutai suor Maria Rosaria, la quale<br />
mi aveva accompagnato nella nuova realtà,<br />
quasi a volermi proteggere fino in<br />
fondo con la sua presenza, così come<br />
aveva fatto nel suo reparto di Medicina,<br />
a cui va tutta la mia stima e gratitudine, a<br />
cominciare dal primario dr.ssa Serra per<br />
finire poi all’ultimo degli operatori socio<br />
sanitari, che mi hanno aiutata con il loro<br />
affetto a sopportare le grandi sofferenze<br />
fisiche, che logoravano il corpo e la<br />
psiche, ma, per fortuna, non stavano più<br />
intaccando l’anima.<br />
Ad onor del vero ora non riuscirei più<br />
a descrivere quale tristezza e quali considerazioni<br />
mi passarono per la testa<br />
entrando nella nuova struttura. All’improvviso<br />
però tutto mi apparve positivo:<br />
ebbi la sensazione di aver trovato una<br />
famiglia, che mi avrebbe dato affetto e<br />
protezione. Scattò in me un senso di sicurezza<br />
e di fiducia, certamente frutto<br />
dell’incontro felice con i vari operatori,<br />
a cominciare dal primario Dr. Cafarelli e<br />
signora, la cui totale disponibilità verso i<br />
sofferenti, unita ad una fede traboccante,<br />
percepibile anche senza che aprano<br />
bocca, fanno sentire a proprio agio ogni<br />
malato, a cui non lesinano premure ed<br />
attenzioni.<br />
Altro impatto rassicurante fu quello con<br />
il dr. Cazzato, il quale ha dimostrato subito<br />
di prendere a cuore la mia malattia,<br />
53
unendo alla professionalità una immensa<br />
carica di umanità.<br />
Persona solare si rivelò pure la dr.ssa<br />
Zuccarone, che con garbo cerca spesso<br />
di tirarti su nei momenti di sconforto.<br />
Tutto sembrò degno della mia totale fiducia,<br />
compreso il personale infermieristico,<br />
a partire dal caposala, responsabile<br />
generale, Antonio Negro, il quale con<br />
tatto discreto e signorile sa manifestare<br />
l’amore che ha per ogni paziente, per<br />
terminare all’ultimo degli operatori, che<br />
svolgono il loro compito con dedizione,<br />
sempre pronti ad elargire sorrisi, a rivolgersi<br />
con parole affettuose senza mai farti<br />
sentire a disagio o a trattarti con aria di<br />
sufficienza e sopportazione; sei costantemente<br />
al centro dell’attenzione di tutti<br />
e sopportato oltre che dai medici anche<br />
dagli psicologi, pronti a farti superare<br />
eventuali crolli della psiche.<br />
Altrettanto importante e degno di lode è<br />
il delicato compito delle guide spirituali,<br />
che ti aiutano, ti confortano, ti danno coraggio,<br />
ti fanno capire che anche nei momenti<br />
più bui si può venir fuori, perché<br />
dall’alto c’è sempre un Dio, che veglia su<br />
di noi e alla cui misericordia dobbiamo<br />
affidarci. Difatti è solo Lui l’unico grande<br />
“Primario”, che può operare dei miracoli,<br />
così come ebbe a dirmi un giorno il dr.<br />
Cafarelli, dandomi affettuosamente una<br />
pacca sulla spalla, mentre mi recavo a<br />
messa (quando ancora lo facevo).<br />
Di ciò sto prendendo sempre più coscienza<br />
in questa mia degenza presso<br />
l’Hospice, dove credo di aver rafforzato<br />
la mia fede, perché mi sono resa conto<br />
che il vero credente è colui che ha certezza<br />
che Gesù ci ama, veglia sempre su<br />
di noi, ha un cuore che pulsa di vita attiva,<br />
è tutto Amore ed il grande Amore non<br />
ammette né riposo, né paure nella sua<br />
abnegazione.<br />
Egli è come una sentinella vigile, solerte<br />
ed intenta ad adorare Dio senza tregua:<br />
Lo informa, Lo prega, Lo implora, intercede<br />
per noi e ci esorta a sperare nella<br />
Sua bontà redentrice senza lasciarci mai<br />
prendere dall’apatia o dalla tiepidezza<br />
della vita terrena.<br />
Vivendo in questo luogo scopri che è il<br />
posto in cui si prega, si dialoga, ti senti<br />
sempre a tuo agio, non vieni emarginato,<br />
non sei oggetto dell’indifferenza altrui,<br />
non guazzi mai nelle paludi della mediocrità,<br />
perché non esistono differenze<br />
sociali, né di età, né di sesso, non avverti<br />
il disagio di essere un peso per chi ti<br />
vive accanto, non rappresenti un degente<br />
contrassegnato da un numero di letto,<br />
ma esisti col tuo nome, che è noto a<br />
tutti, anche a coloro che personalmente<br />
non conosci, ma che senti persone a te<br />
vicine.<br />
Qui prendi sempre più coscienza che<br />
quando la malattia ti disarma, ti denuda,<br />
ti pone dei limiti, trovi sempre una mano<br />
tesa verso di te, pronta ad aiutarti a superare<br />
i momenti di sconforto e di cedimento,<br />
motivi per i quali oggi l’Hospice<br />
è per me sinonimo di: positività, tran<strong>qui</strong>llità<br />
e discrezione.<br />
Al termine di queste mie personali riflessioni<br />
mi corre l’obbligo di rivolgere un<br />
pensiero di riconoscenza e di gratitudine<br />
a tutte le Suore Marcelline, che dimostrano<br />
palesemente quanto stia loro a cuore<br />
la mia salute, con particolare riferimento<br />
alla carissima Suor Margherita Bramato,<br />
alla quale, oltre a tantissimi altri meriti,<br />
va riconosciuto anche quello di aver voluto,<br />
fortemente desiderato e realizzato<br />
questa meravigliosa struttura, che rende<br />
orgogliosi noi tricasini, ma che tutti apprezzano<br />
per le caratteristiche che ho<br />
illustrato e per le quali potrebbe essere<br />
definita, a mio modesto avviso;<br />
“Casa di Betania, fucina inesauribile di<br />
bontà, fonte incommensurabile di Amore,<br />
Amore, Amore”.<br />
Gilda De Francesco<br />
54
Presicce, 21 dicembre 2009<br />
Agli Angeli della “Casa di Betania” di Tricase<br />
Reverende Madri, Pregiatissimi. Medici,<br />
Fidati Infermieri e Assistenti, io e mia moglie<br />
Pina vorremmo esprimere a voi tutti<br />
il nostro plauso e il nostro più profondo<br />
ringraziamento per l’opera di amorevole<br />
assistenza, prestata con straordinaria<br />
professionalità, nei confronti del nostro<br />
amico Gerhard Cerull, affetto da una<br />
grave forma di tumore agli ultimi stadi.<br />
Si parla tanto spesso delle inefficienze<br />
dell’assistenza sanitaria in Italia. Purtroppo<br />
si parla troppo poco dei miracoli prodotti<br />
ogni giorno dalla dedizione al lavoro<br />
e dalla professionalità di tanti in ogni<br />
angolo d’Italia. Nella Vostra splendida<br />
struttura, il nostro amico è stato circondato<br />
non solo dalle cure mediche che<br />
la sua condizione richiedeva, ma da un<br />
caldo e fraterno abbraccio di solidarietà<br />
che gli ha fatto sentire, pur in una situazione<br />
cosi difficile, l’atmosfera e il calore<br />
di una grande famiglia. Una solidarietà<br />
che si è estesa anche nei confronti dei<br />
familiari e degli amici che andavano a visitare<br />
Gerardo. Tutti siamo sempre stati<br />
accolti da un sorriso, confortati da una<br />
parola buona e, anche, da un caffè caldo<br />
o da un frullato di frutta che aiutavano<br />
ad alleviare la stanchezza e combattere<br />
lo scoramento.<br />
In situazioni così traumatiche per le persone<br />
coinvolte nel dolore di una grave<br />
malattia, l’assistenza psicologica e il conforto<br />
della fede sono parte integrante<br />
della terapia, che non può essere solo<br />
rivolta al fisico. Le visite quotidiane della<br />
psicologa, di Frate Massimo e di Don<br />
Salvatore hanno permesso a Gerardo e<br />
ai suoi familiari di affrontare con più serenità<br />
il difficile passaggio della malattia<br />
terminale e del distacco.<br />
Un doveroso ringraziamento va al Direttore<br />
della Struttura. Il Dott. Aldo Cafarelli,<br />
chiarissimo, sempre disponibile, affabile<br />
e sempre presente dalla mattina e fino a<br />
tarda sera, è stato una indispensabile figura<br />
di riferimento per tutti noi familiari<br />
ed amici, oltre che per la sua splendida<br />
e<strong>qui</strong>pe.<br />
Infine, un grazie di cuore alla Signora Lucia,<br />
moglie del Dott. Aldo, che dedica il<br />
proprio tempo e le proprie energie ad<br />
un’opera di volontariato infaticabile e<br />
che è stata particolarmente vicina a Rita,<br />
la moglie di Gerhard, confortandola con<br />
la parola e con tante attenzioni, Il Signore<br />
la benedica.<br />
Grazie di cuore e Buon Natale a tutti.<br />
Aldo Magagnino e Pina De Michele<br />
28 marzo 2010<br />
Per l’eccellente personale Hospice<br />
Con il mio augurio più<br />
sincero di continuare ad essere<br />
sempre così buone, disponibili<br />
ed amorevoli verso le persone<br />
che soffrono così, come lo siete<br />
state con noi.<br />
Un abbraccio a tutte<br />
Pina Bucci Cota<br />
Anch’io, come ospite, faccio parte di<br />
questa meravigliosa struttura.<br />
Qui le giornate trascorrono serene perché,<br />
sia i medici, sia il personale tutto<br />
riescono, con il sorriso e con l’instancabile<br />
loro lavoro, a far sorridere anche<br />
noi ammalti, a volte chiusi in noi stessi<br />
a causa della sofferenza e, forse, anche<br />
dall’isolamento.<br />
Qui veniamo trattate tutte con amore, si<br />
attuano in pieno le parole di Gesù: “qualunque<br />
cosa facciate in mio nome al più<br />
piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a<br />
me”.<br />
Posso definire questo luogo un “lembo<br />
di Paradiso” <strong>qui</strong> in terra.<br />
Grazie a tutti<br />
Suor Teresa<br />
55
Finito di stampare<br />
nel mese di dicembre 2010<br />
© <strong>Pia</strong> <strong>Fondazione</strong> di Culto e di Religione<br />
Card. G. <strong>Panico</strong> – Tricase (LE)
CASA DI BETANIA HOSPICE- ONLUS