STORIA CULTURALE DELLA MUSICA AMERICANA - Paola Carbone

STORIA CULTURALE DELLA MUSICA AMERICANA - Paola Carbone STORIA CULTURALE DELLA MUSICA AMERICANA - Paola Carbone

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126 Emblema politico del free jazz fu il sassofonista Archie Shepp, in prima linea sul fronte della nuova musica, soprattutto per quanto riguarda il lato più militante dell’avanguardia, ossia quello legato esplicitamente alle rivendicazioni del popolo afro-americano. Il suono del suo sassofono, forte, vibrante, aggressivo sapeva esprimere il rifiuto di qualsiasi atteggiamento passivo, di sopportazione e vittimismo nei confronti dell’ingiusta discriminazione cui i neri erano ancora sottoposti in America. Archie Shepp si presentava spesso con vistosi abiti di foggia africana: gesto provocatorio che sottolinea, anche visivamente, un tema ricorrente in quegli anni, ovvero la manifestazione di un’ appartenenza contro l’ipocrisia di una falsa integrazione in terra americana. Tema che sarà evocato in particolare da un gruppo di musicisti di eccezionale versatilità e, cosa nuova nel jazz moderno, di spiccata vocazione spettacolare. Si tratta dell’ “Art Ensemble of Chicago”, che raggruppò artisti provenienti da una città, Chicago appunto, che in quegli anni rinacque come centro propulsivo di molte nuove proposte musicali. La band mise in scena una sorta di teatro di strada, con costumi africani, volti pitturati e una gestualità accentuata. La musica rilaciava una dimensione tribale dove l’immagine dell’ “Uncle Tom” ( il nero sorridente e sottomesso) era rovesciata in una minacciosa e fiera maschera che chiedeva uguaglianza e giustizia. Per alcuni anni la band fu una sorta di teatro permanente della rivoluzione culturale , ottenendo un grande successo anche in Europa. Alla fine degli anni ’70 provò a formare una propria etichetta discografica – la “Aeco” – confermando un’autonomia, sogno irrealizzato di tanti musicisti, coerente con il radicale senso di libertà culturale espresso dalla musica. Vorrei concludere la parte dedicata al free jazz con il nome di Cecil Taylor, pianista con una formazione classica, che ha perseguito un suo stile musicale senza lasciarsi distrarre dagli avvenimenti musicali circostanti. Inizia verso la metà degli anni ’50 come geniale adattatore di melodie e sequenze tratte da canzoni popolari ma a poco a poco si allontana dalla dipendenza dall’armonia tonale e dagli schemi ritmici, attingendo le proprie idee da una vasta gamma di musiche, sia classiche che popolari. Ha dichiarato: “ Non ho paura degli influssi europei. Il punto

127 è usarli – come ha fatto Ellington – come parte della mia vita di nero americano”. Tutti i frammenti del pensiero musicale – che spaziano da Brahms, Stravinskji, Bartok, Mahler, a Ellington, Parker, Monk e tanti altri ancora – si ricompongono in un discorso immenso che trasforma il piano in un’inarrestabile macchina sonora. La critica ha sostenuto che l’equivalente nella musica classica che più si avvicina allo stile di Taylor si trova in certi passaggi delle sinfonie di Charles Ives dove frammenti di varie opere si ricompongono con un’energia incredibile secondo disegni del tutto estranei alla pratica ritmica o armonica tradizionale. Con il suo complesso – “ Cecil Taylor Unit” – registrò Unit Structures (1966), la prima realizzazione completa del suo stile maturo, generalmente classificato, come Free Jazz di Coleman, un monumento del jazz d’avanguardia. Ad un primo ascolto, la sua musica di Cecil Taylor può dare l’impressione di essere particolarmente caotica, estranea a qualunque stile jazzistico noto e forse anche indistinguibile nella sua sonorità da certa musica classica contemporanea. Le incisioni di Taylor sono sicuramente tra le più “difficili” del periodo e questo le ha rese indigeste se non inascoltabili, perfino sospettate di essere un bluff – destino questo accaduto a molti altri esecutori di free jazz come ad esempio Sun Ra, a seconda dei casi considerato un genio oppure un buffone – . Superato però l’ostacolo dell’ascolto di un lessico musicale dissonante e asimmetrico, ma molto rigoroso, si può seguire lo sviluppo delle linee individuali e degli assoli improvvisati: e questo rientra nella logica musicale che ha da sempre caratterizzato le migliori esecuzioni del jazz. Sin dalle sue più lontane origini, il jazz è stata una forma d’arte dinamica ed evolutiva, che ha progredito attraverso una continua serie di modifiche stilistiche fino agli anni ‘70: l’interesse verso i repertori e gli stili precedenti è sempre stato molto scarso e i musicisti che non si adattavano rapidamente erano destinati a ripetere se stessi e in definitiva a scomparire. Da un certo punto in poi, invece, il jazz, per delle ragioni che cercheremo di ipotizzare o eventualmente chiarire, ha cominciato a ripiegarsi su se stesso. Come è accaduto per la musica classica nel corso del XX secolo, il jazz ha cominciato a coesistere e a competere con il proprio passato. Dopo aver raggiunto un livello stilistico molto elevato

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Emblema politico del free jazz fu il sassofonista Archie Shepp, in prima<br />

linea sul fronte della nuova musica, soprattutto per quanto riguarda il lato<br />

più militante dell’avanguardia, ossia quello legato esplicitamente alle<br />

rivendicazioni del popolo afro-americano. Il suono del suo sassofono,<br />

forte, vibrante, aggressivo sapeva esprimere il rifiuto di qualsiasi<br />

atteggiamento passivo, di sopportazione e vittimismo nei confronti<br />

dell’ingiusta discriminazione cui i neri erano ancora sottoposti in America.<br />

Archie Shepp si presentava spesso con vistosi abiti di foggia africana:<br />

gesto provocatorio che sottolinea, anche visivamente, un tema ricorrente in<br />

quegli anni, ovvero la manifestazione di un’ appartenenza contro<br />

l’ipocrisia di una falsa integrazione in terra americana. Tema che sarà<br />

evocato in particolare da un gruppo di musicisti di eccezionale versatilità<br />

e, cosa nuova nel jazz moderno, di spiccata vocazione spettacolare. Si<br />

tratta dell’ “Art Ensemble of Chicago”, che raggruppò artisti provenienti<br />

da una città, Chicago appunto, che in quegli anni rinacque come centro<br />

propulsivo di molte nuove proposte musicali. La band mise in scena una<br />

sorta di teatro di strada, con costumi africani, volti pitturati e una gestualità<br />

accentuata. La musica rilaciava una dimensione tribale dove l’immagine<br />

dell’ “Uncle Tom” ( il nero sorridente e sottomesso) era rovesciata in una<br />

minacciosa e fiera maschera che chiedeva uguaglianza e giustizia.<br />

Per alcuni anni la band fu una sorta di teatro permanente della<br />

rivoluzione culturale , ottenendo un grande successo anche in Europa. Alla<br />

fine degli anni ’70 provò a formare una propria etichetta discografica – la<br />

“Aeco” – confermando un’autonomia, sogno irrealizzato di tanti<br />

musicisti, coerente con il radicale senso di libertà culturale espresso dalla<br />

musica.<br />

Vorrei concludere la parte dedicata al free jazz con il nome di Cecil<br />

Taylor, pianista con una formazione classica, che ha perseguito un suo<br />

stile musicale senza lasciarsi distrarre dagli avvenimenti musicali<br />

circostanti. Inizia verso la metà degli anni ’50 come geniale adattatore di<br />

melodie e sequenze tratte da canzoni popolari ma a poco a poco si<br />

allontana dalla dipendenza dall’armonia tonale e dagli schemi ritmici,<br />

attingendo le proprie idee da una vasta gamma di musiche, sia classiche<br />

che popolari. Ha dichiarato: “ Non ho paura degli influssi europei. Il punto

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