28.01.2015 Views

Leggi "Back to Black", testo a cura di Angela Vettese - Artelab

Leggi "Back to Black", testo a cura di Angela Vettese - Artelab

Leggi "Back to Black", testo a cura di Angela Vettese - Artelab

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

GREGOR SCHNEIDER<br />

Cube Venice<br />

Conception e design<br />

31 maggio – 14 settembre 2008<br />

Galleria <strong>di</strong> Piazza San Marco 71/c, Venezia<br />

<strong>Back</strong> <strong>to</strong> Black<br />

Tes<strong>to</strong> <strong>di</strong> <strong>Angela</strong> <strong>Vettese</strong><br />

La mostra alla Fondazione Bevilacqua La Masa <strong>di</strong> Venezia è nata nell’estate del 2007. Così<br />

pensavo. Armin Linke, amico mio e <strong>di</strong> Schneider e inizialmente nostro interme<strong>di</strong>ario, mi ha chies<strong>to</strong><br />

<strong>di</strong> farmi promotrice presso il sindaco <strong>di</strong> Venezia <strong>di</strong> una richiesta <strong>di</strong> scultura pubblica: Gregor<br />

voleva costruire in mezzo a Piazza San Marco oppure anche <strong>di</strong> fronte alla piazza, sopra una<br />

zattera galleggiante nelle acque del bacino, un grande cubo nero ispira<strong>to</strong> alla Ka’ba della Mecca.<br />

Ho scrit<strong>to</strong> al sindaco il quale non ha rispos<strong>to</strong>. Altro messaggio, nessun cenno.<br />

Solo dopo ho capi<strong>to</strong> che non era affat<strong>to</strong> la prima volta che ques<strong>to</strong> accadeva. Anzi, esiste un intero<br />

catalogo che testimonia i tentativi <strong>di</strong> Schneider <strong>di</strong> realizzare un simile proget<strong>to</strong> (1): l’artista ha fat<strong>to</strong><br />

molti rendering e ricostruzioni che vedono Piazza San Marco da tutti i punti <strong>di</strong> vista; poi è passa<strong>to</strong><br />

ad altre se<strong>di</strong> e ha imposta<strong>to</strong> piani per la collocazione <strong>di</strong> un grande cubo nero in quel monumen<strong>to</strong><br />

modernista che è la Neue National Galerie, realizzata a Berlino su proget<strong>to</strong> <strong>di</strong> Mies Van Der Rohe,<br />

oppure nel viale <strong>di</strong> accesso al museo Hamburgerbanhof sempre <strong>di</strong> Berlino.<br />

L’idea era probabilmente maturata nell’estate del 2001 e quin<strong>di</strong> prima dell’attenta<strong>to</strong> alle <strong>to</strong>rri<br />

gemelle. La Biennale che gli ha da<strong>to</strong> anche un premio, con la sua tragica scultura ambientale al<br />

pa<strong>di</strong>glione tedesco Totes Haus u r, all’epoca dell’attenta<strong>to</strong> era ancora aperta. Quel labirin<strong>to</strong> del<br />

sentire aveva precorso i tempi. Contemporaneamente alla sua presenza come rappresentante<br />

della Germania alla 49 ma Biennale, il mondo aveva vis<strong>to</strong> per televisione una <strong>di</strong>struzione ben più<br />

forte della sua opera e centrata sulla <strong>di</strong>co<strong>to</strong>mia Oriente/Occidente.<br />

Da quel momen<strong>to</strong> Venezia deve essergli apparsa come il luogo più gius<strong>to</strong> in cui rispondere a<br />

ques<strong>to</strong> sta<strong>to</strong> <strong>di</strong> cose con un’opera nuova. Non più un percorso che si nasconde <strong>di</strong>etro la facciata<br />

aulica <strong>di</strong> un pa<strong>di</strong>glione ai Giar<strong>di</strong>ni, ma un volume che esce in tutta la sua visibilità dal normale<br />

corso delle cose. Come un suono che non si mescola al rumore <strong>di</strong> fondo ma che ne emerge come<br />

un urlo compos<strong>to</strong>, defini<strong>to</strong> come il can<strong>to</strong> <strong>di</strong> un muhezzin.<br />

Ecco dunque che il pensiero arriva a quel cubo verso cui buona parte del mondo si piega, per<br />

cinque volte al giorno, in at<strong>to</strong> devozionale. A quella magica costruzione <strong>di</strong> mat<strong>to</strong>ni – e forse uno <strong>di</strong><br />

questi è un meteorite – che il cul<strong>to</strong> copre con un mantello <strong>di</strong> vellu<strong>to</strong> e con sure coraniche scritte<br />

con l’oro e l’argen<strong>to</strong>, un drappo ritaglia<strong>to</strong> ogni anno in mille e più pezzi per farne sacre reliquie:<br />

deve essere sempre nuovo, appena fat<strong>to</strong>, perfet<strong>to</strong>.<br />

L’opera vagheggiata da Schneider voleva essere un omaggio a quell’Islam, quin<strong>di</strong>, che tanta<br />

traccia ha lascia<strong>to</strong> negli arabeschi <strong>di</strong> Venezia. Ma sembrava anche volere rappresentare un nuovo<br />

impegno politico, da parte <strong>di</strong> un artista che per buona parte del suo percorso non sembra avere<br />

parla<strong>to</strong> che <strong>di</strong> vicende personali. Nel 2001 è arriva<strong>to</strong> il suo massimo momen<strong>to</strong> <strong>di</strong> successo e al<br />

contempo il momen<strong>to</strong> in cui non ha più volu<strong>to</strong> che la sua vicenda artistica fosse vista come<br />

qualcosa <strong>di</strong> assolutamente priva<strong>to</strong>.<br />

Tutti – quasi tutti – riusciamo a riconoscere un luogo originario, da cui veniamo e che ci sembra<br />

sia la nostra prigione, sia la ra<strong>di</strong>ce del nostro modo <strong>di</strong> agire e <strong>di</strong> pensare. Che sia una casa, una<br />

città, un paese, le origini ci scatenano un vissu<strong>to</strong> <strong>di</strong> per sé perturbante, come da piccoli accade con<br />

la mamma o i genitali o le cose che non sappiamo ancora maneggiare. Il cul<strong>to</strong> è un poco anche<br />

ques<strong>to</strong>, un mistero che da inconsapevolezza infantile si fa sempre più grande e quin<strong>di</strong> ambi<strong>to</strong> <strong>di</strong>


turbamen<strong>to</strong> per gli adulti. Non impariamo mai a maneggiare il mistero. Sapere ques<strong>to</strong> ci dà un<br />

turbamen<strong>to</strong> che può volere <strong>di</strong>re speranza, lut<strong>to</strong>, morte, resurrezione e tut<strong>to</strong> ciò che ci muove senza<br />

una base razionale.<br />

Jenny Schlenzka e Klaus Biesenbach hanno già messo in luce, in una loro conversazione, come il<br />

l’operazione “cubo” <strong>di</strong> Schneider (e quin<strong>di</strong> i suoi derivati) possano essere connessi a momenti in<br />

cui il cinema e l’arte hanno parla<strong>to</strong> <strong>di</strong> assolu<strong>to</strong>, <strong>di</strong> primario, <strong>di</strong> genetico. Così è sta<strong>to</strong> per il cubo <strong>di</strong><br />

Sol LeWitt alla Kunst-Werke <strong>di</strong> Berlino, per il meteorite ispira<strong>to</strong> ai volumi minimalisti <strong>di</strong> Alan<br />

Charl<strong>to</strong>n nel film 2001 O<strong>di</strong>ssea nello spazio <strong>di</strong> Stanley Kubrik, per The Table of Perfect (1989) <strong>di</strong><br />

James Lee Byars, un cubo nero e dora<strong>to</strong> che doveva rappresentare una risposta al Quadra<strong>to</strong> nero<br />

su sfondo bianco <strong>di</strong> Kasimir Malevic . Siamo sempre nell’ambi<strong>to</strong> del sacro. Ma a volte ques<strong>to</strong>, sot<strong>to</strong><br />

forma <strong>di</strong> memen<strong>to</strong> e <strong>di</strong> ogget<strong>to</strong> sacrificale, si entra anche in contat<strong>to</strong> con riven<strong>di</strong>cazioni meno<br />

metafisiche, meno legate a una fede in<strong>di</strong>viduale e più <strong>di</strong>rettamente coinvolte in senso politico. E’<br />

stata messa in luce la similitu<strong>di</strong>ne del proget<strong>to</strong>, appun<strong>to</strong> nei suoi possibili risvolti politici, con il<br />

Condensation Cube <strong>di</strong> Hans Haacke(2) e anche con Entierro <strong>di</strong> Teresa Margolles, un volume<br />

geometrico <strong>di</strong> cemen<strong>to</strong> che contiene il cadavere <strong>di</strong> un bambino e che si presenta come una<br />

denuncia nuda (2). Possiamo anche ricordare, a ques<strong>to</strong> pun<strong>to</strong>, il volume aper<strong>to</strong> ma pur sempre<br />

nero e geometrico del Viet Nam Medmorial <strong>di</strong> Maya Linn a Washing<strong>to</strong>n e quel cubo in parte<br />

scherzoso, in parte pietra <strong>to</strong>mbale, che è Le Socle du Monde colloca<strong>to</strong> a Herning in Danimarca da<br />

Piero Manzoni.<br />

La Mecca ha un aspet<strong>to</strong> originario, un modo <strong>di</strong> apparire pre-logico, un ur-aspet<strong>to</strong>; per ques<strong>to</strong><br />

appare minacciosa. E’ strano che questa caratteristica appartenga a volumi così chiaramente frut<strong>to</strong><br />

del fare umano, dal momen<strong>to</strong> che contengono angoli retti i quali, appun<strong>to</strong>, possono essere frut<strong>to</strong><br />

soltan<strong>to</strong> <strong>di</strong> un fare intelligente. Ma il nero e il grande, il senso <strong>di</strong> assolu<strong>to</strong> che promana da questi<br />

elementi sembra forse parlarci <strong>di</strong> un’intelligenza più alta della nostra e quin<strong>di</strong> anche più paurosa.<br />

Qualcosa che capisce più <strong>di</strong> noi e che vive oltre noi. Sentiamo un fia<strong>to</strong> <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong>vino, che siamo<br />

o meno credenti, ma siamo anche tentati dalla speranza, perché ciò che è geometrico ai nostri<br />

occhi è or<strong>di</strong>ne sensa<strong>to</strong> e non un caos senza telos: del res<strong>to</strong> il Dio biblico, per quan<strong>to</strong> sia<br />

ven<strong>di</strong>cativo, consente <strong>di</strong> immaginare un mondo gius<strong>to</strong>.<br />

L’ambivalenza tra paura e consolazione è uno dei centri attivi del sentimen<strong>to</strong> religioso e Schneider<br />

sembra conoscere bene ques<strong>to</strong> aspet<strong>to</strong>. Dice <strong>di</strong> essere sta<strong>to</strong> cat<strong>to</strong>lico praticante per cinque anni e<br />

<strong>di</strong> avere fat<strong>to</strong> il porta<strong>to</strong>re <strong>di</strong> bare in un cimitero. Non è dunque solamente un problema politico – il<br />

pericolo dell’Islam che si rivolta contro il mondo occidentale – che preoccupa Gregor Schneider e<br />

che muove opere come la Ka’ba progettata a Venezia successivamente realizzata sulla 59ma<br />

strada <strong>di</strong> New York e ad Amburgo vicino alla Hamburger Kunsthalle. Non è nemmeno solo un<br />

problema personale. E’ la somma delle due cose, viste da un angolo che ingloba ogni dolore del<br />

mondo nel dolore della persona e viceversa.<br />

Sta <strong>di</strong> fat<strong>to</strong> che il proget<strong>to</strong> veneziano, in quan<strong>to</strong> tale, non ha trova<strong>to</strong> mai realizzazione: invita<strong>to</strong> da<br />

Rosa Martinez alla Biennale del 2005, Schneider non riuscì a portarlo a termine per i motivi che<br />

hanno impe<strong>di</strong><strong>to</strong> anche a me, tre anni dopo, <strong>di</strong> venirgli in aiu<strong>to</strong>; gli organi citta<strong>di</strong>ni non rispondono,<br />

comprensibilmente impauriti dal messaggio che l’opera potrebbe dare a chi volesse interpretarla<br />

come un’occasione <strong>di</strong> scontro. Nel 2005 non fu possibile nemmeno spiegare il proget<strong>to</strong> e le sue<br />

vicissitu<strong>di</strong>ni sul catalogo della Biennale. Ogni sforzo della <strong>cura</strong>trice e dell’artista parvero abbattersi<br />

sul muro <strong>di</strong> una burocrazia impaurita e censoria. Non è ancora evidentemente così facile mettere<br />

una testimonianza dell’Islam <strong>di</strong> fronte a una basilica cristiana.<br />

Così anche noi, alla Bevilacqua La Masa, abbiamo dovu<strong>to</strong> chiedere a Schneider un proget<strong>to</strong><br />

alternativo. Ne è scaturi<strong>to</strong> un proget<strong>to</strong> quasi oppos<strong>to</strong>: invece <strong>di</strong> un volume che si impone e che<br />

impe<strong>di</strong>sce l’ingresso ai fedeli, l’artista ha progetta<strong>to</strong> un tunnel che si <strong>di</strong>parte dal por<strong>to</strong>ne della sala<br />

espositiva, all’angolo estremo <strong>di</strong> piazza San Marco, e che si spinge dentro al suo corridoio<br />

d’ingresso praticamente senza luce e senza appigli. Ai guar<strong>di</strong>ani è sta<strong>to</strong> chies<strong>to</strong> il sacrificio <strong>di</strong><br />

sopportare ques<strong>to</strong> sta<strong>to</strong> <strong>di</strong> cose per qualche mese.<br />

Il pieno misterioso e chiuso è <strong>di</strong>venta<strong>to</strong> un misterioso vuo<strong>to</strong>, aper<strong>to</strong>, lungo, simile a ciò che<br />

raccontano della morte coloro che ci sono passati attraverso e che, si <strong>di</strong>ce, siano riusciti a ri<strong>to</strong>rnare<br />

in<strong>di</strong>etro. Quei racconti ci parlano <strong>di</strong> un attraversamen<strong>to</strong> sereno, al cui fondo si intravede una luce<br />

che ci risucchia verso <strong>di</strong> lei.<br />

Per realizzare il proget<strong>to</strong> sono state <strong>to</strong>lte le porte <strong>di</strong> vetro au<strong>to</strong>matiche che regolavano il flusso dei<br />

visita<strong>to</strong>ri e sono state coperte le ante del por<strong>to</strong>ne <strong>di</strong> ingresso. La bocca della piazza accoglie


dunque questa seconda bocca nera, quasi un esofago in cui l’artista ha chies<strong>to</strong> che il pavimen<strong>to</strong> e i<br />

muri fossero il più possibile ricoperti <strong>di</strong> nero e insonorizzati con la speciale gomma piuma a<br />

pirami<strong>di</strong>. L’ingresso infatti , come per molte altre opere <strong>di</strong> Schneider, ma forse in ques<strong>to</strong> caso<br />

anche <strong>di</strong> più, segna un dantesco “lasciate ogni speranza voi ch’entrate”. O piut<strong>to</strong>s<strong>to</strong> l’invi<strong>to</strong> è a<br />

lasciare ogni modo abitu<strong>di</strong>nario <strong>di</strong> concepire il mondo e il nostro modo <strong>di</strong> transitarvi.<br />

Schneider sembra volerci chiedere <strong>di</strong> avere un atteggiamen<strong>to</strong> <strong>di</strong> apertura un percorso inquie<strong>to</strong>,<br />

igno<strong>to</strong>, sorprendente così come ha chies<strong>to</strong> anzitut<strong>to</strong> a se stesso, da quando (1985) ha<br />

incomincia<strong>to</strong> a trasformare la sua casa <strong>di</strong> Rheydt in una House u r , una casa-<strong>di</strong>ario dei suoi moti<br />

continui al devastare e al ricostruire: va realizzando da allora un Merzbau alla Schwitters rivisita<strong>to</strong><br />

e mol<strong>to</strong> più ra<strong>di</strong>cale, perché sovente rot<strong>to</strong> dal trasportarne alcuni pezzi lontano, in altri paesi, dove<br />

<strong>di</strong>ventano brandelli <strong>di</strong> mostre; avendo chies<strong>to</strong> a se stesso così tan<strong>to</strong>, Schneider ha poi potu<strong>to</strong><br />

chiedere a noi <strong>di</strong> entrare nella mostra collettiva “Apocalypse” (Royal Academy of London, 2000)<br />

attraversando un paesaggio opprimente, così come nella Totes Haus (2001) del Pa<strong>di</strong>glione<br />

Veneziano.<br />

Si tratta sempre <strong>di</strong> costruzioni <strong>di</strong> luoghi realizzati per farci entrare in un cer<strong>to</strong> vissu<strong>to</strong>, personale o<br />

collettivo, fat<strong>to</strong> <strong>di</strong> quel sentimen<strong>to</strong> originario (ur, in tedesco, il suffisso che accompagna il ti<strong>to</strong>lo <strong>di</strong><br />

tante sue opere) ed essenzialmente in<strong>di</strong>viso che consiste nel provare paura e nella sod<strong>di</strong>sfazione<br />

<strong>di</strong> superarla. Schneider sembra volere costruire dei luoghi per la vita: dei luoghi che siano capaci<br />

<strong>di</strong> accoglierla e <strong>di</strong> rappresentarla, <strong>di</strong>mostrando così il suo progressivo bisogno <strong>di</strong> volume. S e<br />

all’inizio della sua carriera, negli anni dell’Accademia Muenster, a Duesseldorf, ad Amburgo, aveva<br />

pre<strong>di</strong>let<strong>to</strong> la pittura, in segui<strong>to</strong> si è sposta<strong>to</strong> sulla scultura ma soprattut<strong>to</strong> sull’architettura <strong>di</strong> interni e<br />

poi <strong>di</strong> esterni. Non pare lontano il giorno in cui avrà bisogno <strong>di</strong> progettare un intero paesaggio.<br />

Si è det<strong>to</strong> “luoghi per la vita”. Ma è lui stesso a suggerci che questa è fatta anche <strong>di</strong> morte, il suo<br />

momen<strong>to</strong> ultimo: nessuno scandalo se, dunque, sta cercando <strong>di</strong> costruire anche dei luoghi in cui<br />

ospitare una persona nei suoi ultimi istanti <strong>di</strong> vita o appena morta. L’obiettivo è restituire <strong>di</strong>gnità a<br />

questi momenti, ri<strong>to</strong>rnare a considerarli appun<strong>to</strong> parte integrante dell’esistenza e non quella cosa<br />

inguardabile che deve essere espulsa il prima possibile dalla nostra sfera cosciente. Non è il solo<br />

artista ad avere pensa<strong>to</strong> a un obi<strong>to</strong>rio – si pensi all’italiano Et<strong>to</strong>re Spalletti e al suo famoso obi<strong>to</strong>rio<br />

<strong>di</strong> Garches (3). La tra<strong>di</strong>zione dell’arte funeraria è inoltre lunga e piena <strong>di</strong> questa preoccupazione,<br />

ridare <strong>di</strong>gnità ai corpi morti. Più stupefacente e forse anche allarmante, ma non <strong>di</strong>stante da una<br />

tra<strong>di</strong>zione che a livello domestico si è sempre avvertita, è l’idea <strong>di</strong> creare un luogo per chi muore,<br />

per l’at<strong>to</strong> stesso <strong>di</strong> morire – una conseguenza precisa del restringersi delle nostre case e della<br />

progressiva confusione tra la zona giorno e la zona notte, la quale ultima tende a perdere intimità e<br />

a essere connotata più da allusioni al sesso che non al sonno ed eventualmente alla malattia (4).<br />

Certamente Schneider è colui che è arriva<strong>to</strong> con più coerenza a pensare tutte le circostanze e i<br />

luoghi fisici in cui si profila la morte, come se la partita a scacchi che Ingmar Bergman si è<br />

inventa<strong>to</strong> tra lei e un nobile cavaliere non abbia inizio e sia sempre, costantemente parte del nostro<br />

esistere, proprio dal suo principio. Pensiamo ai maggiori progetti realizzati da Schneider: la già<br />

citata costruzione della sua casa House u r nella città natale <strong>di</strong> Rheydt (dal 1985, proget<strong>to</strong> in<br />

progress); la costruzione delle “camere morte” completamente isolate in termini acustici e visivi a<br />

Giesenkirchen (1989-1991); la costruzione <strong>di</strong> un’opera sconosciuta <strong>di</strong> Garzweiler, il quale è in<br />

corso <strong>di</strong> irrevocabile sparizione (1990-91); la costruzione a Rheydt <strong>di</strong> una stanza per gli ospiti<br />

completamente isolata dal pun<strong>to</strong> <strong>di</strong> vista acustico e visivo (1995); la costruzione <strong>di</strong> Die familie<br />

Schneider presso Artangel <strong>di</strong> Londra, un percorso simmetrico in cui il visita<strong>to</strong>re perdeva<br />

l’orientamen<strong>to</strong> destra-sinistra a causa del raddoppiamen<strong>to</strong> dell’opera in due percorsi identici<br />

(parzialmente ricostrui<strong>to</strong> ora al Macro <strong>di</strong> Roma). E ancora la mostra Doubling <strong>to</strong>rna su ques<strong>to</strong><br />

tema come se il raddoppio <strong>di</strong> cui si parla fosse quello tra una vita da vivi e una vita da morti (5).<br />

Potremmo dunque pensare il tubo nero <strong>di</strong> Piazza san Marco come un momen<strong>to</strong> <strong>di</strong> passaggio tra le<br />

tensioni politiche derivanti dall’attenta<strong>to</strong> del 11/9/2001 e l’attenzione etica per i luoghi della morte.<br />

Nel segno appun<strong>to</strong> <strong>di</strong> una s<strong>to</strong>ria dell’arte in cui la casa, la guerra, la morte, sono sempre state<br />

presenti come gran<strong>di</strong> protagoniste; in cui, ancora, <strong>di</strong>stinguere tra politica ed etica è sempre sta<strong>to</strong><br />

azzarda<strong>to</strong>; e in cui, infine, il coraggio <strong>di</strong> essere espliciti ha sempre contrassegna<strong>to</strong> il grande artista,<br />

siamo lieti <strong>di</strong> accogliere l’ennesima non-realizzazione della Ka’ba veneziana, sapendo che ques<strong>to</strong><br />

apre le porte a un nuovo e ine<strong>di</strong><strong>to</strong> passo del cammino <strong>di</strong> Schneider nel suo itinerario creativo e<br />

verso una verità che, esausta <strong>di</strong> specialismi, cerca <strong>di</strong> coinvolgere tutti noi.


(1) Gregor Schneider, Cubes, Art in the Age of global terrorism, Charta, Milano 2006<br />

(2) Ivi, pag. 7-13: The Black Dice: On 59th Street, Conversation between Jenny Schlenzka e Klaus<br />

Biesenbach<br />

(3) Cfr. <strong>Angela</strong> <strong>Vettese</strong>, “Art in Hospitals”, in: Floran Matzner, a <strong>cura</strong> <strong>di</strong>, Public Art, Hatje Cantz, 2001 pag.<br />

474-489<br />

(4) Cfr. Le <strong>di</strong>chiarazioni dell’artista a Philip Oltermann a “The Guar<strong>di</strong>an” dopo una polemica scatenata da<br />

Garret Harris <strong>di</strong> “The Art Newspaper” su <strong>di</strong> una sua presunta tendenza allo scandalismo necrofilo: “For<br />

years, I have a dreamt of a room in which people can <strong>di</strong>e in peace. It´s a simple room: flooded with light, with<br />

a wooden floor. The room is a copy of a room I once saw at the Museum Haus Lange - Haus Esters in<br />

Krefeld, Germany - a marvellous piece of simple, classically modern architecture that concentrates on the<br />

basics. I have recreated this room - as an artist, that is what I do - and at the moment, it is stan<strong>di</strong>ng right here<br />

in my stu<strong>di</strong>o. Any minute it could be uninstalled, put on a plane and reinstalled anywhere across the world,<br />

for someone who has approached the end of their days and wants <strong>to</strong> <strong>di</strong>e in a humane and harmonious<br />

environment. I'm not a naive person, but I don´t think there is anything wrong about this dream - I think it´s<br />

quite innocent. So it has been rather of a shock for me that for the last week I have been receiving a number<br />

of death threats over the phone and via email, one suggesting that he wanted <strong>to</strong> "help <strong>to</strong> have me killed".<br />

(5) La mostra personale <strong>di</strong> Gregor Schneider Doubling al museo Franz Gertsch in Burgdorf, Svizzera, 18<br />

aprile/ 15 giugno 2008

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!