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LA LOCOMOTIVA BREDA 830 DEL 1906 - Fondazione ISEC

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SILVIA EDITRICE<br />

<strong>LA</strong><br />

<strong>LOCOMOTIVA</strong><br />

<strong>BREDA</strong> <strong>830</strong><br />

<strong>DEL</strong> <strong>1906</strong><br />

Lavoro, tecnica e comunicazione


Città di<br />

Sesto San Giovanni<br />

<strong>LA</strong><br />

<strong>LOCOMOTIVA</strong><br />

<strong>BREDA</strong> <strong>830</strong><br />

<strong>DEL</strong> <strong>1906</strong><br />

Lavoro, tecnica e comunicazione<br />

a cura di<br />

Alberto Bassi e Raimonda Riccini<br />

1


E alla distanza<br />

di cent’anni resuscita<br />

“E alla distanza di cent’anni resuscita”, canta il<br />

cubano Silvio Rodriguez e noi possiamo riprendere<br />

e adattare queste parole alla locomotiva Breda <strong>830</strong><br />

che uscì trionfale dalle porte della fabbrica nel<br />

<strong>1906</strong> e che in questi giorni di giugno, proprio a<br />

cento anni di distanza, rinasce e ripercorre le vie di<br />

Milano e di Sesto San Giovanni per andare a<br />

occupare il suo posto definitivo, sotto il carro<br />

ponte, anche lui recuperato alla città e ai suoi<br />

abitanti. Quando Ernesto Breda acquisì l’Elvetica e<br />

la trasformò nella sua azienda, aveva un primo<br />

obiettivo fondamentale: specializzare la produzione<br />

nella costruzione di locomotive e di materiale<br />

ferroviario. L’unità d’Italia era unione dei mercati e<br />

delle genti e dunque le ferrovie dovevano avere un<br />

ruolo fondamentale nel “fare gli italiani”, dopo che<br />

era stata fatta l’Italia. Lo sappiamo bene noi a<br />

Sesto San Giovanni, perché lo straordinario<br />

sviluppo di quello che era solo un borgo agricolo<br />

fu possibile soprattutto grazie alla scelta che era<br />

stata fatta qualche decennio prima di far passare<br />

sul nostro territorio la ferrovia Milano Centro<br />

Giorgio Oldrini<br />

Sindaco di Sesto San Giovanni<br />

Europa. Anche per la presenza di quei binari<br />

Ernesto Breda decise di spostare qui la sua<br />

fabbrica, ormai troppo stretta a Milano. La <strong>830</strong> fu<br />

allora uno dei gioielli di una produzione che fu<br />

sempre tecnologicamente raffinata. La nostra<br />

locomotiva ha percorso tutti i chilometri che ha<br />

potuto, ha trainato tutte le carrozze che le sono<br />

state agganciate, poi è stata lasciata a deperire<br />

lontano da Sesto. Ma un gruppo di amatori,<br />

soprattutto ex lavoratori della fabbrica ora in<br />

pensione, ha saputo recuperarla, l’ha riportata a<br />

casa sua, nei capannoni della Camozzi che della<br />

Breda è l’erede, e ha lavorato per mesi e mesi in<br />

un restauro amorevole e appassionato. Così, grazie<br />

alla Camozzi che ha ospitato l’operazione di<br />

recupero, e ai pensionati della Breda, oggi, alla<br />

distanza di cento anni, la mitica <strong>830</strong> risuscita e,<br />

almeno per un giorno, ripercorre le vie di Milano e<br />

di Sesto San Giovanni. E da adesso si offre agli<br />

sguardi curiosi di chi vorrà andare ad ammirare<br />

uno dei gioielli della tecnologia e dell’estetica<br />

prodotti sul nostro territorio.<br />

3


4<br />

progetto grafico e impaginazione Magutdesign<br />

redazione Fiorella Bulegato<br />

prestampa Fotolito Milanese<br />

stampa Arti Grafiche Torri<br />

© 2006 <strong>Fondazione</strong> <strong>ISEC</strong><br />

(Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea)<br />

Sesto San Giovanni (MI)<br />

www.fondazioneisec.it<br />

Presidente Gianni Cervetti<br />

Direttore scientifico Luigi Ganapini<br />

Con il sostegno<br />

Comune di Sesto San Giovanni (MI)<br />

MIL Museo dell’industria e del lavoro, Sesto San Giovanni (MI)<br />

Si ringraziano<br />

Ansaldo-Camozzi, Giuseppe Bruscella, Monica Chittò,<br />

Massimo D’Elia, Corrado Ferulli, Stefano Mazzoni,<br />

Alessandra Rapetti, Patrizia Ricciardi, Rodolfo Spadaro,<br />

Sonia Tunez, Giuseppe Vignati, Carlo Vimercati,<br />

Claudia Zonca<br />

Colophon<br />

Fotografie di copertina e dei restauri della locomotiva<br />

Federico Pollini<br />

(eccetto la foto di pagina 125 in basso a sx di Corrado Ferulli).<br />

La foto di pagina 17 è tratta da Andrea Silvestri e Anna<br />

Galbani (a cura di), Foto di gruppo 1865-1939, Politecnico di<br />

Milano, Milano 2005; tutte le altre fotografie e i documenti<br />

pubblicati in questo volume sono conservati presso l’Archivio<br />

storico Breda - <strong>Fondazione</strong> Isec, Istituto per la storia dell’età<br />

contemporanea.<br />

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa<br />

in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico<br />

o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e<br />

dell’editore.<br />

© 2006 Silvia Editrice srl<br />

Cologno Monzese (MI) via Mozart 45<br />

tel. 02 2545059 - fax 02 2532809<br />

silviaed@tin.it<br />

www.silviaeditrice.it<br />

ISBN 88-88250-51-4


Prefazione<br />

Luigi Ganapini<br />

Direttore scientifico <strong>Fondazione</strong> <strong>ISEC</strong><br />

Questo volume, edito in collaborazione con il<br />

Comune di Sesto San Giovanni, è il primo passo<br />

di un progetto volto a ricostruire attorno a<br />

prodotti dell’industria il complesso delle relazioni<br />

lavorative, progettuali e sociali che ne hanno<br />

permesso la realizzazione.<br />

La <strong>Fondazione</strong> Istituto per la storia dell’età<br />

contemporanea ha recepito questo programma<br />

(proposto tra l’altro proprio da coloro che ne<br />

hanno avviato e che ne firmano la prima<br />

realizzazione) come parte integrante delle sue<br />

iniziative di studio e di ricerca. Storia dei<br />

lavoratori, storia dell’impresa, storia della società<br />

sono destinate a connettersi in queste<br />

ricostruzioni per darci il pieno significato degli<br />

oggetti studiati e così ricollocati nel loro contesto<br />

più ampio. E per darci anche il senso di una<br />

storia industriale che ha segnato, come il<br />

territorio di Sesto San Giovanni, la storia<br />

dell’intera Europa negli ultimi due secoli.<br />

5


La locomotiva<br />

Breda <strong>830</strong> del <strong>1906</strong><br />

Alberto Bassi e Raimonda Riccini<br />

7


8<br />

Libretto della caldaia per<br />

locomotiva Breda, costruita<br />

nel 1905 (anni cinquanta)


Il territorio di Sesto San Giovanni rappresenta,<br />

come è noto, un caso esemplare della storia<br />

dell’industrializzazione italiana e, allo stesso<br />

tempo, un momento sintomatico e vitale delle<br />

trasformazioni in atto nel sistema produttivo,<br />

sociale e culturale del nostro paese. Il patrimonio<br />

di memoria che il Novecento reca con sé nel<br />

territorio sestese può diventare laboratorio di idee<br />

e di riflessione, di cultura e di proposta.<br />

Per far questo è fondamentale conoscere meglio<br />

il tessuto industriale e produttivo di quest’area,<br />

fra i più significativi e importanti, e renderlo noto<br />

attraverso strumenti di lettura che possano<br />

arrivare a un pubblico sempre più ampio.<br />

In questo quadro si inserisce la proposta di una<br />

serie di iniziative di studio e di ricerca con la<br />

finalità di dar vita a una collana di piccoli volumi<br />

su singoli “oggetti” dell’industria di Sesto e<br />

dintorni. Si tratta, in altre parole, di sviluppare<br />

una serie di ricerche su prodotti dell’industria del<br />

Novecento a partire da quelli delle aziende<br />

sestesi, per poi allargare il raggio d’azione a uno<br />

spaccato territoriale più esteso. Ogni ricerca dà<br />

luogo a un volume, che va a costruire, a lungo<br />

andare, una vera e propria collana.<br />

I prodotti sono scelti in base alla loro importanza<br />

e al loro significato e diventano il fuoco attorno al<br />

quale si sviluppano letture da punti di vista diversi<br />

(storia d’impresa, storia della cultura e della<br />

comunicazione, storia del lavoro e della tecnica,<br />

storia dell’arte ecc.). Il risultato è uno spaccato,<br />

articolato e preciso, non solo del prodotto, ma<br />

anche dell’azienda, del contesto, della cultura che<br />

attorno a quell’oggetto si sono sviluppati. Alla<br />

fine, ne emergerà una vera e propria topografia<br />

delle aziende, del lavoro e dei prodotti del<br />

territorio, una carta d’identità inedita della storia<br />

di un’area.<br />

Il soggetto scelto per inaugurare la serie di volumi<br />

è la locomotiva Breda <strong>830</strong> del <strong>1906</strong>. Molteplici<br />

sono le ragioni: il primo riferimento immediato è<br />

la coincidenza con i cento anni dalla produzione,<br />

che corrisponde anche con il centenario della<br />

grande Esposizione internazionale del Sempione<br />

tenutasi a Milano proprio nel <strong>1906</strong>.<br />

In realtà le motivazioni storiche sono più<br />

profonde. Attraverso la locomotiva tornano sulla<br />

scena dell’area metropolitana la vita e i prodotti<br />

di una grande fabbrica metalmeccanica, che ha<br />

segnato con le sue vicende un intero territorio.<br />

9


10<br />

Pagine interne del libretto<br />

della caldaia per locomotiva


Attraverso questo speciale prodotto, concepito<br />

come un simbolo dell’attività lavorativa,<br />

riemergono le maestranze e gli imprenditori, i<br />

progettisti e i disegnatori. Attraverso questa icona<br />

riaffiora anche il contesto sociale, storico e<br />

culturale che la locomotiva “mette in moto”.<br />

Un ulteriore elemento infine: la pubblicazione di<br />

questo volume sul loco-tender Breda <strong>830</strong> trae<br />

occasione e coincide con il restauro di un<br />

esemplare originale di questo modello.<br />

Ripristinato nei suoi caratteri principali, sarà<br />

collocato nell’area del costituendo Museo<br />

dell’industria e del lavoro (Mil) di Sesto San<br />

Giovanni.<br />

Il libro consta di tre parti: la prima cerca di<br />

ricostruire l’ambito professionale e tecnologico<br />

dello sviluppo della locomotiva, la progettazione<br />

dei treni, l’immagine grafica e fotografica degli<br />

anni a cavallo fra Otto e Novecento alla Breda.<br />

La seconda ci mostra gli aspetti culturali e sociali<br />

suscitati dalla locomotiva – vera icona della<br />

modernità – attraverso lo sguardo di cineasti,<br />

artisti, fotografi e letterati. Infine, questa<br />

pubblicazione documenta il restauro della<br />

locomotiva <strong>830</strong> anche mediante una campagna<br />

fotografica ad hoc, e ha l’importante funzione di<br />

mettere nel giusto rilievo i materiali dell’Archivio<br />

storico Breda, conservati presso la <strong>Fondazione</strong><br />

Isec, con i quali il volume è illustrato.<br />

11


12<br />

Ernesto Breda e i suoi<br />

collaboratori in una foto<br />

ricordo per la consegna di<br />

un lotto di locomotive alle<br />

ferrovie rumene, 1892<br />

Pagine seguenti:<br />

disegno tecnico per<br />

una locomotiva Breda del<br />

gruppo 981<br />

<strong>LA</strong> STORIA<br />

Dalla meccanica generale<br />

alla specializzazione:<br />

Breda 1886-1908<br />

Giorgio Bigatti


La conquista del mercato<br />

Analizzando l’andamento della produzione<br />

nazionale di locomotive tra l’Unità e lo scoppio<br />

della prima guerra mondiale si può concluderne<br />

che, malgrado l’evidente ritardo iniziale, scelte di<br />

politica doganale non sempre coerenti, una scarsa<br />

dotazione di risorse di base e i ricorrenti problemi<br />

del settore siderurgico, l’Italia riuscì comunque a<br />

dotarsi in tempi relativamente brevi di una solida<br />

struttura industriale. Lo conferma il fatto che la<br />

percentuale della produzione nazionale di<br />

locomotive sul totale delle commesse sia passata<br />

dal 18 per cento del periodo 1861- 84 al 77 per<br />

cento degli anni 1905-151 .<br />

totale locomotive % produzione<br />

consegnate nazionale<br />

1861-1884 1296 18<br />

1885-1905 1264 66<br />

1905-1914 2748 77<br />

La progressiva conquista del mercato interno –<br />

un mercato nel frattempo dilatatosi in seguito<br />

all’estensione della rete ferroviaria e, a partire<br />

dalla fine del secolo, all’aumento dei volumi di<br />

traffico –, pur favorita da agevolazioni di varia<br />

natura per le produzioni nazionali, rifletteva il<br />

deciso irrobustimento delle strutture aziendali<br />

operanti nel settore2 . Stabilimenti più grandi e<br />

attrezzati furono in grado di cogliere le<br />

opportunità offerte da una domanda interna in<br />

aumento e a condizioni di particolare favore.<br />

Viste le condizioni di partenza non era un<br />

risultato da poco.<br />

Nei primi decenni postunitari la domanda di<br />

locomotive e materiale ferroviario si era infatti<br />

scontrata con le rigidità e la debolezza strutturale<br />

dell’offerta.<br />

I produttori, ristretti a pochi “colossali<br />

stabilimenti” come le officine Ansaldo di<br />

Sampierdarena e quelle di Pietrarsa, nel<br />

napoletano, e a un gruppo di modesti comprimari,<br />

fra i quali la ditta Cerimedo e C. di Milano,<br />

ritenevano fosse l’irregolarità delle commesse da<br />

parte delle società ferroviarie a impedire una<br />

maggiore specializzazione, scoraggiando gli<br />

investimenti in macchinari e impianti che pure<br />

sarebbero stati necessari. Come aveva rilevato<br />

l’ingegner Felice Giordani nel 1865, senza<br />

“commesse di lavoro di una entità proporzionata<br />

all’importanza ed al costo degli stabilimenti che<br />

devono fornirlo, regolari quanto possibile ed a<br />

prezzi rimuneratori” era difficile trovare<br />

imprenditori disposti a rischiare capitali nelle<br />

industrie di cui pure si avvertiva l’urgenza<br />

volendo far seguire all’indipendenza politica della<br />

nazione quella economica3 . Dal canto loro, le<br />

società ferroviarie, oltre all’inferiorità tecnica dei<br />

Giorgio Bigatti<br />

è docente di storia<br />

economica all’Università<br />

Bocconi di Milano<br />

13


16<br />

produttori nazionali, lamentavano la loro<br />

incapacità a far fronte ai picchi della domanda. Un<br />

impasse che lasciava spazio ai più attrezzati<br />

concorrenti esteri, che controllavano circa l’80 per<br />

cento del mercato delle locomotive.<br />

In questo scenario, negli anni ottanta, intervennero<br />

due fatti nuovi: un significativo mutamento di<br />

indirizzo da parte dell’amministrazione statale<br />

nell’ambito di una politica di più aperto sostegno ai<br />

produttori nazionali e la comparsa di un<br />

imprenditore di razza come l’ingegnere padovano<br />

Ernesto Breda (1852-1918).<br />

Scommettere sul futuro<br />

Profondo conoscitore dei problemi tecnicoorganizzativi<br />

delle ferrovie grazie a ripetuti viaggi<br />

di studio all’estero e all’impiego presso la Società<br />

veneta per imprese e costruzioni pubbliche,<br />

diretta dal cugino Vincenzo Stefano, Ernesto<br />

Breda attorno alla metà degli anni ottanta decise<br />

di dare vita a una nuova iniziativa nel settore delle<br />

costruzioni meccaniche. Con il sostegno<br />

finanziario della Banca Generale e dell’influente<br />

cugino, impegnato in quegli stessi anni nella<br />

costruzione della grande acciaieria di Terni, Breda<br />

rilevò la ditta Cerimedo e C., una delle più<br />

antiche imprese meccaniche milanesi,<br />

generalmente conosciuta con il nome di Elvetica4 .<br />

Fondata nel 1846, da un gruppo di aristocratici e<br />

uomini d’affari, tra i quali spiccava Enrico Mylius,<br />

l’impresa, come attestavano i frequenti mutamenti<br />

della gerenza, non aveva avuto vita facile.<br />

Malgrado le dimensioni ne facessero con i suoi<br />

oltre 300 operai uno dei maggiori stabilimenti della<br />

città, la varietà delle sue produzioni indicava<br />

chiaramente che si trattava ancora di una grande<br />

“bottega artigiana”. Vi si faceva di tutto un po’,<br />

inseguendo affannosamente le più diverse<br />

occasioni per garantirsi una continuità di lavoro.<br />

Come aveva dichiarato nel 1872 uno dei primi<br />

gerenti, Eugenio Bauer, ai commissari dell’inchiesta<br />

industriale, “la nostra industria varia da un anno<br />

all’altro: siamo ciabattini, oggi facciamo una cosa,<br />

domani un’altra” 5 .<br />

Al momento dell’ingresso di Breda all’Elvetica si<br />

produceva “promiscuamente ogni genere di<br />

costruzioni meccaniche: ponti e tettoie; macchine a<br />

vapore fisse e locomobili; impianti idrovori e<br />

turbine; carri ferroviari e trebbiatrici, materiale fisso<br />

per strade ferrate e caldaie” 6 . Ma l’ingegnere<br />

padovano aveva in mente un progetto diverso,<br />

come si legge nella memoria presentata nel 1893<br />

al concorso per il premio Brambilla: “Nell’assumere<br />

questo stabilimento avemmo in animo di<br />

trasformarlo in maniera da dedicarlo alla esclusiva<br />

costruzione di locomotive” 7 . Il momento sembrava<br />

favorevole a una svolta, come attestavano, da un<br />

lato, il forte impegno dello Stato a favore della


Laureandi ingegneri e<br />

architetti del 1898, anno di<br />

laurea di Guido Sagramoso,<br />

al Politecnico di Milano<br />

17


18<br />

Ernesto Breda e i suoi<br />

collaboratori, gli ingegneri<br />

Bonfà, Gavazzi, Sagramoso,<br />

Cerimedo, Cappa, Breda<br />

stesso, Pasqualetti,<br />

Monacelli, Scappini<br />

siderurgia, dall’altro il riassetto della rete ferroviaria,<br />

data in concessione a due grandi società, una<br />

scelta che faceva sperare in una forte ripresa delle<br />

ordinazioni di materiale mobile e di locomotive,<br />

una produzione, quest’ultima, nella quale la<br />

Cerimedo vantava qualche positiva esperienza.<br />

La scelta a favore della costruzione di materiale<br />

ferroviario non ammetteva alternative alla<br />

specializzazione e alla grande dimensione. Secondo<br />

un profondo conoscitore dei problemi dell’industria<br />

meccanica come l’ingegner Giuseppe Colombo per<br />

produrre locomotive a condizioni economicamente<br />

compatibili con la concorrenza occorreva “farne<br />

almeno una cinquantina all’anno, e avere un’officina<br />

montata e corredata di macchine nel modo più<br />

perfetto, esclusivamente per questo lavoro” 8 .<br />

Consapevole che la specializzazione e<br />

l’innovazione erano i capisaldi di una strategia volta


a ridurre i costi attraverso l’aumento della<br />

produttività, l’ingegnere padovano si impegnò<br />

senza indugi in una radicale ristrutturazione del<br />

profilo tecnico e organizzativo degli impianti<br />

dell’Elvetica, un compito che lo avrebbe impegnato<br />

per diversi anni assorbendo rilevanti risorse<br />

finanziarie, per il cui reperimento Breda avrebbe<br />

trovato nella Banca commerciale italiana un<br />

interlocutore prezioso. Nel 1895 l’ingegnere poteva<br />

dire con legittima soddisfazione: “di ciò che<br />

abbiamo allora rilevato non esistono ora quasi le<br />

tracce. Il macchinario specialmente fu tutto<br />

sostituito” 9 .<br />

“Produrre rapidamente<br />

e a buon mercato”<br />

L’acquisto di nuove macchine utensili (torni a<br />

torretta girevole, alesatrici, fresatrici) era la<br />

premessa per una riorganizzazione del lavoro<br />

fondata su un’attenta scomposizione delle diverse<br />

fasi del processo produttivo, la specializzazione<br />

delle mansioni e il superamento del vecchio<br />

modello di officina sottratto al controllo della<br />

direzione dello stabilimento e affidato ai<br />

capifabbrica, che sovrintendevano ai diversi reparti<br />

come altrettanti feudi indipendenti10 . Un “sistema<br />

razionale [...] assai semplice in se stesso” ma la cui<br />

introduzione avrebbe richiesto tempo e “molte<br />

fatiche” a Breda e ai suoi più stretti collaboratori<br />

perché alla fine avrebbe sovvertito le gerarchie di<br />

fabbrica a favore della direzione aziendale.<br />

Lo stabilimento venne organizzato per reparti la cui<br />

successione rifletteva la progressione del lavoro: dai<br />

reparti di forgia e della fonderia i semilavorati<br />

grezzi passavano nell’officina, dove i singoli pezzi<br />

venivano rifiniti e portati alla forma e misura<br />

necessari alla messa in opera, o direttamente nel<br />

reparto di costruzione delle caldaie, per passare poi<br />

alle fasi di aggiustaggio e rifinitura, dove a colpi di<br />

lima e martello si provvedeva al montaggio delle<br />

varie parti della locomotiva: “nel reparto del<br />

montaggio tutte le varie parti che hanno ricevuto<br />

le necessarie lavorazioni separatamente, vengono<br />

collegate assieme, incominciando dall’intelaiatura<br />

della locomotiva, fino alla montatura su di essa<br />

della caldaja, e di tutti i meccanismi, dimodoché ne<br />

esce la locomotiva completa, ed in pieno assetto di<br />

funzionamento. Speciali operaj, d’altra parte,<br />

hanno già preventivamente preparato il lavoro<br />

costituito in lamiere sottili, quali la cabina e il<br />

fasciamento della caldaia”. A quel punto, prima di<br />

passare alla verniciatura, la locomotiva veniva posta<br />

su “un binario rettilineo di oltre 200 metri di<br />

lunghezza, destinato alle corse di prove” 11 dei<br />

modelli ultimati. Nella realtà il processo produttivo<br />

era assai meno lineare di quanto verrebbe da<br />

pensare leggendo le descrizioni contenute nelle<br />

diverse pubblicazioni aziendali.<br />

19


20<br />

Il punto di massimo sforzo della costruzione<br />

faticosamente edificata da Breda (“alcuni dei<br />

problemi più scabrosi per le nostre officine”) era<br />

rappresentato dai saloni delle “macchine operatrici<br />

[...] attualmente ordinati per categorie di macchine:<br />

torni, fresatrici, trapani, pialle ecc”. In questo<br />

reparto, che pure rappresentava uno dei punti di<br />

forza dello stabilimento, si annidavano diseconomie<br />

logistiche e sopravvivevano spazi di autonomia dei<br />

singoli capi operai incompatibili con il disegno<br />

razionalizzatore di Breda. Se ne ha precisa<br />

testimonianza nella dettagliata relazione della<br />

delegazione tecnica inviata nel 1899 negli Stati Uniti<br />

per acquistare nuovi macchinari e visitare i più<br />

importanti stabilimenti meccanici, soprattutto quelli<br />

impegnati nella costruzione di locomotive, per<br />

“studiarne l’organizzazione e i sistemi di lavorazione;<br />

[...] e proporre quei provvedimenti che si sarebbero<br />

utilmente potuti introdurre nelle officine della<br />

ditta” 12 .<br />

Mentre alla Baldwin e nelle altre imprese “ogni<br />

parte della locomotiva [era] eseguita in un solo<br />

riparto e ne [usciva] in generale finita anche di<br />

aggiustaggio”, alla Breda, riferivano gli ingegneri<br />

Guido Sagramoso ed Eugenio Gavazzi, che insieme<br />

al capotecnico Remo Canetta si erano trattenuti<br />

circa sei mesi negli Stati Uniti, “un pezzo che viene<br />

dalla fucina o dalla fonderia, per essere ultimato<br />

deve passare successivamente da una sala all’altra,<br />

e finalmente essere portata all’aggiustaggio. La<br />

responsabilità dell’esattezza e del costo della<br />

lavorazione e di un eventuale ritardo nella consegna<br />

del pezzo finito, viene quindi divisa tra quattro,<br />

cinque, otto operai” 13 . Inoltre, poiché a ogni<br />

gruppo di macchine sovrintendeva un diverso<br />

caporeparto alla direzione tecnica risultava<br />

impossibile monitorare il costo delle singole fasi del<br />

lavoro. Spesso infatti per risparmiare i capireparto<br />

non facevano lavorare “il pezzo con quel grado di<br />

finitezza che si potrebbe raggiungere, ma vi si<br />

lascia[va] un margine di lavorazione esuberante, che<br />

[doveva] esser poi tolto tutto alla lima”. Oltre a ciò<br />

la discrezionalità lasciata ai capireparto impediva<br />

all’azienda di intervenire sulla programmazione del<br />

lavoro, fissando priorità e scadenze.<br />

Insomma l’officina era una zona franca nella quale<br />

solo con grande fatica la direzione sarebbe riuscita<br />

a introdurre quei principi di divisione del lavoro e di<br />

controllo che sembravano indispensabili per una<br />

grande macchina produttiva quale la Breda<br />

aspirava ad essere. Su questo terreno Breda,<br />

coadiuvato dagli ingegneri che aveva raccolto<br />

attorno a sé, tra i quali sarebbe progressivamente<br />

emersa la figura di Guido Sagramoso, giocò la sua<br />

partita più difficile. Al di là delle prevedibili<br />

opposizioni dei vecchi operai di mestiere, nelle<br />

condizioni di mercato del vecchio continente una<br />

semplice riproduzione del modello americano nei<br />

locali della sua officina era impensabile.<br />

Nelle fabbriche americane l’imperativo di “produrre


apidamente e a buon mercato” era divenuto<br />

realtà grazie a una dotazione di fattori che aveva<br />

incentivato la meccanizzazione, in funzione del<br />

risparmio di forza lavoro che ne poteva derivare. A<br />

detta degli ingegneri della Breda anche la tipologia<br />

degli stabilimenti, “su più piani sovrapposti collegati<br />

da ascensori e montacarichi” negli Stati Uniti, a un<br />

solo piano in Europa, aveva origine nel diverso<br />

costo dei fattori: da noi “costa meno il lavoro che<br />

l’energia e quindi conviene provvedere al trasporto<br />

interno mediante vagoncini e carri spinti da<br />

manovali” 14 . Non meno importante nella<br />

definizione del “sistema americano” era stato poter<br />

contare su una domanda per la quale funzionalità e<br />

robustezza erano i requisiti essenziali, a differenza<br />

da quanto avveniva in Europa dove a causa del<br />

“grado esagerato di finitezza” previsto nei capitolati<br />

delle Amministrazioni delle strade ferrate, “pezzi<br />

che potrebbero essere messi in opera affatto greggi,<br />

devono essere finiti alla macchina; superficie che<br />

non lavorano affatto devono essere pulimentate<br />

come altre che la più scrupolosa esattezza<br />

richiedono, per il loro ufficio meccanico; pezzi ormai<br />

finiti vengono rifiutati dai collaudatori per minuscoli<br />

nei superficiali; giorni e settimane si spendono nella<br />

verniciatura dell’inviluppo della locomotiva, della<br />

cabine, delle ruote” 15 .<br />

Liberi dai vincoli che gravavano sui fabbricanti, gli<br />

stabilimenti americani avevano una produttività<br />

doppia rispetto ai loro concorrenti europei.<br />

Inoltre, in virtù di tale libertà, ogni casa<br />

costruttrice aveva potuto specializzarsi nella<br />

produzione di “alcuni tipi di locomotive, per<br />

viaggiatori, per merci, per servizi locali ecc.”. La<br />

relativa semplicità costruttiva delle locomotive<br />

americane aveva favorito la standardizzazione dei<br />

modelli permettendo alle imprese di dotarsi di<br />

“macchine speciali, corredate di speciale<br />

attrezzatura, e seguire quei processi di<br />

lavorazione che sono economici, alla sola<br />

condizione che la produzione sia forte; [e di]<br />

estendere l’uso dei calibri conseguendo oltre un<br />

risparmio sul costo di produzione, anche una<br />

maggiore esattezza che gli permette di garantire<br />

l’intercambiabilità dei pezzi delle locomotive di<br />

un tipo, con utile notevole per le società<br />

esercenti” 16 .<br />

Tutto questo era impensabile in Italia, dove il<br />

mercato era un monopolio a rovescio, nel senso<br />

che poche grandi società ferroviarie imponevano<br />

ai produttori condizioni vincolanti sia per le<br />

caratteristiche tecnico-formali del prodotto, sia<br />

per la scelta e lo spessore dei materiali. E<br />

tuttavia, pur nelle profonde differenze dei sistemi<br />

sociale e di mercato, dall’America occorreva<br />

partire se si voleva “rivaleggiare coll’Estero”,<br />

come un tempo si era fatto con l’Inghilterra e<br />

altre nazioni europee.<br />

Attorno al <strong>1906</strong>, anno in cui si tenne a Milano<br />

l’Esposizione internazionale del Sempione17 ,<br />

21


22<br />

anche alla Breda, ormai divenuta la più<br />

importante fabbrica italiana di locomotive, in<br />

diversi reparti si lavorava “all’americana”. Alle<br />

macchine non si succedevano “che quei dati<br />

pezzi di locomotiva, sempre i medesimi a ogni<br />

macchina e ad ogni operaio, macchina e operaio<br />

formanti quasi un solo essere organico ed<br />

intelligente, che colla facilità dell’abitudine<br />

restituisce a centinaia lisci e puliti i pezzi che ha<br />

ricevuti greggi, rugosi” 18 . A coordinare il<br />

complesso organismo produttivo di uno<br />

stabilimento prossimo alla congestione (sui<br />

45.000 mq di superficie ben 35.000 erano<br />

coperti) era l’ufficio tecnico, che riuniva le<br />

funzioni di progettazione e di controllo della<br />

produzione. Era questo “il cuore” della grande<br />

fabbrica: “tutti gli organi delle officine sono in<br />

rapporti strettissimi coll’ufficio d’arte”. Vi erano<br />

addette 38 persone tra ingegneri, costruttori e<br />

disegnatori19 , tra cui i collaboratori più stretti di<br />

Ernesto Breda, ritratti in una celebre fotografia in<br />

posa davanti a una locomotiva.<br />

Il particolare rapporto di sudditanza dell’impresa<br />

nei confronti delle società ferroviarie faceva sì che<br />

l’ufficio d’arte fosse più la direzione tecnica dello<br />

stabilimento che un ufficio di progettazione in<br />

senso proprio. Erano ancora Sagramoso e Gavazzi<br />

a sottolineare il contrasto tra le dimensioni<br />

dell’ufficio e i suoi compiti: “E a proposito di<br />

disegni è curioso rilevare il fatto che nei nostri<br />

stabilimenti dove generalmente non si progetta,<br />

siamo obbligati a tenere negli uffici tecnici per<br />

quel lavoro di recensione dei disegni e per lo<br />

sviluppo dei dettagli da mandare alle officine un<br />

personale assai più numeroso che in America, dove<br />

ogni costruttore progetta anche i propri tipi”.<br />

Vanto di Breda, che vedeva l’affermazione<br />

dell’impresa come una proiezione su un altro<br />

piano dell’indipendenza della nazione, era di non<br />

essersi dovuto appoggiare a tecnici stranieri nel<br />

processo di ristrutturazione del vecchio<br />

stabilimento rilevato nel 1886 da Cerimedo, ma di<br />

essere riuscito a formare al proprio interno, e<br />

attingendo dagli allievi ingegneri che provenivano<br />

dal Politecnico, i quadri tecnici di cui l’impresa<br />

aveva bisogno. Nel corso degli anni, anzi, la Breda<br />

era divenuta “un semenzaio di tecnici e<br />

ingegneri” che si erano poi sparsi “per tutta Italia,<br />

portando ovunque un valido contributo allo<br />

sviluppo dell’industria meccanica” 20 .<br />

Ideale complemento dell’ufficio tecnico, a cui era<br />

delegata la progettazione – o meglio l’analisi e il<br />

disegno delle indicazioni fissate nei capitolati<br />

dalle società ferroviarie – era l’ufficio controlli.<br />

Ogni pezzo uscendo da un reparto per passare<br />

alla fase successiva doveva prima transitare per<br />

l’ufficio controlli per le verifiche dei materiali e<br />

dell’aderenza agli standard di progetto. Una<br />

scelta dettata dalla particolare complessità del<br />

processo produttivo, ma non priva di


Ufficio pubblicità Breda<br />

in via Bordoni, Milano, inizio<br />

anni venti<br />

23


24<br />

diseconomie come avevano potuto constatare i<br />

tecnici della Breda al rientro dall’America21 . Le<br />

locomotive “erano macchine complicatissime” e<br />

ciascuna di esse si componeva “mediamente di<br />

circa diecimila parti di circa mille figure diverse”.<br />

In queste condizioni, “la bontà” del risultato<br />

finale dipendeva “dalla cura colla quale ciascuna<br />

parte deve essere studiata e lavorata”.<br />

Rompendo con la tradizione di affidare ai capi<br />

operai la scelta dei modi di eseguire la<br />

lavorazione dei singoli pezzi, alla Breda si era<br />

riusciti a imporre un severo controllo su ogni fase<br />

della produzione: “tutto il sistema di ripartizione,<br />

di svolgimento e di controllo, sia dei progetti che<br />

dei lavori, il quale fondasi essenzialmente<br />

sull’accentramento di vari controlli, e che<br />

rappresenta una radicale innovazione organica in<br />

confronto di quanto si fa in officine analoghe alle<br />

nostre sia in Italia che all’Estero” 22 .<br />

Nel 1908, a poco più di vent’anni dalla<br />

fondazione, la Breda festeggiava la sua millesima<br />

locomotiva. Era un risultato importante che valeva<br />

all’impresa non solo una posizione di leadership<br />

nel mercato interno – secondo Michéle Merger a<br />

questa data l’impresa dell’ingegnere padovano<br />

deteneva circa un terzo del mercato – ma anche<br />

la possibilità di una significativa proiezione<br />

internazionale, come dimostravano le forniture<br />

alle ferrovie romene e turche. I limiti del mercato<br />

tuttavia consigliarono a Breda di allargare i propri<br />

orizzonti, diversificando le produzioni dell’azienda<br />

in direzione di nuovi promettenti settori quali la<br />

costruzione di trebbiatrici e di vagoni e carri<br />

ferroviari23 . Era l’inizio di una nuova avventura<br />

imprenditoriale, di cui però Ernesto Breda non<br />

fece in tempo a vedere che i primi sviluppi.<br />

1. Michéle Merger, Un modello di sostituzione: la locomotiva italiana<br />

dal 1850 al 1914, “Rivista di storia economica”, n.s., 1, 1986.<br />

2. Franco Amatori, Andrea Colli, Imprese e industria in Italia<br />

dall’Unità a oggi, Marsilio, Venezia 1999.<br />

3. Industria del ferro in Italia. Estratto dal rapporto dell’ing. Felice<br />

Giordani, Cotta e Capellino, Torino 1865.<br />

4. Stefania Licini, Dall’Elvetica alla Breda. Alle origini di una<br />

grande impresa milanese (1846-1918), “Società e Storia”, 63,<br />

1994, pp. 79-123.<br />

5. Duccio Bigazzi, L’evoluzione del lavoro operaio nell’industria<br />

metalmeccanica 1840-1930, in A. Martinelli (a cura di), Lavorare a<br />

Milano. L’evoluzione delle professioni nel capoluogo lombardo dalla<br />

prima metà dell’800 ad oggi, Edizioni del Sole 24 Ore, Milano 1987.<br />

6. Per la millesima locomotiva, Sieb, Milano 1908, p. 8.<br />

7. Giorgio Bigatti (a cura di), Una fonte per lo studio<br />

dell’evoluzione della struttura industriale di Milano: il “Premio<br />

Brambilla”, “Storia in Lombardia”, 3, 1987, p. 203.<br />

8. Giuseppe Colombo, L’industria delle macchine all’Esposizione di<br />

Milano, in Id., Industria e politica nella storia d’Italia. Scritti scelti,<br />

a cura di C.G. Lacaita, Cariplo-Laterza, Milano-Bari 1985.<br />

9. Ing. Ernesto Breda. Milano, Concorso ai premi al merito<br />

industriale indetto con R. Decreto del 4 agosto 1895. Memoriale e


descrizione dello stabilimento, snt, 1895, p. 7.<br />

10. Duccio Bigazzi, Modelli e pratiche organizzative<br />

nell’industrializzazione italiana, in Storia d’Italia. Annali 15:<br />

L’industria, a cura di Franco Amatori, Duccio Bigazzi, Renato<br />

Giannetti e Luciano Segreto, Einaudi, Torino 1999.<br />

11. Documento in G. Bigatti (a cura di), Una fonte per lo studio<br />

dell’evoluzione della struttura industriale di Milano: il “Premio<br />

Brambilla”, cit., p. 206.<br />

12. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />

Europa. Osservazioni e confronti, G. Abbiati, Milano 1900.<br />

13. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />

Europa, cit., p. 23.<br />

14. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />

Europa, cit., p. 20.<br />

15. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />

Europa, cit., p. 53.<br />

16. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />

Europa, cit., p. 57.<br />

17. Pietro Redondi, Paola Zocchi (a cura di), Milano <strong>1906</strong>.<br />

L’Esposizione internazionale del Sempione. La scienza, la città,<br />

la vita, Guerini e Associati, Milano 2006.<br />

18. Per la millesima locomotiva, cit., pp. 9-10.<br />

19. Ing. Ernesto Breda. Milano, Concorso ai premi al merito<br />

industriale, cit., p. 8.<br />

20. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />

Europa, cit., p. 10.<br />

21. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />

Europa, cit., p. 56.<br />

22. Ing. Ernesto Breda. Milano, Concorso ai premi al merito<br />

industriale, cit. p. 7.<br />

23. Valerio Castronovo, La Breda nella storia dell’industria<br />

italiana, in La Breda. Dalla società italiana Ernesto Breda alla<br />

Finanziaria Ernesto Breda 1886-1986, Amilcare Pizzi, Cinisello<br />

Balsamo (Mi) 1986.<br />

Locomotiva-tender<br />

per F.B.C., 1910<br />

25


26<br />

Registro dei preventivi<br />

Breda, 1902-05<br />

<strong>LA</strong> STORIA<br />

Tecnica al lavoro:<br />

una macchina ai primi del Novecento<br />

Raimonda Riccini


La locomotiva appare, sullo scorcio finale<br />

dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento,<br />

non soltanto come un condensato epico<br />

dell’immaginario del secolo del vapore e<br />

dell’industria meccanica, ma anche come un<br />

artefatto esemplare, attorno al quale sono<br />

cresciute e si sono modellate diverse culture,<br />

saperi, competenze e mestieri. Come qualunque<br />

altro oggetto, per essere compresa la locomotiva<br />

va dunque interrogata non soltanto attraverso<br />

l’atto della percezione, osservando le sue forme<br />

metalliche e i significati che vi si sono addensati,<br />

ma va compresa nel suo farsi: ciò che appare non<br />

è solo ciò che appare, ma ciò che è stato fatto. E<br />

come è stato fatto.<br />

Non sono sufficienti a questo scopo le immagini di<br />

locomotive che ci vengono incontro dallo schermo<br />

cinematografico, dai dipinti e da tante pagine<br />

della letteratura, che sono un condensato di<br />

metafore nelle quali la grande macchina esprime<br />

una plasticità straordinaria e una forza evocativa<br />

imperiosa. Né lo sono le attente descrizioni e gli<br />

interessati resoconti sulle locomotive che fanno<br />

bella mostra di sé nei padiglioni delle esposizioni,<br />

come in quella internazionale del Sempione del<br />

<strong>1906</strong>, dove sono presenti ben “cinque locomotive<br />

di diverso tipo, costruite dalla Società Italiana<br />

Ernesto Breda per costruzioni meccaniche, di<br />

Milano, ed esposte tre dalla Casa stessa e due<br />

dallo Stato”, macchine che “fanno onore alla<br />

Società costruttrice e all’industria italiana”. Fra<br />

queste, “la locomotiva 8351 gruppo 835,<br />

destinata a disimpegnare il servizio di stazione; è<br />

una macchina-tender a tre assi accoppiati. I due<br />

cilindri sono gemelli ed esterni, con distribuzione a<br />

cassetti piani e apparecchi d’inversione di marcia<br />

esterni tipo Heusinger; alla loro lubrificazione<br />

provvede un apparecchio Nathan. Lo<br />

scappamento provoca il tiraggio ed è regolabile. I<br />

tubi sono lisci. L’alimentazione si fa con iniettore<br />

Friedmann. C’è freno a mano e a vapore su tutte<br />

le ruote, ed un sabbiatore ordinario a caduta” 1 .<br />

Questa locomotiva, come quelle presentate da<br />

altre ditte italiane, “nulla ha da invidiare a quelle<br />

estere per precisione dei dettagli, per eleganza dei<br />

diversi pezzi motori, per solidità e durata” 2 .<br />

Nonostante la cura puntigliosa nella descrizione,<br />

nulla di tutto questo riesce ancora a rendere conto<br />

della complessità della “costruzione” di una<br />

locomotiva. Costruzione tecnica e sociale insieme,<br />

frutto della partecipazione di imprese e capitali,<br />

Raimonda Riccini<br />

è professore alla facoltà di<br />

design e arti dell’Università<br />

Iuav di Venezia, dove<br />

insegna storia della scienza<br />

e delle tecniche<br />

27


28<br />

Personale notturno della<br />

sezione macchine,<br />

stabilimento Elvetica, fine<br />

Ottocento


conoscenze e interessi, ma anche di lavoro,<br />

competenze, mestieri, attraverso i quali si<br />

esprimono le dinamiche dell’economia e delle<br />

innovazioni tecnologiche, ma che riflettono<br />

direttamente anche le cadenze dell’opera e del<br />

fare delle persone.<br />

Gli ingegneri e la “pura tecnica”<br />

Dopo il tempo degli avventurosi pionieri-inventoriimprenditori,<br />

formidabile generatrice di macchine<br />

fra Otto e Novecento è la cultura dell’ingegneria e<br />

la sua formalizzazione attraverso manuali, trattati<br />

e repertori, che mostrano con grande evidenza la<br />

compiutezza della sapienza tecnica attorno a<br />

questo prodotto. Descritta nelle parti e<br />

componenti, tracciata nei sistemi di<br />

funzionamento secondo i principi codificati dalla<br />

fisica e dalla meccanica, la locomotiva emerge<br />

dalle pagine di volumi ricchi di formule e profili<br />

analitici, illustrata da disegni tecnici, come un<br />

corpo dissezionato nei grandi atlanti anatomici,<br />

alla maniera di Vesalio: dai sistemi di<br />

funzionamento (sviluppo del vapore, trasmissione,<br />

frenatura), agli organi meccanici (chassis, ruote,<br />

boccole, sospensioni), fino ai più minuti dettagli<br />

(ingranaggi, sistemi di connessione, indicatori) 3 .<br />

L’analogia fra macchina e corpo – uno dei topoi<br />

del pensiero filosofico e scientifico – è ancora più<br />

evidente nel caso di immagini e descrizioni di<br />

malfunzionamenti, incidenti e rotture. Come nelle<br />

tavole anatomiche, le “patologie” non alterano il<br />

senso di potenza della macchina, che anzi si<br />

sprigiona sottoforma di forza incontrollabile<br />

(“L’esplosione di una caldaia è spesso<br />

accompagnata da effetti distruttori di una violenza<br />

estrema” 4 ), una forza che addirittura proietta la<br />

locomotiva in aria, scaraventandola lontano, ma<br />

che risulta comprensibile perché risponde ai<br />

medesimi principi che ne consentono il regolare<br />

funzionamento.<br />

La locomotiva, anche in questi frangenti, non ci<br />

viene mostrata come un oggetto a tutto tondo,<br />

ma scarnificata e isolata dai suoi contesti, secondo<br />

una consolidata tradizione dell’ingegneria. Pur<br />

indicando con assoluta precisione “cosa si deve<br />

fare” per costruire locomotive, il risultato è un<br />

repertorio di parti, parti funzionanti, messe in<br />

forma dalle ragioni della scienza fisica e meccanica<br />

più che da braccia umane coadiuvate tutt’al più<br />

da macchine utensili. L’essenza di questa – come<br />

di altre macchine dell’era meccanica – è la tecnica,<br />

la “pura tecnica”, a testimonianza del fatto che<br />

l’ingegneria è stata una grande generatrice di<br />

stereotipi5 .<br />

Ne sono un elegante esempio gli album della<br />

Breda nei quali “locomotive e veicoli per ferrovie e<br />

tramvie” vengono mostrati attraverso<br />

un’immagine per ogni singolo modello – a dire il<br />

29


30<br />

Stabilimento Breda Milano,<br />

montaggio locomotive e,<br />

sotto, fonderia della ghisa,<br />

dal catalogo dell’Esposizione<br />

internazionale di Milano del<br />

<strong>1906</strong><br />

Pagina seguente:<br />

stabilimento Breda Milano,<br />

caldaieria e officina cilindri e<br />

lavorazione dei lungheroni,<br />

dal catalogo dell’Esposizione<br />

internazionale di Milano del<br />

<strong>1906</strong>


vero con viste non sempre laterali e piatte, ma<br />

talvolta riprese con un’inclinazione verso<br />

l’osservatore – corredata dalle informazioni<br />

tecniche (scartamento dei binari, diametro delle<br />

ruote motrici, capacità della cassa d’acqua e della<br />

cassa carbone) in italiano, inglese e tedesco6 .<br />

Chi conduce la locomotiva:<br />

fuochisti e macchinisti<br />

In realtà, quando noi oggi cerchiamo di ricostruire<br />

la storia di un oggetto tecnico, di una macchina,<br />

siamo sempre meno soddisfatti degli stereotipi e<br />

sempre più alla ricerca anche di persone.<br />

Sappiamo ormai bene che un prodotto non può<br />

essere compreso appieno se non collocandolo nei<br />

contesti sociali dai quali è scaturito.<br />

Uno spiraglio verso una maggiore chiarezza ce lo<br />

forniscono, sebbene in maniera ancora schematica,<br />

i manuali d’uso della locomotiva, piccoli e densi<br />

compendi di ciò che una locomotiva è e di come<br />

funziona, ma soprattutto strumenti di avviamento<br />

all’uso di una macchina indirizzati alle persone che<br />

concretamente ne avrebbero attuato il<br />

funzionamento7 .<br />

Si tratta di un insieme di materiali che filtrano, a<br />

diversi livelli di complessità, l’insieme delle<br />

conoscenze tecnico-scientifiche “alte” e le<br />

traducono ai fini di un acculturamento del<br />

31


Stabilimento Breda Milano,<br />

lavorazione di cilindri di<br />

locomotive, anni dieci<br />

Stabilimento Breda Sesto San<br />

Giovanni, grande maglio<br />

sezione fucine, anni dieci<br />

33


34<br />

personale “di macchina” delle ferrovie. Sono<br />

elementi di connessione fra teoria e applicazione<br />

pratica che, se non altro, fanno intravedere le abilità<br />

e le competenze “attese” per poter svolgere un<br />

mestiere concreto. Un mestiere che, ricordiamolo,<br />

era ben lungi da essere asettico, ma coinvolgeva<br />

aspetti di grande fisicità e corporeità, come ci ha<br />

rimandato tanta iconografia del “macchinista<br />

ferroviere”, del “fuochista” 8 , immersi in fumiganti<br />

vapori, alle prese con il fuoco, il nero carbone, i<br />

detriti di coke che si accumulano e le “materie<br />

d’ungimento e d’illuminazione” 9 . A questi operatori<br />

della strada ferrata gli opuscoli e i manuali offrono<br />

conoscenze elementari dei principi costruttivi e di<br />

funzionamento e insieme le istruzioni per uso,<br />

conduzione e riparazione della locomotiva10 .<br />

Studiati per rivelare a chi le deve usare come le<br />

cose sono fatte, essi svelano un po’ di più anche a<br />

noi come una locomotiva era costruita.<br />

Come si costruisce la locomotiva<br />

Bisogna ora entrare nella fabbrica, dove la cultura<br />

organizzativa e progettuale11 si fonde con il lavoro<br />

delle persone e delle macchine.<br />

Già prima della fine del secolo, com’è noto,<br />

Ernesto Breda imprime una trasformazione nella<br />

organizzazione del lavoro della sua azienda, volta<br />

al superamento di “un andazzo comune alla<br />

maggior parte delle nostre industrie<br />

metalmeccaniche, quello di costruire ogni genere<br />

di prodotti, senza mirare alla specializzazione” 12 .<br />

Questo si attua soprattutto attraverso<br />

l’acquisizione di macchinari: “Con ritmo razionale<br />

le fucine furono a grado a grado dotate di magli e<br />

presse poderose che permisero di fucinare anche<br />

quei pezzi del movimento e della sospensione che<br />

prima venivano provvisti all’estero. La piccola,<br />

antica torneria si arricchì di torni moderni, dei tipi<br />

e delle dimensioni più varie, ciascuno fornito degli<br />

accessori adatti ad uno speciale lavoro. Accanto<br />

alle poche pialle e limatrici, sulle quali passavano<br />

prima indifferentemente i pezzi destinati ai più<br />

svariati prodotti dell’industria meccanica, si<br />

andarono allineando nuove pialle e nuove<br />

limatrici, uscite dalle migliori macchine americane,<br />

e sorse tutto un reparto di fresatrici, forte di più di<br />

cento macchine, sulle quali non si videro<br />

succedersi che quei dati pezzi di locomotive,<br />

sempre i medesimi ad ogni macchina e ad ogni<br />

operaio” 13 . Ancora più precisamente: “Sorse, nel<br />

nuovo stabilimento, un reparto completo di<br />

fresatrici ricco di oltre 100 macchine e la fonderia<br />

venne fornita di ‘cubilots’ per la ghisa occorrente<br />

alle fusioni dei grandi cilindri delle moderne<br />

locomotive ‘compound’” 14 .<br />

La nuova dotazione tecnica garantì il passaggio da<br />

una fase nella quale, dopo il lavoro svolto dalle<br />

poche e imprecise macchine, era ancora


necessario l’intervento manuale dello specialista,<br />

alla cui “perizia nel maneggiare la lima e il<br />

martello” era affidata la qualità ultima del<br />

prodotto15 . Non solo: la presenza di macchine<br />

specializzate rendeva necessaria anche la<br />

trasformazione dello spazio di lavoro e la<br />

creazione di reparti separati, come ci illustrano<br />

bene anche le immagini qui riprodotte16 . Nella<br />

fabbrica si riflette quella scomposizione già<br />

presente nella progettazione della locomotiva, che<br />

risultava negli strumenti di rappresentazione degli<br />

ingegneri come un assemblaggio di parti<br />

funzionanti cui si accennava più sopra. Per<br />

combinarsi fra di loro, i pezzi separati devono<br />

essere precisi, sola caratteristica che può garantire<br />

il rapido montaggio e l’intercambiabilità dei pezzi,<br />

secondo la nuova filosofia dell’”American system<br />

of production”.<br />

Sarà di conseguenza sconvolta la tradizionale<br />

gerarchia del lavoro, dei ruoli e delle figure<br />

all’interno della fabbrica: “Se per mestieri come il<br />

fonditore, il fucinatore o il calderaio permaneva<br />

ancora una gerarchia di fabbrica fondata sulla<br />

netta distinzione tra il livello ‘alto’ del maestro [...]<br />

e il livello basso dell’aiutante [...] diversa era la<br />

situazione dei mestieri in cui la crescente<br />

specializzazione delle macchine utensili aveva<br />

scomposto la figura del meccanico polivalente:<br />

tornitori, fresatori, trapanisti ecc. Qui cominciava<br />

infatti a delinearsi una gerarchia non più<br />

‘bipolare’, ma riferita ai diversi livelli di<br />

professionalità [...]: al vertice si situava l’operaio<br />

adibito ai lavori di particolare delicatezza e<br />

complessità (il futuro operaio specializzato);<br />

seguiva l’operaio al quale erano affidati lavori di<br />

serie che richiedevano tuttavia una certa capacità<br />

di lettura del disegno meccanico, qualche nozione<br />

di matematica e adeguato governo della propria<br />

macchina (il futuro operaio qualificato); al fondo<br />

della scala, infine, si trovava il semplice addetto<br />

macchina, sorvegliante e rifornitore di uno<br />

strumento regolato da altri” 17 .<br />

Come ha ben spiegato Duccio Bigazzi, l’avvento<br />

delle macchine automatiche istituisce una relazione<br />

speciale fra l’operaio e la macchina utensile.<br />

Raffigurato sempre più spesso nelle immagini<br />

fotografiche d’epoca, questo rapporto, che simula<br />

il gesto del lavoratore, ci dice poco però del<br />

processo operativo. Piuttosto esso funziona come<br />

un nuovo modello iconografico e simbolico del<br />

lavoro. “La presenza del prodotto è l’elemento che<br />

giustifica il senso di orgoglio e di compiaciuta<br />

35


36<br />

Focolare della caldaia per<br />

locomotiva del gruppo 746


Caldaia per locomotiva del<br />

gruppo 746<br />

37


Stabilimento Breda Milano,<br />

caldaieria per locomotive e<br />

trasporto caldaie, 1907 circa<br />

39


40<br />

partecipazione [...] finché lo stato della tecnica lo<br />

permetterà, gli operai esibiranno inoltre, a ulteriore<br />

testimonianza di un ancora diffuso senso di<br />

padronanza del processo lavorativo, i propri utensili<br />

e strumenti (il martello, l’incudine, le tenaglie<br />

ecc.)” 18 . Le immagini non offrono però una<br />

documentazione degli aspetti operativi: il senso di<br />

sproporzione fra uomo e oggetto aumenta a mano<br />

a mano che il procedimento tecnico si andava<br />

facendo più complesso, frammentato, scandito da<br />

tempi che non erano più riferibili al tempo<br />

personale. I libri dei preventivi, stilati per ogni<br />

oggetto, macchina o pezzo prodotto, questi<br />

passaggi sono descritti fino al minimo dettaglio,<br />

specificando sia le ore necessarie, sia la quantità e il<br />

tipo di materiale, sia la scansione temporale,<br />

sequenziale, delle operazioni19 .<br />

Ecco la “confezione” della caldaia della<br />

locomotiva 685:<br />

- confezionare la porta della camera fumo<br />

completa di chiusure e cerniere e montarla in<br />

opera esclusa la traversa;<br />

- confezionare il frontone della camera fumo e<br />

chiodarlo in opera;<br />

- confezionare la traversa della porta della camera<br />

fumo e montarla in opera;<br />

- confezionare l’angolare della camera fumo e<br />

chiodarlo in opera;<br />

- confezionare il contrafondo della camera fumo<br />

e chiodarlo in opera;<br />

- confezionare l’anello della camera fumo con<br />

coprigiunte – escluso la chiodatura;<br />

- confezionare il camino completo di base,<br />

montarlo e chiodarlo in opera;<br />

- confezionare la piastra tubolare camera fumo –<br />

montarla – chiodarla e cianfrinare.<br />

Il tempo delle operazioni dipende dalle scelte di<br />

produzione. Per esempio, per piastra stampata a<br />

mano e chiodata a mano 122 ore; stampata a<br />

mano e montata a macchina 182; stampata a e<br />

montata a mano 131; stampata a pressa e<br />

montata a macchina soltanto 91.<br />

Questa invece è la sequenza del montaggio, dal<br />

momento in cui si riceve la caldaia fino al<br />

collaudo:<br />

- aggiustare e montare parassale, boccole e ruote<br />

pronto per ricevere la sospensione (escluso il<br />

montaggio del carrello, con relative ruote e<br />

boccole) – h. 90<br />

- montaggio della sospensione – h. 6<br />

- montaggio del freno completo di serbatoi – h. 16<br />

- montaggio trazione e repulsione – h. 5<br />

- verifica e pulizia dei cilindri – h. 1<br />

- montaggio in opera dei pistoni motori con<br />

relative aste, contraste e guarniture – h. 12<br />

- montaggio in opera dei pistoni distributori con<br />

relative aste e guarniture – h. 3.<br />

Componendo come in un puzzle queste sparse e<br />

fin troppo frammentarie indicazioni, forse ora<br />

cominciamo a vederla un po’ meglio, la


locomotiva <strong>830</strong>, fin dal momento nel quale le<br />

fucine si apprestano a produrre i materiali<br />

necessari, preparando le forme grezze del metallo<br />

da lavorare, fino alla costruzione per parti (la<br />

caldaia in un’apposita officina, la scocca e i telai in<br />

un’altra, i sistemi strutturali in un’altra ancora).<br />

Possiamo riconoscerla, mentre la sua fiancata<br />

passa sotto la macchina “strozzatrice”, o sotto<br />

l’azione dei trapani che perforano la lamiera in<br />

corrispondenza dei punti di fissaggio.<br />

Immaginiamo le batterie di piallatrici e limatrici<br />

che rifiniscono parti degli ingranaggi, mentre le<br />

macchine automatiche lavorano e producono<br />

pezzi del telaio, longheroni e ruote, tiranti e viti. I<br />

carrelli si spostano, movimentando le varie parti<br />

verso le grandi sale di montaggio, dove vengono<br />

composte una dopo l’altra e allineate sotto le<br />

grandi volte20 .<br />

Infine, dopo l’ultima cura dei pulitori, la vediamo,<br />

la locomotiva, mentre scivola fuori del reparto,<br />

attraversa i cortili dello stabilimento, e si avvia al<br />

suo primo viaggio.<br />

1. Ugo Lombardi, La mostra delle locomotive, “L’Industria.<br />

Rivista tecnica ed economica illustrata”, 36, settembre <strong>1906</strong>,<br />

pp. 563-565, citazione a p. 565.<br />

2. La mostra ferroviaria,I,in Milano e l’Esposizione<br />

internazionale del Sempione <strong>1906</strong>. Cronaca illustrata<br />

dell’Esposizione, Fratelli Treves, Milano <strong>1906</strong>, p. 250. Il resoconto<br />

è a firma de “Il Macchinista”.<br />

3. Si vedano, fra le tante, Edouard Sauvage, La machine<br />

locomotive, Baudry & Cie Editeurs, Paris 1894; William Prime<br />

Marshall, Evolution of the Locomotive Engine, The Institution of<br />

Civil Engineers, London 1898. In italiano, si vedano gli storici<br />

Manuali Hoepli. A queste si aggiungano le numerose iniziative<br />

periodiche, pubbliche e private, accademiche e commerciali,<br />

come il “Portéfeuille économique des machines”, edito dal<br />

1856 agli anni venti del Novecento.<br />

4. E. Sauvage, La machine locomotive, cit., p. 84.<br />

5. Cfr. su questo Mark Brutton, Après le modernisme, “Culture<br />

technique”, 5, 1981, pp. 63-71.<br />

6. Gli album sono conservati presso l’Archivio storico Breda.<br />

Ancora più significativi da questo punto di vista sono le tavole<br />

a disegno tecnico delle Ferrovie dello Stato, Album dei tipi<br />

delle locomotive ed automotrici, vol. II: Locomotive-tender,<br />

Firenze 1915.<br />

7. Fra gli altri: Stanislao Fadda, Alberto Olivetti, Giacomo Silvola,<br />

La locomotiva: sua costruzione ed arte di guidarla, Loescher,<br />

Torino 1890; G. Gauterio, L. Loria, Macchinista e fuochista,XI<br />

edizione rifatta da C. Malavasi, Ulrico Hoepli, Milano 1916;<br />

Ferrovie dello Stato - Scuola allievi fuochisti, Corso elementare,<br />

vol. IV: La locomotiva, Pisa e Lampronti, Firenze 1921.<br />

8. Il decreto ministeriale 27 giugno 1905 impone le norme di<br />

idoneità alla conduzione di locomotive a vapore: “Le macchine<br />

locomotive devono sempre essere condotte da un macchinista e<br />

da un fuochista posto alle dipendenze del primo” (G. Gauterio,<br />

L. Loria, Macchinista e fuochista, cit., p. 263).<br />

9. Ferrovie dello Stato, Corso elementare, cit., p. 219.<br />

10. L. Le Chatelier, E. Flachat, J. Petiet , C. Polonceau, Guide du<br />

41


42<br />

Locomotiva 746.004 per le<br />

Ferrovie dello stato, 1922


44<br />

mécanicien constructeur et conducteur de machines locomotives,<br />

Carilian-Goeury et V. Dalmont, Paris 1851.<br />

11. Si vedano i testi di Giorgio Bigatti e Alberto Bassi in questo<br />

volume.<br />

12. Antonio Fossati, Lavoro e produzione in Italia dalla metà<br />

del secolo XVIII alla seconda guerra mondiale, G. Giappicchelli,<br />

Torino 1951, pp. 312-314, citazione a p. 313. Cfr. anche Società<br />

italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche, in La<br />

meccanica e l’elettricità in Italia, Capriolo e Massimino, Milano<br />

1909.<br />

13. Per la millesima locomotiva, Sieb, Milano 1908, pp. 9-10. Cfr.<br />

anche il volume edito in occasione del centenario La Breda.<br />

Dalla società italiana Ernesto Breda alla Finanziaria Ernesto<br />

Breda 1886-1986, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1986.<br />

14. A. Fossati, Lavoro e produzione, cit., p. 313.<br />

15. Duccio Bigazzi, L’evoluzione del lavoro operaio nell’industria<br />

metalmeccanica (1840-1930), in A. Martinelli (a cura di), Lavorare a<br />

Milano. L’evoluzione delle professioni nel capoluogo lombardo<br />

dalla prima metà dell’800 a oggi, Edizioni del Sole 24 Ore, Milano<br />

1987, pp. 97-115.<br />

16. La specializzazione dei reparti è illustrata splendidamente in<br />

album editi in occasione dell’Esposizione internazionale del<br />

Sempione a Milano nel <strong>1906</strong>, con fotografie di interni ed esterni<br />

degli stabilimenti della società: fonderia della ghisa, caldaieria,<br />

officina cilindri e lavorazione dei lungheroni; officina bulloni e<br />

dadi, freseria; montaggio (a Milano); officine riparazioni<br />

locomotive e officine per la lavorazione di altro materiale<br />

ferroviario (a Sesto San Giovanni). Ricordiamo che la<br />

produzione delle locomotive avveniva nello stabilimento di<br />

Milano, mentre a Sesto San Giovanni si costruivano i vagoni. A<br />

differenza del vecchio stabilimento di Milano, che era cresciuto<br />

per progressivi aggiustamenti, quello di Sesto (1903) rispondeva<br />

a “criteri modernissimi”. Qui “un’altra officina, di oltre 11.000<br />

mq di superficie, venne costruita per trasferirvi il reparto per la<br />

riparazione di locomotive, che ragioni di spazio impedivano di<br />

poter più a lungo mantenere nello stabilimento di Milano”, La<br />

società italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche, dalle<br />

sue origini ad oggi 1886-1936, Officine Grafiche Mondadori,<br />

Verona 1936, pp. 35 e 37.<br />

17. D. Bigazzi, L’evoluzione del lavoro operaio, cit., p. 101.<br />

18. Duccio Bigazzi (a cura di), Fotografia dell’acciaio, Libri<br />

Scheiwiller, Milano 1992, p. 74.<br />

19. Presso l’Archivio storico Breda sono conservati diversi<br />

registri preventivi: in particolare si vedano i tre registri 1902-<br />

1914 regg. 598-600 e s. Sieb, b. 87, fasc. 601, che contiene un<br />

“Preventivo locomotiva e tender – Gruppo 685” di grande<br />

completezza, anche se successivo temporalmente rispetto alla<br />

locomotiva oggetto di questo studio.<br />

20. Per una descrizione dei procedimenti operativi e tecnici<br />

dell’industria metalmeccanica si vedano il volume di Egidio<br />

Garuffa, La costruzione delle macchine e dei congegni meccanici,<br />

Unione tipografico-editrice torinese, Torino 1929 e l’opuscolo La<br />

locomotiva, “Enciclopedia figurata Sonzogno”, 1, gennaio 1927,<br />

dove la locomotiva è la prima delle macchine “spiegate e<br />

illustrate in modo da essere comprese da tutti” (copia in<br />

Archivio storico Breda, s. Sieb, b. 104, fasc. 692).


Locomotiva per le ferrovie<br />

Calabro lucane, 1915<br />

45


46<br />

Ufficio tecnico, reparto<br />

locomotive, in via Bordoni,<br />

Milano, primi anni venti<br />

<strong>LA</strong> STORIA<br />

Progettazione<br />

e costruzione ferroviaria alla Breda<br />

agli inizi del secolo scorso<br />

Alberto Bassi


Una premessa di metodo<br />

L’industria studia, progetta, realizza, vende<br />

prodotti: nella ricostruzione delle vicende<br />

imprenditoriali appare rilevante e necessario<br />

occuparsi dei caratteri della produzione.<br />

Tale semplificata ma ovvia asserzione sembra<br />

lontana dal trovare applicazione nelle storie<br />

d’industria, in genere abbastanza “distratte”<br />

rispetto a quanto concretamente costituisce il<br />

risultato finale del lavoro produttivo; almeno in<br />

verità quanto le storie del progetto o del disegno<br />

industriale tendono a dimenticare lo specifico<br />

contesto in cui gli oggetti hanno origine, spesso<br />

più interessate al “genio creatore” che li ha<br />

disegnati, sia industriale, ingegnere o architetto1 .<br />

Il prodotto può invece essere il punto di partenza<br />

per molti “racconti”: su progetto, produzione,<br />

comunicazione e consumo; può, fra l’altro, render<br />

conto della “cultura del prodotto” e del lavoro, di<br />

una specifica industria o società; collocarsi in una<br />

sequenza temporale di “storia delle cose” 2 .<br />

Per gli storici del disegno industriale è della<br />

massima utilità poter dialogare con competenze<br />

disciplinari e scientifiche diverse, in modo da<br />

avviare indagini più strettamente progettuali<br />

movendo da un background consolidato, ad<br />

esempio, di conoscenze storiche, economiche,<br />

sociali e tecnologiche. Il confronto<br />

interdisciplinare rappresenta un’importante<br />

prospettiva comune per una circostanziata<br />

comprensione dei fenomeni.<br />

In questa direzione appare nodale il recupero<br />

dell’indagine sulle fonti, intese nella più ampia<br />

accezione, dal documento cartaceo<br />

all’iconografia, dalla storia orale al materiale<br />

legato alla comunicazione, come i depliant<br />

pubblicitari, la cartellonistica o i manuali tecnici<br />

di istruzione. Solo per fare un esempio, la<br />

documentazione “grigia” ha perlopiù goduto di<br />

poca attenzione da parte dell’impresa stessa, ma<br />

anche degli archivisti e degli storici.<br />

La ricostruzione e la riflessione sul progetto<br />

ferroviario alla Breda all’inizio del secolo, in<br />

Alberto Bassi,<br />

storico del design, insegna<br />

storia del disegno industriale<br />

alla facoltà di design e arti<br />

dell’Università Iuav di<br />

Venezia<br />

47


Pagina precedente:<br />

locomotiva-tender da<br />

manovra 8351, dal catalogo<br />

dell’Esposizione<br />

internazionale di Milano<br />

del <strong>1906</strong><br />

Locomotiva compound per<br />

treni pesanti a grande<br />

velocità 4963 “la mucca”<br />

e locomotiva-tender<br />

compound per treni<br />

viaggiatori 8851, dal<br />

catalogo dell’Esposizione<br />

internazionale di Milano<br />

del <strong>1906</strong><br />

49


50<br />

Locomotiva-tender gruppo<br />

<strong>830</strong>, da Ferrovie dello stato,<br />

Album dei tipi delle<br />

locomotive ed automotrici,<br />

Firenze 1915, tav. 152<br />

particolare sulla locomotiva-tender Breda <strong>830</strong> –<br />

numero di serie 017, oggetto del restauro e<br />

occasione di questo volume3 –, trae spunto e<br />

alimento dai materiali dell’Archivio storico Breda,<br />

conservati presso l’Istituto per la storia dell’età<br />

contemporanea (Isec) di Sesto San Giovanni4 .<br />

Il punto di vista privilegiato di questa indagine<br />

resta in ogni caso quello del progetto: il percorso<br />

cioè che conduce a formulare un’idea di<br />

manufatto industriale, come risultanza di<br />

un’”intuizione” funzionale e/o tecnologica e/o<br />

estetica oppure in risposta a una necessità di<br />

committenza o mercato e a predisporne i caratteri<br />

tecnologici e formali in relazione alle possibilità ed<br />

economie di produzione.<br />

La Breda a cavallo del secolo scorso<br />

È forse utile fornire alcuni cenni sulle vicende<br />

storiche della Breda, un’impresa di grande<br />

rilevanza per la storia dell’industria e più in<br />

generale dell’economia italiana5 .<br />

Nel 1886 l’ingegner Ernesto Breda rileva<br />

l’Elvetica, una piccola società milanese operante<br />

nel settore meccanico-ferroviario, costituendo<br />

l’accomandita semplice Ing. Ernesto Breda & C.<br />

Un anno dopo la Breda si apre alla fabbricazione<br />

di materiale bellico e successivamente, nel 1891,<br />

avvia la produzione di macchine agricole, carri<br />

ferroviari e carrozze ferro-tramviarie. Nel<br />

dicembre 1899 l’accomandita si trasforma in<br />

società anonima, con la denominazione di<br />

Società italiana Ernesto Breda per costruzioni<br />

meccaniche. Nel 1903 la Società intraprende la<br />

costruzione degli stabilimenti di Sesto San<br />

Giovanni e Niguarda, per la produzione di carri<br />

ferroviari e locomotive. Alla vigilia del primo<br />

conflitto mondiale le lavorazioni erano così<br />

suddivise: a Milano, locomotive a vapore ed<br />

elettriche, caldaie, macchine utensili, proiettili,<br />

materiali di impiego bellico; a Sesto, vetture<br />

ferroviarie, carri merci e pezzi fucinati, cui si<br />

aggiungono nel 1917 i motori per aereoplani e<br />

nel 1921 i velivoli; a Niguarda, locomobili,<br />

compressori stradali, motopompe per irrigazione,<br />

trattori e macchine agricole6 . Durante la prima<br />

guerra mondiale il complesso organismo<br />

produttivo viene finalizzato alla produzione<br />

bellica, dai proiettili ai cannoni, ai siluri e ai<br />

biplani da combattimento.<br />

La vocazione originaria è dunque legata alla


52<br />

produzione di materiale rotabile: già nel 1908<br />

viene costruita la millesima locomotiva, un<br />

gruppo 685 Compound a quattro cilindri7 ,<br />

cavallo di battaglia dell’azienda oltre che delle<br />

Ferrovie delle stato. Nel giubilare edito per<br />

l’occasione si leggeva: “Nemmeno nei primi<br />

difficili passi la ditta Breda ha ricercato presso<br />

fabbriche straniere l’aiuto di tecnici ormai<br />

provetti, né è ricorsa alla pratica di ingegneri<br />

esteri, ma ha formato nelle proprie officine gli<br />

ingegneri e i capitecnici che con costanza e<br />

amore hanno un po’ alla volta condotto lo<br />

stabilimento a quella perfezione tecnica che gli è<br />

universalmente riconosciuta. Anzi le officine<br />

Breda furono esse stesse un semenzaio di tecnici<br />

e ingegneri che si sparsero per tutta Italia” 8 .<br />

In tali affermazioni pare leggersi un’idea del<br />

prodotto come risultato di un lavoro articolato e<br />

complesso, dove interagiscono diverse<br />

competenze progettuali e costruttive, di cui in<br />

Breda si andava giustamente orgogliosi.<br />

Culture progettuali alla Breda<br />

La nostra ricostruzione attorno alla locomotivatender<br />

<strong>830</strong> (cioè un mezzo destinato al servizio<br />

di manovra) non fa riferimento in senso stretto<br />

alla specifica storia ferroviaria di questo veicolo9 ,<br />

quanto piuttosto prova a collocarlo nel contesto<br />

della cultura imprenditoriale, costruttiva e<br />

progettuale della Breda al principio del secolo,<br />

con riferimento alle componenti che interagivano<br />

nell’elaborazione di un prodotto frutto di<br />

tecnologia e modi realizzativi complessi.<br />

L’azienda sestese – come del resto molte altre<br />

industrie milanesi e lombarde, ma in generale<br />

italiane – nasce riunendo in un’unica figura,<br />

quella di Ernesto Breda, sia l’imprenditore che il<br />

progettista, esito della cultura ingegneristica di<br />

fine Ottocento tradotta dentro la logica della<br />

creazione di un prodotto non più solo<br />

dell’invenzione. Cioè la costruzione di un<br />

sistema, una struttura industriale, produttiva e<br />

organizzativa per cui l’innovazione tecnica<br />

diventa un oggetto concreto.<br />

Esiste poi una seconda componente, in grado di<br />

contribuire allo sviluppo del progetto, costituita<br />

dagli uffici tecnici che rappresentano il trait<br />

d’union tra la cultura dell’imprenditore-ingegnere<br />

e la realizzazione tecnica e fisica dei prodotti.<br />

Infine è rintracciabile una terza competenza che


concorre alla determinazione dell’esito finale,<br />

quella del “saper fare” della tradizione del lavoro<br />

tecnico e operaio.<br />

Il disegno del prodotto industriale alla Breda è<br />

dunque perlopiù il risultato di differenti filoni di<br />

cultura progettuale, tecnica e fabbrile: quella<br />

dell’industriale, di frequente ingegnere o tecnico<br />

industriale, che si travasa poi all’interno degli<br />

uffici tecnici, ma anche quella dei lavoratori,<br />

forniti di capacità manuali e tecniche che di volta<br />

in volta si confrontano con nuove tecnologie e<br />

macchinari10 .<br />

In questa direzione, di integrazione di varie<br />

competenze e di aggiornamento continuo degli<br />

ingegneri e dell’ufficio tecnico Breda, si colloca<br />

certo il significativo viaggio d’istruzione,<br />

condotto nel 1899 negli Stati Uniti, da parte di<br />

una commissione costituita dagli ingegneri<br />

Eugenio Gavazzi e Guido Sagramoso e dal<br />

capotecnico Remo Canetta, allo scopo di studiare<br />

i metodi costruttivi americani11 .<br />

Il contributo Breda alla costruzione<br />

e progettazione ferroviaria<br />

La storia dei veicoli a vapore in Italia12 è<br />

riconducibile a un duplice filone progettuale. Da<br />

una parte l’ufficio d’arte delle Strade ferrate Alta<br />

Italia (SFAI) di Torino sorto nel 1872, divenuto poi<br />

della Rete Mediterranea (RM); dall’altra l’ufficio<br />

studi delle Strade ferrate meridionali (SFM) del<br />

1880, con sede a Firenze, poi della Rete Adriatica<br />

(RA). Dopo la nazionalizzazione e unificazione<br />

della rete ferroviaria del 190513 , quest’ultimo<br />

prevarrà fino a divenire in sostanza l’ufficio<br />

progetti delle Ferrovie dello stato. Due scuole con<br />

diverse “filosofie”: “mentre l’Ufficio d’Arte di<br />

Torino avrebbe infatti sempre inseguito – scrive<br />

Giovanni Corniolò – l’obiettivo di una maggior<br />

efficienza ed economicità di esercizio della<br />

macchina a vapore, mediante l’ottimizzazione del<br />

ciclo di produzione e di utilizzo del vapore,<br />

l’Ufficio Studi di Firenze […] inseguì sempre il<br />

medesimo obiettivo, ma per una diversa via,<br />

semplificando al massimo la locomotiva, al fine di<br />

renderne soprattutto economica la sua gestione<br />

e la sua manutenzione” 14 . Ai differenti approcci,<br />

assieme alle esigenze legate ai caratteri dei tratti<br />

di rete da coprire, fanno riferimento le scelte di<br />

configurazione formale: macchine veloci a ruote<br />

alte e due assi per le linee pianeggianti<br />

dell’Adriatica, su disegno dei fiorentini; veicoli<br />

53


54<br />

Locomotiva con carrello<br />

italiano per le ferrovie<br />

secondarie romane, <strong>1906</strong>


poderosi, meno veloci, rodiggio a tre assi per i<br />

percorsi misti della Mediterranea, predisposte dai<br />

torinesi.<br />

La locomotiva-tender <strong>830</strong> (1903-06) – derivata<br />

dalla 829, e da cui si svilupperà la 835 del <strong>1906</strong>,<br />

uno dei veicoli a vapore più noti e prodotta in<br />

quasi quattrocento esemplari – è uno fra gli<br />

ultimi mezzi riconducibili per impostazione<br />

all’ufficio d’arte di Torino. Ha sostenuto sempre<br />

Giovanni Corniolò: “a differenza della quasi<br />

totalità delle nuove commesse assegnate dalle FS<br />

immediatamente dopo la loro costituzione che<br />

riguardarono macchine derivate da progetti<br />

dell’Ufficio Studi della RA […] le 835 FS, le<br />

famose e a tutti note piccole vaporiere che<br />

arrancavano per gli scali italiani sino a una<br />

ventina di anni addietro, rappresentano appunto<br />

una delle rarissime eccezioni, derivando dal<br />

progetto delle <strong>830</strong>, originate alla ‘scuola’ di<br />

Torino della Mediterranea” 15 .<br />

Merita a questo punto di essere introdotta<br />

un’ulteriore precisazione per quanto riguarda il<br />

contributo Breda al progetto e realizzazione dei<br />

veicoli ferroviari all’inizio del secolo. La<br />

responsabilità complessiva del disegno dei mezzi<br />

è dunque attribuibile agli uffici tecnici<br />

direttamente collegati alle Ferrovie dello stato,<br />

dove vengono elaborati i disegni per le<br />

commesse assegnate alle diverse aziende. Ma<br />

questa rappresenta in tutta evidenza una tappa<br />

iniziale, su cui intervengono modalità di<br />

elaborazione tecnica e ingegneristica differenti a<br />

seconda delle imprese coinvolte.<br />

La cultura costruttiva e progettuale Breda pare<br />

applicarsi dunque a questa fase di sviluppo che<br />

conduce alla realizzazione finale del veicolo<br />

ferroviario; non tanto al disegno complessivo ma<br />

alle soluzioni tecniche e alle modalità esecuitive.<br />

Non senza un’attitudine sperimentale e di ricerca,<br />

condotta in proprio o su commessa, se è vero, ad<br />

esempio, che proprio il locotender <strong>830</strong>-017<br />

restaurato presenta almeno un paio di<br />

significative “varianti”, come l’assenza del<br />

compressore per l’azionamento del freno<br />

continuo a vista e l’impiego della caldaia che sarà<br />

poi adottata sulla 83516 .<br />

Si legge sul giubilare edito in occasione della<br />

produzione della millesima locomotiva Breda del<br />

1908: “le grandi amministrazioni ferroviarie<br />

hanno ciascuna tipi propri di locomotive e di<br />

veicoli, e nelle forniture il costruttore deve<br />

55


Locomotiva compound a<br />

quattro cilindri per le<br />

ferrovie rumene, prospetto e<br />

sezione, 1901<br />

Locomotiva compound a<br />

quattro cilindri con carrello<br />

italiano per le Ferrovie dello<br />

stato, prospetto, 1908<br />

57


58<br />

Disegno tecnico del<br />

surriscaldatore per<br />

locomotiva-tender, 1909<br />

seguire scrupolosamente i loro disegni e le<br />

prescrizioni dei capitolati relative alla qualità dei<br />

materiali e ai metodi di lavorazione”. Ma subito<br />

però viene orgogliosamente rivendicato lo<br />

sviluppo in proprio di alcuni modelli per cui “i<br />

progetti di questo materiale vennero quasi tutti<br />

studiati dalla Ditta, la quale si formò buona<br />

reputazione anche come progettista” 17 .<br />

1. Su questi temi si rimanda ad alcune riflessioni già svolte e<br />

alla bibliografia in esse contenute; si vedano, ad esempio,<br />

Raimonda Riccini, History from things. Note sulla storia del<br />

disegno industriale, “Archivi e imprese”, 14, dicembre 1994,<br />

pp. 231-235; Alberto Bassi, Gli archivi del progetto, “Archivi e<br />

imprese”, 11-12, gennaio-dicembre 1995, pp. 144-160.<br />

2. Sulle potenziali chiavi di lettura del prodotto esiste una<br />

bibliografia assai estesa; in quanto attinenti al nostro taglio di<br />

analisi, si ricordano, fra l’altro le storie del design, ad esempio<br />

Vittorio Gregotti, Il disegno del prodotto industriale. Italia<br />

1860-1980, Electa, Milano 1982, ma anche George Kubler, La<br />

forma del tempo. Considerazioni sulla storia delle cose,<br />

Einaudi, Torino 1976. Per il punto sullo stato dell’arte degli<br />

studi di design, si veda Enrico Castelnuovo, Jacques Gubler,<br />

Dario Matteoni, L’oggetto misterioso, in Storia del disegno<br />

industriale, a cura di E. Castelnuovo, Electa, Milano 1991, vol.<br />

III: 1919-1990 Il dominio del design, pp. 404-414.<br />

3. Per le specifiche vicende di questo locomotore si rimanda<br />

all’articolata ricostruzione di Roberto Celotta contenuta in<br />

questo volume.<br />

4. Una prima ricognizione dei materiali contenuti nell’Archivio<br />

storico Breda è in Istituto milanese per la storia della<br />

resistenza e del movimento operaio, Annali 3. Studi e<br />

strumenti di storia contemporanea. Guida e fonti dell’Archivio<br />

storico Breda, a cura di Grazia Marcialis, Giuseppe Vignati,<br />

Franco Angeli, Milano 1994.<br />

5. Sulla storia della Breda si veda, fra gli altri, La Breda. Dalla<br />

società italiana Ernesto Breda alla Finanziaria Ernesto Breda<br />

1886-1986, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1986; La<br />

Breda all’estero un secolo di lavoro nel mondo, Amilcare Pizzi,<br />

Cinisello Balsamo (Mi) 1990. Per quanto riguarda più in<br />

generale il progetto alla Breda, Alberto Bassi, Sesto produce:<br />

cultura del progetto nell’industria a Sesto San Giovanni,in<br />

Istituto Milanese per la storia dell’età contemporanea della<br />

resistenza e del movimento operaio, Annali 5. Studi e<br />

strumenti di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano<br />

2000, pp. 97-137.<br />

6. Si veda anche Esposizione di Milano <strong>1906</strong> Materiale<br />

Ferroviario - Società Ernesto Breda per costruzioni meccaniche,<br />

Milano <strong>1906</strong>, dove compaiono anche precise indicazioni sui<br />

reparti impiegati nella produzione ferroviaria. Tre i modelli<br />

presentati nel volume ad esemplificare il catalogo Breda:<br />

locotender FS 8351 da manovra (sviluppo del “nostro” <strong>830</strong>),<br />

locomotiva FS 8851 per treni viaggiatori, locomotiva FS 6943,<br />

di inedita configurazione, denominata “la mucca”.<br />

7. Ricche informazioni sull’organizzazione della produzione in<br />

questi anni, oltre a un abbastanza completo catalogo, sono<br />

contenute in Per la millesima locomotiva, Sieb, Milano 1908.<br />

8. Per la millesima locomotiva, cit., p. 12.<br />

9. Per letture più analitiche e specialistiche, si rimanda, fra


62<br />

Stabilimento Breda Milano,<br />

locomotiva-tender per le<br />

ferrovie Nord Milano, 1924<br />

l’altro, al contributo fondamentale degli storici ferroviari, ricco<br />

di utili elementi tecnici. Quello che interessa, come storici del<br />

progetto, è mettere in luce il maggior numero di elementi<br />

necessari a una comprensione dei fattori che concorrono alla<br />

determinazione complessiva del prodotto.<br />

10. Merita essere sottolineato come, fra le primissime grandi<br />

aziende italiane, già a partire dagli anni trenta in Breda si faccia<br />

strada un ulteriore filone di cultura del progetto, quella degli<br />

architetti-designer che sarà un fattore decisivo per lo sviluppo<br />

dell’industria. A cominciare dal contributo dell’innovativo<br />

elettrotreno Breda ETR200, progettato da Giuseppe Pagano<br />

nella linea aerodinamica e negli interni. L’architetto Pagano è<br />

stato uno dei protagonisti della teoria della cultura e del<br />

dibattito architettonico in Italia fra le guerre; fra l’altro, fu<br />

direttore della rivista “Casabella”, curatore della Triennale<br />

“razionalista” del 1936 e della prima mostra di design alla<br />

Triennale del 1940, progettista di Palazzo Gualino a Torino e<br />

dell’Università Bocconi a Milano (si veda Alberto Bassi, Laura<br />

Castagno, Giuseppe Pagano, Laterza, Roma-Bari 1993;<br />

sull’elettrotreno ETR200 si veda Alberto Bassi, Streamline<br />

italiano, “Casabella”, 653, febbraio 1998, pp. 30-39).<br />

11. Si vedano Per la millesima locomotiva, cit., p. 13; Aeda, Dal<br />

ferro all’acciaio. La Breda siderurgica, Torino 1967, pp. 67-68. La<br />

commissione produce la relazione Le locomotive in America e<br />

Europa. Osservazioni e confronti, Abbiati, Milano 1900, in cui<br />

sono indagate in particolare le questioni relative<br />

all’organizzazione produttiva e tecnica. Ciò ha permesso, ha<br />

scritto Valerio Castronovo, “di impostare meglio il processo di<br />

riorganizzazione intrapreso mediante la suddivisone dei<br />

macchinari e delle maestranze in sezioni omogenee, ma<br />

collegate fra loro”, in V. Castronovo, La Breda nella storia<br />

dell’industria italiana, in La Breda. Dalla società italiana Ernesto<br />

Breda alla Finanziaria Ernesto Breda 1886-1986, cit., p. 11.<br />

12. In generale caratterizzate – secondo lo storico delle ferrovie<br />

Giovanni Corniolò – da “caldaie snelle e senza tanti orpelli e<br />

fronzoli, bielle di sezioni contenute, ruote con cerchi e razze<br />

sottili, che certamente hanno reso aggraziate e filanti le<br />

locomotive delle FS” (G. Corniolò, Locomotive a vapore,<br />

Ermanno Albertelli Editore, Parma 1989, p. 13).<br />

13. Sulla nazionalizzazione in generale, si veda anche Stefano<br />

Maggi, Le ferrovie, Il Mulino, Firenze 2003, pp. 130 sgg. Sul<br />

contesto della produzione ferroviaria si vedano, fra gli altri,<br />

Clive Lamming (1989), I grandi treni dal 1<strong>830</strong> ai nostri giorni,tr.<br />

it. Edizioni Edison, Bologna 1991; Maria Cristina Tonelli Michail,<br />

Ferrovie, in Storia del disegno industriale, a cura di<br />

E.Castelnuovo, Electa, Milano 1990, vol. II: 1851-1918 Il grande<br />

emporio del mondo, pp. 310-316; Piero Muscolino, Ingegnose<br />

realizzazioni italiane per locomotive a vapore, in Piero Berengo<br />

Gardin (a cura di), Ferrovie Italiane. Immagine del treno in 150<br />

anni di storia, Ente Ferrovie dello stato, Editori Riuniti, Roma<br />

1988, pp. 58-61.<br />

14. G. Corniolò, Locomotive a vapore, cit., pp. 32-33; sempre a<br />

proposito delle due “filosofie”, si veda p. 36.<br />

15. G. Corniolò, Locomotive a vapore, cit., p. 425.<br />

16. Come conferma il libretto della caldaia stessa conservato<br />

presso l’Archivio Breda. Che si tratti di una sostituzione, che<br />

Corniolò indica essere avvenuta su diverse <strong>830</strong> (G. Corniolò,<br />

Locomotive a vapore, cit., p. 426), oppure di una sperimentale<br />

preserie.<br />

17. Per la millesima locomotiva, cit., pp. 36, 43.


<strong>LA</strong> STORIA<br />

La comunicazione grafica Breda<br />

all’inizio del Novecento<br />

Allestimento Breda alla<br />

mostra ferroviaria,<br />

Esposizione internazionale di<br />

Milano, <strong>1906</strong><br />

Fiorella Bulegato<br />

Fiorella Bulegato<br />

insegna storia delle<br />

comunicazioni visive alla<br />

facoltà di design e arti<br />

dell’Università Iuav di<br />

Venezia.<br />

63


64<br />

Catalogo per<br />

l’Esposizione internazionale<br />

di Milano, <strong>1906</strong>, copertina e<br />

tavola interna


66<br />

I decenni a cavallo tra Otto e Novecento<br />

costituiscono per l’Italia un particolare momento<br />

in cui si assiste al definitivo decollo industriale e,<br />

di conseguenza, hanno avvio decisive<br />

trasformazioni nelle tecnologie, nei prodotti e nei<br />

consumi, come nelle relative necessità di<br />

comunicazione delle aziende coinvolte. Nel caso<br />

della Breda, l’azienda nata nel 1886 con<br />

l’acquisizione dell’Elvetica, società metallurgica<br />

milanese posta lungo il naviglio Martesana, da<br />

parte dell’ingegner Ernesto Breda, naturalmente<br />

tali esigenze non sono rivolte al mercato dei<br />

consumi di massa – come avviene, ad esempio,<br />

per le industrie alimentari, le aziende elettriche o<br />

per quelle legate ai trasporti individuali1 –, ma<br />

prevedono un interlocutore speciale, che include<br />

quelle istituzioni pubbliche e grandi imprese<br />

private in grado di trovare utile un prodotto ad<br />

uso collettivo come i primi treni, fra gli iniziali<br />

settori d’intervento Breda.<br />

Non è possibile parlare in questi anni di una<br />

“strategia” legata agli aspetti di pubblicizzazione<br />

dell’impresa, sia verso gli scambi interni sia<br />

esterni, ma certamente si assiste alla<br />

predisposizione empirica di vari strumenti<br />

destinati alla comunicazione. Dagli allestimenti e<br />

cataloghi editi in occasione della partecipazione<br />

alle esposizioni al volume per celebrare la<br />

costruzione della millesima locomotiva, dalle<br />

carte intestate ai titoli azionari fino alla<br />

definizione del primo marchio, si registra<br />

un’attenzione crescente ai linguaggi visuali, con il<br />

determinante apporto del mezzo fotografico che<br />

precocemente Breda utilizza per documentare la<br />

fabbrica, il lavoro e le sue realizzazioni2 .<br />

Sono quei materiali “minori” illustrati in cui,<br />

secondo Giovanna Ginex, “va cercata l’origine<br />

dell’odierna comunicazione aziendale” 3 , spesso<br />

privi di indicazioni dell’autore delle composizioni<br />

grafiche, più frequentemente recanti il nome del<br />

fotografo, della tipografia o litografia. Tale<br />

notazione ci permette di sottolineare un ulteriore<br />

fattore propulsivo per la realizzazione di materiali<br />

“grafico-pubblicitari” in questo periodo che<br />

riguarda appunto la maggiore facilità di<br />

diffusione delle immagini grazie alle nuove<br />

tecnologie di riproduzione, ovvero il passaggio<br />

all’incisione fotomeccanica che elimina la<br />

necessità di tradurre le fotografie in incisioni<br />

manuali4 .<br />

Certamente queste prime forme sono state utili a<br />

costruire quella sensibilità che porterà la


Volume celebrativo per la<br />

produzione della millesima<br />

locomotiva Breda, 1908,<br />

copertina e pagina interna<br />

67


68<br />

Marchio della Società<br />

italiana Ernesto Breda,<br />

anni dieci


comunicazione aziendale Breda, dopo il primo<br />

conflitto bellico e in particolare negli anni trenta,<br />

a connotarsi sempre più in termini di relazione<br />

con la cultura del progetto e di definizione di<br />

una propria identità e riconoscibilità.<br />

A cavallo del secolo comunque, ricorrendo a un<br />

repertorio iconografico che si andava<br />

consolidando nell’immaginario collettivo<br />

dell’epoca, anche Breda celebra la fabbrica e la<br />

macchina come sinonimi di progresso. Sono<br />

rappresentazioni che si muovono tra<br />

l’interpretazione allegorica ed eroica di<br />

impostazione classicista, l’integrazione con il<br />

linguaggio realistico della fotografia e l’adesione<br />

all’arte floreale che si stava imponendo anche nel<br />

nostro paese. La presenza degli stabilimenti e dei<br />

loro interni produttivi caratterizza ad esempio la<br />

composizione fotografico-pittorica dello “Stab.to<br />

Elvetica sezione macchine personale notturno,<br />

Achille Ferrario Milano fotografo” 5 . Qui la<br />

rappresentazione pittorica di una figura<br />

femminile avvolta in un panneggio<br />

classicheggiante è abbinata a quella degli operai<br />

al lavoro tra i macchinari, sovrastati da un profilo<br />

della fabbrica dagli scuri fumaioli, ma soprattutto<br />

è commista ai ritratti fotografici: del personale<br />

notturno della sezione macchine e della<br />

locomotiva FS 28366 . Sono il prodotto e il lavoro<br />

che si costruiscono uno spazio nella<br />

comunicazione, ma soprattutto è la<br />

rappresentazione della locomotiva, l’applicazione<br />

più imponente e suggestiva della macchina a<br />

vapore che sta sostituendo l’emblematico<br />

riferimento al telaio meccanico come portatore<br />

dello sviluppo economico e del progresso sociale.<br />

Simile utilizzo della macchina si trova anche nella<br />

grafica dei certificati azionari emessi nel 1900,<br />

dove un’immagine incisa della locomotiva è<br />

contornata da un’imponente cornice ornata di<br />

stampo architettonico, e l’acronimo della Società<br />

italiana Ernesto Breda diventa monogramma ed<br />

elemento decorativo, secondo un linguaggio<br />

grafico-espressivo che si era sviluppato dalla<br />

metà dell’Ottocento.<br />

L’occasione che si offre per mettere a punto i<br />

primi strumenti volti a far conoscere i propri<br />

prodotti ai possibili acquirenti è la partecipazione<br />

all’Esposizione internazionale di Milano del <strong>1906</strong>.<br />

Oltre ad allestire due stand, uno all’interno della<br />

mostra ferroviaria, l’altro in quella agraria, nei<br />

quali vengono mostrati i macchinari accanto alle<br />

immagini di fabbrica7 , come d’uso all’epoca,<br />

viene predisposto anche un catalogo composto<br />

di tre parti (materiale ferroviario, macchine<br />

agricole e motori a “gaz”), in formato ad album,<br />

rilegate sia in un unico volume telato, sia<br />

singolarmente con una copertina in carta legnosa<br />

di colore viola, con impressione in oro di<br />

immagini e scritte8 . La copertina, in particolare,<br />

69


70<br />

raffigura in alto un riquadro con la testa alata di<br />

Mercurio – divinità del commercio e della velocità<br />

– tra gli edifici industriali e una nave,<br />

probabilmente riferibile all’adiacenza degli<br />

stabilimenti di Milano con il Naviglio, inserito in<br />

una cornice vegetale d’impronta floreale che<br />

lambisce i margini e racchiude anche<br />

l’intestazione.<br />

I caratteri e gli stilemi figurativi del periodo sono<br />

evidenti, anche nel lettering scelto che non arriva<br />

però ad essere integrato alle figure come nei più<br />

convincenti esempi dell’arte floreale, e mostrano<br />

una certa sintonia sia con i linguaggi usati da<br />

altri produttori di materiale ferroviario presenti<br />

all’Esposizione del <strong>1906</strong> sia con l’intero e<br />

particolarmente curato apparato grafico e<br />

iconografico della manifestazione che, solo per<br />

citare opere note, deve il manifesto a Leopoldo<br />

Metlicovitz e il logotipo a Adolf Hohenstein scelti<br />

dopo aver bandito dei frequentati concorsi per la<br />

loro progettazione9 .<br />

All’interno, ribadendo la speciale attenzione della<br />

Breda alla realizzazione di documentazione<br />

illustrata e testuale sulle proprie attività, il<br />

catalogo presenta in successione, stampate su<br />

carta di spessore maggiore, gli stabilimenti della<br />

società – comprese le planimetrie e le vedute<br />

degli interni –, le immagini dello stand in fiera, e<br />

fornisce di seguito i “Cenni sugli oggetti esposti”<br />

nelle tre sezioni. Questi ultimi sono una sorta di<br />

“scheda” dei prodotti, composta in 44 tavole,<br />

che sostanzialmente in alto riprende il lettering e<br />

la composizione della carta intestata dell’azienda<br />

– ogni riga un carattere tipografico diverso dove<br />

prevale la componente calligrafica –, al centro<br />

colloca l’immagine fotografica, ad esempio, delle<br />

locomotive, di parti meccaniche o delle carrozze<br />

per i passeggeri, mantenendo solo il contesto del<br />

loro appoggio a terra, e in basso propone la<br />

descrizione delle caratteristiche tecniche dei<br />

prodotti in forma tabellare bilingue. Tutti i testi<br />

sono composti con caratteri graziati scegliendo,<br />

specialmente per i titoli, anche differenti famiglie<br />

dal disegno liberty.<br />

Il libro del 1908 Per la millesima locomotiva<br />

prodotta dalla Breda riprende analoghi linguaggi<br />

figurativi, declinandoli in una pubblicazione<br />

“elogiativa” rivolta a un pubblico più largo.<br />

L’immagine della locomotiva 68100 diventa ora il<br />

soggetto di copertina, resa attraverso<br />

un’incisione in nero e oro che la raffigura<br />

sollevata dalle mani di un tecnico e di un


Catalogo della Società<br />

italiana Ernesto Breda,<br />

anni trenta<br />

71


72<br />

Disegno in occasione<br />

dell’istituzione della cassa di<br />

previdenza della Società<br />

italiana Ernesto Breda, <strong>1906</strong><br />

Certificato azionario della<br />

Società italiana Ernesto<br />

Breda, 1900


operaio. Posta all’interno di un cerchio solcato<br />

dai raggi del sole, è circondata da elementi<br />

nastriformi e vegetali, sempre di ispirazione<br />

liberty, che sottolineano anche il titolo del<br />

volume.<br />

La funzione differente a cui è destinata la<br />

pubblicazione, stampata da Capriolo e<br />

Massimino con fotografie realizzate dalla ditta<br />

G.B. Ganzini, ambedue di Milano10 , è evidente<br />

nello sforzo speso nell’impaginazione interna,<br />

con le immagini della fabbrica di frequente<br />

ritoccate integrate nel testo, i capolettera ornati<br />

dal disegno naturalistico, la visualizzazione<br />

diagrammatica dei progressi produttivi<br />

dell’azienda, il raggruppamento nella pagina dei<br />

modelli realizzati con le loro parti costitutive, la<br />

cura dei disegni – a cui è affidata la descrizione<br />

più propriamente tecnica.<br />

È negli anni dieci che si assiste all’ampliarsi delle<br />

necessità di diffondere l’identità dell’azienda.<br />

Oltre alla definizione di un marchio facile da<br />

identificare – una riproposizione essenziale dei<br />

simboli di Milano all’interno di un cerchio: la<br />

croce e la cinta turrita nello scudetto avvolti da<br />

fogliame di alloro e quercia – si fa ad esempio<br />

più incisivo il ricorso agli annunci pubblicitari. In<br />

questo ambito, la disomogeneità delle scelte<br />

figurative, che oscillano tra l’utilizzo di multiformi<br />

caratteri tipografici e la ripresa di motivi liberty,<br />

sempre associati a fotografie dei propri prodotti,<br />

evolverà a mano a mano arrivando alla<br />

definizione di un linguaggio che, soprattutto<br />

dagli anni trenta, guarderà con convinzione verso<br />

le istanze moderniste11 .<br />

1. A titolo esemplificativo, tra le altre, Branca, Bisleri, Campari,<br />

Società anonima forniture elettriche, Bianchi o Pirelli. Alquanto<br />

documentati sulle vicende della comunicazione delle industrie<br />

dell’area lombarda e utili per un confronto con il caso Breda,<br />

anche per gli anni a cavallo tra Otto e Novecento, sono i<br />

volumi Dario Cimorelli, Giovanna Ginex (a cura di), Storia della<br />

comunicazione dell’industria lombarda 1881-1945, Amilcare<br />

Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1997; Duccio Bigazzi, Giovanna<br />

Ginex (a cura di), L’immagine dell’industria lombarda 1881-<br />

1945, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1998; Antonello<br />

Negri, Immagini di fabbriche, macchine, imprenditori e operai,<br />

in AA.VV., Archeologia industriale in Lombardia, Amilcare Pizzi,<br />

Cinisello Balsamo (Mi) 1981, pp. 57-76.<br />

2. Cospicui materiali sono conservati all’Archivio storico<br />

Breda. Si trovano anche parzialmente illustrati nelle varie<br />

pubblicazioni sulla storia aziendale, in particolare si veda Pepa<br />

Sparti, L’immagine della Breda nello scenario industriale<br />

italiano, in La Breda. Dalla società italiana Ernesto Breda alla<br />

Finanziaria Ernesto Breda 1886-1986, Amilcare Pizzi, Cinisello<br />

Balsamo (Mi) 1986, pp. 33-56 e 86-88.<br />

3. G. Ginex, Dall’Arte all’arte pubblicitaria, in D. Cimorelli, G.<br />

Ginex (a cura di), Storia della comunicazione dell’industria<br />

lombarda 1881-1945, cit., p. 36.<br />

4. La rilevanza delle aziende del settore è documentata, ad<br />

73


74<br />

esempio, dalla presenza nella “guida” Milano nel <strong>1906</strong>,<br />

Amministrazione municipale di Milano, ediz. f.c., della sezione<br />

“Industrie della carta e grafiche”, all’interno del capitolo<br />

dedicato agli impianti industriali, pp. 214-217.<br />

5. L’opera si trova presso l’Archivio storico Breda.<br />

6. G. Ginex, La fabbrica immaginata. La grafica, in D. Bigazzi,<br />

G. Ginex (a cura di), L’immagine dell’industria lombarda 1881-<br />

1945, cit., p. 63, considera proprio questi binomi tra realtà e<br />

simbolo, classicità e tecnologia capaci di fornire “un’inedita<br />

chiave del periodo storico e delle sue contraddizioni”.<br />

7. Precedentemente, è documentata anche la partecipazione<br />

della Cerimedo e C. – una delle società che ha dato origine<br />

all’Elvetica – all’Esposizione Nazionale di Milano del 1881.<br />

8. Alcuni esemplari originali che misurano 23,1x32 cm – in<br />

parte privi di rilegatura – sono conservati all’Archivio storico<br />

Breda, che dispone anche di una copia rilegata<br />

successivamente con copertina rigida, sempre stampata in oro<br />

ma con caratteri goticheggianti.<br />

9. A titolo esemplificativo si vedano, sempre per l’Esposizione<br />

del <strong>1906</strong>, le copertine dei cataloghi dell’azienda berlinese<br />

Schwartzopff e della Società privilegiata austro-ungherese<br />

delle ferrovie dello stato maggiormente affini ai canoni della<br />

sensibilità secessionista e jugendstil. Anche il riconoscimento<br />

per l’istituzione della cassa di previdenza che gli impiegati<br />

Breda dedicano alla Società nel dicembre <strong>1906</strong>, sempre<br />

conservato all’Archivio storico Breda, riprende la figura del<br />

logotipo ideato da Hohenstein, presentando due nudi virili<br />

accanto agli attrezzi del lavoro che guardano verso una<br />

distesa di fabbriche. Ricordiamo anche che in questo periodo<br />

si stanno definendo ruoli e compiti della cosiddetta arte<br />

applicata all’industria e di chi opera in questi campi.<br />

10. Il volume originale, di formato 23x32 cm ca, è esposto<br />

all’Archivio storico Breda; è stato inoltre ristampato nel<br />

1985 a cura di due ex dipendenti Breda.<br />

11. Almeno dal 1924 opera l’ufficio pubblicità che ha sede<br />

in via Bordoni a Milano dove si trovano gli uffici<br />

direzionali Breda. Nei primi anni trenta inoltre la Breda si<br />

avvale ad esempio di Renzo Bassi (1903-78), attivo negli<br />

stessi anni anche alla Pirelli. Ne tratta, con particolare<br />

riferimento agli anni quaranta, Giovanna Ginex, Le forme<br />

della comunicazione aziendale: il caso Breda, in Istituto<br />

Milanese per la storia dell’età contemporanea della<br />

resistenza e del movimento operaio, Annali 6. Studi e<br />

strumenti di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano<br />

2004, pp. 213-219.


Annuncio pubblicitario<br />

della Società italiana Ernesto<br />

Breda, anni dieci<br />

75


76<br />

Cristina De Vecchi,<br />

studiosa di fenomenologia<br />

dell’immagine, si occupa di<br />

fotografia e cura gli archivi<br />

di alcuni fotografi italiani<br />

<strong>LA</strong> STORIA<br />

Immagini e immaginario della tecnica<br />

nell’Archivio fotografico Breda<br />

Costruzione di una caldaia<br />

per locomotive a vapore,<br />

anni venti<br />

Cristina De Vecchi


Alleanza tra macchina fotografica<br />

e immagini della tecnica<br />

Le immagini della tecnica all’inizio dell’Ottocento<br />

sono principalmente immagini di oggetti, non<br />

diversamente da quanto accade in altri ambiti<br />

della fotografia. La predilezione che la fotografia<br />

ha mostrato, fin dalle sue origini, per gli oggetti<br />

è stata spesso spiegata con la subordinazione ai<br />

limiti tecnici del procedimento fotografico. Più<br />

ricco di conseguenze sembra il punto di vista<br />

secondo il quale al contrario “la fotografia<br />

dell’oggetto si costruisce su una nuova estetica<br />

che magnifica, sacralizza e trasfigura l’oggetto e<br />

contribuisce ad affrancare il mezzo fotografico da<br />

ogni riferimento pittorico passato inscrivendolo<br />

nel cuore stesso della rappresentazione della<br />

modernità” 1 . La rinnovata coscienza tecnica,<br />

implicita nell’uso documentario, consente alla<br />

fotografia di superare la crisi di identità che,<br />

ancora sul finire dell’Ottocento, la obbliga a<br />

nascondere le proprie forme sotto le vesti<br />

dell’incisione o del dipinto. È nelle immagini degli<br />

oggetti che la fotografia, anche in ambito<br />

artistico, assume in proprio e applica le<br />

caratteristiche meccaniche e mimetiche del mezzo<br />

e le sue conseguenze estetiche: nettezza<br />

dell’immagine, piani ravvicinati e precisione del<br />

dettaglio, ruolo della luce nella costruzione<br />

dell’immagine. Tecnicamente la scelta si<br />

concretizza nell’abolizione di ogni forma di<br />

intervento estetizzante nella stampa fotografica e<br />

nel fare di quest’ultima un fedele rendiconto di<br />

una realtà sapientemente orchestrata.<br />

Inoltre la particolare affermazione della fotografia<br />

in ambito tecnico-industriale è anche rivelatrice<br />

di ciò che i contemporanei pensano della sua<br />

natura: l’immagine fotografica è vissuta anzitutto<br />

come testimonianza autentica del reale, la sua<br />

perfezione analogica ne suggerisce l’uso come<br />

efficace strumento per l’inventario. L’archivio<br />

fotografico della Breda, da questo punto di vista,<br />

è un’ulteriore conferma dell’alleanza tra<br />

macchina fotografica e tecnica. È stato notato<br />

come lo strumento fotografico si sia mostrato<br />

poco adatto a esprimere la maestà del quadro<br />

offerto dalla potenza della nascente industria<br />

siderurgica2 . Il “sublime industriale”, dove<br />

convivono seduzione e timore, trova la sua<br />

migliore espressione in letteratura e nelle arti<br />

tradizionali del disegno e della pittura.<br />

L’approccio fotografico si rivela invece migliore<br />

77


78<br />

Locomotiva-tender 290 per le<br />

ferrovie Nord Milano, 1923<br />

alleato della macchina industriale, della quale<br />

consente di documentare i progressi. L’utopia<br />

industriale, la promessa di un futuro migliore è<br />

testimoniata dalla prova fotografica, capace di<br />

diffondere agli occhi del mondo, tappa per<br />

tappa, la nascita degli stabilimenti, dei reparti e<br />

dei prodotti. Grazie al suo ruolo promozionale la<br />

fotografia, raddoppiando e moltiplicando il<br />

segno e la presenza del prodotto, si fa valere<br />

come immagine dell’avvenire.<br />

Dal punto di vista della tipologia il patrimonio<br />

fotografico della Breda rispetta la varietà del<br />

rapporto tra fotografia e industria agli inizi del<br />

Novecento: edifici, reparti, uffici, qualche foto di<br />

lavoro, molte immagini che mostrano la<br />

successione dei modelli delle motrici e dei vagoni<br />

e infine la serie più tecnica, dedicata alle “parti”<br />

della locomotiva3 . Questa scelta interpreta anche<br />

i diversi generi della fotografia documentaria<br />

(paesaggio industriale, architettura, ritratto<br />

sociale, oggetti) e declina l’immaginario<br />

industriale del periodo: la visione utopica<br />

dell’insediamento industriale, quella del lavoro,<br />

che si fa eroica nel montaggio e nel trasporto


della locomotiva, e infine quella “oggettiva”<br />

della tecnica, nelle immagini della locomotiva ma<br />

ancor più nella documentazione minuziosa delle<br />

sue componenti.<br />

Il compito del fotografo d’impresa è di realizzare<br />

inquadrature degli edifici industriali e degli interni<br />

dei reparti che possano servire ai fini della<br />

comunicazione pubblicitaria o celebrativa<br />

dell’azienda.<br />

Nel catalogo per l’Esposizione internazionale di<br />

Milano del <strong>1906</strong> o nel volume concepito per<br />

celebrare la produzione della millesima locomotiva<br />

Breda del 1908, l’immagine fotografica è per lo<br />

più riservata alla documentazione degli oggetti,<br />

mentre per i luoghi, le architetture e le scene di<br />

lavoro è ancora necessario l’intervento valorizzante<br />

della mano del disegnatore. È la nozione di<br />

autenticità che contribuisce a determinare il ruolo<br />

dominante della fotografia nella costruzione<br />

dell’identità aziendale. Ma poiché l’identità non è<br />

un oggetto da scoprire ma da costruire, il risultato<br />

di una narrazione, il ricorso al valore documentario<br />

della fotografia, appare sempre più un richiamo<br />

all’evidenza dell’immagine, e sempre meno un<br />

rimando al vero. Il disegno o bozzetto “tratto da<br />

fotografia” funziona come un ritratto formalizzato<br />

che risponde alla finalità propria del volume<br />

celebrativo, mentre la fotografia è una “metafora<br />

viva” che fa dell’immagine qualche cosa a metà<br />

tra invenzione e scoperta4 . La rarità della presenza<br />

umana (anch’essa da ricondurre a problemi<br />

tecnici) rinforza la connotazione utopica delle<br />

immagini mentre il valore “realista” del mezzo<br />

conferisce alle visioni un’esistenza tangibile. Per gli<br />

industriali dell’epoca queste rappresentazioni<br />

confermano ad un tempo il loro talento visionario,<br />

il buon fondamento delle loro credenze<br />

economiche e rassicurano i destinatari circa la<br />

qualità tecnica, sociale e morale della loro impresa.<br />

Negli album celebrativi, accanto alle prospettive<br />

degli edifici e alle scene dei reparti, fa la sua<br />

comparsa l’immagine della macchina. La<br />

locomotiva e il dettaglio delle sue componenti<br />

tecniche assumono a loro modo la doppia<br />

connotazione di “autorità e magia” che fin<br />

dall’antichità accompagna l’immaginario della<br />

macchina5 . Accanto alla meraviglia per il<br />

funzionamento magico di macchine sofisticate si<br />

accompagna il senso di autorità per i prodotti e la<br />

loro affidabilità: l’assenza del controllo da parte<br />

dell’uomo sembra aumentare in qualche modo la<br />

veridicità dei loro risultati.<br />

79


Partenza dal porto di Genova<br />

di una locomotiva a vapore<br />

per l’Egitto, 1924<br />

81


82<br />

Stabilimento di Sesto San<br />

Giovanni, fonderia per ruote<br />

di locomotive, anni venti


L’archivio come luogo della visione<br />

Per evitare di cadere nell’interpretazione a<br />

posteriori, perdendo di vista il contesto di origine<br />

delle immagini fotografiche e le motivazioni che<br />

stanno alla base della loro produzione, è<br />

necessario saper distinguere la ricostruzione del<br />

“significato storico” del materiale fotografico<br />

dalla trasformazione che la nostra cultura visiva<br />

necessariamente imprime alle immagini. Infatti le<br />

fotografie “ben lontane dal costituire<br />

testimonianze autonome e obiettive della vicenda<br />

dell’impresa, sembrano infatti ancor più riluttanti<br />

dei documenti scritti a fornire le informazioni che<br />

si chiedono loro” 6 . A questa difficoltà risponde la<br />

funzione stessa dell’archivio: “Ai fini di un loro<br />

utilizzo come fonti storiche, è preliminare un<br />

lavoro di ricostruzione della serie, di verifica delle<br />

cronologie e di reperimento di tutte le<br />

informazioni utili riguardanti i soggetti<br />

raffigurati” 7 .<br />

Ma dal punto di vista più propriamente<br />

fotografico l’archivio è anche il risultato finale del<br />

lavoro, una realtà visiva che accompagna la storia<br />

della fotografia fin dalle sue origini. L’archivio,<br />

come luogo della collezione e della visione<br />

comparata delle immagini fotografiche, sviluppa<br />

una dialettica dell’identità e della differenza,<br />

della norma e della deviazione che mostra alla<br />

perfezione un’alternanza di economia e di<br />

immaginazione, di razionalità e di<br />

improvvisazione, di dati preesistenti e di<br />

interventi modificatori. Così intesa, la visione<br />

privilegiata dell’archivio si fonda su un’astrazione<br />

radicale che non autorizza più il sentimento<br />

immediato degli oggetti fotografati. Si tratta di<br />

una realtà complessa dove rivaleggiano l’estetica<br />

e il documentario e dove gli aspetti formali e<br />

fattuali si riconciliano.<br />

Oggetti e punti di vista<br />

Limitiamoci allora a guardare la serie “tecnica”<br />

delle componenti della locomotiva, ovvero quelle<br />

immagini che possiamo considerare a rigore<br />

come appartenenti al genere fotografico degli<br />

oggetti, mettendo per un attimo tra parentesi il<br />

contesto materiale della loro produzione. Non ci<br />

sarà difficile scorgere in queste immagini una<br />

stretta parentela con gli oggetti del movimento<br />

dadaista, da un lato, e dall’altro con lo “stile<br />

documentario” della fotografia del Novecento.<br />

“In ambito artistico il XX secolo si apre con un<br />

oggetto: un orinatoio, ribattezzato Fointaine<br />

esposto nel 1917 da Marcel Duchamp. La<br />

fotografia dell’oggetto realizzata da Alfred<br />

Stieglitz sconvolge il mondo dell’arte. Un simile<br />

oggetto assurto ad opera d’arte per il solo fatto<br />

di essere esposto, mette in discussione l’ordine<br />

83


84<br />

borghese e annuncia i mutamenti del nuovo<br />

secolo” 8 . Trapiantato e privato delle finalità che gli<br />

sono proprie, l’oggetto tecnico rivela potenzialità<br />

estetiche e significati inattesi e si espone alla<br />

possibilità di essere afferrato da un punto di vista<br />

formale. Il mondo risolutamente industriale e<br />

tecnico dei primi del secolo, popolato di<br />

manufatti, sente la fotografia come il mezzo<br />

meccanico adeguato e dunque “moderno”.<br />

Lo stile documentario<br />

Se sul versante dell’oggetto l’associazione è<br />

legittima anche da un punto di vista cronologico,<br />

sul versante dell’immagine si produce invece uno<br />

spostamento. Nelle serie “tecnica” riconosciamo<br />

una tendenza più tarda della fotografia. Lo “stile<br />

documentario” si afferma come tale verso la<br />

prima metà del Novecento e trova negli anni<br />

sessanta, nella fotografia dei Becher, la sua più<br />

consapevole applicazione all’oggetto tecnico9 .<br />

Questa concezione della fotografia, detta anche<br />

“nuova oggettività” fu spesso assimilata in sede<br />

critica alla fotografia concettuale. In realtà i<br />

Becher, contrapponendosi alla tendenza della<br />

“fotografia soggettiva” in cui le proprietà<br />

estetiche dell’immagine trionfano sul contenuto,<br />

si richiamano esplicitamente alla fotografia<br />

industriale dei primi del secolo. Ma vedere le<br />

analogie è utile soprattutto per riconoscere le<br />

differenze. Serve infatti ricordare che l’intenzione<br />

è ciò che differenzia lo stile documentario in<br />

fotografia dall’arte concettuale, così come è<br />

sempre l’intenzione che inesorabilmente<br />

distingue le immagini tecniche della Breda dal<br />

ready-made dadaista. Ciò che vale per la<br />

fotografia non è un oggetto qualunque,<br />

intercambiabile ad effetto, ma quell’oggetto in<br />

particolare, la sua forma specifica. In fin dei conti<br />

non è del tutto sbagliato il giudizio dei detrattori,<br />

che vedono nell’uso documentario della<br />

fotografia, sia esso espressione della professione<br />

o della ricerca, la sua condanna al ruolo di puro<br />

“inventario visivo”. Questa critica in realtà mette<br />

in luce un fatto incontestabile al quale si è<br />

accennato all’inizio: l’uso documentario della<br />

fotografia mostra i suoi limiti di fronte alla<br />

complessità della realtà industriale. Poiché se è<br />

possibile rendere “oggettivamente” la sua<br />

struttura tecnica altrettanto non si riesce a fare<br />

per quella sociale ed economica.<br />

Come si è visto, le pubblicazioni celebrative della<br />

Breda sembrano condividere l’idea che, se il<br />

dettaglio isolato può essere colto da una visione<br />

obiettivante, la totalità, dalla quale gli oggetti<br />

isolati traggono la loro funzione e la loro<br />

rilevanza, sfugge alla rappresentazione<br />

fotografica. È interessante notare come questa<br />

opinione ricordi il dibattito di natura scientifica


In senso orario:<br />

oliatore, lanterna, secchio,<br />

pala, scovolino e imbuto per<br />

l’olio,<br />

fondo di un cilindro,<br />

testa e croce di un raccordo<br />

biella cilindro,<br />

leva inversione di marcia,<br />

attrezzi fuochista<br />

85


86<br />

In senso orario:<br />

assale, raccordo<br />

scappamento camera fumo,<br />

componente camera fumo,<br />

coperchio della camera fumo


che, tra la fine dell’Ottocento e i primi del<br />

Novecento, si svolge sul ruolo del “meccanismo”<br />

e il suo rapporto con la”macchina” 10 .<br />

Fotografia senza autore<br />

“Gli oggetti che ci interessano hanno in comune di<br />

essere stati concepiti senza considerazione alcuna<br />

per le proporzioni e le strutture ornamentali. La<br />

loro estetica è caratterizzata dal fatto di essere stati<br />

creati senza intenzione estetica” 11 . Possiamo<br />

prendere a prestito questa affermazione<br />

programmatica dei Becher per descrivere la nostra<br />

“serie tecnica”. Le immagini esprimono bene il<br />

fascino che il mondo delle cose esercita sul<br />

fotografo intento a riprodurre, a fissare gli oggetti,<br />

grazie al mezzo fotografico, secondo un processo<br />

dove gli elementi estranei non devono avere, per<br />

così dire, parte alcuna. In queste immagini il solo<br />

procedimento autorizzato per il fotografo consiste<br />

nell’isolare l’oggetto dalla realtà circostante. Una<br />

sorta di operazione di astrazione, in quanto nel<br />

mondo gli oggetti si trovano tra di loro variamente<br />

compromessi. L’intervento, che il fotografo realizza<br />

grazie a una serie di accorgimenti tecnici, è<br />

necessario per ottenere quella che si pensa essere<br />

una “visione chiara” della loro forma, premessa<br />

necessaria al loro riconoscimento in quanto tali.<br />

“La tecnica non ha bisogno di essere interpretata,<br />

s’interpreta da sola. È sufficiente scegliere gli<br />

oggetti, metterli in immagine con precisione, e gli<br />

oggetti raccontano da se stessi la loro storia” 12 .<br />

Nell’oggetto tecnico la funzione è evidente e lo<br />

stile documentario vuole una fotografia senza<br />

autore. Ma è vero che la tecnica si interpreta da<br />

sola? Non è certo la tecnica sotto forma dei suoi<br />

oggetti (ruote, trasformatori, sospensioni, giunti,<br />

boccole ecc.) che le fotografie rendono visibili.<br />

Queste immagini non rendono semplicemente la<br />

realtà e neppure la interpretano ma è vero<br />

piuttosto che la realtà diventa sempre più simile a<br />

ciò che l’immagine fotografica mostra: “La<br />

fotografia porta in sé ciò che noi sappiamo del<br />

mondo accettandolo quale la macchina lo<br />

registra” 13 .<br />

Oggi, nel considerare queste immagini nel loro<br />

insieme, abbiamo la sensazione che il tempo abbia<br />

operato un notevole cambiamento di senso, là<br />

dove la valorizzazione della forma si è andata<br />

sostituendo all’aspetto documentario, fino ad<br />

occultarlo quasi del tutto. La funzione<br />

documentaria è venuta meno assieme alla<br />

funzione d’uso degli oggetti, lasciando spazio al<br />

sorgere della forma e con essa alla nostra reazione<br />

estetica. Il risultato estetico di questa serie di<br />

fotografie sotto il nostro sguardo è tale che viene<br />

da ricordare un’affermazione di Klee secondo la<br />

quale “l’arte non riproduce il visibile ma rende<br />

visibile” 14 .<br />

87


88<br />

1. Sylvie Aubenas, Dominique Versavel, Objets dans l’objectif,<br />

Sceren-Cndp, Paris 2005, p. 16.<br />

2. Didier Aubert, Photographie et utopie industrielle, “Revue<br />

française d’études américaines”, 89, 2001/3.<br />

3. Queste ultime, in particolare, sono state messe in luce<br />

grazie alla preziosa guida di Rosaria Moccia nella visione delle<br />

fotografie dell’Archivio storico Breda.<br />

4. Il termine, usato qui in modo del tutto disinvolto, rimanda<br />

sia all’ermeneutica di Paul Ricoeur sia alle riflessioni<br />

filosofiche di Aldo Gargani sul rapporto tra “linguaggio e<br />

tecnica”: “Nell’esperienza scientifica l’elemento estetico<br />

assume un particolare valore a proposito della ‘metafora viva’,<br />

di quel processo in base al quale solo in presenza di una<br />

nuova rappresentazione metaforica di un certo fenomeno di<br />

una certa realtà noi accediamo ad un’inedita conoscenza di<br />

quel fenomeno e di quella realtà” (Aldo Giorgio Gargani, Il<br />

testo del tempo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 7-8).<br />

5. Si veda Renato Betti, Macchina, in Enciclopedia, vol. 8,<br />

Einaudi, Torino 1979, in particolare il paragrafo I.1. Autorità e<br />

magia, pp. 607-608.<br />

6. Riferimento fondamentale a questo proposito resta il testo<br />

di Duccio Bigazzi, Gli archivi fotografici e la storia<br />

dell’industria, “Archivi e imprese”, 8, 1993, p. 11.<br />

7. D. Bigazzi, Gli archivi, cit., p. 17.<br />

8. S. Aubenas, D. Versavel, Objets dans l’objectif, cit., p. 20.<br />

9. Per la storia e l’estetica dello “stile documentario” si veda Olivier<br />

Lugon, Le stile documentaire, Macula, Paris 2001.<br />

10. Cfr. F. Reuleaux, cit. in R. Betti, Macchina, cit., in particolare il<br />

paragrafo I.6. La geometria delle macchine. Col termine di meccanismo<br />

si intendono quegli elementi “che non hanno una destinazione<br />

propria, diversa da quella […] di concorrere al funzionamento<br />

complessivo della macchina”. Le descrizioni “geometriche” che<br />

vedono la macchina come “un montaggio di pezzi”, lasciano<br />

insoddisfatto Reuleaux, autore di uno dei più noti testi sulle macchine<br />

di fine Ottocento:“esse sono intieramente o preponderatamente di<br />

natura descrittiva; l’essenziale si trova esposto come accessorio”.<br />

L’obiettivo è raggiungere una descrizione che sappia ricomporre la<br />

separazione tra gli aspetti pratici della costruzione e gli aspetti teorici<br />

del progetto che veda la macchina come “un insieme di corpi resistenti<br />

disposti in modo da obbligare col loro mezzo le forze meccaniche<br />

naturali ad agire secondo movimenti determinati” (pp. 617-620).<br />

11. Così si esprimono Bernd e Hilla Becher nel 1969. La citazione<br />

è tratta dal retro di copertina del catalogo della mostra Bernd et<br />

Hilla Becher, Centre Pompidou, Paris 2004. Sculture anonime è il<br />

titolo del saggio che i Becher pubblicano nel catalogo della loro<br />

esposizione di Düsseldorf del 1969, una delle più note raccolte<br />

delle loro foto di “oggetti” tecnici, volendo così sottolineare la<br />

differenza di fondo rispetto alle “sculture involontarie” della<br />

fotografia surrealista.<br />

12. Michael Köhler, Interview mit Bernd und Hilla Becher, 1989,<br />

cit. in Armin Zweite, Bernd et Hilla Becher: “Proposition pour une<br />

façon de voir”. 10 perspectives, in Bernd et Hilla Becher, cit., p. 9.<br />

13. Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1978, p. 22.<br />

14. Cit. in A. Zweite, Bernd et Hilla Becher: “Proposition pour<br />

une façon de voir”, cit., p. 9.


A sinistra:<br />

valvola coale per lo sfogo<br />

vapore<br />

A destra:<br />

martinetto sollevatore<br />

per locomotive<br />

89


90<br />

G. Broglio (attribuito),<br />

progetto per l’edificio di<br />

ingresso e la direzione della<br />

Breda a Sesto San Giovanni,<br />

1916<br />

<strong>LA</strong> STORIA<br />

Urbanistica<br />

e architettura di fabbrica alle<br />

origini di Sesto industriale<br />

Cecilia Colombo


“Nel loro complesso i tre stabilimenti di proprietà<br />

della Società Breda occupano ora oltre 456.000<br />

mq di area, dei quali 97.000 coperti; anzi,<br />

essendo alcuni fabbricati a due piani, l’area<br />

coperta utilizzata è effettivamente di mq<br />

105.000. Queste officine dispongono<br />

complessivamente di 4000 cavalli di forza<br />

installata, distribuita sotto forma di corrente<br />

elettrica mediante 12 km di linee. Sono servite<br />

da 19 km di binario a scartamento normale,<br />

utilizzati parte per montaggi, parte per manovre<br />

e depositi. Dispongono di circa 1400 macchine<br />

utensili; di 27 gru a ponte e di 7 carri di<br />

trasbordo. Danno lavoro complessivamente a<br />

circa 4500 operai”. Così l’entusiastica<br />

enumerazione della “potenza” aziendale Breda<br />

nel 1908, anno della millesima locomotiva1 .<br />

L’arrivo della Breda a Sesto (1903) inaugura una<br />

stagione del tutto nuova nel processo di<br />

industrializzazione del territorio: quella dei grandi<br />

complessi produttivi, che nel giro di pochi anni<br />

(la Ercole Marelli si insedia nel 1905, la A.F.L.<br />

Falck nel <strong>1906</strong>) trasformano radicalmente il<br />

paesaggio urbano e sociale. Una<br />

industrializzazione esogena, prodottasi a causa di<br />

fenomeni non legati alla storia locale ma<br />

dipendenti dalle dinamiche dello sviluppo<br />

economico della città di Milano.<br />

Numerose indagini di storia economica,<br />

sociologia urbana, archeologia industriale hanno<br />

ormai tracciato con chiarezza il quadro della<br />

particolarissima città-fabbrica di Sesto2 . Si vuole<br />

qui fornire una sintesi davvero rapida, una<br />

veduta panoramica della nascita di questa<br />

“Stalingrado d’Italia”, che nella seconda metà<br />

dell’Ottocentoo passa da piccolo centro agricolo<br />

– con attività manifatturiere legate al settore<br />

tessile, in particolare filatura e torcitura della seta<br />

– a snodo di importanti vie di comunicazione:<br />

una linea ferroviaria internazionale (la linea<br />

cruciale del Gottardo, aperta nel 1882 saldandosi<br />

alla Milano-Monza, tratta “antesignana” della<br />

rete italiana) cui si collega un proprio scalo merci<br />

(costruito a partire dal 1885) e un servizio di<br />

trasporto locale (la tramvia a cavalli per Milano,<br />

elettrificata nel 1901), offrendo così le condizioni<br />

ideali per lo sviluppo.<br />

Nei tardi anni ottanta infatti compaiono le prime<br />

fabbriche metallurgiche (carpenterie in ferro,<br />

lattonieri) di iniziativa locale, che mettono in luce<br />

la vocazione di Sesto come bacino di raccolta di<br />

manodopera dalla popolosa area prealpina.<br />

Cecilia Colombo,<br />

storica dell’architettura e del<br />

disegno industriale, insegna<br />

storia dell’architettura<br />

all’Università degli studi<br />

di Milano<br />

91


Manodopera rigettata dalle ricorrenti crisi<br />

agricole, il cui basso costo suona come un invito<br />

assai allettante per gli imprenditori milanesi. I<br />

quali, secondo un preciso piano di<br />

allontanamento dell’industria pesante dal centro<br />

città, ben presto iniziano trasferire a Sesto le loro<br />

produzioni. La comodità dei collegamenti con il<br />

capoluogo, poi, facilita gli spostamenti del<br />

personale dirigente e tecnico e le comunicazioni<br />

con le sedi di rappresentanza rimaste in centro.<br />

Il primo tra questi insediamenti “non serici” di<br />

provenienza milanese è certo l’Osva - Officine di<br />

Sesto San Giovanni Valsecchi Abramo,<br />

impiantato nel 1891; una fonderia e smalteria<br />

che produce rubinetterie e attrezzature sanitarie.<br />

Con il nuovo secolo – e con la trasportabilità<br />

dell’energia elettrica su larga scala – entrano in<br />

scena anche la meccanica e la siderurgia. Il ritmo<br />

della crescita è martellante: oltre alla Breda, nel<br />

1903 apre la Campari; nel 1905, oltre alla Marelli<br />

aprono le fonderie Attilio Franco e Luigi Balconi,<br />

le Pompe Gabbioneta, le Corderie e trafilerie<br />

Spadaccini, le officine Menin; nel <strong>1906</strong> la Falck,<br />

nel 1907 il Laminatoio Nazionale, nel 1909 le<br />

distillerie Moroni, e così via, solo per citare le più<br />

note in una costellazione di grandi e piccole<br />

imprese che procedono poi, tra fusioni,<br />

acquisizioni e filiazioni, verso la definizione dei<br />

grandi gruppi industriali moderni. Non bisogna<br />

inoltre dimenticare la Pirelli, che sebbene<br />

Stabilimento Breda Milano,<br />

inizio Novecento<br />

93


94<br />

Veduta degli stabilimenti<br />

Breda di Milano, Sesto San<br />

Giovanni e Niguarda, fine<br />

anni dieci<br />

localizzata in territorio milanese gravita sul polo<br />

urbano di Sesto ben prima di occuparne una<br />

fetta nel 19323 .<br />

La localizzazione di queste imprese segue<br />

“naturalmente” quella delle infrastrutture,<br />

dapprima il tracciato del vialone asburgico tra<br />

Milano e Monza e poi, con il comparire<br />

dell’industria pesante, la linea ferroviaria e le sue<br />

possibili diramazioni. Gli industriali milanesi si<br />

procurano facilmente i terreni ex agricoli ubicati<br />

lungo la ferrovia, attraverso alcune società<br />

immobiliari appositamente costituite unendo i loro<br />

capitali a quelli della proprietà fondiaria, di banche<br />

e gruppi finanziari interessati ai futuri investimenti


immobiliari. Due di queste, in particolare,<br />

condizionano l’urbanistica sestese, come nuclei dei<br />

successivi sviluppi, rispettivamente, delle aree<br />

Breda-Pirelli e Falck: la SAQINM e la SA Milano4 .<br />

La prima studia un progetto di quartiere<br />

industriale per 5 milioni di mq tra Milano e<br />

Monza, da costruirsi lungo un ampio viale, un<br />

moderno “asse attrezzato” corrispondente alla<br />

direttrice di viale Zara; la seconda procede<br />

all’acquisto di vastissime aree a est della ferrovia e<br />

alla stesura di un piano di espansione urbana<br />

lungo l’asse obliquo di viale Italia.<br />

In molti casi il trasloco a Sesto, con la costruzione<br />

dei nuovi impianti, è l’occasione per un<br />

ragguardevole ammodernamento produttivo<br />

dell’azienda, un aggiornamento tecnologico e<br />

igienico (secondo le regole sempre più severe<br />

dettate dalle compagnie di assicurazione). La<br />

soddisfazione per la “qualità” dei nuovi ambienti<br />

di lavoro emerge dal confronto con i vecchi<br />

spazi: “All’Elvetica5 si scorge lo studio e la<br />

preoccupazione di usufruire nel miglior modo del<br />

poco spazio disponibile, di godere ogni angolo,<br />

ogni vano. I cortili sono quasi soppressi, i<br />

magazzini ridotti al minimo […] A Sesto invece è<br />

caratteristica la regolarità e l’uniformità dei<br />

fabbricati, costruiti secondo un piano preordinato<br />

e separati da vasti piazzali. Le tettoie sono tutte<br />

con ossatura di ferro, coperte a sheds, con ampi<br />

lucernari che diffondono una luce uniforme e<br />

copiosa. […] La sala per la lavorazione meccanica<br />

del legno è dotata del più moderno macchinario<br />

e l’ambiente è mantenuto pulito e scevro di<br />

polvere mediante l’aspirazione meccanica dei<br />

trucioli” 6 .<br />

Quanto ai tipi architettonici degli edifici<br />

industriali, se nell’Ottocento prevaleva quello di<br />

95


96<br />

Planimetria dello<br />

stabilimento Breda di Sesto<br />

San Giovanni, dal volume<br />

Per la millesima locomotiva,<br />

1908


Progetto di ampliamento<br />

degli stabilimenti Breda di<br />

Sesto San Giovanni, anni<br />

venti<br />

97


98<br />

ordinarie costruzioni a più piani, che si<br />

susseguivano lungo il fronte stradale, il nuovo<br />

paesaggio urbano sestese è caratterizzato da<br />

immense fabbriche sviluppate in orizzontale, da<br />

cui spuntano qua e là esili ciminiere. Dietro<br />

lunghi, monotoni muri perimetrali interrotti solo<br />

dagli ingressi e dalle facciate delle palazzine<br />

direzionali, ingentiliti da qualche elemento<br />

architettonico vagamente modernista, si osserva<br />

il ripetersi invariato dei capannoni a shed,<br />

collegati da una rete interna di percorsi<br />

intrecciati: binari, strade, passerelle. Dietro quei<br />

muri, a partire dal grande impulso ricevuto dalle<br />

commesse belliche e fino a tutti gli anni trenta, si<br />

organizzano le cittadelle aziendali Breda, Falck,<br />

Marelli, Pirelli.<br />

Difficile trovare la firma di un progettista: queste<br />

cattedrali della produzione – di cui pochissime<br />

testimonianze sopravvivono oggi, molto alterate<br />

– sono per lo più anonime, disegnate<br />

verosimilmente dagli uffici tecnici7 o ancor più<br />

semplicemente dalle stesse imprese edili che ne<br />

ricevono la commessa.<br />

I capannoni utilizzano strutture in acciaio o in<br />

cemento armato e coperture metalliche, con i<br />

caratteristici lucernari degli sheds orientati verso<br />

nord. I più imponenti, come la Breda locomotive,<br />

hanno travi a traliccio in cemento armato anche<br />

per la copertura. Le pareti in semplici mattoni,<br />

spesso lasciati a vista, si aprono con sequenze di<br />

finestroni ad arco ribassato.<br />

“L’architettura è per il 90% business e per il<br />

10% arte”, amava dire Albert Kahn, l’architetto<br />

delle grandi compagnie automobilistiche<br />

statunitensi, da Packard a General Motors,<br />

Dodge e Ford – per la quale disegnerà più di<br />

mille edifici8 . Negli anni in cui sorgono i<br />

capannoni sestesi, Kahn introduce negli Usa la<br />

maglia strutturale in cemento armato (già<br />

conosciuta in Europa) e realizza stabilimenti<br />

luminosi, puliti, funzionali, che ospitano le prime<br />

catene di produzione fordiste; edifici dominati<br />

dalla razionalità, dal controllo della sequenza<br />

spaziale in base alle fasi produttive. E se non si<br />

può affermare lo stesso per gli impianti di Sesto,<br />

dove l’edificazione è graduale, dettata<br />

soprattutto dalle contingenze (ad esempio le<br />

cospicue commesse ferroviarie, l’aggiunta di una<br />

linea produttiva o di una lavorazione prima data<br />

all’esterno, l’ampliamento dei magazzini),<br />

l’estensione del costruito (tra il 1903 e il 1911<br />

Sesto è il sito con la più rapida e la più vasta<br />

industrializzazione in Europa) indica che un<br />

richiamo ai grandi distretti industriali di Detroit<br />

non è certo azzardato.<br />

Circondano i grandi impianti, e qualificano nel<br />

tempo il tessuto urbano sestese, i numerosi<br />

quartieri residenziali e servizi per i dipendenti,<br />

voluti dalle imprese anche di medie dimensioni


fin dai primi anni del secolo, concepiti nell’ottica<br />

paternalistica per stabilizzare e “fidelizzare” la<br />

manodopera. Anche sui villaggi operai di Sesto,<br />

che a differenza dei capannoni restano oggi in<br />

gran parte riconoscibili, gli studi sono numerosi9 :<br />

basti qui ricordare che essi si inseriscono a pieno<br />

titolo nell’ampio dibattito apertosi sul tema<br />

dell’alloggio popolare agli inizi del Novecento10 ,<br />

terreno di sperimentazioni tipologiche e<br />

tecnologiche. Soprattutto occorre menzionare –<br />

oltre al villaggio Falck, sorto negli anni venti a<br />

partire da alcune prime case del <strong>1906</strong>-08 –<br />

l’opera di Giovanni Broglio, all’epoca l’unico<br />

professionista veramente specializzato nel settore<br />

Stabilimento Breda Milano,<br />

vista dall’alzaia Martesana,<br />

dal catalogo dell’Esposizione<br />

internazionale di Milano<br />

del <strong>1906</strong><br />

99


100


grazie alla sua formazione presso la milanese<br />

Società Umanitaria11 . Già dal 1910 egli firma le<br />

realizzazioni Breda: in tutto sei caseggiati a più<br />

piani, alcuni villini per impiegati e il dormitorio<br />

operaio. Certo per il tramite di Broglio, che dal<br />

1913 è il primo direttore tecnico dell’Iacp<br />

milanese, la Società Breda entra nelle<br />

partecipazioni azionarie dello stesso Iacp,<br />

contribuendo alla realizzazione dei numerosissimi<br />

quartieri popolari della metropoli da lui diretti<br />

fino al 1934, compreso il borgo Pirelli alla<br />

Bicocca. L’attenta composizione spaziale,<br />

l’economia costruttiva, il dignitoso decoro che i<br />

suoi edifici felicemente coniugano rappresentano<br />

tuttora il volto non solo dei quartieri di Sesto, ma<br />

di intere zone di Milano.<br />

Infine, se tra gli interventi architettonici più<br />

qualificati nel panorama dell’architettura di<br />

fabbrica a Sesto, di solito riservati ai luoghi<br />

rappresentativi e alle attività direzionali, è<br />

d’obbligo citare la “fabbrica firmata” 12 della<br />

Campari di Luigi Perrone (1904), ancora una<br />

volta è da ricordare il Broglio. Negli anni<br />

immediatamente precedenti il primo conflitto<br />

mondiale progetta la sede dell’Istituto tecnico<br />

scientifico Ernesto Breda (inaugurato nel 1920),<br />

nato per le prove metallografiche dei prodotti<br />

Breda ed evolutosi come centro di ricerca<br />

tecnologica sui materiali. Un edificio<br />

monumentale ma al contempo semplice e<br />

austero, impostato su sequenze di grandi<br />

finestrature e senza troppe concessioni al<br />

decorativismo eclettico. Nello stesso periodo<br />

disegna anche un’imponente serie di edifici per<br />

“ingresso e direzione stabilimento di Sesto S.G.”<br />

come testimonia la foto di un suo bel disegno13 .<br />

Si tratta di un progetto grandioso e forse, visto il<br />

tono accademico che esprime, mai<br />

effettivamente destinato all’esecuzione.<br />

L’architettura di fabbrica è nobilitata, i capannoni<br />

gerarchicamente sottomessi a una lunga cortina<br />

di edifici, alternati a portici e preceduti da<br />

un’ampia “corte d’onore” con aiuole e fontane:<br />

una improbabile, ma seducente, Versailles della<br />

meccanica.<br />

1. Per la millesima locomotiva, Sieb, Milano 1908, p. 21.<br />

2. Ad esempio: Alberto Bassi, schede in AA.VV, I monumenti<br />

storico industriali della Lombardia. Censimento regionale,in<br />

“Quaderni di documentazione regionale”, 166, 1977;<br />

Gianfranco Petrillo (a cura di), La città delle fabbriche: Sesto<br />

San Giovanni, 1880-1945, Istituto milanese per la storia della<br />

resistenza e del movimento operaio, Sesto San Giovanni 1978;<br />

Alberto Bassi, Per una storia dell’architettura di fabbrica e<br />

dell’abitazione operaia a Sesto San Giovanni. Ricostruzione<br />

documentaria e fonti iconografiche, tesi di laurea, Università<br />

degli studi di Milano, a.a. 1982-83; Luigi Trezzi (a cura di),<br />

Sesto San Giovanni 1880-1921. Economia e società: la<br />

trasformazione, Banca di credito cooperativo, Sesto San<br />

Stabilimento Breda<br />

Sesto San Giovanni, carrello<br />

trasbordatore dei veicoli,<br />

dal catalogo dell’Esposizione<br />

internazionale di Milano<br />

del <strong>1906</strong><br />

101


102<br />

Giovanni 1997; Athos Geminiani (a cura di), Il Novecento a<br />

Sesto San Giovanni. Il secolo delle trasformazioni tra cronaca e<br />

storia, vol. I: 1898-1920, Pezzini, Viareggio 2000; Isec (a cura<br />

di), La città delle fabbriche. Viaggio nella Sesto San Giovanni<br />

del ‘900, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 2002.<br />

3. Con la fondazione nel 1934 della Sapsa (Società anonima<br />

prodotti Sapsa e affini), ditta sorta nel 1929 come Salpa (S.A.<br />

lavorazioni pelli e affini) e acquisita dalla Pirelli per la<br />

produzione della gommapiuma, il cui vasto stabilimento<br />

presenta una palazzina uffici firmata, sembra, da Giuseppe<br />

Pagano. Cfr. M. Fratelli, Sapsa, 1929, in Antonello Negri (a cura<br />

di), La fortuna del moderno, Edifir, Firenze 1992, pp. 84-86;<br />

Isec (a cura di), La città delle fabbriche, cit., p. 48.<br />

4. Per la SAQINM, Società anonima quartiere industriale nord<br />

Milano, si veda Un nuovo grande quartiere a Milano, in “Le<br />

case popolari e le città giardino”, 6, I, 1909.<br />

5. È il nome dello stabilimento Breda di Milano, in via<br />

Melchiorre Gioia.<br />

6. Per la millesima locomotiva, cit., p. 20. Vedi anche<br />

Esposizione di Milano <strong>1906</strong> Stabilimenti della società, Sieb,<br />

Milano <strong>1906</strong>.<br />

7. Ad esempio Alberto Bassi, in Insediamenti operai a Sesto<br />

San Giovanni, in AA.VV., Archeologia industriale: indagini sul<br />

territorio in Lombardia e Veneto, Unicopli, Milano 1989, p.<br />

202, individua una possibile attribuzione degli edifici per la<br />

Falck all’ingegnere Amilcare Mella, direttore dell’ufficio<br />

tecnico della società.<br />

8. Su Kahn, cfr. Federico Bucci, L’architetto di Ford: Albert Kahn e<br />

il progetto della fabbrica moderna, CittàStudi Edizioni, Milano<br />

1991; L. Bergeron, M.T. Maiullari-Pontois, The factory<br />

architecture of Albert Kahn, in “Architecture Week”, 25, 2000, p.<br />

C1.1.<br />

9. Si vedano gli studi citati in nota 2.<br />

10. In particolare dopo l’approvazione della legge Luzzatti del<br />

1903 che assegna fondi e facilitazioni fiscali a quegli enti,<br />

pubblici o privati, che promuovono l’edilizia popolare.<br />

11. Per una biografia di Broglio, cfr. Ornella Selvafolta, La<br />

Società Umanitaria e le case popolari a Milano 1900-1910,in<br />

“Storia Urbana”, 11, 1980, pp. 29-65.<br />

12. La definizione è in A. Bassi, Insediamenti operai, cit., p.<br />

199. Qui Perrone, architetto di stampo storicista, più<br />

facilmente impiegato nei restauri o negli edifici del centro,<br />

propone un’elegante interpretazione del “neoromanico dei<br />

servizi” di ascendenza boitiana per la facciata, oltre a<br />

un’innovativa soluzione costruttiva in cemento armato per il<br />

salone di lavorazione.<br />

13. La fotografia, inedita, siglata da Broglio sul bordo, è<br />

incollata su un cartoncino con dedica all’ingegner Radice, un<br />

dirigente della Breda: “all’Egr. Ing. Radice con tanti auguri/ G.<br />

Broglio/ 1 gennaio 1916”; tuttavia è archiviata con la dicitura<br />

“G. Brioschi”, che io credo sia un’errata traslitterazione della<br />

firma.


SGUARDI SUL TRENO<br />

Locomotiva/ferrovia/stazione:<br />

e il cinema fu<br />

Antonio Costa<br />

Antonio Costa<br />

è professore ordinario<br />

di storia del cinema<br />

alla facoltà di design e arti<br />

dell’Università Iuav<br />

di Venezia<br />

103


104<br />

“Neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate<br />

delle locomotive”. È questa una delle prime<br />

immagini che Marinetti getta in faccia al lettore nel<br />

Manifesto di fondazione del futurismo (1909). Ma<br />

già da quattordici anni, i fratelli Lumière avevano<br />

lanciato dal loro schermo, su spettatori incantati e<br />

impauriti, una locomotiva in corsa: L’Arrivée d’un<br />

train à la Ciotat (1895). Stupore e meraviglia, come<br />

riferirono i cronisti, avevano suscitato le prime<br />

vedute dei fratelli Lumière. Ci fu chi, in La sortie<br />

d’usine, trovò incredibile la quantità di operai che<br />

potevano stare in un’unica inquadratura ("in<br />

cinquanta secondi passano per quella porta<br />

proiettata sullo schermo più di cento personaggi").<br />

E chi, in Repas du bébé, notò le foglie mosse dal<br />

vento. Molti si divertirono alla gag di Arroseur et<br />

arrosé. Ma fu il treno che si impose come<br />

protagonista della nuova mitologia delle immagini<br />

in movimento. Il cinema irruppe nella storia in<br />

treno. E in treno attraversò di prepotenza il confine<br />

tra i due secoli.<br />

Lo sguardo è mobile<br />

Forse fu una leggenda metropolitana la notizia del<br />

pubblico che scappava terrorizzato per timore che<br />

la locomotiva precipitasse dallo schermo nella sala.<br />

Ma cosa importa? Come trovata pubblicitaria<br />

funzionava. Nell’immaginario collettivo le origini<br />

del cinema sono un treno, una stazione, un<br />

binario, dei passeggeri. Questa è la scena primaria.<br />

E il treno ricambiò il favore permettendo alla<br />

cinepresa di mettersi in marcia: Panorama pris<br />

d’un train en marche (1898) di Georges Méliès. La<br />

straniante immagine della locomotiva precipitata<br />

in strada dopo aver sfondato la vetrata di Gare de<br />

Montparnasse (1895) trovò di lì a qualche anno<br />

una sorta di replica nel fantastico flamboyant di<br />

Méliès: Voyage à travers l’impossible (1904). Tra<br />

cinema e treno c’è un legame che va ben oltre<br />

l’ambientazione ferroviaria di molte pellicole delle<br />

origini, dai fratelli Lumière a The Great Train<br />

Robbery (1903) di Edwin S. Porter. Il treno ha<br />

modificato la nostra esperienza percettiva e,<br />

quindi, la nostra idea di spazio e di tempo. Il<br />

cinema non ha fatto altro che procedere nella<br />

stessa direzione. Ancor prima della sua invenzione,<br />

i luoghi di divertimento offrivano la simulazione di<br />

vedute dal (finto) finestrino di un treno, come<br />

accade nella sequenza del Prater di Lettera da una<br />

sconosciuta (Letter from an Unknown Woman,<br />

1948) di Max Ophuls. Sul ruolo che la<br />

combinazione tra cinema e treno ha avuto nella<br />

storia dell’esperienza estetica novecentesca hanno<br />

scritto pagine importanti Schivelbusch [1977],<br />

Kern [1933] e Ceserani [2002]. I teorici del<br />

cinema, da parte loro, hanno lavorato sulle<br />

implicazioni di tale combinazione. Jacques<br />

Aumont ha parlato di “mobilitazione dello


sguardo” [1989] e Noël Burch di “viaggio<br />

immobile” [1991]. Per quanto il futurismo abbia<br />

poi finito per preferire l’individualismo anarchico<br />

dell’automobile e dell’aeroplano [Ceserani 2002,<br />

pp. 266-267] le suggestioni plastiche e visive del<br />

treno saranno ben presenti nel cinema europeo<br />

degli anni venti. La Roue (La rosa sulle rotaie,<br />

1923) di Abel Gance, nonostante una forte<br />

componente convenzionalmente melodrammatica,<br />

offre un vasto repertorio di variazioni sui temi della<br />

velocità, dell’acciaio, della macchina [Canudo<br />

1995, pp. 197-199]. Inoltre, Berlin: die Sinfonie<br />

der Großstadt (1927) di Walter Ruttmann si apre<br />

con una serie di riprese da un treno che penetra<br />

nel cuore della città. Suggestivi effetti visivi legati<br />

al viaggio in treno marcano alcuni passaggi di Le<br />

Feu Mathias Pascal (1925) che Marcel L’Herbier ha<br />

ricavato dal romanzo di Pirandello. Gance e<br />

L’Herbier usano il treno sia in funzione narrativa,<br />

sia plastica e simbolica (Je change de train, dice il<br />

Mathias Pascal di L’Herbier, compiendo una sorta<br />

di enigmatico balletto tra i binari della stazione). E<br />

la funzione simbolica del treno (il destino che<br />

irrompe nella vita degli uomini) è riproposta in altri<br />

film degli anni venti: da Scherben di Lupu-Pick<br />

(che in italiano diventa La rotaia) a Rotaie (1930)<br />

di Mario Camerini. Indimenticabile è la sagoma<br />

nera della locomotiva che, al deposito bagagli<br />

della stazione, incombe sul corpo piegato del<br />

protagonista di Der Letzte Mann (L’ultimo uomo,<br />

1924) di Murnau. Treno non significa solo<br />

locomotiva, vagoni illuminati che sfrecciano nella<br />

notte, paesaggi visti dal finestrino: ci sono anche le<br />

stazioni ferroviarie con le loro architetture, orologi,<br />

vetrate, semafori e altoparlanti, pannelli degli orari e<br />

con la loro ambiance sonora. Era quindi inevitabile<br />

che determinate funzioni narrative, che<br />

appartengono alla fiaba non meno che all’epica e al<br />

romanzo, quali partenza, distacco, viaggio dell’eroe,<br />

ricongiunzione, trovassero nel dispositivo ferroviario<br />

uno scenario ideale: da Breve incontro (Brief<br />

Encounter, 1945) di David Lean a Stazione Termini<br />

(1953) di De Sica, da Lo scambista (De<br />

Wisselwachter, 1986) di Jos Stelling a La stazione<br />

(1990) di Sergio Rubini [per un esauriente, e<br />

illustratissimo, repertorio di film sul rapporto<br />

treno/cinema vedi Scanarotti 1997].<br />

Ventesimo secolo<br />

Ventesimo secolo (Twentieth Century, 1934) di<br />

Howard Hawks è un titolo eccellente per<br />

ricordare che il treno non solo percorre l’intera<br />

storia del cinema, ma attraversa anche tutti i<br />

generi. Twentieth Century è il nome di un treno<br />

di lusso in cui un produttore teatrale (John<br />

Barrymore) incontra per caso la ex moglie (Carole<br />

Lombard), diventata una star di Hollywood. Il<br />

treno è un luogo ideale per far cominciare uno<br />

105


106<br />

dei classici della commedia sofisticata che è anche<br />

una riflessione sui rapporti tra teatro e cinema.<br />

Proprio in un treno si svolge la parte più<br />

decisamente sbilanciata in direzione della<br />

sophisticated comedy di Intrigo internazionale<br />

(North by Northwest, 1959) di Alfred Hitchcock,<br />

maestro nel combinare thrilling e (sottile)<br />

erotismo. L’intera opera di Hitchcock è lì a<br />

dimostrare come il treno sia un dispositivo ideale<br />

per la produzione di suspense.<br />

Vediamo perché. Il treno viaggia oltre che nello<br />

spazio anche nel tempo: ha dei tragitti prefissati<br />

(stazioni di partenza e d’arrivo) e dei vincoli<br />

temporali (gli orari). Se poniamo mente a una<br />

delle più azzeccate definizioni di suspense<br />

(dilatazione del tempo tra due momenti<br />

obbligati), il gioco è fatto. In treno è ambientato<br />

uno dei capolavori del periodo inglese di<br />

Hitchcock: La signora scompare (The Lady<br />

Vanishes, 1938). Ma in treno si svolge anche una<br />

memorabile sequenza di Il club dei trentanove<br />

(The Thirty-Nine Steps, 1935). Del periodo<br />

americano sono Il sospetto (Suspicion, 1941), in<br />

cui tutto comincia con un formidabile duetto tra<br />

Cary Grant e Joan Fontaine in uno<br />

scompartimento di treno, e Delitto per delitto che<br />

in originale si chiama però Strangers on a Train<br />

(1951). Il fatto poi che nell’edizione francese lo<br />

stesso film si intitoli L’inconnu du Nord-Express ci<br />

ricorda come i nomi di treni (o locomotive)<br />

entrino spesso a far parte dei titoli di un film. Il<br />

primo posto spetta a The General, la locomotiva<br />

che Buster Keaton ama non meno della bella<br />

Annebelle Lee (purtroppo in italiano il titolo<br />

divenne Come vinsi la guerra, 1927). Seguono<br />

Shanghai Express (1932) di Josef von Sternberg,<br />

Assassinio sull’Orient Express (Murder on the<br />

Orient-Express, 1974) di Sidney Lumet (ma non è<br />

l’unico titolo dedicato al mitico treno), Trans-<br />

Europ-Express (1966) di Alain Robbe-Grillet. È<br />

nello scompartimento di un Orient Express tutto<br />

ricostruito in studio che i protagonisti di The Black<br />

Cat (1934) di Edgar Ulmer iniziano il loro viaggio<br />

in un vero e proprio museo degli orrori, avendo<br />

come guide Bela Lugosi e Boris Karloff (come a<br />

dire Dracula e la “creatura” di Frankenstein per la<br />

prima volta insieme). Il treno e la costruzione delle<br />

linee ferroviarie verso Ovest sono componenti<br />

essenziali del mito della frontiera. Inevitabile<br />

quindi la presenza del treno nel genere western,<br />

da Iron Horse (1924) di John Ford a La conquista<br />

del West (How the West Was Won, 1962) che,<br />

nell’episodio Railroad diretto da George Marshall,<br />

celebra la ferrovia come uno dei miti fondatori<br />

dell’epopea del West (gli altri episodi si chiamano<br />

Rivers, Plains e Outlaws). Mito che Sergio Leone<br />

non ha certo trascurato, dandoci in uno dei suoi<br />

rifacimenti iper-manieristi, la sua personale<br />

versione dell’”arrivo di un treno” (C’era una volta<br />

il West, 1968).


Trenitalia<br />

Tra i mezzi di trasporto, il cinema italiano ha<br />

privilegiato in assoluto l’automobile. La bicicletta,<br />

pur essendo diventata un emblema del<br />

neorealismo grazie al successo internazionale di<br />

Ladri di biciclette (1948), ha avuto nella corriera un<br />

importante rivale nell’iconografia dell’Italia del<br />

secondo dopoguerra. E il treno? Venendo da<br />

lontano, il mezzo ferroviario attraversa l’intera<br />

storia del cinema italiano. È il treno a compiere il<br />

passaggio dagli anni trenta al neorealismo. Due<br />

titoli, principalmente sono da citare: Treno<br />

popolare (1933) di Raffaello Matarazzo e La porta<br />

del cielo (1945) di Vittorio De Sica.<br />

Il film di Matarazzo, che a dire il vero combina il<br />

treno con la bicicletta, è un film corale che<br />

propaganda le iniziative turistico-culturali delle<br />

organizzazioni dopolavoristiche del fascismo. Il<br />

viaggio domenicale da Roma a Orvieto diventa un<br />

pretesto per una serie di ritratti di grande<br />

freschezza, ottenuti grazie all’impiego di attori non<br />

professionisti e all’attenzione riservata a<br />

comportamenti e psicologie della gente comune.<br />

Tanto è vero che in quest’opera, che segna il<br />

debutto di Matarazzo, taluno ha evidenziato<br />

anticipazioni del neorealismo. Girato da De Sica a<br />

Roma nel 1944, durante l’occupazione tedesca, La<br />

porta del cielo ebbe un’uscita alquanto fortunosa<br />

nel febbraio del 1945: il film, alla cui sceneggiatura<br />

collaborò anche Zavattini, racconta il viaggio di un<br />

treno di pellegrini verso Loreto e, nonostante una<br />

certa retorica edificante, presenta non pochi segni<br />

di quel rinnovamento in senso realistico che il<br />

cinema italiano avrebbe conosciuto di lì a poco.<br />

Insomma, il treno nel nostro cinema è, oltre che<br />

un mezzo di trasporto, un rivelatore di<br />

comportamenti individuali e collettivi. In un treno<br />

inizia e finisce il trip onirico di Fellini/Mastroianni<br />

in La città delle donne (1980), una sorta di<br />

summa di tutte le funzioni simboliche del treno<br />

(e del viaggio in territori sconosciuti). E al treno<br />

sono legate due tra le maggiori interpretazioni di<br />

Nino Manfredi, uno dei protagonisti della grande<br />

stagione della commedia all’italiana (Vittorio<br />

Gassman, al contrario, dà il meglio di sé in auto:<br />

da Il sorpasso di Dino Risi a La congiuntura di<br />

Ettore Scola). La prima è quella che Manfredi ci<br />

offre in L’avventura di un soldato, tratto da un<br />

racconto di Calvino, episodio del film collettivo<br />

L’amore difficile (1963). Vi si narra l’attrazione<br />

erotica che si stabilisce tra una giovane vedova e un<br />

soldato in licenza: tutto si svolge nello<br />

scompartimento di un treno e senza parole. La<br />

seconda è quella del personaggio di Michele<br />

Abbagnano in Café Express (1980) di Nanny Loy: vi<br />

si narrano le disavventure di un venditore clandestino<br />

di caffè sul tratto notturno da Vallo della Lucania a<br />

Napoli. Nello stesso anno in cui Loy usava un treno<br />

notturno del profondo Sud per riproporre in versione<br />

107


108<br />

incupita maschere e stereotipi della commedia,<br />

Giuseppe Bertolucci girava un documentario sulla<br />

stazione di Milano nel quale una parata di<br />

personaggi notturni faceva emergere un autentico<br />

“mondo alla rovescia” (Panni sporchi, 1980).<br />

Sui personaggi, sulle situazioni e sui comportamenti<br />

piuttosto che sulla macchina, sul dispositivo insiste il<br />

cinema italiano. In uno scompartimento di un<br />

vagone letto (Totò a colori, 1950) e in una stazione<br />

di uno sperduto paesino (Destinazione Piovarolo,<br />

1955) sono ambientate due celebri interpretazioni di<br />

Totò: se nel primo Totò irride e sbeffeggia il sistema<br />

di privilegi e sopraffazioni che nell’Italia del secondo<br />

dopoguerra trovava nei rituali del viaggio in treno<br />

uno straordinario rivelatore, nel secondo l’apparato<br />

tecnico-amministrativo delle Ferrovie dello stato<br />

permette a Totò di aggiungere al suo personaggio<br />

un’inedita coloritura, gogoliana più kafkiana.<br />

Certo, mancano nel cinema italiano opere come<br />

L’angelo del male (La bête humaine, 1938) di Jean<br />

Renoir, frutto maturo di una grande stagione,<br />

capace di dare una rappresentazione forte di<br />

caratteri e situazioni e nello stesso tempo restituire<br />

con tratti realistici e suggestivi l’universo ferroviario, il<br />

rapporto uomo-macchina, i luoghi che definiscono<br />

un senso di appartenenza e di identità sociale.<br />

Tuttavia qualche titolo almeno va ricordato: da Il<br />

ferroviere (1955), diretto e interpretato da Pietro<br />

Germi, a Cuore (1985) di Luigi Comencini. Con una<br />

certa libertà rispetto all’originale di De Amicis,<br />

Comencini ci mostra, in una stazione di Torino in cui<br />

stanno partendo i soldati per il fronte della prima<br />

guerra mondiale, uno storico abbraccio tra l’ing.<br />

Bottini (Enrico) e il fuochista Garrone accanto a una<br />

sbuffante locomotiva che non ha più niente, ma<br />

proprio niente, in comune con quella evocata<br />

qualche anno prima da Marinetti.<br />

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI<br />

Aumont, Jacques, L’œil interminable. Cinéma et peinture,<br />

Séguier, Paris 1989, tr. it. L’occhio interminabile. Cinema e<br />

pittura, Marsilio, Venezia 1991<br />

Burch, Noël, La lucarne de l’infini, Nathan, Paris 1991, tr. it. Il<br />

lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico,<br />

Pratiche, Parma 1994<br />

Canudo, Ricciotto, L’usine aux images, Édition intégrale établie<br />

par J.-P. Morel, Séguier-Arté, Paris 1995<br />

Ceserani, Remo, Treni di carta, Bollati Boringhieri, Torino 2002<br />

Kern, Stephen, The Culture of Time and Space 1980-1918,<br />

Harvard U.P., Cambridge, Mass., 1983, tr. it. Il tempo e lo<br />

spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento,Il<br />

Mulino, Bologna 1988<br />

Scanarotti, Roberto, Treno e cinema: percorsi paralleli, Le mani,<br />

Recco 1997<br />

Schivelbusch, Wolfgang, Geschichte des Eisenbahnreise, Carl<br />

Hanser Verlag, München-Wien 1977, tr. it. Storia dei viaggi in<br />

ferrovia, Einaudi, Torino 1988


SGUARDI SUL TRENO<br />

Da Turner a Dubuffet:<br />

per un percorso dell’arte in treno<br />

Eliana Princi<br />

Eliana Princi,<br />

storica dell’arte, lavora alla<br />

facoltà di design e arti<br />

dell’Università Iuav di<br />

Venezia, presso il corso di<br />

laurea in arti visive<br />

109


110<br />

Scarpe. Scarpe allineate, capovolte, consunte,<br />

slacciate, deformate. Vincent van Gogh ne<br />

dipinge un intero campionario verso gli anni<br />

ottanta dell’Ottocento con una pittura<br />

bituminosa, sommaria, onnivora perché inghiotte<br />

ogni particolare che non sia il soggetto, nudo e<br />

crudo. Le scarpe di Van Gogh ci osservano dalle<br />

loro tele a ricordare un tempo e un mondo che<br />

ancora misurava la terra con l’ampiezza dello<br />

sguardo, le ore con l’alternarsi di alba e tramonto.<br />

In realtà era già passato il treno di Joseph Mallord<br />

William Turner, anzi Pioggia, vapore, velocità: un<br />

titolo assolutamente futurista per un quadro<br />

dipinto nel 1844. Il pittore inglese compie<br />

davvero una fusione di questi elementi, mescola<br />

cielo e terra, addensa nubi di pioggia e di vapore,<br />

avvolge il paesaggio di densi strati dorati e<br />

azzurrini, da cui fa sbucare il treno – una piccola<br />

sagoma scura indistinta – che si proietta verso<br />

l’osservatore. La poetica romantica del Sublime<br />

che scorreva nell’ombra, nel mistero,<br />

nell’inquietudine di una natura segreta e<br />

selvaggia ora vola veloce con il treno, il nuovo<br />

simbolo di una forza irrazionale e inarrestabile,<br />

messaggero di Moloch, dritto verso l’ignoto.<br />

L’ignoto è la modernità che probabilmente Turner,<br />

che muore nel 1851, non sa ancora prevedere.<br />

In quello stesso 1851 Londra si veste di vetro e<br />

ghisa con la costruzione della stazione di King’s<br />

Cross e l’inaugurazione del Crystal Palace: la<br />

tecnologia avanza, le idee si fanno sempre più<br />

ardite, nonostante gli strali che John Ruskin aveva<br />

indirizzato proprio contro il treno: “La ferrovia<br />

trasforma l’uomo da viaggiatore in pacco vivente.<br />

In quel momento egli è separato dalle<br />

caratteristiche più nobili della sua umanità per un<br />

potere di locomozione di dimensioni planetarie.<br />

Non chiedetegli di ammirare nulla. Garantitegli un<br />

trasporto sicuro, congedatelo rapidamente: di<br />

nient’altro vi ringrazierà”. È il 1849, ne Le sette<br />

lampade dell’architettura: Ruskin sarà superato<br />

appena due anni dopo da uno sbuffo di vapore.<br />

In effetti la visione che il treno suscita fin dal suo<br />

primo apparire è piuttosto contraddittoria: è Il<br />

vagone di terza classe di Honoré Daumier (1863-<br />

65), una carrozza che il pittore ritrae dal basso,<br />

piazzando la tela proprio dentro il vagone e quindi<br />

facendo sedere idealmente anche noi sulle panche<br />

di legno. Qui, stipati l’uno accanto all’altro, si<br />

accalcano donne, bambini, uomini, un’umanità<br />

misera e diseredata – la terza classe, appunto –<br />

costretta a lasciare i propri luoghi familiari per<br />

cercare lavoro altrove.<br />

Il realismo portato dal treno di Daumier avrà lunga<br />

strada nel corso del Novecento: i contadini che vi<br />

sono dipinti sono già figure dell’alienazione e della<br />

solitudine in cui sono immersi i viaggiatori<br />

sopravvissuti a trentun’anni di guerre mondiali,<br />

soli, tra la folla inconsapevole.<br />

Ma il treno è anche un totem dei tempi moderni,


cui si sacrificano uomini, energie, capitali economici.<br />

Eccoci dunque in Alta Slesia, all’interno della<br />

fabbrica reale di materiali ferroviari, la<br />

Königschütte, dove Adolph von Menzel va a<br />

studiare i “moderni ciclopi” – così recita il<br />

sottotitolo del quadro – della Ferriera (1875).<br />

Centro ideale e fulcro dell’opera è l’idolo di ferro<br />

incandescente che viene forgiato, attorno a cui si<br />

affollano operai – una massa brulicante dai volti<br />

indistinti – e macchinari, in un clima di<br />

concitazione di cui pare di poter percepire il<br />

rumore assordante, il calore del fuoco, perfino la<br />

fatica. Il pennello di Menzel descrive le<br />

contraddizioni di una società in espansione, ma<br />

non arriva alla denuncia, ne compie piuttosto una<br />

traduzione epica.<br />

In quegli stessi anni in Italia Passa il treno di<br />

Giuseppe De Nittis (1869) e si lascia dietro matasse<br />

di vapore lattiginoso che inonda i campi arati,<br />

mentre dentro la galleria della Stazione centrale di<br />

Milano (1889) Angelo Morbelli non dipinge tanto<br />

le locomotive in sosta o in arrivo – relegate in piani<br />

secondari – quanto il vuoto che si crea tra queste.<br />

La stazione è uno spazio di solitudini, la partenza<br />

genera uno scompenso.<br />

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del<br />

Novecento ogni viaggio d’arte approda a Parigi,<br />

capitale di idee e di fermenti, luogo di scambi<br />

culturali, in cui affluiscono artisti da tutta Europa.<br />

La stazione non è solo il simbolo di questi scambi,<br />

il luogo che accoglie o congeda, offrendo l’ultimo<br />

souvenir de Paris, ma diventa uno dei laboratori del<br />

linguaggio impressionista. Vi si possono incontrare<br />

Édouard Manet, Camille Pissarro, Alfred Sisley.<br />

Nel 1877 Claude Monet dipinge un intero ciclo<br />

dedicato alla Gare Saint-Lazare che ritrae in ore<br />

diverse del giorno: “Alla partenza del treno il fumo<br />

delle locomotive è talmente denso che non si<br />

distingue quasi nulla. È un incanto, una vera<br />

fantasmagoria”, dichiara l’artista all’amico Pierre-<br />

Auguste Renoir.<br />

Luce, aria, vapore, architettura: Monet ammira la<br />

combinazione di questi elementi e ne fa<br />

trascrizioni che variano di ora in ora: la mattina la<br />

scena ha un’intonazione azzurrina, il vapore si<br />

condensa in bolle iridate, si espande verso il<br />

grande soffitto di vetro, filtra attraverso le griglie<br />

di ferro delle capriate, si confonde con le nuvole<br />

sopra Parigi. Al tramonto la città è incendiata di<br />

oro e arancione che penetrano fin dentro la<br />

galleria, confondono i profili dei treni, attenuano<br />

i marroni, bagnano di una polvere dorata i<br />

111


112<br />

gruppi dei viaggiatori.<br />

La Gare Saint-Lazare è la cattedrale laica di<br />

Monet, anticipa il ciclo che il pittore dedicherà<br />

alla chiesa di Rouen quasi vent’anni dopo.<br />

Il tema della stazione del resto è cogente per chi<br />

vive, seppur a brevi tratti come Monet, la vita<br />

parigina; Charles Baudelaire aveva più volte<br />

invitato gli artisti a “essere del proprio tempo” e<br />

Émile Zola aveva sottolineato il carattere di<br />

necessità dei nuovi spunti visivi impressionisti:<br />

“Puoi sentire il rumore dei treni che riempiono la<br />

stazione. Puoi vedere i vapori del fumo che si<br />

addensano sotto le enormi vetrate del tetto.<br />

Questa è l’arte di oggi. Gli artisti moderni hanno<br />

scoperto la poesia delle stazioni ferroviarie, così<br />

come i loro padri avevano scoperto il fascino<br />

delle foreste e dei fiumi”.<br />

Monet aderisce dunque alla realtà, alla modernità,<br />

redigendone una cronaca vibrante e satura di<br />

colore; nello stesso anno, in Italia, Giosuè Carducci<br />

fornisce una versione assai diversa del mito<br />

tecnologico nelle sue Odi barbare: “Già il mostro,<br />

conscio di sua metallica/ anima, sbuffa, crolla,<br />

ansa, i fiammei/ occhi sbarra; immane pe’ l buio/<br />

gitta il fischio che sfida lo spazio”.<br />

Il poeta ci fa calare nell’antro fumoso e sinistro di<br />

Efesto che forgia metalli dai lampi luciferini, ma<br />

vent’anni dopo Filippo Tommaso Marinetti ne<br />

recupera l’immagine insieme terribile e visionaria<br />

per farne un inno alla modernità. È il 20 febbraio<br />

1909, il primo manifesto futurista canta “l’amor<br />

del pericolo, l’abitudine all’energia e alla<br />

temerità”, e ancora le “stazioni ingorde,<br />

divoratrici di serpi che fumano [...]. Le locomotive<br />

dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie,<br />

come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi”.<br />

La macchina futurista, con il suo carico di rumori<br />

stridenti, potenza visiva e velocità inaugurava la<br />

tratta Milano-Parigi per poi raggiungere, con i<br />

futurismi, l’intera Europa.<br />

Più pacata, introspettiva, in certo modo solitaria<br />

è la versione che Umberto Boccioni fornisce del<br />

treno nel ciclo Stati d’animo, a cui lavora nel<br />

corso del 1911, dipingendone varie versioni.<br />

Il treno, la stazione, diventano luoghi di<br />

riflessione, centri di sentimenti: Boccioni mette in<br />

scena i diversi stati d’animo che si creano a ogni<br />

partenza – li intitola Gli addii, Quelli che vanno,<br />

Quelli che restano –, raccontando la condizione<br />

di chi lascia le proprie abitudini e gli affetti per<br />

affrontare l’ignoto, il disagio delle separazioni, la<br />

solitudine di chi rimane.


Linee acute, spezzate, multicolori aggrediscono le<br />

figure di Quelli che vanno e li trascinano in avanti<br />

con un ritmo impetuoso; Gli addii hanno linee<br />

avvolgenti, onde di colore infuocato che si<br />

allacciano tra loro, abbracci sinuosi tra chi presto<br />

dovrà separarsi; mentre una fitta pioggia azzurroverde<br />

cala densa come una cortina su Quelli che<br />

restano e vagano solitari nel vuoto.<br />

Boccioni compone una sottile alchimia emotiva e<br />

cromatica, condensa un’intera narrazione in<br />

visioni eloquenti che in seguito avrebbe spiegato:<br />

“La direzione delle forme e delle linee era fissata<br />

con un determinato scopo drammatico (spiegavo<br />

la diversità emozionale delle linee perpendicolari,<br />

ondulate e spossate nel quadro Quelli che<br />

restano; delle linee confuse, agitate, dirette e<br />

curve nel quadro Gli addii; e delle linee<br />

orizzontali, fuggenti, rapide e sobbalzanti nel<br />

quadro Quelli che vanno). Nell’affermare ciò mi<br />

basavo su questa intuizione: ad ogni emozione<br />

sensoria corrisponde un’analoga forma-colore”.<br />

Dallo studio della macchina, il mostro d’acciaio<br />

dagli occhi fiammeggianti, dalla potenza della<br />

velocità che supera ogni ostacolo, la pittura<br />

passa a descrivere lo stato emotivo: il racconto si<br />

sposta dal treno alle emozioni del viaggiatore.<br />

Nello stesso anno del ciclo di Boccioni, anche<br />

Marcel Duchamp – che del resto guarda con<br />

interesse alla ricerca futurista sul movimento –<br />

descrive la malinconia di un viaggio: è il Giovane<br />

triste in treno. Si tratta di un autoritratto,<br />

un’immagine inconsueta giacché non<br />

identificabile, meccanica, sommaria che<br />

Duchamp stesso spiega così: “Ci sono due<br />

aspetti in questo quadro. Uno è il movimento del<br />

treno, l’altro è il giovane triste nel corridoio che<br />

cammina avanti e indietro, cosicché abbiamo due<br />

movimenti paralleli che si corrispondono tra loro.<br />

Inoltre c’è la deformazione della figura del<br />

giovane, che io chiamavo allora parallelismo<br />

elementare. È una specie di decomposizione<br />

formale, un disporsi a ventaglio in pannelli lineari<br />

che corrono parallelamente l’uno all’altro e che<br />

deformano il soggetto. In tal modo esso è teso<br />

come se fosse un elastico”.<br />

Se il giovane Duchamp è triste, in treno, Giorgio<br />

De Chirico dipinge in quegli anni la dimensione<br />

stessa della malinconia in opere già metafisiche,<br />

tra 1913 e 1914.<br />

Il viaggio inquietante, L’incertezza del poeta, Il<br />

sogno trasformato, Gioie ed enigmi di un’ora<br />

strana, Gare Montparnasse - La malinconia della<br />

partenza, sono tutte visioni pervase da un senso di<br />

sospensione inquieta, da un’atmosfera saturnina<br />

in cui strani fatti, strani oggetti insinuano minacce<br />

alla normalità e lasciano l’osservatore incerto.<br />

Il treno passa di quadro in quadro – un trenino di<br />

sogno, una Freccia Azzurra sbuffante piccole<br />

nuvole di fumo bianco – ma la sua corsa non è<br />

innocua, devia ulteriormente il senso della scena<br />

113


114<br />

verso l’anomalia, il disagio. Nelle Meditazioni di un<br />

pittore De Chirico spiega – o meglio aggiunge<br />

dubbi – alla mescolanza di oggetti spiazzanti:<br />

“Sentimento africano. L’arco è là per sempre.<br />

Ombra da destra a sinistra. [...] Una vela; naviglio<br />

dolce dai fianchi così teneri. Treno che passa:<br />

enigma. Felicità del banano; volontà di frutti<br />

maturi, dorati e dolci”.<br />

Il treno con il suo bagaglio di spazio e tempo –<br />

orari da rispettare, lunghezze da ricoprire – con il<br />

suo aspetto conciliante di giocattolo è dipinto in<br />

situazioni del tutto spiazzanti, impossibili: punta<br />

dritto all’osservatore, come una minaccia, oppure<br />

compie un’apparente pacifica corsa dietro muretti<br />

di mattoni in spazi assurdi, su binari inesistenti.<br />

Un’altra folle corsa è quella descritta nell’alveo<br />

del surrealismo da René Magritte. La sua<br />

locomotiva, dipinta perfettamente in punta di<br />

pennello, è sospesa a mezz’aria ed esce con<br />

naturalezza dal vano di un caminetto, in una sala<br />

da pranzo borghese. La scena non si spiega né<br />

con gli altri rari elementi del quadro (il pavimento<br />

di parquet, un orologio da tavolo, due candelabri<br />

e uno specchio), né con il titolo, La durata<br />

pugnalata. Magritte unisce l’assurdo, provoca un<br />

deragliamento di senso, dà voce al sogno,<br />

all’irrazionale, all’inconscio.<br />

Procedendo negli anni venti del Novecento, treno<br />

e stazioni diventano sempre più luoghi dello<br />

spaesamento e della solitudine: Mario Sironi li<br />

ambienta in periferie deserte e scure, mentre<br />

Edward Hopper li riassume nelle linee di binari<br />

che corrono accanto a edifici vuoti, angoscianti: la<br />

sua Casa vicino alla ferrovia (1925) ispira perfino<br />

Alfred Hitchcock per l’ambientazione di Psycho.<br />

La seconda guerra mondiale conduce nuove<br />

memorie di “strade ferrate”: i treni blindati dei<br />

deportati, i vagoni della Croce Rossa, separazioni<br />

laceranti. I dipinti accolgono ostaggi, fuggitivi,<br />

sopravvissuti: la pittura esclude sempre di più treno<br />

e stazioni per raccontare il viaggiatore, che diventa<br />

immagine dell’uomo moderno.<br />

Si fissa così per sempre il moto perpetuo dell’Uomo<br />

che cammina di Alberto Giacometti, elaborato a<br />

partire dagli anni quaranta o il disorientamento del<br />

Viaggiatore smarrito che Jean Dubuffet dipinge nel<br />

1950. La dimensione moderna del viaggio è quella<br />

della conoscenza che costa energia psichica ed<br />

emotiva e il viaggiatore è spesso raffigurato solo,<br />

perfino senza bagaglio.<br />

Non ci sono più vagoni, binari, itinerari tracciati, il<br />

viaggio è aperto a tutte le direzioni: train de vie.


SGUARDI SUL TRENO<br />

Un bello e orribile mostro<br />

Remo Ceserani<br />

Remo Ceserani<br />

è professore ordinario di<br />

letterature comparate<br />

all’Università di Bologna<br />

115


116<br />

In un libro che ho dedicato al tema<br />

dell’immaginario in ferrovia nei tempi eroici fra<br />

Ottocento e primo Novecento [Treni di carta, 1993],<br />

la locomotiva ha un posto importante. Seguendo<br />

da vicino l’esempio delle osservazioni molto acute di<br />

W. Benjamin [1928, 1982] e di alcuni studi<br />

pionieristici, da parte di storici della cultura, della<br />

sensibilità, della letteratura e della pittura, come per<br />

esempio quelli di M. Baroli [1964] in Francia, di W.<br />

Schivelbusch [1977], H. Glaser [1981], D. Hoeges<br />

[1981] e J. Mahr [1982] in Germania, di F. Richards<br />

e J.M. MacKenzie [1986] in Inghilterra, di L. Marx<br />

[1964, 1988] e H. Rand [1987] negli Stati Uniti, ho<br />

cercato di analizzare, per testi campione, gli effetti<br />

più vistosi avuti dall’irruzione del treno sulle<br />

abitudini di vita, sui ritmi di lavoro e di spostamento<br />

fra luoghi e paesi, sulla percezione dello spazio e<br />

del tempo delle popolazioni europee e degli altri<br />

continenti. Dopo la pubblicazione del libro,<br />

l’interesse per l’argomento è notevolmente<br />

cresciuto: sono venute esposizioni, celebrazioni,<br />

raccolte di testi e fotografie e numerosi altri studi,<br />

come, per esempio, quelli di L. Bernardini [1997]<br />

sulle ferrovie nell’est europeo, di T. Geraci [1999]<br />

sugli incontri fra musica e ferrovia, di un gruppo di<br />

miei allievi su testi di Verne, D’Annunzio, García<br />

Márquez e parecchi altri [Pellini, Polacco, Zanotti<br />

1995], di un folto gruppo di studiosi francesi<br />

coordinati da B. Urbani [2004] sul treno in<br />

letteratura e nelle arti figurative ecc.<br />

Per tutto l’Ottocento la nuova entusiasmante,<br />

ingombrante, minacciosa presenza della<br />

locomotiva nel paesaggio tradizionale (la<br />

“macchina nel giardino”, come ha scritto Leo<br />

Marx) ha suscitato reazioni contrastanti. Furono<br />

abbastanza numerosi, specialmente fra gli<br />

intellettuali, coloro che considerarono la<br />

locomotiva, i binari diritti della ferrovia, i tunnel, i<br />

ponti, le stazioni fumanti come una novità ostile e<br />

minacciosa, un elemento di squilibrio, di<br />

accelerazione forzata, di scombussolamento per la<br />

vita esteriore e interiore dell’uomo. Furono create<br />

allora alcune fortunate immagini e metafore: la<br />

locomotiva come mostro infuocato e fumante, che<br />

fa tornare in vita il mito antico di Vulcano; il treno<br />

che si snoda come un serpente o un drago che<br />

emette fumo e fuoco; le linee diritte che tagliano il<br />

paesaggio, bucano i monti, fan violenza alla<br />

natura; la forza trainante della locomotiva come<br />

simbolo del destino; il rotolio e il ritmo monotono<br />

delle ruote come espressione di un controllo<br />

macchinistico del tempo ancor più perturbante di<br />

quello espresso dal ticchettio dell’orologio e dallo<br />

scatto delle lancette sul quadrante; i depositi<br />

fumanti, le officine delle locomotive, le gallerie delle<br />

stazioni come luoghi di desolazione, confusione,<br />

perdizione. Fra i testi che ho raccolto ci sono poesie<br />

di Wordsworth e Musset, prose meditative di<br />

Thoreau, romanzi di Dickens, Tolstoj, Hardy e tanti<br />

altri. Fra le poesie posso ricordare qui il sonetto di


Gioacchino Belli Le carrozze a vapore (“Che<br />

naturale! Naturale un cavolo./ Ma po’ èsse un<br />

affetto naturale/ volà un frullone com’avesse l’ale?/<br />

Qui c’entra er patto tacito cor diavolo”, 1843) o<br />

l’inno A Satana (1863) di Giosuè Carducci: “Un<br />

bello e orribile/ Mostro si sferra,/ Corre gli oceani/<br />

Corre la terra:// Corusco e fumido/ Come i vulcani,/<br />

I monti supera,/ Divora i piani;// Sorvola i baratri;/<br />

Poi si nasconde/ Per antri incogniti,/ Per vie<br />

profonde;// Ed esce; e indomito/ Di lido in lido/<br />

Come di turbine/ Manda il suo grido,// Come di<br />

turbine/ L’alito spande:/ E passa, o popoli, Satana il<br />

grande”. [Poesie, 1939, pp. 384-85]<br />

E potrei citare testi di poeti francesi, tedeschi,<br />

inglesi, spagnoli, americani, russi che hanno lo<br />

stesso tono. Quanto ai romanzi basta forse che io<br />

ricordi uno straordinario romanzo ferroviario di Zola,<br />

che ha avuto la fortuna di essere commentato da<br />

due grandi critici del Novecento, come Barthes e<br />

Deleuze e di essere trasferito sullo schermo da due<br />

grandissimi registi, come Jean Renoir e Fritz Lang. Il<br />

romanzo ha per protagonisti una locomotiva, a cui<br />

allude già il titolo (La bête humaine, 1890) e un<br />

macchinista, Jacques Lantier, che è tragicamente<br />

diviso fra l’amore casto per la sua locomotiva, che<br />

lui chiama affettuosamente La Lison, e quello<br />

peccaminoso per la bellissima e seducente Séverine.<br />

Tutt’e due gli oggetti d’amore sono destinati a una<br />

fine tragica: la locomotiva muore, quasi come una<br />

creatura umana, dopo essersi violentemente<br />

scontrata con un carro a un passaggio a livello;<br />

Séverine muore accoltellata da Jacques.<br />

Non sono mancati, tuttavia, per tutto l’Ottocento<br />

anche gli intellettuali, gli scrittori, i poeti, gli autori<br />

di musiche e canzoni che hanno accolto l’arrivo<br />

della locomotiva con favore ed entusiasmo. Di qui<br />

un altro nucleo di immagini e metafore e un’altra<br />

tradizione culturale e letteraria, che si è sviluppata<br />

in alternativa e contrapposizione (qualche volta,<br />

anche, in anticipo) rispetto a quella ostile alla<br />

ferrovia. Non pochi sono i testi che rappresentano<br />

il treno come simbolo del progresso, del cammino<br />

ormai diritto e accelerato delle società umane, con<br />

l’aiuto della tecnologia, verso le nuove frontiere e<br />

conquiste della modernità. Di qui una tradizione<br />

culturale e letteraria, anch’essa consistente, di<br />

connotazioni positive del treno, della ferrovia, della<br />

velocità dei viaggi, delle arditezze delle linee che<br />

attraversano le pianure e i monti d’Europa e poi di<br />

quelle transcontinentali e transiberiane, del lusso e<br />

dell’avventurosità esotica dell’Orient-Express,<br />

dell’eroica operosità dei macchinisti, dei fuochisti,<br />

dei costruttori di massicciate e posatori di binari,<br />

dei segnalatori, delle squadre di spalatori antineve.<br />

Poesie entusiastiche di scrittori di chiara adesione<br />

democratica e progressista, storie e canzoni del<br />

West, mitologia futurista, musei della scienza e<br />

della tecnica, collezionismo, canzoni sovietiche<br />

della rivoluzione intitolate Locomotiva nostra non ti<br />

fermar: è tutto un patrimonio culturale e testuale<br />

117


118<br />

che rientra in questa tradizione. Forse basta che io<br />

ricordi, fra questo nutrito materiale, una pagina<br />

dello scrittore danese di fiabe Christian Andersen,<br />

entusiasta del suo primo viaggio in ferrovia,<br />

compiuto in Germania nel 1840: ”O, quale<br />

impresa grandiosa dello spirito è questa scoperta!<br />

Ci si sente potenti come i maghi dell’antichità!<br />

Attacchiamo il cavallo magico alla carrozza e lo<br />

spazio scompare! Voliamo come le nuvole in<br />

tempesta, come gli uccelli migratori in viaggio. Il<br />

nostro cavallo selvaggio sbuffa e ansima, dalle sue<br />

froge esce un fumo nerastro. Non avrebbe potuto<br />

Mefistofele volare più velocemente insieme con<br />

Faust sul suo mantello! Con mezzi naturali siamo<br />

in questo nostro tempo capaci di un potere che nel<br />

Medioevo veniva attribuito solo al diavolo”. [citato<br />

in Mahr, 1982, pp. 32-33]<br />

Oppure una bella, entusiastica poesia di Walt<br />

Whitman, To a Locomotive in Winter (A una<br />

locomotiva d’inverno, 1876): “Tu per il mio<br />

recitativo/ tu nella bufera sferzante proprio come<br />

ora, la neve, il giorno invernale che declina/ tu<br />

nella tua panoplia, il tuo ritmico doppio palpito e il<br />

tuo battito convulso,/ il tuo nero corpo cilindrico,<br />

ottoni dorati e acciaio argenteo,/ le tue spranghe<br />

laterali massicce, le aste parallele di connessione,<br />

che girano, fan la spola ai tuoi fianchi,/ la tua<br />

pulsazione e il tuo ruggito ritmici, che ora cresce<br />

ora diminuisce a poco a poco nella distanza./ Il tuo<br />

grande faro sporgente fissato sulla tua fronte,/ il<br />

tuo lungo, pallido, ondeggiante vessillo di vapore,<br />

colorato di tenue porpora,/ le nuvole dense e<br />

nerastre vomitate dal tuo fumaiolo,/ la tua struttura<br />

ben lavorata, le tue molle e valvole, il luccichio<br />

vibrante delle tue ruote,/ il tuo traino di carrozze<br />

che ti seguono ubbidienti e allegre,/ traverso<br />

burrasche e bonaccia, ora veloci, ora lente, ma<br />

sempre regolarmente correndo;/ simbolo tipico del<br />

moderno emblema di movimento e potenza polso<br />

del continente,/ per una volta vieni e servi la Musa<br />

e prendi forma nel verso, proprio come qui ti<br />

vedo,/ nella bufera e sotto i colpi delle raffiche di<br />

vento e con la neve che cade,/ di giorno la tua<br />

campana ammonente che suona le sue note,/ di<br />

notte i segnali delle tue lucerne silenziose che<br />

ondeggiano.// Bellezza dalla gola feroce!/ Tuona<br />

nel mio canto con tutta la tua musica selvaggia, le<br />

tue lucerne ondeggianti di note,/ la risata del tuo<br />

pazzo fischio, echeggiante, rombante come il<br />

terremoto, svegliando ogni cosa,/ tu che sei legge<br />

completa a te stessa e ti tieni saldamente al<br />

percorso dei binari,/ (nessuna dolce affabilità di<br />

arpe piagnucolose o di petulanti pianoforti la tua)/ i<br />

tuoi trilli e gridi vengono restituiti da rocce e<br />

colline,/ lanciata sulle vaste praterie, attraverso i<br />

laghi,/ ai liberi cieli scatenata e lieta e forte”.<br />

[1965, pp. 471-472]<br />

L’immaginario ferroviario dell’Ottocento, come<br />

risulta da questi testi si è costituito in un sistema di<br />

strutture semantiche nettamente polarizzate, che si


possono schematicamente rappresentare sotto<br />

forma di contrapposizioni:<br />

a) la contrapposizione, nelle descrizioni della<br />

locomotiva, fra organismo naturale dotato di forza<br />

animale, bello e armonioso, e macchina metallica,<br />

dotata di forza artificiale, perturbante e mostruosa,<br />

nata nelle profondità della terra delle miniere, che<br />

utilizza per i suoi movimenti una “via metallica” e<br />

che spesso dentro la terra ritorna con i suoi tunnel.<br />

Da una parte il cavallo, dall’altra la vaporiera: di qui<br />

tutta una serie di contrapposizioni, ma anche di<br />

immagini metaforiche che si trovano in quasi tutti i<br />

testi, sia in positivo che in negativo, e che<br />

attribuiscono alla locomotiva le caratteristiche e gli<br />

attributi di un cavallo artificiale e mostruoso (il<br />

calore e il fuoco interiore, le narici sbuffanti, gli<br />

occhi spalancati, la criniera di fumo, ecc.), o di un<br />

animale favoloso come il drago o persino di uno<br />

esotico come l’elefante;<br />

b) la contrapposizione fra alcuni strumenti naturali<br />

(le ugole degli uccelli, il vento che stormisce fra gli<br />

alberi) che emettono un suono bello da ascoltare e<br />

funzionale alla comunicazione fra la natura e gli<br />

esseri che la popolano, oppure fra alcuni strumenti<br />

musicali che emettono suoni assai dolci per<br />

l’orecchio (l’arpa, il corno del boscaiolo, quello del<br />

postiglione) e lo strumento che viene utilizzato<br />

dalle locomotive, stridulo, disumano, minaccioso,<br />

che può ricordare (come ad Andersen) l’ultimo<br />

grido del maiale ammazzato e il rumore<br />

sferragliante dei treni stessi, così nuovo e<br />

impressionante che induce alcuni a tentare, come<br />

per scommessa, la sua resa onomatopeica, quasi a<br />

gara con quelle poesie e musiche che hanno<br />

sempre tentato di rendere, onomatopeicamente, i<br />

rumori della natura;<br />

c) la contrapposizione fra il movimento naturale,<br />

lento, avventuroso e magari anche tortuoso<br />

dell’uomo nel mondo (e in particolare di quella<br />

specie di incarnazione dell’uomo romantico che fu<br />

il Wanderer), o anche il movimento agile e veloce<br />

degli uccelli, delle nuvole, del vento e per contro il<br />

movimento diritto, determinato, obbligato del<br />

treno sui binari e del tracciato del treno, fra una<br />

stazione e l’altra, attraverso le più varie scene di<br />

natura, senza fermarsi davanti a nessun tipo di<br />

ostacoli, e quindi anche dei viaggiatori, spettatori<br />

immobili, che si vedono passare davanti agli occhi,<br />

inquadrati dai finestrini, i paesaggi della natura,<br />

con un movimento veloce e un montaggio quasi<br />

cinematografico.<br />

Gradualmente, tuttavia, nel corso dell’Ottocento, e<br />

poi nel Novecento, la locomotiva ha perso,<br />

nell’immaginario comune e in quello letterario, i<br />

connotati del mostro pauroso. Il mostro è stato<br />

addomesticato, divenendo un giocattolo per<br />

bambini o una riproduzione in miniatura per le<br />

collezioni degli adulti. Esso ha offerto ai poeti e ai<br />

romanzieri la possibilità di trasformarlo in<br />

personaggio benevolo e amico (così, per esempio,<br />

119


120<br />

nel romanzo per l’infanzia di Edith Nesbit The<br />

Railway Children [I bambini della ferrovia, <strong>1906</strong>],<br />

nella filastrocca Henriette Bimmelbahn [Il trenino<br />

Enrichetta, 1963] di James Krüss e nella favoletta<br />

The little train [La piccola locomotiva, 1973] di<br />

Graham Greene). Esso ha ispirato poesie come<br />

l’espressionistica Lokomotive [La locomotiva, 1912]<br />

di Gerrit Engelke e poi manifesti futuristi, canzoni<br />

rivoluzionarie o sentimentali, da Pete Seeger a<br />

Francesco Guccini a Bruce Springsteen.<br />

Fra i tanti testi che potrei citare mi soffermo su una<br />

poesia poco nota di Giovanni Alfredo Cesareo,<br />

intitolata proprio La locomotiva (1912). È una<br />

poesia di chiara impronta carducciana, che dall’ode<br />

barbara di Carducci Alla stazione in una mattina<br />

d’autunno trae molti spunti ed echeggia molte<br />

espressioni, ma che ha anche una certa originalità,<br />

soprattutto nella sperimentazione stilistica e<br />

metrica: “Sul fiammeggiante vespero/ Nera<br />

s’accampa la locomotiva/ E accidïosa fumica,/<br />

Mentre in torno si mescola e vocifera/ La svarïata<br />

folla cui l’ansia/ Spine in quell’afa torpida./<br />

Trascorre a quando a quando/ Gente che parte:<br />

con bagagli in mano/ Va i carri un dopo l’altro<br />

interrogando,/ S’arrischia in fine e sale/ I tremuli<br />

sportelli sbatacchiando./ Giunge un clamore<br />

languido a distesa/ Dal mar lontano,/ E subitaneo,<br />

quasi ad un segnale,/ Vibra il giulìo scampanìo<br />

d’una chiesa./ Ma le prime ombre calano,/ E già,<br />

com’occhio che improvviso fòlgori,/ Or qua or là<br />

s’illumina un fanale./ Passan, ripassano/ I cantonieri<br />

di fretta: crosciano/ Grida e rimbrotti: l’accesa<br />

macchina/ Si squassa e alita,/ E i vagoni si cozzano<br />

tra loro/ Con un rimbombo tragico e sonoro./ Scatta<br />

un comando:/ Un fischio di rimando/ Querulo,<br />

acuto, lungo, fòra l’aria,/ E il treno si divincola/ Su le<br />

rotaïe sussultando e ansando.// Dietro/ Qualche/<br />

Vetro,/ Qualche / Viso/ Bianco,/ Qualche/ Riso/<br />

Stanco,/ Qualche/ Gesto/ Lesto;// Ma più celeri/ I<br />

vagoni/ Si succedono,/ E i furgoni/ Sul binario/<br />

Trabalzanti/ Strepitanti/ Varcan Varcano;// E il treno,<br />

con palpito eguale, guadagna/ Fiammando nel<br />

buio, l’aperta campagna./ La chiostra de’ monti da<br />

torno vacilla;/ Repente un padule nell’ombra<br />

sfavilla,/ Dispare una greggia di scialbe capanne/ Di<br />

là da una siepe scrosciante di canne,/ Leggera si<br />

libra nell’aria una torre,/ E il treno, con rombo<br />

terribile, corre./ Le nuvole fosche s’inseguon pe’l<br />

cielo/ Coprendo le stelle smarrite d’un velo:/<br />

Trapassan burroni, villaggi dormenti,/ Dirupi,<br />

sodaglie sinistre, torrenti:/ La luna vïaggia, tra gli<br />

alberi, sola,/ E il treno, con rugghio di turbine,<br />

vola.// Su i massi rigidi,/ C’a’ lati incombono,/ I vetri<br />

stampano/ Chiari riverberi:/ Dileguan alberi/<br />

Com’ombre livide,/ Nell’albor fumido:/ I fili aerei/<br />

Lenti s’abbassano,/ Ratti risalgono/ A sbuffi, a<br />

volvoli,/ L’atra caligine/ Intorbida l’aria,/ Mentre la<br />

macchina/ Tonando penetra/ Lungo il freddo<br />

andito/ Con rauchi sibili,/ E gl’invisibili/ Echi<br />

rispondono/ Empiendo d’ululi/ Il sotterraneo.// Ma


sbuca il convoglio nell’umida sera/ Tra i vènti che<br />

dietro gli volano a schiera./ La luna campeggia sul<br />

vasto orizzonte,/ Sbozzando qua l’arco massiccio<br />

d’un ponte,/ Là un fiume, che opaco tra i pioppi<br />

deriva,/ E dentro si svampa la locomotiva;/ E miste<br />

alle forme del vero, le forme/ Tramate di sogno dal<br />

core che dorme:/ Palagi di marmo su isole strane,/ E<br />

palme, e verzieri di rosa, e fontane,/ E un lume che<br />

ammicca nell’ombra remota:/ L’accese una mano<br />

che forse t’è nota?/ Chi plora da presso? Chi d’alto<br />

minaccia?/ Ma per la riviera di gigli che abbraccia/ Il<br />

cielo e la terra, vien l’ardua galera;/ E sotto i suoi<br />

bianchi tendali, una schiera/ Immobile e assorta di<br />

bianche Sibille,/ Scrutando la luna con òrbe pupille,/<br />

Si sfoga in un canto che affanna e che molce,/ Fra<br />

quanti n’udì l’universo, il più dolce,/ E il canto si<br />

spazia per piani, per boschi,/ Per valli selvose di<br />

frassini foschi:/ Attoniti i gioghi si rizzano in fondo/<br />

Su vigne e cascine che girano in tondo./ E il treno<br />

serpeggia, precipita, sale,/ Sprizzando la fiamma del<br />

doppio fanale.// Ma un fischio stridulo/ Fende lo<br />

spazio:/ La luna limpida/ Splende: rallentasi/ La corsa:<br />

tintinniscono/ I campanelli elettrici./ Sbalzana e<br />

tituba/ A tratti il ferreo/ Convoglio; fulgida/ Di lumi,<br />

palpita/ Entro la nebbia/ La città enorme e tacita.<br />

Sfilano macchine,/ Carri, scale, argani;/ E l’alte<br />

lampade/ A torno spandono/ Un baglior gelido/ Ove<br />

spettrali appaiono,/ Come in un sogno, gli uomini./<br />

Ma con movimento / Isnodato, a stento,/ Il convoglio<br />

gira/ Su le rote inerti,/ E a sfagli incerti/ Ancora va,/<br />

Finché si stira,/ E sta.// La gente in frotte si versa<br />

all’uscita:/ O andature stanche! O occhi torbidi!/<br />

Ecco, è svanita/ L’ebbrezza del sogno datore d’oblii;/<br />

E dalle cento fauci/ Della città sopita/ Esala grave il<br />

tedio della vita”. [in Romanò 1955, pp. 354-58]<br />

Il testo, che nella tematica e nel lessico si rifà<br />

chiaramente a Carducci mentre nella<br />

sperimentazione metrica si rifà altrettanto<br />

chiaramente a D’Annunzio, non è privo di<br />

interesse. A differenza di Carducci, che assisteva<br />

soltanto alla partenza del treno, Cesareo ne segue<br />

tutto il percorso, dalla partenza all’arrivo, e cerca<br />

con il ritmo dei suoi versi di imitarne i movimenti.<br />

La prima strofa, con versi di varia lunghezza<br />

(prevalentemente endecasillabi, settenari e quinari),<br />

con rime sparse qua e là e frequenti parole<br />

sdrucciole in rima, vuol quasi imitare la forza<br />

dinamica della locomotiva, impaziente di partire, e<br />

il movimento confuso della folla dei viaggiatori, dei<br />

ferrovieri, della città. La seconda e la terza strofa<br />

imitano il pesante avvio del convoglio, con versi di<br />

parole bisillabe e rime frequenti, seguiti da versi un<br />

poco più lunghi e parole in rima frequentemente<br />

sdrucciole. Segue una strofa che vuole imitare il<br />

movimento ormai veloce e disteso del treno ed è<br />

costituita da versi martelliani, con rime baciate e<br />

parole piane. Poi la corsa a volte rallenta a volte si<br />

stende, con un ritmo che alterna i versi brevi tutti<br />

sdruccioli e di nuovo i martelliani lunghi e piani. La<br />

poesia si chiude con una strofa che, con tante<br />

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122<br />

parole sdrucciole, spesso onomatopeiche, cerca di<br />

imitare il rallentamento e alla fine la conclusione<br />

della corsa. Si tratta, come si può constatare, di<br />

una poesia di carattere sperimentale, che cerca di<br />

dare, con i suoi mezzi, soprattutto ritmici, un<br />

contributo alla lenta domesticizzazione della<br />

locomotiva e del treno.<br />

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Il restauro della <strong>830</strong><br />

Roberto Celotta<br />

ingegnere aeronautico, ha lavorato all’Agusta e alla Siae Marchetti; studioso di storia e tecnica delle ferrovie<br />

In questa immagine<br />

e nelle seguenti alcune fasi<br />

del restauro della<br />

locomotiva <strong>830</strong>.017<br />

MATERIALI<br />

123


124<br />

Parlare del restauro della <strong>830</strong>-017 non è facile<br />

per il significato stesso che il vocabolario italiano<br />

attribuisce al concetto di restauro e cioè quello di<br />

restituzione di un’opera o manufatto al suo stato<br />

primitivo mediante lavori di riparazione,<br />

rifacimento o rinnovamento.<br />

E questo, non perché tali attività fossero<br />

particolarmente difficoltose sulla <strong>830</strong>-017 ma<br />

perché il gruppo di locomotive catalogato dalle<br />

FS come <strong>830</strong> ha avuto una vita travagliata ed è<br />

alla fine risultato uno dei più raccogliticci del suo<br />

inventario, al punto da rendere problematica<br />

l’identificazione di una configurazione di<br />

riferimento della macchina.<br />

Un minimo di storia ci aiuta a comprendere<br />

meglio quanto sopra affermato.<br />

Quando nel giugno del 1905 vennero costituite<br />

le Ferrovie dello stato, esse incamerarono,<br />

nell’arco di un paio d’anni, un gran numero di<br />

locomotive provenienti dalle varie società private<br />

sin allora esistenti, cioè la Rete Adriatica, la Rete<br />

Mediterranea e la Rete Sicula. Le FS, insieme ad<br />

alcune locomotive valide, si ritrovarono un gran<br />

numero di macchine spesso vecchie e con<br />

potenze assolutamente insufficienti.<br />

Non fu questo il caso delle <strong>830</strong> perché, tra le<br />

molte locotender, cioè locomotive con scorte<br />

d’acqua e carbone a bordo, con tre assi<br />

accoppiati e ruote di piccolo diametro, queste<br />

erano ancora in consegna, avevano una buona<br />

potenza e soprattutto una concezione innovativa.<br />

Infatti questo tipo di locomotive, realizzato per la<br />

Rete Mediterranea, era stato usato sia per servizi<br />

di linea con treni viaggiatori leggeri che per le<br />

manovre negli scali ferroviari. Il soddisfacente<br />

risultato ottenuto fu la loro fortuna e al tempo<br />

stesso la loro sfortuna perché da esse fu<br />

sviluppato dalle FS il gruppo 835, uno dei suoi<br />

più riusciti e numerosi (370 macchine), che<br />

presto le soppiantò negli scali di tutt’Italia.<br />

In realtà la Rete Mediterranea aveva ordinato nel<br />

1900 un primo lotto di 6 macchine, numerate da<br />

6801 a 6806 e nel 1903 un secondo lotto di 14<br />

macchine, numerato da 6807 a 6820. Di queste,<br />

il primo lotto di 6, costruito dalle Officine<br />

meccaniche di Saronno e leggermente meno<br />

pesanti e potenti, andarono a costituire presso le<br />

FS il gruppo 829, mentre le successive 14<br />

costituirono il gruppo <strong>830</strong>, costruite dalla Breda<br />

e caratterizzate da una caldaia più vaporiera.<br />

La caldaia più vaporiera era una caratteristica<br />

molto importante perché trattandosi, in entrambi<br />

i casi, di macchine a vapore saturo, le perdite di<br />

potenza dovute alla condensazione di questo<br />

vapore erano in generale piuttosto sensibili e<br />

quindi era assolutamente positivo avere un<br />

generatore di vapore esuberante e in grado di<br />

compensare almeno parzialmente gli effetti della<br />

condensazione.<br />

Sotto la gestione delle FS, le <strong>830</strong> del primo lotto


125


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128<br />

furono numerate dalla -001 alla -014 e, nello<br />

stesso 1905, fu ordinato un ulteriore lotto di 30<br />

macchine, numerate dalla -015 alla -044, che<br />

costituì la seconda serie delle <strong>830</strong> e che si<br />

differenziava esteriormente dalla prima per avere<br />

un telaio più lungo nella parte posteriore e<br />

quindi una carbonaia di maggiore capacità e una<br />

cabina di taglio più moderno.<br />

Ci troviamo quindi di fronte a una serie di<br />

macchine con caratteristiche distinte tra prima e<br />

seconda serie e ulteriormente differenziate a<br />

seconda che siano rimaste sempre in ambito FS,<br />

noleggiate o vendute; tra quest’ultime, a parte<br />

11 macchine finite al Ministero della marina dove<br />

mantennero le caratteristiche originarie, le altre<br />

finirono prevalentemente alla Montecatini,<br />

all’Ilva, alla Cogne, alla Cokitalia, e le ultime 9<br />

vendute, a due società di servizi esercenti le<br />

manovre nel porto di Genova.<br />

Fu presumibilmente nel 1936 che la <strong>830</strong>-017,<br />

oggetto del restauro, finì alla Cokitalia, società<br />

nel 1980 confluita nell’Italiana Coke, che tuttora<br />

possiede la originaria <strong>830</strong>-001 Breda, ex 6807<br />

Rete Mediterranea.<br />

Nel 1988 l’allora Finanziaria Ernesto Breda,<br />

saputo che la locomotiva Italiana Coke N°3 era in<br />

realtà la ex <strong>830</strong>-017 FS, numero di costruzione<br />

758 della Breda, ne presentò formale richiesta di<br />

acquisto, con l’intenzione di collocarla in un<br />

proprio museo. La domanda fu accolta dalla<br />

Italiana Coke, che anzi si dichiarò disposta a<br />

donare la macchina e così la nostra <strong>830</strong>-017<br />

tornò a Sesto in un capannone distaccato dove<br />

fu preservata in attesa dei tempi migliori,<br />

finalmente arrivati.<br />

Ma negli anni di servizio alla Cokitalia, la<br />

macchina aveva subito profonde modifiche, sia<br />

per via delle necessità manutentive sia per<br />

renderla un po’ più confortevole per il personale<br />

di macchina e adatta ai suoi nuovi compiti, che<br />

ne hanno alterato la fisionomia della cabina e<br />

delle casse d’acqua.<br />

E qui nasce il problema principale alla base<br />

dell’operazione di restauro: restaurare, ma a<br />

quale configurazione? Come una macchina<br />

rappresentativa di un ben preciso gruppo di<br />

locomotive FS, alla cui costituzione partecipò<br />

attivamente la Breda, oppure come una generica<br />

locomotiva a vapore per tramandare un simbolo<br />

dell’attività della Breda nel campo ferroviario,<br />

senza tener conto di come questo prodotto sia<br />

stato modificato nel tempo dagli utilizzatori?<br />

Nella prima ipotesi, pur tralasciando il ricostituito<br />

e raccogliticcio secondo gruppo <strong>830</strong>, una<br />

configurazione della <strong>830</strong> del gruppo originale<br />

non è univocamente identificabile, perché le<br />

prime 6 macchine commissionate dalla Rete<br />

Adriatica erano diverse da quelle costruite sotto<br />

la gestione FS.<br />

Allora, ci si può riferire alla sola <strong>830</strong>-017, sigla


che però identifica una ben precisa macchina<br />

delle FS, di cui esiste una foto che ne mostra, tra<br />

l’altro la significativa mancanza del compressore<br />

o pompa dell’aria, come veniva detta dai<br />

ferrovieri, per l’azionamento del freno continuo.<br />

Infatti questa macchina, a differenza delle altre<br />

dello stesso gruppo, è priva dell’impianto di<br />

frenatura ad aria compressa e dispone del solo<br />

freno a vapore e del freno meccanico di<br />

stazionamento. Il che ci fa supporre che proprio la<br />

-017 possa essere servita per la sperimentazione di<br />

quel concetto di macchina da manovra poi attuato<br />

col gruppo 835, perché di solito nelle manovre<br />

non si utilizzava il freno ad aria compressa sia per<br />

risparmiare tempo sia perché la maggior parte dei<br />

carri di allora ne era sprovvista. Non è infatti un<br />

caso che anche la prima serie delle 835 fosse priva<br />

di tale impianto e avesse una cassetta degli<br />

attrezzi al posto del compressore.<br />

Altro particolare della -017 è la sua caldaia,<br />

marcata <strong>1906</strong>, ma dotata di tubi bollitori lisci<br />

come quella delle 835 e non ondulati di tipo<br />

Serve, più efficienti ma di più onerosa<br />

manutenzione, come quella delle altre <strong>830</strong>.<br />

Come documentato dal libretto della caldaia,<br />

conservato presso l’Archivio storico Breda,<br />

quest’ultima pare sostituita con quella unificata<br />

delle 835 oppure è stata dotata sin dall’inizio di<br />

una caldaia allora sperimentale, poi standard sul<br />

gruppo 835.<br />

In ogni caso, se si opta per restaurare la <strong>830</strong>-017<br />

daremo un contributo alla memoria storica delle<br />

FS e dovremo necessariamente ricondurci alla sua<br />

configurazione originaria, altrimenti, considerato<br />

che la vita operativa della locomotiva è stata<br />

spesa in parti grosso modo uguali sui binari delle<br />

FS e nell’industria, possiamo tramandare<br />

l’altrettanto valida memoria storica della<br />

movimentazione dei carri all’interno delle grandi<br />

industrie e quindi ricondurci alla configurazione<br />

pressoché costante mantenuta durante la sua<br />

attività presso la cokeria. Ma in questo caso<br />

avremo restaurato la locomotiva Italiana Coke N°<br />

3 e non la <strong>830</strong>-017 FS.<br />

La decisione non è facile perché se la seconda<br />

opzione è più semplice e meno costosa, è pur<br />

vero che ci rende una locomotiva abbastanza<br />

anonima e non una delle pochissime se non<br />

addirittura l’unica <strong>830</strong> Breda di seconda serie<br />

sopravvissuta.<br />

È anche vero che la macchina non è destinata a<br />

un museo ferroviario dove sarebbe stato tassativo<br />

restaurare la <strong>830</strong>-017 nel suo stato d’origine<br />

presso le FS, ma è destinata a un museo del<br />

lavoro, in cui l’attività della Breda più che il<br />

singolo prodotto è sicuramente l’elemento<br />

catalizzatore.<br />

Si è allora fatta strada l’idea che poteva avere un<br />

senso un restauro che evidenziasse le linee<br />

generali della locomotiva FS ma che al tempo<br />

129


130<br />

stesso conservasse una traccia di come il lavoro<br />

dell’uomo aveva nel tempo modificato il mezzo<br />

meccanico per renderlo più consono alle sue<br />

necessità: una locomotiva che non è esattamente<br />

la <strong>830</strong>-017 ma conserva, nella cabina, nelle casse<br />

d’acqua, nei piastroni frontali e nei respingenti, le<br />

modifiche apportate dalla cokeria.<br />

Questa macchina, riverniciata secondo i canoni<br />

FS, riporta le targhe sia della Italiana Coke N°3<br />

sia della <strong>830</strong>-017 originale FS, a testimonianza<br />

della sua doppia vita sui binari.<br />

Si è deciso di tenere sollevata la macchina di<br />

alcuni centimetri sul piano del ferro del binario,<br />

in modo da lasciare libere le ruote di girare grazie<br />

a un motore elettrico e opportuna trasmissione<br />

celati nel telaio. Un movimento lento, intorno ai<br />

quattro giri al minuto, ma che consenta di<br />

apprezzare la bellezza e la sensazione di<br />

dinamismo che traspare dall’andirivieni dei<br />

pistoni e dall’armonico gioco delle bielle di<br />

accoppiamento e di distribuzione.<br />

Non è questa la sede per una trattazione<br />

puntuale delle fasi concrete del restauro che è<br />

durato oltre un anno e ha richiesto diversi tipi di<br />

competenze, oltre che l’entusiasmo e la passione<br />

di aziende e persone. A cominciare dalla<br />

Ansaldo-Camozzi, che ha sponsorizzato il lavoro<br />

e ospitato la macchina nei suoi capannoni, non<br />

ha mai lesinato mezzi, materiali e, all’occorrenza,<br />

manodopera. Il grosso dell’attività è stato<br />

condotto poi da Corrado Ferulli e Patrizia<br />

Ricciardi, affiancati da tre ex lavoratori Breda (cui<br />

peraltro si deve anche buona parte del lavoro di<br />

salvaguardia dei materiali d’archivio dell’azienda):<br />

Rodolfo Spadaro, Giuseppe Bruscella e Carlo<br />

Vimercati.


MATERIALI<br />

L’Archivio storico Breda<br />

Grazia Marcialis, Alberto De Cristofaro, Primo Ferrari<br />

<strong>Fondazione</strong> Isec<br />

Rubrica contratti, 1<strong>830</strong>-1952<br />

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132<br />

Nel 1886 l’ingegner Ernesto Breda rilevò<br />

l’Elvetica, una piccola società milanese operante<br />

nel settore meccanico-ferroviario, e costituì<br />

l’accomandita semplice ing. Ernesto Breda e C.<br />

Pochi anni dopo, nel 1899, la società cambiò la<br />

sua ragione sociale in Società italiana Ernesto<br />

Breda per costruzioni meccaniche (Sieb).<br />

All’intento iniziale di specializzare l’azienda nella<br />

produzione di locomotive e materiale ferroviario<br />

in genere, si affiancarono, via via, nuove<br />

produzioni. Nel 1936 le unità tecnico-produttive<br />

del complesso erano cinque e nelle sezioni I e II<br />

(elettromeccanica e locomotive, ferroviaria) si<br />

produceva materiale ferroviario.<br />

Nel 1951, a seguito dell’approfondirsi della crisi<br />

economica del gruppo, l’avvocato Pietro Sette fu<br />

nominato commissario straordinario dal Fondo<br />

per il finanziamento dell’industria meccanica<br />

(Fim) con l’incarico di procedere al riassetto del<br />

complesso industriale. La Sieb divenne Finanziaria<br />

Ernesto Breda e le sezioni di produzione furono<br />

trasformate in società per azioni controllate dalla<br />

Finanziaria.<br />

È opportuno richiamare, anche se sinteticamente,<br />

questi fatti storici perché proprio in una delle<br />

società Breda si costituì il primo nucleo<br />

dell’attuale Archivio storico. Nel 1980 quattro<br />

dipendenti della Breda Termomeccanica – società<br />

nata dalla I sezione –, Rodolfo Spadaro,<br />

Giuseppe Bruscella, Ivano Baucia e Carlo<br />

Vimercati, assistendo sconcertati all’invio al<br />

macero della documentazione che costituiva la<br />

memoria storica dell’azienda, si posero il<br />

problema in un primo momento del salvataggio<br />

e poi del recupero di ogni tipo di materiale che<br />

testimoniasse l’attività delle sezioni di produzione<br />

I e II e delle società da queste derivate.<br />

Nel 1983, grazie al pressing dei nostri valenti<br />

“bredisti”, l’Archivio fu dichiarato di notevole<br />

interesse storico dalla Soprintendenza archivistica<br />

della Lombardia. Nel 1986 la Finanziaria Ernesto<br />

Breda, in occasione delle celebrazioni del<br />

centenario della Sieb, resasi conto dell’interesse<br />

che l’Archivio storico aveva suscitato fra molti<br />

studiosi di storia dell’industria – come Valerio<br />

Castronovo, che aveva a sua volta incoraggiato fin<br />

dagli inizi il lavoro dei quattro “fondatori” – ,<br />

promosse la costituzione di un proprio archivio<br />

storico, con lo scopo di “valorizzare l’identità e la<br />

memoria storica della società, ma anche per<br />

soddisfare le richieste di documentazione e di


icerche che ci provengono da più parti”,<br />

incorporando il nucleo già esistente. Spadaro<br />

divenne responsabile dell’Archivio storico, mentre<br />

la ricerca e il recupero della documentazione<br />

divennero sistematici e rivolti all’intero complesso<br />

Breda.<br />

In seguito alla dichiarazione sullo stato di<br />

liquidazione della Finanziaria nel 1994 e al<br />

passaggio di proprietà delle società del gruppo, si<br />

presentò il problema delle sorti dell’Archivio e<br />

soprattutto della possibilità di dispersione della<br />

documentazione fino ad allora raccolta, come<br />

molto spesso accade agli archivi e alle biblioteche<br />

aziendali. A questo punto ritornò in primo piano<br />

Spadaro, che prese contatto con la <strong>Fondazione</strong><br />

Isec e successivamente con il Comune di Sesto<br />

San Giovanni per verificare la possibilità di<br />

acquisizione dell’Archivio da parte del comune<br />

stesso. Non va dimenticato che la Breda aveva<br />

avuto una notevole influenza sulla vita sociale,<br />

produttiva e politica della città e che tre sindaci<br />

di Sesto, dal 1945 al 1970, erano stati lavoratori<br />

di questa impresa (Rodolfo Camagni operaio<br />

della III sezione fucine, Abramo Oldrini<br />

capotecnico della I sezione, Giuseppe Carrà<br />

operaio della I).<br />

La realizzazione del progetto fu resa possibile<br />

grazie al parere favorevole espresso dalla<br />

Soprintendenza archivistica regionale e dalla<br />

direzione della Finanziaria e l’iter si concluse il 16<br />

ottobre 1995 con la firma di una convenzione tra<br />

la Finanziaria e il Comune di Sesto San Giovanni,<br />

che depositò l’Archivo presso la <strong>Fondazione</strong> Isec<br />

per l’ordinamento e la conservazione.<br />

La parte cartacea era costituita da circa 250 metri<br />

lineari e conservava i libri sociali della Sieb e della<br />

Feb, la documentazione prodotta e/o ricevuta<br />

dagli organi dirigenti delle stesse, quella relativa<br />

alle sezioni di produzione e in parte alle società<br />

per azioni da queste derivate. Dalle carte è<br />

possibile ricostruire l’attività amministrativa, la<br />

politica aziendale, l’organizzazione del lavoro, le<br />

diverse fasi della produzione (dalla ricerca<br />

tecnico-scientifica alla realizzazione del prodotto),<br />

la promozione dell’immagine, i rapporti aziendapersonale;<br />

a questo proposito vale la pena<br />

ricordare che il patrimonio archivistico della<br />

<strong>Fondazione</strong> Isec comprende una ricca<br />

documentazione delle organizzazioni dei<br />

lavoratori e degli organismi politici e sindacali<br />

presenti all’interno dell’impresa.<br />

Completava e arricchiva l’Archivio una ricca<br />

133


134<br />

documentazione di altra natura: 45.000<br />

immagini fotografiche comprendenti i negativi su<br />

lastra o pellicola e le stampe, circa 9000 disegni<br />

tecnici, centinaia fra modelli di manufatti, 1000<br />

tra bozzetti e fotografie utilizzati per le<br />

campagne pubblicitarie, attrezzi e utensili di<br />

officina e d’ufficio, stemmi e marchi aziendali,<br />

targhe di prodotto o di identificazione degli<br />

stabilimenti, parti di corredo di carrozze<br />

ferroviarie, ecc., una testimonianza di culture,<br />

quella materiale e quella del lavoro, ormai in via<br />

di estinzione.<br />

I documenti iconografici e quelli materiali<br />

testimoniano l’enorme diversificazione produttiva<br />

della Breda, che è nota soprattutto per la<br />

costruzione di locomotive e carrozze ferroviarie<br />

(dalla Littorina al Settebello), tram, autobus e<br />

filobus, carrozze per la metropolitana milanese,<br />

navi, aerei, armi, macchine agricole, macchinari<br />

per l’industria mineraria, siderurgica,<br />

metalmeccanica, elettronica, fino all’industria


Disegno tecnico della targa<br />

in bronzo da apporre sulle<br />

locomotive, anni dieci<br />

135


136<br />

Registro delle assunzioni<br />

Breda, 1916-17<br />

nucleare, ma ha realizzato anche frigoriferi,<br />

ciclomotori (il celebre, ma invero non eccezionale<br />

Bredino) e telai per calze, tanto che un motto<br />

degli operai, dei tecnici e del movimento dei<br />

consigli di gestione, nel secondo dopoguerra,<br />

recitava “la Breda produce dall’ago alle navi”.<br />

Dopo il trasferimento dell’Archivio nei locali della<br />

<strong>Fondazione</strong> Isec la ricerca di ulteriore<br />

documentazione è proseguita alacremente, tanto<br />

che oggi la parte cartacea ha raggiunto i 600<br />

metri lineari.<br />

Per quanto riguarda più specificamente la<br />

documentazione relativa alle costruzioni<br />

ferroviarie (locomotive, carri, carrozze)<br />

nell’Archivio Breda possono essere consultati i<br />

registri dei preventivi relativi alla produzione e<br />

alla fornitura di materiali ferroviari ad altre<br />

società, gli elenchi delle commesse; studi,<br />

progetti e relazioni tecniche di prodotti,<br />

componenti, dispositivi speciali; manuali e<br />

cataloghi; materiale pubblicitario nelle diverse<br />

fasi di elaborazione, dalla fotografia ritoccata ai<br />

disegni preparatori fino al bozzetto finale che<br />

avrebbe illustrato un depliant, un catalogo o<br />

avrebbe dato vita a un manifesto.<br />

La documentazione copre un arco cronologico<br />

che va dalla fine dell’Ottocento alla metà del<br />

Novecento. L’inventario dell’Archivio è<br />

consultabile on line.


MATERIALI<br />

L’Archivio fotografico<br />

Maria Rosaria Moccia<br />

<strong>Fondazione</strong> Isec<br />

Ingresso di una locomotiva a<br />

vapore alla Breda di Sesto<br />

San Giovanni, anni dieci<br />

137


138<br />

L’esistenza di un archivio fotografico aziendale<br />

pone come prima domanda quella delle<br />

motivazioni, delle funzioni e degli scopi che<br />

l’azienda ha espresso nella decisione di avvalersi di<br />

questo tipo di autodescrizione e<br />

autorappresentazione. Mentre l’esistenza di altri<br />

archivi, come quello amministrativo o delle<br />

commesse, è atto imprescindibile dell’attività<br />

aziendale – la sua non esistenza deriva soltanto<br />

dalla sua dispersione – per gli archivi fotografici o<br />

per le raccolte fotografiche, l’intenzionalità e le<br />

modalità di formazione sono primo significativo<br />

elemento di analisi.<br />

Nel nostro caso, pur con le dispersioni e le<br />

manomissioni, questa intenzionalità risulta chiara<br />

ed esplicita, meno facile è la ricostruzione delle<br />

varie fasi e delle procedure di produzione e<br />

conservazione connesse ai cambiamenti societari,<br />

alle attribuzioni di responsabilità aziendale su<br />

questo settore, alla storia dell’archivio nei momenti<br />

decisivi di passaggio di proprietà o di chiusura<br />

dell’azienda.<br />

Esistono pochi esempi in Italia di produzione di<br />

immagini in proprio o comunque sistematiche da<br />

parte delle imprese industriali, casi in cui si può<br />

parlare di un vero e proprio “archivio fotografico<br />

aziendale” e non più genericamente di raccolte<br />

fotografiche. Non abbiamo sufficienti informazioni<br />

in altri settori dell’archivio Breda che ci permettano<br />

di ricostruire con precisione la costituzione e la<br />

storia dell’archivio aziendale, ma alcuni documenti<br />

ci confermano l’esistenza di un ufficio fotografico<br />

(dal 1937 al 1965), in cui lavorava il fotografo<br />

Giuseppe Carlucci (che rimase anche in seguito il<br />

fotografo “ufficiale” della Breda come<br />

collaboratore). Inoltre altri due aspetti connotano<br />

tutta la documentazione fotografica come<br />

produzione sistematica in proprio: in primo luogo<br />

l’ampiezza, la fitta scansione cronologica e le<br />

caratteristiche iconografiche; in secondo luogo<br />

l’esistenza di strumenti di corredo con funzioni di<br />

registrazione e di accesso al contenuto delle<br />

immagini (due registri inventariali dal dopoguerra<br />

agli anni '80 e un catalogo suddiviso per categorie<br />

fino al 1949).<br />

Sono state già descritte, nella presentazione<br />

dell’Archivio storico Breda, le vicende<br />

dell’acquisizione della documentazione che ci<br />

spiega anche la presenza di raggruppamenti<br />

temporalmente e funzionalmente diversi.<br />

Il nucleo centrale dell’Archivio è costituito da circa<br />

40.000 immagini in positivo, di cui per circa<br />

20.000 si possiedono i supporti originali (lastre e<br />

pellicole). Tali immagini sono riconducibili a un<br />

arco temporale che va dai primi del Novecento<br />

agli anni settanta. Un raggruppamento di circa<br />

5000 foto, pervenuto distintamente, riguarda la<br />

documentazione fotografica della Breda<br />

termomeccanica (dagli anni sessanta agli anni<br />

ottanta).


A questo fondo principale vanno aggiunti i<br />

numerosi album fotografici aziendali che, come è<br />

noto, rispondono generalmente a due esigenze<br />

fondamentali: la prima riguarda la necessità di<br />

costruire una storia visiva dell’azienda o di<br />

evidenziare più sinteticamente il contenuto<br />

dell’archivio; la seconda riguarda invece necessità<br />

di carattere celebrativo o occasionale per un<br />

ristretto numero di fruitori (dirigenti, politici o altri<br />

personaggi e istituzioni).<br />

Nell’archivio fotografico Breda distinguiamo un<br />

fondo omogeneo di 47 album fotografici che<br />

rispondono alla prima tipologia (conservativi e<br />

descrittivi dell’attività aziendale). Questi album di<br />

grandi dimensioni (50x70 cm), contenenti in ogni<br />

pagina più foto, sono divisi tematicamente sulla<br />

base delle diverse attività produttive e di alcuni<br />

temi generali (Visite, ritratti di personaggi; Istituto<br />

scientifico Breda; Fiere; Locomotive; Veicoli;<br />

Elettromeccanica; Cantiere navale; Armi e<br />

munizioni; Aeronautica; Macchine industriali;<br />

Caldaie; Autocarri, trattori, carpenterie, caldaie;<br />

Autocarri, motori; Macchine agricole).<br />

Alla seconda tipologia appartengono 30 album<br />

che rispondono ognuno a esigenze di<br />

comunicazione di carattere diverso, ma comunque<br />

legate a occasionalità rappresentative o<br />

documentarie ben precise. Tra questi segnaliamo<br />

gli album su specifici prodotti (armi, trasformatori<br />

ecc.), quello sulle case popolari a Milano costruite<br />

dallo Iacp, oppure quelli sui padiglioni fieristici.<br />

Evidentemente, a seconda dell’occasione o<br />

dell’epoca in cui sono stati prodotti, questi album<br />

presentano, dal punto di vista della confezione<br />

(legatura, copertina, ecc.), caratteristiche che ci<br />

permettono di individuare, insieme alla loro<br />

destinazione, anche modalità e cultura<br />

documentaria del relativo periodo storico.<br />

Oltre ai raggruppamenti descritti, vogliamo<br />

segnalare, come documenti visivi connessi alla<br />

documentazione fotografica, il fondo Bozzetti. Si<br />

tratta di 1000 documenti, costituiti in gran parte<br />

da fotografie utilizzate per prodotti pubblicitari o<br />

per pubblicazioni, che hanno subito processi di<br />

riconfigurazione grafica (ritocchi, progetti di grafica<br />

pubblicitaria, ecc.). Il fondo è di grande rilevanza<br />

per lo studio della presentazione grafica dei<br />

prodotti in relazione alla cultura della pubblicistica<br />

aziendale e tecnica delle diverse fasi storiche.<br />

Le stampe e le lastre dell’archivio originario,<br />

acquisite dal Comune di Sesto San Giovanni e<br />

poi depositate presso l’Isec, hanno subito un<br />

primo riordino coordinato da Rodolfo Spadaro.<br />

In questa fase l’operazione preliminare,<br />

indispensabile per ricostruire la consistenza<br />

complessiva della documentazione, è stata la<br />

riproduzione in positivo dei supporti negativi<br />

(lastre e pellicole). Una priorità per gli archivi<br />

fotografici, in particolare di archivi<br />

quantitativamente consistenti e che hanno subito<br />

139


140<br />

manomissioni dell’ordinamento originario, è la<br />

necessità di ricongiungere documenti (negativi,<br />

positivi, copie) relativi a uno stesso scatto<br />

fotografico, e di identificare il contenuto<br />

dell’immagine. È evidente che, in assenza di questi<br />

dati di riconoscimento e di un ordinamento fisico<br />

di carattere tematico, l’accesso alle immagini è<br />

sostanzialmente impossibile. Oggi, la<br />

digitalizzazione e la catalogazione informatizzata<br />

rende questo problema meno pressante, ma<br />

comunque da considerare per archivi di grandi<br />

dimensioni in cui la catalogazione di tutte le<br />

immagini richiede tempi molto lunghi e risorse<br />

economiche ingenti.<br />

Sempre in questa fase è stato formulato un sistema<br />

di classificazione tematica e si è iniziata<br />

l’individuazione dei soggetti e delle date per 6200<br />

immagini selezionate. Queste foto sono andate a<br />

costituire il primo nucleo accessibile alla<br />

consultazione da parte degli studiosi.<br />

La seconda fase di riordino, iniziata da un anno<br />

circa, si è posta l’obiettivo di procedere alla<br />

ricostruzione dell’ordinamento tematico di tutte le<br />

altre foto e alla individuazione di soggetti e date<br />

delle singole immagini, utilizzando i registri<br />

inventariali e il catalogo di schede esistenti suddiviso<br />

per categorie. Solo in seguito a questo lavoro si è<br />

potuto effettuare il definitivo riordino fisico dei<br />

documenti in supporti (buste e scatole) con<br />

particolari requisiti tecnici per la conservazione sulla<br />

base degli standard nazionali e internazionali.<br />

Successivamente si potrà procedere alla scansione<br />

delle immagini e alla loro catalogazione<br />

informatizzata utilizzando il software SIRBeC<br />

elaborato dalla Regione Lombardia sulla base degli<br />

standard descrittivi predisposti dall’Iccd (Istituto<br />

centrale per il catalogo e la documentazione).<br />

In ogni caso, terminato il riordino fisico, i documenti<br />

potranno facilmente essere consultati utilizzando,<br />

come accesso, il sistema di classificazione articolato<br />

nelle seguenti voci generali: Personaggi, visite,<br />

cerimonie; Fiere e mostre (con relative visite),<br />

pubblicità; Attività sociali; Stabilimenti e reparti;<br />

Danni di guerra e sinistri; Istituto scientifico tecnico<br />

“Ernesto Breda”; Trasporti su rotaia; Trasporti su<br />

strada; Macchine agricole; Armi; Navi e cantiere<br />

navale; Aeronautica; Motori a combustione;<br />

Miniere; Macchine elettriche; Macchine idrauliche;<br />

Impianti (centrali elettriche, caldaie, petrolchimica,<br />

ecc); Macchine industriali; Altre produzioni.<br />

All’interno di ognuna di queste classi generali<br />

sono previsti livelli ulteriori di approfondimento di<br />

cui diamo qui un esempio per la classe Trasporti:<br />

Locomotive; Locomotori; Carrozze ferroviarie;<br />

Carri ferroviari speciali; Automotrici elettriche;<br />

Altre automotrici; Elettrotreni e treni; Tram,<br />

tramvie, metropolitane.<br />

Come hanno evidenziato alcuni storici<br />

dell’industria, la lettura delle immagini<br />

fotografiche, al di là della loro funzione di pura


illustrazione, può e deve essere integrata con<br />

informazioni provenienti da altre fonti<br />

(commesse, disegni tecnici, bozzetti,<br />

pubblicazioni, ecc.) per contribuire all’analisi di<br />

processi storici, tecnologici, economici<br />

dell’azienda e dei settori industriali di riferimento.<br />

Ci si propone quindi di sviluppare le necessarie<br />

connessioni tra documenti appartenenti a fondi<br />

archivistici differenziati, come già previsto da<br />

alcuni innovativi software di catalogazione.<br />

L’Archivio storico Breda, per la ricchezza della sua<br />

documentazione, può rappresentare un caso<br />

esemplare in questa direzione.<br />

Ci sembra utile accennare, in chiusura di questa<br />

breve presentazione, alle valenze storicodocumentarie<br />

dell’Archivio fotografico Breda.<br />

Se il primo evidente valore dell’archivio è di<br />

documentare la storia dell’attività dell’azienda (dalla<br />

produzione alla commercializzazione, alla dirigenza,<br />

alle relazioni industriali), un secondo valore di più<br />

largo raggio è la lettura delle immagini in funzione<br />

dei cambiamenti socio-economici del paese, dei<br />

servizi e delle infrastrutture territoriali o della storia<br />

della tecnologia e del design o ancora dei<br />

comportamenti sociali. Per esempio le immagini sui<br />

trasporti visualizzano in modo evidente le fasi<br />

significative di sviluppo di servizi e infrastrutture o<br />

l’attenzione, dal punto di vista progettuale, al gusto<br />

e alle esigenze di consumo, o anche al<br />

cambiamento della viabilità e del contesto cittadino.<br />

Così come la documentazione su una visita di<br />

Togliatti nei primi anni cinquanta a Sesto San<br />

Giovanni e agli stabilimenti Breda supera il senso<br />

aziendale dell’evento e si ricollega alla storia del<br />

paese e del contesto sociale dell’area sestese. E così<br />

per molti altri temi documentati.<br />

Molti studiosi hanno messo in luce negli ultimi anni<br />

l’interesse della documentazione fotografica delle<br />

aziende, pur legata nella sua produzione ad aspetti<br />

funzionali e di documentazione del “reale”, per<br />

analisi di carattere visivo sui codici espressivi e<br />

culturali di questo tipo di fonti. Le immagini ci<br />

dicono molto della cultura che sottende la loro<br />

produzione e circolazione a partire dalla<br />

committenza, dai fotografi, dai personaggi<br />

rappresentati: numerose sono le ricerche<br />

sull’iconografia del lavoro e dei suoi soggetti,<br />

mentre tutta da sviluppare è, ad esempio, la<br />

ricerca sui codici rappresentativi di oggetti,<br />

macchine e strumenti di lavorazione o sulla<br />

cultura tecnica e grafica che caratterizza la<br />

pubblicistica dei prodotti industriali.<br />

L’insieme degli archivi fotografici della <strong>Fondazione</strong><br />

Isec (Breda, Marelli e altre raccolte minori)<br />

rappresenta, per ricerche su questi aspetti, una vera<br />

miniera in cui scavare, grazie anche alla ricchezza di<br />

accessi al documento oggi permessa dalle nuove<br />

tecnologie informatiche e metodologie<br />

documentarie.<br />

141


142<br />

Manutenzione di una<br />

locomotiva a vapore alla<br />

Breda, anni venti


E alla distanza di cent’anni resuscita Giorgio Oldrini 3<br />

Prefazione Luigi Ganapini 5<br />

La locomotiva Breda <strong>830</strong> del <strong>1906</strong> Alberto Bassi e Raimonda Riccini 7<br />

La storia<br />

Dalla meccanica generale alla specializzazione: Breda 1886-1908 Giorgio Bigatti 12<br />

Tecnica al lavoro: una macchina ai primi del Novecento Raimonda Riccini 26<br />

Progettazione e costruzione ferroviaria alla Breda agli inizi del secolo scorso Alberto Bassi 46<br />

La comunicazione grafica Breda all’inizio del Novecento Fiorella Bulegato 63<br />

Immagini e immaginario della tecnica nell’Archivio fotografico Breda Cristina De Vecchi 76<br />

Urbanistica e architettura di fabbrica alle origini di Sesto industriale Cecilia Colombo 90<br />

Sguardi sul treno<br />

Locomotiva/ferrovia/stazione: e il cinema fu Antonio Costa 103<br />

Da Turner a Dubuffet: per un percorso dell’arte in treno Eliana Princi 109<br />

Un bello e orribile mostro Remo Ceserani 115<br />

Materiali<br />

Indice<br />

Il restauro della <strong>830</strong> Roberto Celotta 123<br />

L’Archivio storico Breda Grazia Marcialis, Alberto De Cristofaro, Primo Ferrari 131<br />

L’Archivio fotografico Maria Rosaria Moccia 137<br />

143


144<br />

Finito di stampare nel mese di giugno 2006<br />

presso le Arti Grafiche Torri di Cologno Monzese (MI)

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