8 la <strong>Biblioteca</strong> <strong>di</strong> <strong>via</strong> <strong>Senato</strong> Milano – <strong>marzo</strong> 2010
<strong>marzo</strong> 2010 – la <strong>Biblioteca</strong> <strong>di</strong> <strong>via</strong> <strong>Senato</strong> Milano 9 tandone un’impressione benevola dovuta a come gli era stato <strong>di</strong>agnosticato e curato il cancro che l’avrebbe ucciso, più che a una vera simpatia politica. “Arcitaliano”, abbiamo detto, ovvero esemplare ipertrofico dei vizi e delle virtù nazionali. Nato Suckert, da padre tedesco, anche per questo Malaparte si sforzò – riuscendoci - <strong>di</strong> essere più italiano degli italiani. Nell’agosto del 1953 spiegò al giovane scrittore Nantas Salvalaggio certi aspetti negativi del proprio carattere dovuti a «quel mio puritanismo nor<strong>di</strong>co, protestante, che è sempre stata la forza, e la debolezza estrema, della mia vita, che mi ha fatto sbagliar tutto, tutti i miei atteggiamenti privati e pubblici, poiché‚ quando si ha il complesso nor<strong>di</strong>co protestante puritano, e si appartiene a un paese latino, e bracalone, e facile in fatto <strong>di</strong> scrupoli etc. si sbaglia tutto, e si crede <strong>di</strong> fare un elogio, ed è un insulto, <strong>di</strong> essere furbi, e si è stupi<strong>di</strong> e ingenui etc. etc.». Educato - come Gabriele d’Annunzio, al collegio Cicognini <strong>di</strong> Prato - a una vita or<strong>di</strong>nata e impeccabile, gli fece comodo credere che gli italiani si comportino sempre in modo anarchico e <strong>di</strong>ventare un arcitaliano inaccettabile al giu<strong>di</strong>zio degli stessi italiani. Una volta <strong>di</strong>sse all’amico Armando Meoni: «M’hanno creato questa fama d’avventuriero. Che motivo ci sarebbe <strong>di</strong> non profittarne Tutte le sere, prima <strong>di</strong> coricarmi, su questa fama ci fo’ pipì, che la mattina possa ritrovarla più rigogliosa». Ma una verità più cruda, e che non gli è stata mai perdonata, la <strong>di</strong>sse in un’intervista al Tempo del luglio ’55: «Penso che se fossi vissuto in una società più virile e in mezzo a un popolo più virile sarei forse potuto <strong>di</strong>ventare un uomo nel vero significato della parola. Ma se dovessi definirmi con una sola parola <strong>di</strong>rei che, nonostante tutto, sono un uomo». In punto <strong>di</strong> morte, bisbigliò alla sorella Maria: «Di’ a tutti che Curzio Malaparte non è morto». Fu una frase attribuita al delirio. Mezzo secolo dopo, con Kaputt e La pelle, Malaparte è ancora uno dei pochissimi scrittori italiani tradotti e letti - vivi - in tutto il mondo.