LA LOCOMOTIVA BREDA 830 DEL 1906 - Fondazione ISEC
LA LOCOMOTIVA BREDA 830 DEL 1906 - Fondazione ISEC
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SILVIA EDITRICE<br />
<strong>LA</strong><br />
<strong>LOCOMOTIVA</strong><br />
<strong>BREDA</strong> <strong>830</strong><br />
<strong>DEL</strong> <strong>1906</strong><br />
Lavoro, tecnica e comunicazione
Città di<br />
Sesto San Giovanni<br />
<strong>LA</strong><br />
<strong>LOCOMOTIVA</strong><br />
<strong>BREDA</strong> <strong>830</strong><br />
<strong>DEL</strong> <strong>1906</strong><br />
Lavoro, tecnica e comunicazione<br />
a cura di<br />
Alberto Bassi e Raimonda Riccini<br />
1
E alla distanza<br />
di cent’anni resuscita<br />
“E alla distanza di cent’anni resuscita”, canta il<br />
cubano Silvio Rodriguez e noi possiamo riprendere<br />
e adattare queste parole alla locomotiva Breda <strong>830</strong><br />
che uscì trionfale dalle porte della fabbrica nel<br />
<strong>1906</strong> e che in questi giorni di giugno, proprio a<br />
cento anni di distanza, rinasce e ripercorre le vie di<br />
Milano e di Sesto San Giovanni per andare a<br />
occupare il suo posto definitivo, sotto il carro<br />
ponte, anche lui recuperato alla città e ai suoi<br />
abitanti. Quando Ernesto Breda acquisì l’Elvetica e<br />
la trasformò nella sua azienda, aveva un primo<br />
obiettivo fondamentale: specializzare la produzione<br />
nella costruzione di locomotive e di materiale<br />
ferroviario. L’unità d’Italia era unione dei mercati e<br />
delle genti e dunque le ferrovie dovevano avere un<br />
ruolo fondamentale nel “fare gli italiani”, dopo che<br />
era stata fatta l’Italia. Lo sappiamo bene noi a<br />
Sesto San Giovanni, perché lo straordinario<br />
sviluppo di quello che era solo un borgo agricolo<br />
fu possibile soprattutto grazie alla scelta che era<br />
stata fatta qualche decennio prima di far passare<br />
sul nostro territorio la ferrovia Milano Centro<br />
Giorgio Oldrini<br />
Sindaco di Sesto San Giovanni<br />
Europa. Anche per la presenza di quei binari<br />
Ernesto Breda decise di spostare qui la sua<br />
fabbrica, ormai troppo stretta a Milano. La <strong>830</strong> fu<br />
allora uno dei gioielli di una produzione che fu<br />
sempre tecnologicamente raffinata. La nostra<br />
locomotiva ha percorso tutti i chilometri che ha<br />
potuto, ha trainato tutte le carrozze che le sono<br />
state agganciate, poi è stata lasciata a deperire<br />
lontano da Sesto. Ma un gruppo di amatori,<br />
soprattutto ex lavoratori della fabbrica ora in<br />
pensione, ha saputo recuperarla, l’ha riportata a<br />
casa sua, nei capannoni della Camozzi che della<br />
Breda è l’erede, e ha lavorato per mesi e mesi in<br />
un restauro amorevole e appassionato. Così, grazie<br />
alla Camozzi che ha ospitato l’operazione di<br />
recupero, e ai pensionati della Breda, oggi, alla<br />
distanza di cento anni, la mitica <strong>830</strong> risuscita e,<br />
almeno per un giorno, ripercorre le vie di Milano e<br />
di Sesto San Giovanni. E da adesso si offre agli<br />
sguardi curiosi di chi vorrà andare ad ammirare<br />
uno dei gioielli della tecnologia e dell’estetica<br />
prodotti sul nostro territorio.<br />
3
4<br />
progetto grafico e impaginazione Magutdesign<br />
redazione Fiorella Bulegato<br />
prestampa Fotolito Milanese<br />
stampa Arti Grafiche Torri<br />
© 2006 <strong>Fondazione</strong> <strong>ISEC</strong><br />
(Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea)<br />
Sesto San Giovanni (MI)<br />
www.fondazioneisec.it<br />
Presidente Gianni Cervetti<br />
Direttore scientifico Luigi Ganapini<br />
Con il sostegno<br />
Comune di Sesto San Giovanni (MI)<br />
MIL Museo dell’industria e del lavoro, Sesto San Giovanni (MI)<br />
Si ringraziano<br />
Ansaldo-Camozzi, Giuseppe Bruscella, Monica Chittò,<br />
Massimo D’Elia, Corrado Ferulli, Stefano Mazzoni,<br />
Alessandra Rapetti, Patrizia Ricciardi, Rodolfo Spadaro,<br />
Sonia Tunez, Giuseppe Vignati, Carlo Vimercati,<br />
Claudia Zonca<br />
Colophon<br />
Fotografie di copertina e dei restauri della locomotiva<br />
Federico Pollini<br />
(eccetto la foto di pagina 125 in basso a sx di Corrado Ferulli).<br />
La foto di pagina 17 è tratta da Andrea Silvestri e Anna<br />
Galbani (a cura di), Foto di gruppo 1865-1939, Politecnico di<br />
Milano, Milano 2005; tutte le altre fotografie e i documenti<br />
pubblicati in questo volume sono conservati presso l’Archivio<br />
storico Breda - <strong>Fondazione</strong> Isec, Istituto per la storia dell’età<br />
contemporanea.<br />
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa<br />
in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico<br />
o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e<br />
dell’editore.<br />
© 2006 Silvia Editrice srl<br />
Cologno Monzese (MI) via Mozart 45<br />
tel. 02 2545059 - fax 02 2532809<br />
silviaed@tin.it<br />
www.silviaeditrice.it<br />
ISBN 88-88250-51-4
Prefazione<br />
Luigi Ganapini<br />
Direttore scientifico <strong>Fondazione</strong> <strong>ISEC</strong><br />
Questo volume, edito in collaborazione con il<br />
Comune di Sesto San Giovanni, è il primo passo<br />
di un progetto volto a ricostruire attorno a<br />
prodotti dell’industria il complesso delle relazioni<br />
lavorative, progettuali e sociali che ne hanno<br />
permesso la realizzazione.<br />
La <strong>Fondazione</strong> Istituto per la storia dell’età<br />
contemporanea ha recepito questo programma<br />
(proposto tra l’altro proprio da coloro che ne<br />
hanno avviato e che ne firmano la prima<br />
realizzazione) come parte integrante delle sue<br />
iniziative di studio e di ricerca. Storia dei<br />
lavoratori, storia dell’impresa, storia della società<br />
sono destinate a connettersi in queste<br />
ricostruzioni per darci il pieno significato degli<br />
oggetti studiati e così ricollocati nel loro contesto<br />
più ampio. E per darci anche il senso di una<br />
storia industriale che ha segnato, come il<br />
territorio di Sesto San Giovanni, la storia<br />
dell’intera Europa negli ultimi due secoli.<br />
5
La locomotiva<br />
Breda <strong>830</strong> del <strong>1906</strong><br />
Alberto Bassi e Raimonda Riccini<br />
7
8<br />
Libretto della caldaia per<br />
locomotiva Breda, costruita<br />
nel 1905 (anni cinquanta)
Il territorio di Sesto San Giovanni rappresenta,<br />
come è noto, un caso esemplare della storia<br />
dell’industrializzazione italiana e, allo stesso<br />
tempo, un momento sintomatico e vitale delle<br />
trasformazioni in atto nel sistema produttivo,<br />
sociale e culturale del nostro paese. Il patrimonio<br />
di memoria che il Novecento reca con sé nel<br />
territorio sestese può diventare laboratorio di idee<br />
e di riflessione, di cultura e di proposta.<br />
Per far questo è fondamentale conoscere meglio<br />
il tessuto industriale e produttivo di quest’area,<br />
fra i più significativi e importanti, e renderlo noto<br />
attraverso strumenti di lettura che possano<br />
arrivare a un pubblico sempre più ampio.<br />
In questo quadro si inserisce la proposta di una<br />
serie di iniziative di studio e di ricerca con la<br />
finalità di dar vita a una collana di piccoli volumi<br />
su singoli “oggetti” dell’industria di Sesto e<br />
dintorni. Si tratta, in altre parole, di sviluppare<br />
una serie di ricerche su prodotti dell’industria del<br />
Novecento a partire da quelli delle aziende<br />
sestesi, per poi allargare il raggio d’azione a uno<br />
spaccato territoriale più esteso. Ogni ricerca dà<br />
luogo a un volume, che va a costruire, a lungo<br />
andare, una vera e propria collana.<br />
I prodotti sono scelti in base alla loro importanza<br />
e al loro significato e diventano il fuoco attorno al<br />
quale si sviluppano letture da punti di vista diversi<br />
(storia d’impresa, storia della cultura e della<br />
comunicazione, storia del lavoro e della tecnica,<br />
storia dell’arte ecc.). Il risultato è uno spaccato,<br />
articolato e preciso, non solo del prodotto, ma<br />
anche dell’azienda, del contesto, della cultura che<br />
attorno a quell’oggetto si sono sviluppati. Alla<br />
fine, ne emergerà una vera e propria topografia<br />
delle aziende, del lavoro e dei prodotti del<br />
territorio, una carta d’identità inedita della storia<br />
di un’area.<br />
Il soggetto scelto per inaugurare la serie di volumi<br />
è la locomotiva Breda <strong>830</strong> del <strong>1906</strong>. Molteplici<br />
sono le ragioni: il primo riferimento immediato è<br />
la coincidenza con i cento anni dalla produzione,<br />
che corrisponde anche con il centenario della<br />
grande Esposizione internazionale del Sempione<br />
tenutasi a Milano proprio nel <strong>1906</strong>.<br />
In realtà le motivazioni storiche sono più<br />
profonde. Attraverso la locomotiva tornano sulla<br />
scena dell’area metropolitana la vita e i prodotti<br />
di una grande fabbrica metalmeccanica, che ha<br />
segnato con le sue vicende un intero territorio.<br />
9
10<br />
Pagine interne del libretto<br />
della caldaia per locomotiva
Attraverso questo speciale prodotto, concepito<br />
come un simbolo dell’attività lavorativa,<br />
riemergono le maestranze e gli imprenditori, i<br />
progettisti e i disegnatori. Attraverso questa icona<br />
riaffiora anche il contesto sociale, storico e<br />
culturale che la locomotiva “mette in moto”.<br />
Un ulteriore elemento infine: la pubblicazione di<br />
questo volume sul loco-tender Breda <strong>830</strong> trae<br />
occasione e coincide con il restauro di un<br />
esemplare originale di questo modello.<br />
Ripristinato nei suoi caratteri principali, sarà<br />
collocato nell’area del costituendo Museo<br />
dell’industria e del lavoro (Mil) di Sesto San<br />
Giovanni.<br />
Il libro consta di tre parti: la prima cerca di<br />
ricostruire l’ambito professionale e tecnologico<br />
dello sviluppo della locomotiva, la progettazione<br />
dei treni, l’immagine grafica e fotografica degli<br />
anni a cavallo fra Otto e Novecento alla Breda.<br />
La seconda ci mostra gli aspetti culturali e sociali<br />
suscitati dalla locomotiva – vera icona della<br />
modernità – attraverso lo sguardo di cineasti,<br />
artisti, fotografi e letterati. Infine, questa<br />
pubblicazione documenta il restauro della<br />
locomotiva <strong>830</strong> anche mediante una campagna<br />
fotografica ad hoc, e ha l’importante funzione di<br />
mettere nel giusto rilievo i materiali dell’Archivio<br />
storico Breda, conservati presso la <strong>Fondazione</strong><br />
Isec, con i quali il volume è illustrato.<br />
11
12<br />
Ernesto Breda e i suoi<br />
collaboratori in una foto<br />
ricordo per la consegna di<br />
un lotto di locomotive alle<br />
ferrovie rumene, 1892<br />
Pagine seguenti:<br />
disegno tecnico per<br />
una locomotiva Breda del<br />
gruppo 981<br />
<strong>LA</strong> STORIA<br />
Dalla meccanica generale<br />
alla specializzazione:<br />
Breda 1886-1908<br />
Giorgio Bigatti
La conquista del mercato<br />
Analizzando l’andamento della produzione<br />
nazionale di locomotive tra l’Unità e lo scoppio<br />
della prima guerra mondiale si può concluderne<br />
che, malgrado l’evidente ritardo iniziale, scelte di<br />
politica doganale non sempre coerenti, una scarsa<br />
dotazione di risorse di base e i ricorrenti problemi<br />
del settore siderurgico, l’Italia riuscì comunque a<br />
dotarsi in tempi relativamente brevi di una solida<br />
struttura industriale. Lo conferma il fatto che la<br />
percentuale della produzione nazionale di<br />
locomotive sul totale delle commesse sia passata<br />
dal 18 per cento del periodo 1861- 84 al 77 per<br />
cento degli anni 1905-151 .<br />
totale locomotive % produzione<br />
consegnate nazionale<br />
1861-1884 1296 18<br />
1885-1905 1264 66<br />
1905-1914 2748 77<br />
La progressiva conquista del mercato interno –<br />
un mercato nel frattempo dilatatosi in seguito<br />
all’estensione della rete ferroviaria e, a partire<br />
dalla fine del secolo, all’aumento dei volumi di<br />
traffico –, pur favorita da agevolazioni di varia<br />
natura per le produzioni nazionali, rifletteva il<br />
deciso irrobustimento delle strutture aziendali<br />
operanti nel settore2 . Stabilimenti più grandi e<br />
attrezzati furono in grado di cogliere le<br />
opportunità offerte da una domanda interna in<br />
aumento e a condizioni di particolare favore.<br />
Viste le condizioni di partenza non era un<br />
risultato da poco.<br />
Nei primi decenni postunitari la domanda di<br />
locomotive e materiale ferroviario si era infatti<br />
scontrata con le rigidità e la debolezza strutturale<br />
dell’offerta.<br />
I produttori, ristretti a pochi “colossali<br />
stabilimenti” come le officine Ansaldo di<br />
Sampierdarena e quelle di Pietrarsa, nel<br />
napoletano, e a un gruppo di modesti comprimari,<br />
fra i quali la ditta Cerimedo e C. di Milano,<br />
ritenevano fosse l’irregolarità delle commesse da<br />
parte delle società ferroviarie a impedire una<br />
maggiore specializzazione, scoraggiando gli<br />
investimenti in macchinari e impianti che pure<br />
sarebbero stati necessari. Come aveva rilevato<br />
l’ingegner Felice Giordani nel 1865, senza<br />
“commesse di lavoro di una entità proporzionata<br />
all’importanza ed al costo degli stabilimenti che<br />
devono fornirlo, regolari quanto possibile ed a<br />
prezzi rimuneratori” era difficile trovare<br />
imprenditori disposti a rischiare capitali nelle<br />
industrie di cui pure si avvertiva l’urgenza<br />
volendo far seguire all’indipendenza politica della<br />
nazione quella economica3 . Dal canto loro, le<br />
società ferroviarie, oltre all’inferiorità tecnica dei<br />
Giorgio Bigatti<br />
è docente di storia<br />
economica all’Università<br />
Bocconi di Milano<br />
13
16<br />
produttori nazionali, lamentavano la loro<br />
incapacità a far fronte ai picchi della domanda. Un<br />
impasse che lasciava spazio ai più attrezzati<br />
concorrenti esteri, che controllavano circa l’80 per<br />
cento del mercato delle locomotive.<br />
In questo scenario, negli anni ottanta, intervennero<br />
due fatti nuovi: un significativo mutamento di<br />
indirizzo da parte dell’amministrazione statale<br />
nell’ambito di una politica di più aperto sostegno ai<br />
produttori nazionali e la comparsa di un<br />
imprenditore di razza come l’ingegnere padovano<br />
Ernesto Breda (1852-1918).<br />
Scommettere sul futuro<br />
Profondo conoscitore dei problemi tecnicoorganizzativi<br />
delle ferrovie grazie a ripetuti viaggi<br />
di studio all’estero e all’impiego presso la Società<br />
veneta per imprese e costruzioni pubbliche,<br />
diretta dal cugino Vincenzo Stefano, Ernesto<br />
Breda attorno alla metà degli anni ottanta decise<br />
di dare vita a una nuova iniziativa nel settore delle<br />
costruzioni meccaniche. Con il sostegno<br />
finanziario della Banca Generale e dell’influente<br />
cugino, impegnato in quegli stessi anni nella<br />
costruzione della grande acciaieria di Terni, Breda<br />
rilevò la ditta Cerimedo e C., una delle più<br />
antiche imprese meccaniche milanesi,<br />
generalmente conosciuta con il nome di Elvetica4 .<br />
Fondata nel 1846, da un gruppo di aristocratici e<br />
uomini d’affari, tra i quali spiccava Enrico Mylius,<br />
l’impresa, come attestavano i frequenti mutamenti<br />
della gerenza, non aveva avuto vita facile.<br />
Malgrado le dimensioni ne facessero con i suoi<br />
oltre 300 operai uno dei maggiori stabilimenti della<br />
città, la varietà delle sue produzioni indicava<br />
chiaramente che si trattava ancora di una grande<br />
“bottega artigiana”. Vi si faceva di tutto un po’,<br />
inseguendo affannosamente le più diverse<br />
occasioni per garantirsi una continuità di lavoro.<br />
Come aveva dichiarato nel 1872 uno dei primi<br />
gerenti, Eugenio Bauer, ai commissari dell’inchiesta<br />
industriale, “la nostra industria varia da un anno<br />
all’altro: siamo ciabattini, oggi facciamo una cosa,<br />
domani un’altra” 5 .<br />
Al momento dell’ingresso di Breda all’Elvetica si<br />
produceva “promiscuamente ogni genere di<br />
costruzioni meccaniche: ponti e tettoie; macchine a<br />
vapore fisse e locomobili; impianti idrovori e<br />
turbine; carri ferroviari e trebbiatrici, materiale fisso<br />
per strade ferrate e caldaie” 6 . Ma l’ingegnere<br />
padovano aveva in mente un progetto diverso,<br />
come si legge nella memoria presentata nel 1893<br />
al concorso per il premio Brambilla: “Nell’assumere<br />
questo stabilimento avemmo in animo di<br />
trasformarlo in maniera da dedicarlo alla esclusiva<br />
costruzione di locomotive” 7 . Il momento sembrava<br />
favorevole a una svolta, come attestavano, da un<br />
lato, il forte impegno dello Stato a favore della
Laureandi ingegneri e<br />
architetti del 1898, anno di<br />
laurea di Guido Sagramoso,<br />
al Politecnico di Milano<br />
17
18<br />
Ernesto Breda e i suoi<br />
collaboratori, gli ingegneri<br />
Bonfà, Gavazzi, Sagramoso,<br />
Cerimedo, Cappa, Breda<br />
stesso, Pasqualetti,<br />
Monacelli, Scappini<br />
siderurgia, dall’altro il riassetto della rete ferroviaria,<br />
data in concessione a due grandi società, una<br />
scelta che faceva sperare in una forte ripresa delle<br />
ordinazioni di materiale mobile e di locomotive,<br />
una produzione, quest’ultima, nella quale la<br />
Cerimedo vantava qualche positiva esperienza.<br />
La scelta a favore della costruzione di materiale<br />
ferroviario non ammetteva alternative alla<br />
specializzazione e alla grande dimensione. Secondo<br />
un profondo conoscitore dei problemi dell’industria<br />
meccanica come l’ingegner Giuseppe Colombo per<br />
produrre locomotive a condizioni economicamente<br />
compatibili con la concorrenza occorreva “farne<br />
almeno una cinquantina all’anno, e avere un’officina<br />
montata e corredata di macchine nel modo più<br />
perfetto, esclusivamente per questo lavoro” 8 .<br />
Consapevole che la specializzazione e<br />
l’innovazione erano i capisaldi di una strategia volta
a ridurre i costi attraverso l’aumento della<br />
produttività, l’ingegnere padovano si impegnò<br />
senza indugi in una radicale ristrutturazione del<br />
profilo tecnico e organizzativo degli impianti<br />
dell’Elvetica, un compito che lo avrebbe impegnato<br />
per diversi anni assorbendo rilevanti risorse<br />
finanziarie, per il cui reperimento Breda avrebbe<br />
trovato nella Banca commerciale italiana un<br />
interlocutore prezioso. Nel 1895 l’ingegnere poteva<br />
dire con legittima soddisfazione: “di ciò che<br />
abbiamo allora rilevato non esistono ora quasi le<br />
tracce. Il macchinario specialmente fu tutto<br />
sostituito” 9 .<br />
“Produrre rapidamente<br />
e a buon mercato”<br />
L’acquisto di nuove macchine utensili (torni a<br />
torretta girevole, alesatrici, fresatrici) era la<br />
premessa per una riorganizzazione del lavoro<br />
fondata su un’attenta scomposizione delle diverse<br />
fasi del processo produttivo, la specializzazione<br />
delle mansioni e il superamento del vecchio<br />
modello di officina sottratto al controllo della<br />
direzione dello stabilimento e affidato ai<br />
capifabbrica, che sovrintendevano ai diversi reparti<br />
come altrettanti feudi indipendenti10 . Un “sistema<br />
razionale [...] assai semplice in se stesso” ma la cui<br />
introduzione avrebbe richiesto tempo e “molte<br />
fatiche” a Breda e ai suoi più stretti collaboratori<br />
perché alla fine avrebbe sovvertito le gerarchie di<br />
fabbrica a favore della direzione aziendale.<br />
Lo stabilimento venne organizzato per reparti la cui<br />
successione rifletteva la progressione del lavoro: dai<br />
reparti di forgia e della fonderia i semilavorati<br />
grezzi passavano nell’officina, dove i singoli pezzi<br />
venivano rifiniti e portati alla forma e misura<br />
necessari alla messa in opera, o direttamente nel<br />
reparto di costruzione delle caldaie, per passare poi<br />
alle fasi di aggiustaggio e rifinitura, dove a colpi di<br />
lima e martello si provvedeva al montaggio delle<br />
varie parti della locomotiva: “nel reparto del<br />
montaggio tutte le varie parti che hanno ricevuto<br />
le necessarie lavorazioni separatamente, vengono<br />
collegate assieme, incominciando dall’intelaiatura<br />
della locomotiva, fino alla montatura su di essa<br />
della caldaja, e di tutti i meccanismi, dimodoché ne<br />
esce la locomotiva completa, ed in pieno assetto di<br />
funzionamento. Speciali operaj, d’altra parte,<br />
hanno già preventivamente preparato il lavoro<br />
costituito in lamiere sottili, quali la cabina e il<br />
fasciamento della caldaia”. A quel punto, prima di<br />
passare alla verniciatura, la locomotiva veniva posta<br />
su “un binario rettilineo di oltre 200 metri di<br />
lunghezza, destinato alle corse di prove” 11 dei<br />
modelli ultimati. Nella realtà il processo produttivo<br />
era assai meno lineare di quanto verrebbe da<br />
pensare leggendo le descrizioni contenute nelle<br />
diverse pubblicazioni aziendali.<br />
19
20<br />
Il punto di massimo sforzo della costruzione<br />
faticosamente edificata da Breda (“alcuni dei<br />
problemi più scabrosi per le nostre officine”) era<br />
rappresentato dai saloni delle “macchine operatrici<br />
[...] attualmente ordinati per categorie di macchine:<br />
torni, fresatrici, trapani, pialle ecc”. In questo<br />
reparto, che pure rappresentava uno dei punti di<br />
forza dello stabilimento, si annidavano diseconomie<br />
logistiche e sopravvivevano spazi di autonomia dei<br />
singoli capi operai incompatibili con il disegno<br />
razionalizzatore di Breda. Se ne ha precisa<br />
testimonianza nella dettagliata relazione della<br />
delegazione tecnica inviata nel 1899 negli Stati Uniti<br />
per acquistare nuovi macchinari e visitare i più<br />
importanti stabilimenti meccanici, soprattutto quelli<br />
impegnati nella costruzione di locomotive, per<br />
“studiarne l’organizzazione e i sistemi di lavorazione;<br />
[...] e proporre quei provvedimenti che si sarebbero<br />
utilmente potuti introdurre nelle officine della<br />
ditta” 12 .<br />
Mentre alla Baldwin e nelle altre imprese “ogni<br />
parte della locomotiva [era] eseguita in un solo<br />
riparto e ne [usciva] in generale finita anche di<br />
aggiustaggio”, alla Breda, riferivano gli ingegneri<br />
Guido Sagramoso ed Eugenio Gavazzi, che insieme<br />
al capotecnico Remo Canetta si erano trattenuti<br />
circa sei mesi negli Stati Uniti, “un pezzo che viene<br />
dalla fucina o dalla fonderia, per essere ultimato<br />
deve passare successivamente da una sala all’altra,<br />
e finalmente essere portata all’aggiustaggio. La<br />
responsabilità dell’esattezza e del costo della<br />
lavorazione e di un eventuale ritardo nella consegna<br />
del pezzo finito, viene quindi divisa tra quattro,<br />
cinque, otto operai” 13 . Inoltre, poiché a ogni<br />
gruppo di macchine sovrintendeva un diverso<br />
caporeparto alla direzione tecnica risultava<br />
impossibile monitorare il costo delle singole fasi del<br />
lavoro. Spesso infatti per risparmiare i capireparto<br />
non facevano lavorare “il pezzo con quel grado di<br />
finitezza che si potrebbe raggiungere, ma vi si<br />
lascia[va] un margine di lavorazione esuberante, che<br />
[doveva] esser poi tolto tutto alla lima”. Oltre a ciò<br />
la discrezionalità lasciata ai capireparto impediva<br />
all’azienda di intervenire sulla programmazione del<br />
lavoro, fissando priorità e scadenze.<br />
Insomma l’officina era una zona franca nella quale<br />
solo con grande fatica la direzione sarebbe riuscita<br />
a introdurre quei principi di divisione del lavoro e di<br />
controllo che sembravano indispensabili per una<br />
grande macchina produttiva quale la Breda<br />
aspirava ad essere. Su questo terreno Breda,<br />
coadiuvato dagli ingegneri che aveva raccolto<br />
attorno a sé, tra i quali sarebbe progressivamente<br />
emersa la figura di Guido Sagramoso, giocò la sua<br />
partita più difficile. Al di là delle prevedibili<br />
opposizioni dei vecchi operai di mestiere, nelle<br />
condizioni di mercato del vecchio continente una<br />
semplice riproduzione del modello americano nei<br />
locali della sua officina era impensabile.<br />
Nelle fabbriche americane l’imperativo di “produrre
apidamente e a buon mercato” era divenuto<br />
realtà grazie a una dotazione di fattori che aveva<br />
incentivato la meccanizzazione, in funzione del<br />
risparmio di forza lavoro che ne poteva derivare. A<br />
detta degli ingegneri della Breda anche la tipologia<br />
degli stabilimenti, “su più piani sovrapposti collegati<br />
da ascensori e montacarichi” negli Stati Uniti, a un<br />
solo piano in Europa, aveva origine nel diverso<br />
costo dei fattori: da noi “costa meno il lavoro che<br />
l’energia e quindi conviene provvedere al trasporto<br />
interno mediante vagoncini e carri spinti da<br />
manovali” 14 . Non meno importante nella<br />
definizione del “sistema americano” era stato poter<br />
contare su una domanda per la quale funzionalità e<br />
robustezza erano i requisiti essenziali, a differenza<br />
da quanto avveniva in Europa dove a causa del<br />
“grado esagerato di finitezza” previsto nei capitolati<br />
delle Amministrazioni delle strade ferrate, “pezzi<br />
che potrebbero essere messi in opera affatto greggi,<br />
devono essere finiti alla macchina; superficie che<br />
non lavorano affatto devono essere pulimentate<br />
come altre che la più scrupolosa esattezza<br />
richiedono, per il loro ufficio meccanico; pezzi ormai<br />
finiti vengono rifiutati dai collaudatori per minuscoli<br />
nei superficiali; giorni e settimane si spendono nella<br />
verniciatura dell’inviluppo della locomotiva, della<br />
cabine, delle ruote” 15 .<br />
Liberi dai vincoli che gravavano sui fabbricanti, gli<br />
stabilimenti americani avevano una produttività<br />
doppia rispetto ai loro concorrenti europei.<br />
Inoltre, in virtù di tale libertà, ogni casa<br />
costruttrice aveva potuto specializzarsi nella<br />
produzione di “alcuni tipi di locomotive, per<br />
viaggiatori, per merci, per servizi locali ecc.”. La<br />
relativa semplicità costruttiva delle locomotive<br />
americane aveva favorito la standardizzazione dei<br />
modelli permettendo alle imprese di dotarsi di<br />
“macchine speciali, corredate di speciale<br />
attrezzatura, e seguire quei processi di<br />
lavorazione che sono economici, alla sola<br />
condizione che la produzione sia forte; [e di]<br />
estendere l’uso dei calibri conseguendo oltre un<br />
risparmio sul costo di produzione, anche una<br />
maggiore esattezza che gli permette di garantire<br />
l’intercambiabilità dei pezzi delle locomotive di<br />
un tipo, con utile notevole per le società<br />
esercenti” 16 .<br />
Tutto questo era impensabile in Italia, dove il<br />
mercato era un monopolio a rovescio, nel senso<br />
che poche grandi società ferroviarie imponevano<br />
ai produttori condizioni vincolanti sia per le<br />
caratteristiche tecnico-formali del prodotto, sia<br />
per la scelta e lo spessore dei materiali. E<br />
tuttavia, pur nelle profonde differenze dei sistemi<br />
sociale e di mercato, dall’America occorreva<br />
partire se si voleva “rivaleggiare coll’Estero”,<br />
come un tempo si era fatto con l’Inghilterra e<br />
altre nazioni europee.<br />
Attorno al <strong>1906</strong>, anno in cui si tenne a Milano<br />
l’Esposizione internazionale del Sempione17 ,<br />
21
22<br />
anche alla Breda, ormai divenuta la più<br />
importante fabbrica italiana di locomotive, in<br />
diversi reparti si lavorava “all’americana”. Alle<br />
macchine non si succedevano “che quei dati<br />
pezzi di locomotiva, sempre i medesimi a ogni<br />
macchina e ad ogni operaio, macchina e operaio<br />
formanti quasi un solo essere organico ed<br />
intelligente, che colla facilità dell’abitudine<br />
restituisce a centinaia lisci e puliti i pezzi che ha<br />
ricevuti greggi, rugosi” 18 . A coordinare il<br />
complesso organismo produttivo di uno<br />
stabilimento prossimo alla congestione (sui<br />
45.000 mq di superficie ben 35.000 erano<br />
coperti) era l’ufficio tecnico, che riuniva le<br />
funzioni di progettazione e di controllo della<br />
produzione. Era questo “il cuore” della grande<br />
fabbrica: “tutti gli organi delle officine sono in<br />
rapporti strettissimi coll’ufficio d’arte”. Vi erano<br />
addette 38 persone tra ingegneri, costruttori e<br />
disegnatori19 , tra cui i collaboratori più stretti di<br />
Ernesto Breda, ritratti in una celebre fotografia in<br />
posa davanti a una locomotiva.<br />
Il particolare rapporto di sudditanza dell’impresa<br />
nei confronti delle società ferroviarie faceva sì che<br />
l’ufficio d’arte fosse più la direzione tecnica dello<br />
stabilimento che un ufficio di progettazione in<br />
senso proprio. Erano ancora Sagramoso e Gavazzi<br />
a sottolineare il contrasto tra le dimensioni<br />
dell’ufficio e i suoi compiti: “E a proposito di<br />
disegni è curioso rilevare il fatto che nei nostri<br />
stabilimenti dove generalmente non si progetta,<br />
siamo obbligati a tenere negli uffici tecnici per<br />
quel lavoro di recensione dei disegni e per lo<br />
sviluppo dei dettagli da mandare alle officine un<br />
personale assai più numeroso che in America, dove<br />
ogni costruttore progetta anche i propri tipi”.<br />
Vanto di Breda, che vedeva l’affermazione<br />
dell’impresa come una proiezione su un altro<br />
piano dell’indipendenza della nazione, era di non<br />
essersi dovuto appoggiare a tecnici stranieri nel<br />
processo di ristrutturazione del vecchio<br />
stabilimento rilevato nel 1886 da Cerimedo, ma di<br />
essere riuscito a formare al proprio interno, e<br />
attingendo dagli allievi ingegneri che provenivano<br />
dal Politecnico, i quadri tecnici di cui l’impresa<br />
aveva bisogno. Nel corso degli anni, anzi, la Breda<br />
era divenuta “un semenzaio di tecnici e<br />
ingegneri” che si erano poi sparsi “per tutta Italia,<br />
portando ovunque un valido contributo allo<br />
sviluppo dell’industria meccanica” 20 .<br />
Ideale complemento dell’ufficio tecnico, a cui era<br />
delegata la progettazione – o meglio l’analisi e il<br />
disegno delle indicazioni fissate nei capitolati<br />
dalle società ferroviarie – era l’ufficio controlli.<br />
Ogni pezzo uscendo da un reparto per passare<br />
alla fase successiva doveva prima transitare per<br />
l’ufficio controlli per le verifiche dei materiali e<br />
dell’aderenza agli standard di progetto. Una<br />
scelta dettata dalla particolare complessità del<br />
processo produttivo, ma non priva di
Ufficio pubblicità Breda<br />
in via Bordoni, Milano, inizio<br />
anni venti<br />
23
24<br />
diseconomie come avevano potuto constatare i<br />
tecnici della Breda al rientro dall’America21 . Le<br />
locomotive “erano macchine complicatissime” e<br />
ciascuna di esse si componeva “mediamente di<br />
circa diecimila parti di circa mille figure diverse”.<br />
In queste condizioni, “la bontà” del risultato<br />
finale dipendeva “dalla cura colla quale ciascuna<br />
parte deve essere studiata e lavorata”.<br />
Rompendo con la tradizione di affidare ai capi<br />
operai la scelta dei modi di eseguire la<br />
lavorazione dei singoli pezzi, alla Breda si era<br />
riusciti a imporre un severo controllo su ogni fase<br />
della produzione: “tutto il sistema di ripartizione,<br />
di svolgimento e di controllo, sia dei progetti che<br />
dei lavori, il quale fondasi essenzialmente<br />
sull’accentramento di vari controlli, e che<br />
rappresenta una radicale innovazione organica in<br />
confronto di quanto si fa in officine analoghe alle<br />
nostre sia in Italia che all’Estero” 22 .<br />
Nel 1908, a poco più di vent’anni dalla<br />
fondazione, la Breda festeggiava la sua millesima<br />
locomotiva. Era un risultato importante che valeva<br />
all’impresa non solo una posizione di leadership<br />
nel mercato interno – secondo Michéle Merger a<br />
questa data l’impresa dell’ingegnere padovano<br />
deteneva circa un terzo del mercato – ma anche<br />
la possibilità di una significativa proiezione<br />
internazionale, come dimostravano le forniture<br />
alle ferrovie romene e turche. I limiti del mercato<br />
tuttavia consigliarono a Breda di allargare i propri<br />
orizzonti, diversificando le produzioni dell’azienda<br />
in direzione di nuovi promettenti settori quali la<br />
costruzione di trebbiatrici e di vagoni e carri<br />
ferroviari23 . Era l’inizio di una nuova avventura<br />
imprenditoriale, di cui però Ernesto Breda non<br />
fece in tempo a vedere che i primi sviluppi.<br />
1. Michéle Merger, Un modello di sostituzione: la locomotiva italiana<br />
dal 1850 al 1914, “Rivista di storia economica”, n.s., 1, 1986.<br />
2. Franco Amatori, Andrea Colli, Imprese e industria in Italia<br />
dall’Unità a oggi, Marsilio, Venezia 1999.<br />
3. Industria del ferro in Italia. Estratto dal rapporto dell’ing. Felice<br />
Giordani, Cotta e Capellino, Torino 1865.<br />
4. Stefania Licini, Dall’Elvetica alla Breda. Alle origini di una<br />
grande impresa milanese (1846-1918), “Società e Storia”, 63,<br />
1994, pp. 79-123.<br />
5. Duccio Bigazzi, L’evoluzione del lavoro operaio nell’industria<br />
metalmeccanica 1840-1930, in A. Martinelli (a cura di), Lavorare a<br />
Milano. L’evoluzione delle professioni nel capoluogo lombardo dalla<br />
prima metà dell’800 ad oggi, Edizioni del Sole 24 Ore, Milano 1987.<br />
6. Per la millesima locomotiva, Sieb, Milano 1908, p. 8.<br />
7. Giorgio Bigatti (a cura di), Una fonte per lo studio<br />
dell’evoluzione della struttura industriale di Milano: il “Premio<br />
Brambilla”, “Storia in Lombardia”, 3, 1987, p. 203.<br />
8. Giuseppe Colombo, L’industria delle macchine all’Esposizione di<br />
Milano, in Id., Industria e politica nella storia d’Italia. Scritti scelti,<br />
a cura di C.G. Lacaita, Cariplo-Laterza, Milano-Bari 1985.<br />
9. Ing. Ernesto Breda. Milano, Concorso ai premi al merito<br />
industriale indetto con R. Decreto del 4 agosto 1895. Memoriale e
descrizione dello stabilimento, snt, 1895, p. 7.<br />
10. Duccio Bigazzi, Modelli e pratiche organizzative<br />
nell’industrializzazione italiana, in Storia d’Italia. Annali 15:<br />
L’industria, a cura di Franco Amatori, Duccio Bigazzi, Renato<br />
Giannetti e Luciano Segreto, Einaudi, Torino 1999.<br />
11. Documento in G. Bigatti (a cura di), Una fonte per lo studio<br />
dell’evoluzione della struttura industriale di Milano: il “Premio<br />
Brambilla”, cit., p. 206.<br />
12. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />
Europa. Osservazioni e confronti, G. Abbiati, Milano 1900.<br />
13. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />
Europa, cit., p. 23.<br />
14. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />
Europa, cit., p. 20.<br />
15. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />
Europa, cit., p. 53.<br />
16. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />
Europa, cit., p. 57.<br />
17. Pietro Redondi, Paola Zocchi (a cura di), Milano <strong>1906</strong>.<br />
L’Esposizione internazionale del Sempione. La scienza, la città,<br />
la vita, Guerini e Associati, Milano 2006.<br />
18. Per la millesima locomotiva, cit., pp. 9-10.<br />
19. Ing. Ernesto Breda. Milano, Concorso ai premi al merito<br />
industriale, cit., p. 8.<br />
20. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />
Europa, cit., p. 10.<br />
21. Ing. Ernesto Breda e C., Le locomotive in America e in<br />
Europa, cit., p. 56.<br />
22. Ing. Ernesto Breda. Milano, Concorso ai premi al merito<br />
industriale, cit. p. 7.<br />
23. Valerio Castronovo, La Breda nella storia dell’industria<br />
italiana, in La Breda. Dalla società italiana Ernesto Breda alla<br />
Finanziaria Ernesto Breda 1886-1986, Amilcare Pizzi, Cinisello<br />
Balsamo (Mi) 1986.<br />
Locomotiva-tender<br />
per F.B.C., 1910<br />
25
26<br />
Registro dei preventivi<br />
Breda, 1902-05<br />
<strong>LA</strong> STORIA<br />
Tecnica al lavoro:<br />
una macchina ai primi del Novecento<br />
Raimonda Riccini
La locomotiva appare, sullo scorcio finale<br />
dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento,<br />
non soltanto come un condensato epico<br />
dell’immaginario del secolo del vapore e<br />
dell’industria meccanica, ma anche come un<br />
artefatto esemplare, attorno al quale sono<br />
cresciute e si sono modellate diverse culture,<br />
saperi, competenze e mestieri. Come qualunque<br />
altro oggetto, per essere compresa la locomotiva<br />
va dunque interrogata non soltanto attraverso<br />
l’atto della percezione, osservando le sue forme<br />
metalliche e i significati che vi si sono addensati,<br />
ma va compresa nel suo farsi: ciò che appare non<br />
è solo ciò che appare, ma ciò che è stato fatto. E<br />
come è stato fatto.<br />
Non sono sufficienti a questo scopo le immagini di<br />
locomotive che ci vengono incontro dallo schermo<br />
cinematografico, dai dipinti e da tante pagine<br />
della letteratura, che sono un condensato di<br />
metafore nelle quali la grande macchina esprime<br />
una plasticità straordinaria e una forza evocativa<br />
imperiosa. Né lo sono le attente descrizioni e gli<br />
interessati resoconti sulle locomotive che fanno<br />
bella mostra di sé nei padiglioni delle esposizioni,<br />
come in quella internazionale del Sempione del<br />
<strong>1906</strong>, dove sono presenti ben “cinque locomotive<br />
di diverso tipo, costruite dalla Società Italiana<br />
Ernesto Breda per costruzioni meccaniche, di<br />
Milano, ed esposte tre dalla Casa stessa e due<br />
dallo Stato”, macchine che “fanno onore alla<br />
Società costruttrice e all’industria italiana”. Fra<br />
queste, “la locomotiva 8351 gruppo 835,<br />
destinata a disimpegnare il servizio di stazione; è<br />
una macchina-tender a tre assi accoppiati. I due<br />
cilindri sono gemelli ed esterni, con distribuzione a<br />
cassetti piani e apparecchi d’inversione di marcia<br />
esterni tipo Heusinger; alla loro lubrificazione<br />
provvede un apparecchio Nathan. Lo<br />
scappamento provoca il tiraggio ed è regolabile. I<br />
tubi sono lisci. L’alimentazione si fa con iniettore<br />
Friedmann. C’è freno a mano e a vapore su tutte<br />
le ruote, ed un sabbiatore ordinario a caduta” 1 .<br />
Questa locomotiva, come quelle presentate da<br />
altre ditte italiane, “nulla ha da invidiare a quelle<br />
estere per precisione dei dettagli, per eleganza dei<br />
diversi pezzi motori, per solidità e durata” 2 .<br />
Nonostante la cura puntigliosa nella descrizione,<br />
nulla di tutto questo riesce ancora a rendere conto<br />
della complessità della “costruzione” di una<br />
locomotiva. Costruzione tecnica e sociale insieme,<br />
frutto della partecipazione di imprese e capitali,<br />
Raimonda Riccini<br />
è professore alla facoltà di<br />
design e arti dell’Università<br />
Iuav di Venezia, dove<br />
insegna storia della scienza<br />
e delle tecniche<br />
27
28<br />
Personale notturno della<br />
sezione macchine,<br />
stabilimento Elvetica, fine<br />
Ottocento
conoscenze e interessi, ma anche di lavoro,<br />
competenze, mestieri, attraverso i quali si<br />
esprimono le dinamiche dell’economia e delle<br />
innovazioni tecnologiche, ma che riflettono<br />
direttamente anche le cadenze dell’opera e del<br />
fare delle persone.<br />
Gli ingegneri e la “pura tecnica”<br />
Dopo il tempo degli avventurosi pionieri-inventoriimprenditori,<br />
formidabile generatrice di macchine<br />
fra Otto e Novecento è la cultura dell’ingegneria e<br />
la sua formalizzazione attraverso manuali, trattati<br />
e repertori, che mostrano con grande evidenza la<br />
compiutezza della sapienza tecnica attorno a<br />
questo prodotto. Descritta nelle parti e<br />
componenti, tracciata nei sistemi di<br />
funzionamento secondo i principi codificati dalla<br />
fisica e dalla meccanica, la locomotiva emerge<br />
dalle pagine di volumi ricchi di formule e profili<br />
analitici, illustrata da disegni tecnici, come un<br />
corpo dissezionato nei grandi atlanti anatomici,<br />
alla maniera di Vesalio: dai sistemi di<br />
funzionamento (sviluppo del vapore, trasmissione,<br />
frenatura), agli organi meccanici (chassis, ruote,<br />
boccole, sospensioni), fino ai più minuti dettagli<br />
(ingranaggi, sistemi di connessione, indicatori) 3 .<br />
L’analogia fra macchina e corpo – uno dei topoi<br />
del pensiero filosofico e scientifico – è ancora più<br />
evidente nel caso di immagini e descrizioni di<br />
malfunzionamenti, incidenti e rotture. Come nelle<br />
tavole anatomiche, le “patologie” non alterano il<br />
senso di potenza della macchina, che anzi si<br />
sprigiona sottoforma di forza incontrollabile<br />
(“L’esplosione di una caldaia è spesso<br />
accompagnata da effetti distruttori di una violenza<br />
estrema” 4 ), una forza che addirittura proietta la<br />
locomotiva in aria, scaraventandola lontano, ma<br />
che risulta comprensibile perché risponde ai<br />
medesimi principi che ne consentono il regolare<br />
funzionamento.<br />
La locomotiva, anche in questi frangenti, non ci<br />
viene mostrata come un oggetto a tutto tondo,<br />
ma scarnificata e isolata dai suoi contesti, secondo<br />
una consolidata tradizione dell’ingegneria. Pur<br />
indicando con assoluta precisione “cosa si deve<br />
fare” per costruire locomotive, il risultato è un<br />
repertorio di parti, parti funzionanti, messe in<br />
forma dalle ragioni della scienza fisica e meccanica<br />
più che da braccia umane coadiuvate tutt’al più<br />
da macchine utensili. L’essenza di questa – come<br />
di altre macchine dell’era meccanica – è la tecnica,<br />
la “pura tecnica”, a testimonianza del fatto che<br />
l’ingegneria è stata una grande generatrice di<br />
stereotipi5 .<br />
Ne sono un elegante esempio gli album della<br />
Breda nei quali “locomotive e veicoli per ferrovie e<br />
tramvie” vengono mostrati attraverso<br />
un’immagine per ogni singolo modello – a dire il<br />
29
30<br />
Stabilimento Breda Milano,<br />
montaggio locomotive e,<br />
sotto, fonderia della ghisa,<br />
dal catalogo dell’Esposizione<br />
internazionale di Milano del<br />
<strong>1906</strong><br />
Pagina seguente:<br />
stabilimento Breda Milano,<br />
caldaieria e officina cilindri e<br />
lavorazione dei lungheroni,<br />
dal catalogo dell’Esposizione<br />
internazionale di Milano del<br />
<strong>1906</strong>
vero con viste non sempre laterali e piatte, ma<br />
talvolta riprese con un’inclinazione verso<br />
l’osservatore – corredata dalle informazioni<br />
tecniche (scartamento dei binari, diametro delle<br />
ruote motrici, capacità della cassa d’acqua e della<br />
cassa carbone) in italiano, inglese e tedesco6 .<br />
Chi conduce la locomotiva:<br />
fuochisti e macchinisti<br />
In realtà, quando noi oggi cerchiamo di ricostruire<br />
la storia di un oggetto tecnico, di una macchina,<br />
siamo sempre meno soddisfatti degli stereotipi e<br />
sempre più alla ricerca anche di persone.<br />
Sappiamo ormai bene che un prodotto non può<br />
essere compreso appieno se non collocandolo nei<br />
contesti sociali dai quali è scaturito.<br />
Uno spiraglio verso una maggiore chiarezza ce lo<br />
forniscono, sebbene in maniera ancora schematica,<br />
i manuali d’uso della locomotiva, piccoli e densi<br />
compendi di ciò che una locomotiva è e di come<br />
funziona, ma soprattutto strumenti di avviamento<br />
all’uso di una macchina indirizzati alle persone che<br />
concretamente ne avrebbero attuato il<br />
funzionamento7 .<br />
Si tratta di un insieme di materiali che filtrano, a<br />
diversi livelli di complessità, l’insieme delle<br />
conoscenze tecnico-scientifiche “alte” e le<br />
traducono ai fini di un acculturamento del<br />
31
Stabilimento Breda Milano,<br />
lavorazione di cilindri di<br />
locomotive, anni dieci<br />
Stabilimento Breda Sesto San<br />
Giovanni, grande maglio<br />
sezione fucine, anni dieci<br />
33
34<br />
personale “di macchina” delle ferrovie. Sono<br />
elementi di connessione fra teoria e applicazione<br />
pratica che, se non altro, fanno intravedere le abilità<br />
e le competenze “attese” per poter svolgere un<br />
mestiere concreto. Un mestiere che, ricordiamolo,<br />
era ben lungi da essere asettico, ma coinvolgeva<br />
aspetti di grande fisicità e corporeità, come ci ha<br />
rimandato tanta iconografia del “macchinista<br />
ferroviere”, del “fuochista” 8 , immersi in fumiganti<br />
vapori, alle prese con il fuoco, il nero carbone, i<br />
detriti di coke che si accumulano e le “materie<br />
d’ungimento e d’illuminazione” 9 . A questi operatori<br />
della strada ferrata gli opuscoli e i manuali offrono<br />
conoscenze elementari dei principi costruttivi e di<br />
funzionamento e insieme le istruzioni per uso,<br />
conduzione e riparazione della locomotiva10 .<br />
Studiati per rivelare a chi le deve usare come le<br />
cose sono fatte, essi svelano un po’ di più anche a<br />
noi come una locomotiva era costruita.<br />
Come si costruisce la locomotiva<br />
Bisogna ora entrare nella fabbrica, dove la cultura<br />
organizzativa e progettuale11 si fonde con il lavoro<br />
delle persone e delle macchine.<br />
Già prima della fine del secolo, com’è noto,<br />
Ernesto Breda imprime una trasformazione nella<br />
organizzazione del lavoro della sua azienda, volta<br />
al superamento di “un andazzo comune alla<br />
maggior parte delle nostre industrie<br />
metalmeccaniche, quello di costruire ogni genere<br />
di prodotti, senza mirare alla specializzazione” 12 .<br />
Questo si attua soprattutto attraverso<br />
l’acquisizione di macchinari: “Con ritmo razionale<br />
le fucine furono a grado a grado dotate di magli e<br />
presse poderose che permisero di fucinare anche<br />
quei pezzi del movimento e della sospensione che<br />
prima venivano provvisti all’estero. La piccola,<br />
antica torneria si arricchì di torni moderni, dei tipi<br />
e delle dimensioni più varie, ciascuno fornito degli<br />
accessori adatti ad uno speciale lavoro. Accanto<br />
alle poche pialle e limatrici, sulle quali passavano<br />
prima indifferentemente i pezzi destinati ai più<br />
svariati prodotti dell’industria meccanica, si<br />
andarono allineando nuove pialle e nuove<br />
limatrici, uscite dalle migliori macchine americane,<br />
e sorse tutto un reparto di fresatrici, forte di più di<br />
cento macchine, sulle quali non si videro<br />
succedersi che quei dati pezzi di locomotive,<br />
sempre i medesimi ad ogni macchina e ad ogni<br />
operaio” 13 . Ancora più precisamente: “Sorse, nel<br />
nuovo stabilimento, un reparto completo di<br />
fresatrici ricco di oltre 100 macchine e la fonderia<br />
venne fornita di ‘cubilots’ per la ghisa occorrente<br />
alle fusioni dei grandi cilindri delle moderne<br />
locomotive ‘compound’” 14 .<br />
La nuova dotazione tecnica garantì il passaggio da<br />
una fase nella quale, dopo il lavoro svolto dalle<br />
poche e imprecise macchine, era ancora
necessario l’intervento manuale dello specialista,<br />
alla cui “perizia nel maneggiare la lima e il<br />
martello” era affidata la qualità ultima del<br />
prodotto15 . Non solo: la presenza di macchine<br />
specializzate rendeva necessaria anche la<br />
trasformazione dello spazio di lavoro e la<br />
creazione di reparti separati, come ci illustrano<br />
bene anche le immagini qui riprodotte16 . Nella<br />
fabbrica si riflette quella scomposizione già<br />
presente nella progettazione della locomotiva, che<br />
risultava negli strumenti di rappresentazione degli<br />
ingegneri come un assemblaggio di parti<br />
funzionanti cui si accennava più sopra. Per<br />
combinarsi fra di loro, i pezzi separati devono<br />
essere precisi, sola caratteristica che può garantire<br />
il rapido montaggio e l’intercambiabilità dei pezzi,<br />
secondo la nuova filosofia dell’”American system<br />
of production”.<br />
Sarà di conseguenza sconvolta la tradizionale<br />
gerarchia del lavoro, dei ruoli e delle figure<br />
all’interno della fabbrica: “Se per mestieri come il<br />
fonditore, il fucinatore o il calderaio permaneva<br />
ancora una gerarchia di fabbrica fondata sulla<br />
netta distinzione tra il livello ‘alto’ del maestro [...]<br />
e il livello basso dell’aiutante [...] diversa era la<br />
situazione dei mestieri in cui la crescente<br />
specializzazione delle macchine utensili aveva<br />
scomposto la figura del meccanico polivalente:<br />
tornitori, fresatori, trapanisti ecc. Qui cominciava<br />
infatti a delinearsi una gerarchia non più<br />
‘bipolare’, ma riferita ai diversi livelli di<br />
professionalità [...]: al vertice si situava l’operaio<br />
adibito ai lavori di particolare delicatezza e<br />
complessità (il futuro operaio specializzato);<br />
seguiva l’operaio al quale erano affidati lavori di<br />
serie che richiedevano tuttavia una certa capacità<br />
di lettura del disegno meccanico, qualche nozione<br />
di matematica e adeguato governo della propria<br />
macchina (il futuro operaio qualificato); al fondo<br />
della scala, infine, si trovava il semplice addetto<br />
macchina, sorvegliante e rifornitore di uno<br />
strumento regolato da altri” 17 .<br />
Come ha ben spiegato Duccio Bigazzi, l’avvento<br />
delle macchine automatiche istituisce una relazione<br />
speciale fra l’operaio e la macchina utensile.<br />
Raffigurato sempre più spesso nelle immagini<br />
fotografiche d’epoca, questo rapporto, che simula<br />
il gesto del lavoratore, ci dice poco però del<br />
processo operativo. Piuttosto esso funziona come<br />
un nuovo modello iconografico e simbolico del<br />
lavoro. “La presenza del prodotto è l’elemento che<br />
giustifica il senso di orgoglio e di compiaciuta<br />
35
36<br />
Focolare della caldaia per<br />
locomotiva del gruppo 746
Caldaia per locomotiva del<br />
gruppo 746<br />
37
Stabilimento Breda Milano,<br />
caldaieria per locomotive e<br />
trasporto caldaie, 1907 circa<br />
39
40<br />
partecipazione [...] finché lo stato della tecnica lo<br />
permetterà, gli operai esibiranno inoltre, a ulteriore<br />
testimonianza di un ancora diffuso senso di<br />
padronanza del processo lavorativo, i propri utensili<br />
e strumenti (il martello, l’incudine, le tenaglie<br />
ecc.)” 18 . Le immagini non offrono però una<br />
documentazione degli aspetti operativi: il senso di<br />
sproporzione fra uomo e oggetto aumenta a mano<br />
a mano che il procedimento tecnico si andava<br />
facendo più complesso, frammentato, scandito da<br />
tempi che non erano più riferibili al tempo<br />
personale. I libri dei preventivi, stilati per ogni<br />
oggetto, macchina o pezzo prodotto, questi<br />
passaggi sono descritti fino al minimo dettaglio,<br />
specificando sia le ore necessarie, sia la quantità e il<br />
tipo di materiale, sia la scansione temporale,<br />
sequenziale, delle operazioni19 .<br />
Ecco la “confezione” della caldaia della<br />
locomotiva 685:<br />
- confezionare la porta della camera fumo<br />
completa di chiusure e cerniere e montarla in<br />
opera esclusa la traversa;<br />
- confezionare il frontone della camera fumo e<br />
chiodarlo in opera;<br />
- confezionare la traversa della porta della camera<br />
fumo e montarla in opera;<br />
- confezionare l’angolare della camera fumo e<br />
chiodarlo in opera;<br />
- confezionare il contrafondo della camera fumo<br />
e chiodarlo in opera;<br />
- confezionare l’anello della camera fumo con<br />
coprigiunte – escluso la chiodatura;<br />
- confezionare il camino completo di base,<br />
montarlo e chiodarlo in opera;<br />
- confezionare la piastra tubolare camera fumo –<br />
montarla – chiodarla e cianfrinare.<br />
Il tempo delle operazioni dipende dalle scelte di<br />
produzione. Per esempio, per piastra stampata a<br />
mano e chiodata a mano 122 ore; stampata a<br />
mano e montata a macchina 182; stampata a e<br />
montata a mano 131; stampata a pressa e<br />
montata a macchina soltanto 91.<br />
Questa invece è la sequenza del montaggio, dal<br />
momento in cui si riceve la caldaia fino al<br />
collaudo:<br />
- aggiustare e montare parassale, boccole e ruote<br />
pronto per ricevere la sospensione (escluso il<br />
montaggio del carrello, con relative ruote e<br />
boccole) – h. 90<br />
- montaggio della sospensione – h. 6<br />
- montaggio del freno completo di serbatoi – h. 16<br />
- montaggio trazione e repulsione – h. 5<br />
- verifica e pulizia dei cilindri – h. 1<br />
- montaggio in opera dei pistoni motori con<br />
relative aste, contraste e guarniture – h. 12<br />
- montaggio in opera dei pistoni distributori con<br />
relative aste e guarniture – h. 3.<br />
Componendo come in un puzzle queste sparse e<br />
fin troppo frammentarie indicazioni, forse ora<br />
cominciamo a vederla un po’ meglio, la
locomotiva <strong>830</strong>, fin dal momento nel quale le<br />
fucine si apprestano a produrre i materiali<br />
necessari, preparando le forme grezze del metallo<br />
da lavorare, fino alla costruzione per parti (la<br />
caldaia in un’apposita officina, la scocca e i telai in<br />
un’altra, i sistemi strutturali in un’altra ancora).<br />
Possiamo riconoscerla, mentre la sua fiancata<br />
passa sotto la macchina “strozzatrice”, o sotto<br />
l’azione dei trapani che perforano la lamiera in<br />
corrispondenza dei punti di fissaggio.<br />
Immaginiamo le batterie di piallatrici e limatrici<br />
che rifiniscono parti degli ingranaggi, mentre le<br />
macchine automatiche lavorano e producono<br />
pezzi del telaio, longheroni e ruote, tiranti e viti. I<br />
carrelli si spostano, movimentando le varie parti<br />
verso le grandi sale di montaggio, dove vengono<br />
composte una dopo l’altra e allineate sotto le<br />
grandi volte20 .<br />
Infine, dopo l’ultima cura dei pulitori, la vediamo,<br />
la locomotiva, mentre scivola fuori del reparto,<br />
attraversa i cortili dello stabilimento, e si avvia al<br />
suo primo viaggio.<br />
1. Ugo Lombardi, La mostra delle locomotive, “L’Industria.<br />
Rivista tecnica ed economica illustrata”, 36, settembre <strong>1906</strong>,<br />
pp. 563-565, citazione a p. 565.<br />
2. La mostra ferroviaria,I,in Milano e l’Esposizione<br />
internazionale del Sempione <strong>1906</strong>. Cronaca illustrata<br />
dell’Esposizione, Fratelli Treves, Milano <strong>1906</strong>, p. 250. Il resoconto<br />
è a firma de “Il Macchinista”.<br />
3. Si vedano, fra le tante, Edouard Sauvage, La machine<br />
locomotive, Baudry & Cie Editeurs, Paris 1894; William Prime<br />
Marshall, Evolution of the Locomotive Engine, The Institution of<br />
Civil Engineers, London 1898. In italiano, si vedano gli storici<br />
Manuali Hoepli. A queste si aggiungano le numerose iniziative<br />
periodiche, pubbliche e private, accademiche e commerciali,<br />
come il “Portéfeuille économique des machines”, edito dal<br />
1856 agli anni venti del Novecento.<br />
4. E. Sauvage, La machine locomotive, cit., p. 84.<br />
5. Cfr. su questo Mark Brutton, Après le modernisme, “Culture<br />
technique”, 5, 1981, pp. 63-71.<br />
6. Gli album sono conservati presso l’Archivio storico Breda.<br />
Ancora più significativi da questo punto di vista sono le tavole<br />
a disegno tecnico delle Ferrovie dello Stato, Album dei tipi<br />
delle locomotive ed automotrici, vol. II: Locomotive-tender,<br />
Firenze 1915.<br />
7. Fra gli altri: Stanislao Fadda, Alberto Olivetti, Giacomo Silvola,<br />
La locomotiva: sua costruzione ed arte di guidarla, Loescher,<br />
Torino 1890; G. Gauterio, L. Loria, Macchinista e fuochista,XI<br />
edizione rifatta da C. Malavasi, Ulrico Hoepli, Milano 1916;<br />
Ferrovie dello Stato - Scuola allievi fuochisti, Corso elementare,<br />
vol. IV: La locomotiva, Pisa e Lampronti, Firenze 1921.<br />
8. Il decreto ministeriale 27 giugno 1905 impone le norme di<br />
idoneità alla conduzione di locomotive a vapore: “Le macchine<br />
locomotive devono sempre essere condotte da un macchinista e<br />
da un fuochista posto alle dipendenze del primo” (G. Gauterio,<br />
L. Loria, Macchinista e fuochista, cit., p. 263).<br />
9. Ferrovie dello Stato, Corso elementare, cit., p. 219.<br />
10. L. Le Chatelier, E. Flachat, J. Petiet , C. Polonceau, Guide du<br />
41
42<br />
Locomotiva 746.004 per le<br />
Ferrovie dello stato, 1922
44<br />
mécanicien constructeur et conducteur de machines locomotives,<br />
Carilian-Goeury et V. Dalmont, Paris 1851.<br />
11. Si vedano i testi di Giorgio Bigatti e Alberto Bassi in questo<br />
volume.<br />
12. Antonio Fossati, Lavoro e produzione in Italia dalla metà<br />
del secolo XVIII alla seconda guerra mondiale, G. Giappicchelli,<br />
Torino 1951, pp. 312-314, citazione a p. 313. Cfr. anche Società<br />
italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche, in La<br />
meccanica e l’elettricità in Italia, Capriolo e Massimino, Milano<br />
1909.<br />
13. Per la millesima locomotiva, Sieb, Milano 1908, pp. 9-10. Cfr.<br />
anche il volume edito in occasione del centenario La Breda.<br />
Dalla società italiana Ernesto Breda alla Finanziaria Ernesto<br />
Breda 1886-1986, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1986.<br />
14. A. Fossati, Lavoro e produzione, cit., p. 313.<br />
15. Duccio Bigazzi, L’evoluzione del lavoro operaio nell’industria<br />
metalmeccanica (1840-1930), in A. Martinelli (a cura di), Lavorare a<br />
Milano. L’evoluzione delle professioni nel capoluogo lombardo<br />
dalla prima metà dell’800 a oggi, Edizioni del Sole 24 Ore, Milano<br />
1987, pp. 97-115.<br />
16. La specializzazione dei reparti è illustrata splendidamente in<br />
album editi in occasione dell’Esposizione internazionale del<br />
Sempione a Milano nel <strong>1906</strong>, con fotografie di interni ed esterni<br />
degli stabilimenti della società: fonderia della ghisa, caldaieria,<br />
officina cilindri e lavorazione dei lungheroni; officina bulloni e<br />
dadi, freseria; montaggio (a Milano); officine riparazioni<br />
locomotive e officine per la lavorazione di altro materiale<br />
ferroviario (a Sesto San Giovanni). Ricordiamo che la<br />
produzione delle locomotive avveniva nello stabilimento di<br />
Milano, mentre a Sesto San Giovanni si costruivano i vagoni. A<br />
differenza del vecchio stabilimento di Milano, che era cresciuto<br />
per progressivi aggiustamenti, quello di Sesto (1903) rispondeva<br />
a “criteri modernissimi”. Qui “un’altra officina, di oltre 11.000<br />
mq di superficie, venne costruita per trasferirvi il reparto per la<br />
riparazione di locomotive, che ragioni di spazio impedivano di<br />
poter più a lungo mantenere nello stabilimento di Milano”, La<br />
società italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche, dalle<br />
sue origini ad oggi 1886-1936, Officine Grafiche Mondadori,<br />
Verona 1936, pp. 35 e 37.<br />
17. D. Bigazzi, L’evoluzione del lavoro operaio, cit., p. 101.<br />
18. Duccio Bigazzi (a cura di), Fotografia dell’acciaio, Libri<br />
Scheiwiller, Milano 1992, p. 74.<br />
19. Presso l’Archivio storico Breda sono conservati diversi<br />
registri preventivi: in particolare si vedano i tre registri 1902-<br />
1914 regg. 598-600 e s. Sieb, b. 87, fasc. 601, che contiene un<br />
“Preventivo locomotiva e tender – Gruppo 685” di grande<br />
completezza, anche se successivo temporalmente rispetto alla<br />
locomotiva oggetto di questo studio.<br />
20. Per una descrizione dei procedimenti operativi e tecnici<br />
dell’industria metalmeccanica si vedano il volume di Egidio<br />
Garuffa, La costruzione delle macchine e dei congegni meccanici,<br />
Unione tipografico-editrice torinese, Torino 1929 e l’opuscolo La<br />
locomotiva, “Enciclopedia figurata Sonzogno”, 1, gennaio 1927,<br />
dove la locomotiva è la prima delle macchine “spiegate e<br />
illustrate in modo da essere comprese da tutti” (copia in<br />
Archivio storico Breda, s. Sieb, b. 104, fasc. 692).
Locomotiva per le ferrovie<br />
Calabro lucane, 1915<br />
45
46<br />
Ufficio tecnico, reparto<br />
locomotive, in via Bordoni,<br />
Milano, primi anni venti<br />
<strong>LA</strong> STORIA<br />
Progettazione<br />
e costruzione ferroviaria alla Breda<br />
agli inizi del secolo scorso<br />
Alberto Bassi
Una premessa di metodo<br />
L’industria studia, progetta, realizza, vende<br />
prodotti: nella ricostruzione delle vicende<br />
imprenditoriali appare rilevante e necessario<br />
occuparsi dei caratteri della produzione.<br />
Tale semplificata ma ovvia asserzione sembra<br />
lontana dal trovare applicazione nelle storie<br />
d’industria, in genere abbastanza “distratte”<br />
rispetto a quanto concretamente costituisce il<br />
risultato finale del lavoro produttivo; almeno in<br />
verità quanto le storie del progetto o del disegno<br />
industriale tendono a dimenticare lo specifico<br />
contesto in cui gli oggetti hanno origine, spesso<br />
più interessate al “genio creatore” che li ha<br />
disegnati, sia industriale, ingegnere o architetto1 .<br />
Il prodotto può invece essere il punto di partenza<br />
per molti “racconti”: su progetto, produzione,<br />
comunicazione e consumo; può, fra l’altro, render<br />
conto della “cultura del prodotto” e del lavoro, di<br />
una specifica industria o società; collocarsi in una<br />
sequenza temporale di “storia delle cose” 2 .<br />
Per gli storici del disegno industriale è della<br />
massima utilità poter dialogare con competenze<br />
disciplinari e scientifiche diverse, in modo da<br />
avviare indagini più strettamente progettuali<br />
movendo da un background consolidato, ad<br />
esempio, di conoscenze storiche, economiche,<br />
sociali e tecnologiche. Il confronto<br />
interdisciplinare rappresenta un’importante<br />
prospettiva comune per una circostanziata<br />
comprensione dei fenomeni.<br />
In questa direzione appare nodale il recupero<br />
dell’indagine sulle fonti, intese nella più ampia<br />
accezione, dal documento cartaceo<br />
all’iconografia, dalla storia orale al materiale<br />
legato alla comunicazione, come i depliant<br />
pubblicitari, la cartellonistica o i manuali tecnici<br />
di istruzione. Solo per fare un esempio, la<br />
documentazione “grigia” ha perlopiù goduto di<br />
poca attenzione da parte dell’impresa stessa, ma<br />
anche degli archivisti e degli storici.<br />
La ricostruzione e la riflessione sul progetto<br />
ferroviario alla Breda all’inizio del secolo, in<br />
Alberto Bassi,<br />
storico del design, insegna<br />
storia del disegno industriale<br />
alla facoltà di design e arti<br />
dell’Università Iuav di<br />
Venezia<br />
47
Pagina precedente:<br />
locomotiva-tender da<br />
manovra 8351, dal catalogo<br />
dell’Esposizione<br />
internazionale di Milano<br />
del <strong>1906</strong><br />
Locomotiva compound per<br />
treni pesanti a grande<br />
velocità 4963 “la mucca”<br />
e locomotiva-tender<br />
compound per treni<br />
viaggiatori 8851, dal<br />
catalogo dell’Esposizione<br />
internazionale di Milano<br />
del <strong>1906</strong><br />
49
50<br />
Locomotiva-tender gruppo<br />
<strong>830</strong>, da Ferrovie dello stato,<br />
Album dei tipi delle<br />
locomotive ed automotrici,<br />
Firenze 1915, tav. 152<br />
particolare sulla locomotiva-tender Breda <strong>830</strong> –<br />
numero di serie 017, oggetto del restauro e<br />
occasione di questo volume3 –, trae spunto e<br />
alimento dai materiali dell’Archivio storico Breda,<br />
conservati presso l’Istituto per la storia dell’età<br />
contemporanea (Isec) di Sesto San Giovanni4 .<br />
Il punto di vista privilegiato di questa indagine<br />
resta in ogni caso quello del progetto: il percorso<br />
cioè che conduce a formulare un’idea di<br />
manufatto industriale, come risultanza di<br />
un’”intuizione” funzionale e/o tecnologica e/o<br />
estetica oppure in risposta a una necessità di<br />
committenza o mercato e a predisporne i caratteri<br />
tecnologici e formali in relazione alle possibilità ed<br />
economie di produzione.<br />
La Breda a cavallo del secolo scorso<br />
È forse utile fornire alcuni cenni sulle vicende<br />
storiche della Breda, un’impresa di grande<br />
rilevanza per la storia dell’industria e più in<br />
generale dell’economia italiana5 .<br />
Nel 1886 l’ingegner Ernesto Breda rileva<br />
l’Elvetica, una piccola società milanese operante<br />
nel settore meccanico-ferroviario, costituendo<br />
l’accomandita semplice Ing. Ernesto Breda & C.<br />
Un anno dopo la Breda si apre alla fabbricazione<br />
di materiale bellico e successivamente, nel 1891,<br />
avvia la produzione di macchine agricole, carri<br />
ferroviari e carrozze ferro-tramviarie. Nel<br />
dicembre 1899 l’accomandita si trasforma in<br />
società anonima, con la denominazione di<br />
Società italiana Ernesto Breda per costruzioni<br />
meccaniche. Nel 1903 la Società intraprende la<br />
costruzione degli stabilimenti di Sesto San<br />
Giovanni e Niguarda, per la produzione di carri<br />
ferroviari e locomotive. Alla vigilia del primo<br />
conflitto mondiale le lavorazioni erano così<br />
suddivise: a Milano, locomotive a vapore ed<br />
elettriche, caldaie, macchine utensili, proiettili,<br />
materiali di impiego bellico; a Sesto, vetture<br />
ferroviarie, carri merci e pezzi fucinati, cui si<br />
aggiungono nel 1917 i motori per aereoplani e<br />
nel 1921 i velivoli; a Niguarda, locomobili,<br />
compressori stradali, motopompe per irrigazione,<br />
trattori e macchine agricole6 . Durante la prima<br />
guerra mondiale il complesso organismo<br />
produttivo viene finalizzato alla produzione<br />
bellica, dai proiettili ai cannoni, ai siluri e ai<br />
biplani da combattimento.<br />
La vocazione originaria è dunque legata alla
52<br />
produzione di materiale rotabile: già nel 1908<br />
viene costruita la millesima locomotiva, un<br />
gruppo 685 Compound a quattro cilindri7 ,<br />
cavallo di battaglia dell’azienda oltre che delle<br />
Ferrovie delle stato. Nel giubilare edito per<br />
l’occasione si leggeva: “Nemmeno nei primi<br />
difficili passi la ditta Breda ha ricercato presso<br />
fabbriche straniere l’aiuto di tecnici ormai<br />
provetti, né è ricorsa alla pratica di ingegneri<br />
esteri, ma ha formato nelle proprie officine gli<br />
ingegneri e i capitecnici che con costanza e<br />
amore hanno un po’ alla volta condotto lo<br />
stabilimento a quella perfezione tecnica che gli è<br />
universalmente riconosciuta. Anzi le officine<br />
Breda furono esse stesse un semenzaio di tecnici<br />
e ingegneri che si sparsero per tutta Italia” 8 .<br />
In tali affermazioni pare leggersi un’idea del<br />
prodotto come risultato di un lavoro articolato e<br />
complesso, dove interagiscono diverse<br />
competenze progettuali e costruttive, di cui in<br />
Breda si andava giustamente orgogliosi.<br />
Culture progettuali alla Breda<br />
La nostra ricostruzione attorno alla locomotivatender<br />
<strong>830</strong> (cioè un mezzo destinato al servizio<br />
di manovra) non fa riferimento in senso stretto<br />
alla specifica storia ferroviaria di questo veicolo9 ,<br />
quanto piuttosto prova a collocarlo nel contesto<br />
della cultura imprenditoriale, costruttiva e<br />
progettuale della Breda al principio del secolo,<br />
con riferimento alle componenti che interagivano<br />
nell’elaborazione di un prodotto frutto di<br />
tecnologia e modi realizzativi complessi.<br />
L’azienda sestese – come del resto molte altre<br />
industrie milanesi e lombarde, ma in generale<br />
italiane – nasce riunendo in un’unica figura,<br />
quella di Ernesto Breda, sia l’imprenditore che il<br />
progettista, esito della cultura ingegneristica di<br />
fine Ottocento tradotta dentro la logica della<br />
creazione di un prodotto non più solo<br />
dell’invenzione. Cioè la costruzione di un<br />
sistema, una struttura industriale, produttiva e<br />
organizzativa per cui l’innovazione tecnica<br />
diventa un oggetto concreto.<br />
Esiste poi una seconda componente, in grado di<br />
contribuire allo sviluppo del progetto, costituita<br />
dagli uffici tecnici che rappresentano il trait<br />
d’union tra la cultura dell’imprenditore-ingegnere<br />
e la realizzazione tecnica e fisica dei prodotti.<br />
Infine è rintracciabile una terza competenza che
concorre alla determinazione dell’esito finale,<br />
quella del “saper fare” della tradizione del lavoro<br />
tecnico e operaio.<br />
Il disegno del prodotto industriale alla Breda è<br />
dunque perlopiù il risultato di differenti filoni di<br />
cultura progettuale, tecnica e fabbrile: quella<br />
dell’industriale, di frequente ingegnere o tecnico<br />
industriale, che si travasa poi all’interno degli<br />
uffici tecnici, ma anche quella dei lavoratori,<br />
forniti di capacità manuali e tecniche che di volta<br />
in volta si confrontano con nuove tecnologie e<br />
macchinari10 .<br />
In questa direzione, di integrazione di varie<br />
competenze e di aggiornamento continuo degli<br />
ingegneri e dell’ufficio tecnico Breda, si colloca<br />
certo il significativo viaggio d’istruzione,<br />
condotto nel 1899 negli Stati Uniti, da parte di<br />
una commissione costituita dagli ingegneri<br />
Eugenio Gavazzi e Guido Sagramoso e dal<br />
capotecnico Remo Canetta, allo scopo di studiare<br />
i metodi costruttivi americani11 .<br />
Il contributo Breda alla costruzione<br />
e progettazione ferroviaria<br />
La storia dei veicoli a vapore in Italia12 è<br />
riconducibile a un duplice filone progettuale. Da<br />
una parte l’ufficio d’arte delle Strade ferrate Alta<br />
Italia (SFAI) di Torino sorto nel 1872, divenuto poi<br />
della Rete Mediterranea (RM); dall’altra l’ufficio<br />
studi delle Strade ferrate meridionali (SFM) del<br />
1880, con sede a Firenze, poi della Rete Adriatica<br />
(RA). Dopo la nazionalizzazione e unificazione<br />
della rete ferroviaria del 190513 , quest’ultimo<br />
prevarrà fino a divenire in sostanza l’ufficio<br />
progetti delle Ferrovie dello stato. Due scuole con<br />
diverse “filosofie”: “mentre l’Ufficio d’Arte di<br />
Torino avrebbe infatti sempre inseguito – scrive<br />
Giovanni Corniolò – l’obiettivo di una maggior<br />
efficienza ed economicità di esercizio della<br />
macchina a vapore, mediante l’ottimizzazione del<br />
ciclo di produzione e di utilizzo del vapore,<br />
l’Ufficio Studi di Firenze […] inseguì sempre il<br />
medesimo obiettivo, ma per una diversa via,<br />
semplificando al massimo la locomotiva, al fine di<br />
renderne soprattutto economica la sua gestione<br />
e la sua manutenzione” 14 . Ai differenti approcci,<br />
assieme alle esigenze legate ai caratteri dei tratti<br />
di rete da coprire, fanno riferimento le scelte di<br />
configurazione formale: macchine veloci a ruote<br />
alte e due assi per le linee pianeggianti<br />
dell’Adriatica, su disegno dei fiorentini; veicoli<br />
53
54<br />
Locomotiva con carrello<br />
italiano per le ferrovie<br />
secondarie romane, <strong>1906</strong>
poderosi, meno veloci, rodiggio a tre assi per i<br />
percorsi misti della Mediterranea, predisposte dai<br />
torinesi.<br />
La locomotiva-tender <strong>830</strong> (1903-06) – derivata<br />
dalla 829, e da cui si svilupperà la 835 del <strong>1906</strong>,<br />
uno dei veicoli a vapore più noti e prodotta in<br />
quasi quattrocento esemplari – è uno fra gli<br />
ultimi mezzi riconducibili per impostazione<br />
all’ufficio d’arte di Torino. Ha sostenuto sempre<br />
Giovanni Corniolò: “a differenza della quasi<br />
totalità delle nuove commesse assegnate dalle FS<br />
immediatamente dopo la loro costituzione che<br />
riguardarono macchine derivate da progetti<br />
dell’Ufficio Studi della RA […] le 835 FS, le<br />
famose e a tutti note piccole vaporiere che<br />
arrancavano per gli scali italiani sino a una<br />
ventina di anni addietro, rappresentano appunto<br />
una delle rarissime eccezioni, derivando dal<br />
progetto delle <strong>830</strong>, originate alla ‘scuola’ di<br />
Torino della Mediterranea” 15 .<br />
Merita a questo punto di essere introdotta<br />
un’ulteriore precisazione per quanto riguarda il<br />
contributo Breda al progetto e realizzazione dei<br />
veicoli ferroviari all’inizio del secolo. La<br />
responsabilità complessiva del disegno dei mezzi<br />
è dunque attribuibile agli uffici tecnici<br />
direttamente collegati alle Ferrovie dello stato,<br />
dove vengono elaborati i disegni per le<br />
commesse assegnate alle diverse aziende. Ma<br />
questa rappresenta in tutta evidenza una tappa<br />
iniziale, su cui intervengono modalità di<br />
elaborazione tecnica e ingegneristica differenti a<br />
seconda delle imprese coinvolte.<br />
La cultura costruttiva e progettuale Breda pare<br />
applicarsi dunque a questa fase di sviluppo che<br />
conduce alla realizzazione finale del veicolo<br />
ferroviario; non tanto al disegno complessivo ma<br />
alle soluzioni tecniche e alle modalità esecuitive.<br />
Non senza un’attitudine sperimentale e di ricerca,<br />
condotta in proprio o su commessa, se è vero, ad<br />
esempio, che proprio il locotender <strong>830</strong>-017<br />
restaurato presenta almeno un paio di<br />
significative “varianti”, come l’assenza del<br />
compressore per l’azionamento del freno<br />
continuo a vista e l’impiego della caldaia che sarà<br />
poi adottata sulla 83516 .<br />
Si legge sul giubilare edito in occasione della<br />
produzione della millesima locomotiva Breda del<br />
1908: “le grandi amministrazioni ferroviarie<br />
hanno ciascuna tipi propri di locomotive e di<br />
veicoli, e nelle forniture il costruttore deve<br />
55
Locomotiva compound a<br />
quattro cilindri per le<br />
ferrovie rumene, prospetto e<br />
sezione, 1901<br />
Locomotiva compound a<br />
quattro cilindri con carrello<br />
italiano per le Ferrovie dello<br />
stato, prospetto, 1908<br />
57
58<br />
Disegno tecnico del<br />
surriscaldatore per<br />
locomotiva-tender, 1909<br />
seguire scrupolosamente i loro disegni e le<br />
prescrizioni dei capitolati relative alla qualità dei<br />
materiali e ai metodi di lavorazione”. Ma subito<br />
però viene orgogliosamente rivendicato lo<br />
sviluppo in proprio di alcuni modelli per cui “i<br />
progetti di questo materiale vennero quasi tutti<br />
studiati dalla Ditta, la quale si formò buona<br />
reputazione anche come progettista” 17 .<br />
1. Su questi temi si rimanda ad alcune riflessioni già svolte e<br />
alla bibliografia in esse contenute; si vedano, ad esempio,<br />
Raimonda Riccini, History from things. Note sulla storia del<br />
disegno industriale, “Archivi e imprese”, 14, dicembre 1994,<br />
pp. 231-235; Alberto Bassi, Gli archivi del progetto, “Archivi e<br />
imprese”, 11-12, gennaio-dicembre 1995, pp. 144-160.<br />
2. Sulle potenziali chiavi di lettura del prodotto esiste una<br />
bibliografia assai estesa; in quanto attinenti al nostro taglio di<br />
analisi, si ricordano, fra l’altro le storie del design, ad esempio<br />
Vittorio Gregotti, Il disegno del prodotto industriale. Italia<br />
1860-1980, Electa, Milano 1982, ma anche George Kubler, La<br />
forma del tempo. Considerazioni sulla storia delle cose,<br />
Einaudi, Torino 1976. Per il punto sullo stato dell’arte degli<br />
studi di design, si veda Enrico Castelnuovo, Jacques Gubler,<br />
Dario Matteoni, L’oggetto misterioso, in Storia del disegno<br />
industriale, a cura di E. Castelnuovo, Electa, Milano 1991, vol.<br />
III: 1919-1990 Il dominio del design, pp. 404-414.<br />
3. Per le specifiche vicende di questo locomotore si rimanda<br />
all’articolata ricostruzione di Roberto Celotta contenuta in<br />
questo volume.<br />
4. Una prima ricognizione dei materiali contenuti nell’Archivio<br />
storico Breda è in Istituto milanese per la storia della<br />
resistenza e del movimento operaio, Annali 3. Studi e<br />
strumenti di storia contemporanea. Guida e fonti dell’Archivio<br />
storico Breda, a cura di Grazia Marcialis, Giuseppe Vignati,<br />
Franco Angeli, Milano 1994.<br />
5. Sulla storia della Breda si veda, fra gli altri, La Breda. Dalla<br />
società italiana Ernesto Breda alla Finanziaria Ernesto Breda<br />
1886-1986, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1986; La<br />
Breda all’estero un secolo di lavoro nel mondo, Amilcare Pizzi,<br />
Cinisello Balsamo (Mi) 1990. Per quanto riguarda più in<br />
generale il progetto alla Breda, Alberto Bassi, Sesto produce:<br />
cultura del progetto nell’industria a Sesto San Giovanni,in<br />
Istituto Milanese per la storia dell’età contemporanea della<br />
resistenza e del movimento operaio, Annali 5. Studi e<br />
strumenti di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano<br />
2000, pp. 97-137.<br />
6. Si veda anche Esposizione di Milano <strong>1906</strong> Materiale<br />
Ferroviario - Società Ernesto Breda per costruzioni meccaniche,<br />
Milano <strong>1906</strong>, dove compaiono anche precise indicazioni sui<br />
reparti impiegati nella produzione ferroviaria. Tre i modelli<br />
presentati nel volume ad esemplificare il catalogo Breda:<br />
locotender FS 8351 da manovra (sviluppo del “nostro” <strong>830</strong>),<br />
locomotiva FS 8851 per treni viaggiatori, locomotiva FS 6943,<br />
di inedita configurazione, denominata “la mucca”.<br />
7. Ricche informazioni sull’organizzazione della produzione in<br />
questi anni, oltre a un abbastanza completo catalogo, sono<br />
contenute in Per la millesima locomotiva, Sieb, Milano 1908.<br />
8. Per la millesima locomotiva, cit., p. 12.<br />
9. Per letture più analitiche e specialistiche, si rimanda, fra
62<br />
Stabilimento Breda Milano,<br />
locomotiva-tender per le<br />
ferrovie Nord Milano, 1924<br />
l’altro, al contributo fondamentale degli storici ferroviari, ricco<br />
di utili elementi tecnici. Quello che interessa, come storici del<br />
progetto, è mettere in luce il maggior numero di elementi<br />
necessari a una comprensione dei fattori che concorrono alla<br />
determinazione complessiva del prodotto.<br />
10. Merita essere sottolineato come, fra le primissime grandi<br />
aziende italiane, già a partire dagli anni trenta in Breda si faccia<br />
strada un ulteriore filone di cultura del progetto, quella degli<br />
architetti-designer che sarà un fattore decisivo per lo sviluppo<br />
dell’industria. A cominciare dal contributo dell’innovativo<br />
elettrotreno Breda ETR200, progettato da Giuseppe Pagano<br />
nella linea aerodinamica e negli interni. L’architetto Pagano è<br />
stato uno dei protagonisti della teoria della cultura e del<br />
dibattito architettonico in Italia fra le guerre; fra l’altro, fu<br />
direttore della rivista “Casabella”, curatore della Triennale<br />
“razionalista” del 1936 e della prima mostra di design alla<br />
Triennale del 1940, progettista di Palazzo Gualino a Torino e<br />
dell’Università Bocconi a Milano (si veda Alberto Bassi, Laura<br />
Castagno, Giuseppe Pagano, Laterza, Roma-Bari 1993;<br />
sull’elettrotreno ETR200 si veda Alberto Bassi, Streamline<br />
italiano, “Casabella”, 653, febbraio 1998, pp. 30-39).<br />
11. Si vedano Per la millesima locomotiva, cit., p. 13; Aeda, Dal<br />
ferro all’acciaio. La Breda siderurgica, Torino 1967, pp. 67-68. La<br />
commissione produce la relazione Le locomotive in America e<br />
Europa. Osservazioni e confronti, Abbiati, Milano 1900, in cui<br />
sono indagate in particolare le questioni relative<br />
all’organizzazione produttiva e tecnica. Ciò ha permesso, ha<br />
scritto Valerio Castronovo, “di impostare meglio il processo di<br />
riorganizzazione intrapreso mediante la suddivisone dei<br />
macchinari e delle maestranze in sezioni omogenee, ma<br />
collegate fra loro”, in V. Castronovo, La Breda nella storia<br />
dell’industria italiana, in La Breda. Dalla società italiana Ernesto<br />
Breda alla Finanziaria Ernesto Breda 1886-1986, cit., p. 11.<br />
12. In generale caratterizzate – secondo lo storico delle ferrovie<br />
Giovanni Corniolò – da “caldaie snelle e senza tanti orpelli e<br />
fronzoli, bielle di sezioni contenute, ruote con cerchi e razze<br />
sottili, che certamente hanno reso aggraziate e filanti le<br />
locomotive delle FS” (G. Corniolò, Locomotive a vapore,<br />
Ermanno Albertelli Editore, Parma 1989, p. 13).<br />
13. Sulla nazionalizzazione in generale, si veda anche Stefano<br />
Maggi, Le ferrovie, Il Mulino, Firenze 2003, pp. 130 sgg. Sul<br />
contesto della produzione ferroviaria si vedano, fra gli altri,<br />
Clive Lamming (1989), I grandi treni dal 1<strong>830</strong> ai nostri giorni,tr.<br />
it. Edizioni Edison, Bologna 1991; Maria Cristina Tonelli Michail,<br />
Ferrovie, in Storia del disegno industriale, a cura di<br />
E.Castelnuovo, Electa, Milano 1990, vol. II: 1851-1918 Il grande<br />
emporio del mondo, pp. 310-316; Piero Muscolino, Ingegnose<br />
realizzazioni italiane per locomotive a vapore, in Piero Berengo<br />
Gardin (a cura di), Ferrovie Italiane. Immagine del treno in 150<br />
anni di storia, Ente Ferrovie dello stato, Editori Riuniti, Roma<br />
1988, pp. 58-61.<br />
14. G. Corniolò, Locomotive a vapore, cit., pp. 32-33; sempre a<br />
proposito delle due “filosofie”, si veda p. 36.<br />
15. G. Corniolò, Locomotive a vapore, cit., p. 425.<br />
16. Come conferma il libretto della caldaia stessa conservato<br />
presso l’Archivio Breda. Che si tratti di una sostituzione, che<br />
Corniolò indica essere avvenuta su diverse <strong>830</strong> (G. Corniolò,<br />
Locomotive a vapore, cit., p. 426), oppure di una sperimentale<br />
preserie.<br />
17. Per la millesima locomotiva, cit., pp. 36, 43.
<strong>LA</strong> STORIA<br />
La comunicazione grafica Breda<br />
all’inizio del Novecento<br />
Allestimento Breda alla<br />
mostra ferroviaria,<br />
Esposizione internazionale di<br />
Milano, <strong>1906</strong><br />
Fiorella Bulegato<br />
Fiorella Bulegato<br />
insegna storia delle<br />
comunicazioni visive alla<br />
facoltà di design e arti<br />
dell’Università Iuav di<br />
Venezia.<br />
63
64<br />
Catalogo per<br />
l’Esposizione internazionale<br />
di Milano, <strong>1906</strong>, copertina e<br />
tavola interna
66<br />
I decenni a cavallo tra Otto e Novecento<br />
costituiscono per l’Italia un particolare momento<br />
in cui si assiste al definitivo decollo industriale e,<br />
di conseguenza, hanno avvio decisive<br />
trasformazioni nelle tecnologie, nei prodotti e nei<br />
consumi, come nelle relative necessità di<br />
comunicazione delle aziende coinvolte. Nel caso<br />
della Breda, l’azienda nata nel 1886 con<br />
l’acquisizione dell’Elvetica, società metallurgica<br />
milanese posta lungo il naviglio Martesana, da<br />
parte dell’ingegner Ernesto Breda, naturalmente<br />
tali esigenze non sono rivolte al mercato dei<br />
consumi di massa – come avviene, ad esempio,<br />
per le industrie alimentari, le aziende elettriche o<br />
per quelle legate ai trasporti individuali1 –, ma<br />
prevedono un interlocutore speciale, che include<br />
quelle istituzioni pubbliche e grandi imprese<br />
private in grado di trovare utile un prodotto ad<br />
uso collettivo come i primi treni, fra gli iniziali<br />
settori d’intervento Breda.<br />
Non è possibile parlare in questi anni di una<br />
“strategia” legata agli aspetti di pubblicizzazione<br />
dell’impresa, sia verso gli scambi interni sia<br />
esterni, ma certamente si assiste alla<br />
predisposizione empirica di vari strumenti<br />
destinati alla comunicazione. Dagli allestimenti e<br />
cataloghi editi in occasione della partecipazione<br />
alle esposizioni al volume per celebrare la<br />
costruzione della millesima locomotiva, dalle<br />
carte intestate ai titoli azionari fino alla<br />
definizione del primo marchio, si registra<br />
un’attenzione crescente ai linguaggi visuali, con il<br />
determinante apporto del mezzo fotografico che<br />
precocemente Breda utilizza per documentare la<br />
fabbrica, il lavoro e le sue realizzazioni2 .<br />
Sono quei materiali “minori” illustrati in cui,<br />
secondo Giovanna Ginex, “va cercata l’origine<br />
dell’odierna comunicazione aziendale” 3 , spesso<br />
privi di indicazioni dell’autore delle composizioni<br />
grafiche, più frequentemente recanti il nome del<br />
fotografo, della tipografia o litografia. Tale<br />
notazione ci permette di sottolineare un ulteriore<br />
fattore propulsivo per la realizzazione di materiali<br />
“grafico-pubblicitari” in questo periodo che<br />
riguarda appunto la maggiore facilità di<br />
diffusione delle immagini grazie alle nuove<br />
tecnologie di riproduzione, ovvero il passaggio<br />
all’incisione fotomeccanica che elimina la<br />
necessità di tradurre le fotografie in incisioni<br />
manuali4 .<br />
Certamente queste prime forme sono state utili a<br />
costruire quella sensibilità che porterà la
Volume celebrativo per la<br />
produzione della millesima<br />
locomotiva Breda, 1908,<br />
copertina e pagina interna<br />
67
68<br />
Marchio della Società<br />
italiana Ernesto Breda,<br />
anni dieci
comunicazione aziendale Breda, dopo il primo<br />
conflitto bellico e in particolare negli anni trenta,<br />
a connotarsi sempre più in termini di relazione<br />
con la cultura del progetto e di definizione di<br />
una propria identità e riconoscibilità.<br />
A cavallo del secolo comunque, ricorrendo a un<br />
repertorio iconografico che si andava<br />
consolidando nell’immaginario collettivo<br />
dell’epoca, anche Breda celebra la fabbrica e la<br />
macchina come sinonimi di progresso. Sono<br />
rappresentazioni che si muovono tra<br />
l’interpretazione allegorica ed eroica di<br />
impostazione classicista, l’integrazione con il<br />
linguaggio realistico della fotografia e l’adesione<br />
all’arte floreale che si stava imponendo anche nel<br />
nostro paese. La presenza degli stabilimenti e dei<br />
loro interni produttivi caratterizza ad esempio la<br />
composizione fotografico-pittorica dello “Stab.to<br />
Elvetica sezione macchine personale notturno,<br />
Achille Ferrario Milano fotografo” 5 . Qui la<br />
rappresentazione pittorica di una figura<br />
femminile avvolta in un panneggio<br />
classicheggiante è abbinata a quella degli operai<br />
al lavoro tra i macchinari, sovrastati da un profilo<br />
della fabbrica dagli scuri fumaioli, ma soprattutto<br />
è commista ai ritratti fotografici: del personale<br />
notturno della sezione macchine e della<br />
locomotiva FS 28366 . Sono il prodotto e il lavoro<br />
che si costruiscono uno spazio nella<br />
comunicazione, ma soprattutto è la<br />
rappresentazione della locomotiva, l’applicazione<br />
più imponente e suggestiva della macchina a<br />
vapore che sta sostituendo l’emblematico<br />
riferimento al telaio meccanico come portatore<br />
dello sviluppo economico e del progresso sociale.<br />
Simile utilizzo della macchina si trova anche nella<br />
grafica dei certificati azionari emessi nel 1900,<br />
dove un’immagine incisa della locomotiva è<br />
contornata da un’imponente cornice ornata di<br />
stampo architettonico, e l’acronimo della Società<br />
italiana Ernesto Breda diventa monogramma ed<br />
elemento decorativo, secondo un linguaggio<br />
grafico-espressivo che si era sviluppato dalla<br />
metà dell’Ottocento.<br />
L’occasione che si offre per mettere a punto i<br />
primi strumenti volti a far conoscere i propri<br />
prodotti ai possibili acquirenti è la partecipazione<br />
all’Esposizione internazionale di Milano del <strong>1906</strong>.<br />
Oltre ad allestire due stand, uno all’interno della<br />
mostra ferroviaria, l’altro in quella agraria, nei<br />
quali vengono mostrati i macchinari accanto alle<br />
immagini di fabbrica7 , come d’uso all’epoca,<br />
viene predisposto anche un catalogo composto<br />
di tre parti (materiale ferroviario, macchine<br />
agricole e motori a “gaz”), in formato ad album,<br />
rilegate sia in un unico volume telato, sia<br />
singolarmente con una copertina in carta legnosa<br />
di colore viola, con impressione in oro di<br />
immagini e scritte8 . La copertina, in particolare,<br />
69
70<br />
raffigura in alto un riquadro con la testa alata di<br />
Mercurio – divinità del commercio e della velocità<br />
– tra gli edifici industriali e una nave,<br />
probabilmente riferibile all’adiacenza degli<br />
stabilimenti di Milano con il Naviglio, inserito in<br />
una cornice vegetale d’impronta floreale che<br />
lambisce i margini e racchiude anche<br />
l’intestazione.<br />
I caratteri e gli stilemi figurativi del periodo sono<br />
evidenti, anche nel lettering scelto che non arriva<br />
però ad essere integrato alle figure come nei più<br />
convincenti esempi dell’arte floreale, e mostrano<br />
una certa sintonia sia con i linguaggi usati da<br />
altri produttori di materiale ferroviario presenti<br />
all’Esposizione del <strong>1906</strong> sia con l’intero e<br />
particolarmente curato apparato grafico e<br />
iconografico della manifestazione che, solo per<br />
citare opere note, deve il manifesto a Leopoldo<br />
Metlicovitz e il logotipo a Adolf Hohenstein scelti<br />
dopo aver bandito dei frequentati concorsi per la<br />
loro progettazione9 .<br />
All’interno, ribadendo la speciale attenzione della<br />
Breda alla realizzazione di documentazione<br />
illustrata e testuale sulle proprie attività, il<br />
catalogo presenta in successione, stampate su<br />
carta di spessore maggiore, gli stabilimenti della<br />
società – comprese le planimetrie e le vedute<br />
degli interni –, le immagini dello stand in fiera, e<br />
fornisce di seguito i “Cenni sugli oggetti esposti”<br />
nelle tre sezioni. Questi ultimi sono una sorta di<br />
“scheda” dei prodotti, composta in 44 tavole,<br />
che sostanzialmente in alto riprende il lettering e<br />
la composizione della carta intestata dell’azienda<br />
– ogni riga un carattere tipografico diverso dove<br />
prevale la componente calligrafica –, al centro<br />
colloca l’immagine fotografica, ad esempio, delle<br />
locomotive, di parti meccaniche o delle carrozze<br />
per i passeggeri, mantenendo solo il contesto del<br />
loro appoggio a terra, e in basso propone la<br />
descrizione delle caratteristiche tecniche dei<br />
prodotti in forma tabellare bilingue. Tutti i testi<br />
sono composti con caratteri graziati scegliendo,<br />
specialmente per i titoli, anche differenti famiglie<br />
dal disegno liberty.<br />
Il libro del 1908 Per la millesima locomotiva<br />
prodotta dalla Breda riprende analoghi linguaggi<br />
figurativi, declinandoli in una pubblicazione<br />
“elogiativa” rivolta a un pubblico più largo.<br />
L’immagine della locomotiva 68100 diventa ora il<br />
soggetto di copertina, resa attraverso<br />
un’incisione in nero e oro che la raffigura<br />
sollevata dalle mani di un tecnico e di un
Catalogo della Società<br />
italiana Ernesto Breda,<br />
anni trenta<br />
71
72<br />
Disegno in occasione<br />
dell’istituzione della cassa di<br />
previdenza della Società<br />
italiana Ernesto Breda, <strong>1906</strong><br />
Certificato azionario della<br />
Società italiana Ernesto<br />
Breda, 1900
operaio. Posta all’interno di un cerchio solcato<br />
dai raggi del sole, è circondata da elementi<br />
nastriformi e vegetali, sempre di ispirazione<br />
liberty, che sottolineano anche il titolo del<br />
volume.<br />
La funzione differente a cui è destinata la<br />
pubblicazione, stampata da Capriolo e<br />
Massimino con fotografie realizzate dalla ditta<br />
G.B. Ganzini, ambedue di Milano10 , è evidente<br />
nello sforzo speso nell’impaginazione interna,<br />
con le immagini della fabbrica di frequente<br />
ritoccate integrate nel testo, i capolettera ornati<br />
dal disegno naturalistico, la visualizzazione<br />
diagrammatica dei progressi produttivi<br />
dell’azienda, il raggruppamento nella pagina dei<br />
modelli realizzati con le loro parti costitutive, la<br />
cura dei disegni – a cui è affidata la descrizione<br />
più propriamente tecnica.<br />
È negli anni dieci che si assiste all’ampliarsi delle<br />
necessità di diffondere l’identità dell’azienda.<br />
Oltre alla definizione di un marchio facile da<br />
identificare – una riproposizione essenziale dei<br />
simboli di Milano all’interno di un cerchio: la<br />
croce e la cinta turrita nello scudetto avvolti da<br />
fogliame di alloro e quercia – si fa ad esempio<br />
più incisivo il ricorso agli annunci pubblicitari. In<br />
questo ambito, la disomogeneità delle scelte<br />
figurative, che oscillano tra l’utilizzo di multiformi<br />
caratteri tipografici e la ripresa di motivi liberty,<br />
sempre associati a fotografie dei propri prodotti,<br />
evolverà a mano a mano arrivando alla<br />
definizione di un linguaggio che, soprattutto<br />
dagli anni trenta, guarderà con convinzione verso<br />
le istanze moderniste11 .<br />
1. A titolo esemplificativo, tra le altre, Branca, Bisleri, Campari,<br />
Società anonima forniture elettriche, Bianchi o Pirelli. Alquanto<br />
documentati sulle vicende della comunicazione delle industrie<br />
dell’area lombarda e utili per un confronto con il caso Breda,<br />
anche per gli anni a cavallo tra Otto e Novecento, sono i<br />
volumi Dario Cimorelli, Giovanna Ginex (a cura di), Storia della<br />
comunicazione dell’industria lombarda 1881-1945, Amilcare<br />
Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1997; Duccio Bigazzi, Giovanna<br />
Ginex (a cura di), L’immagine dell’industria lombarda 1881-<br />
1945, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1998; Antonello<br />
Negri, Immagini di fabbriche, macchine, imprenditori e operai,<br />
in AA.VV., Archeologia industriale in Lombardia, Amilcare Pizzi,<br />
Cinisello Balsamo (Mi) 1981, pp. 57-76.<br />
2. Cospicui materiali sono conservati all’Archivio storico<br />
Breda. Si trovano anche parzialmente illustrati nelle varie<br />
pubblicazioni sulla storia aziendale, in particolare si veda Pepa<br />
Sparti, L’immagine della Breda nello scenario industriale<br />
italiano, in La Breda. Dalla società italiana Ernesto Breda alla<br />
Finanziaria Ernesto Breda 1886-1986, Amilcare Pizzi, Cinisello<br />
Balsamo (Mi) 1986, pp. 33-56 e 86-88.<br />
3. G. Ginex, Dall’Arte all’arte pubblicitaria, in D. Cimorelli, G.<br />
Ginex (a cura di), Storia della comunicazione dell’industria<br />
lombarda 1881-1945, cit., p. 36.<br />
4. La rilevanza delle aziende del settore è documentata, ad<br />
73
74<br />
esempio, dalla presenza nella “guida” Milano nel <strong>1906</strong>,<br />
Amministrazione municipale di Milano, ediz. f.c., della sezione<br />
“Industrie della carta e grafiche”, all’interno del capitolo<br />
dedicato agli impianti industriali, pp. 214-217.<br />
5. L’opera si trova presso l’Archivio storico Breda.<br />
6. G. Ginex, La fabbrica immaginata. La grafica, in D. Bigazzi,<br />
G. Ginex (a cura di), L’immagine dell’industria lombarda 1881-<br />
1945, cit., p. 63, considera proprio questi binomi tra realtà e<br />
simbolo, classicità e tecnologia capaci di fornire “un’inedita<br />
chiave del periodo storico e delle sue contraddizioni”.<br />
7. Precedentemente, è documentata anche la partecipazione<br />
della Cerimedo e C. – una delle società che ha dato origine<br />
all’Elvetica – all’Esposizione Nazionale di Milano del 1881.<br />
8. Alcuni esemplari originali che misurano 23,1x32 cm – in<br />
parte privi di rilegatura – sono conservati all’Archivio storico<br />
Breda, che dispone anche di una copia rilegata<br />
successivamente con copertina rigida, sempre stampata in oro<br />
ma con caratteri goticheggianti.<br />
9. A titolo esemplificativo si vedano, sempre per l’Esposizione<br />
del <strong>1906</strong>, le copertine dei cataloghi dell’azienda berlinese<br />
Schwartzopff e della Società privilegiata austro-ungherese<br />
delle ferrovie dello stato maggiormente affini ai canoni della<br />
sensibilità secessionista e jugendstil. Anche il riconoscimento<br />
per l’istituzione della cassa di previdenza che gli impiegati<br />
Breda dedicano alla Società nel dicembre <strong>1906</strong>, sempre<br />
conservato all’Archivio storico Breda, riprende la figura del<br />
logotipo ideato da Hohenstein, presentando due nudi virili<br />
accanto agli attrezzi del lavoro che guardano verso una<br />
distesa di fabbriche. Ricordiamo anche che in questo periodo<br />
si stanno definendo ruoli e compiti della cosiddetta arte<br />
applicata all’industria e di chi opera in questi campi.<br />
10. Il volume originale, di formato 23x32 cm ca, è esposto<br />
all’Archivio storico Breda; è stato inoltre ristampato nel<br />
1985 a cura di due ex dipendenti Breda.<br />
11. Almeno dal 1924 opera l’ufficio pubblicità che ha sede<br />
in via Bordoni a Milano dove si trovano gli uffici<br />
direzionali Breda. Nei primi anni trenta inoltre la Breda si<br />
avvale ad esempio di Renzo Bassi (1903-78), attivo negli<br />
stessi anni anche alla Pirelli. Ne tratta, con particolare<br />
riferimento agli anni quaranta, Giovanna Ginex, Le forme<br />
della comunicazione aziendale: il caso Breda, in Istituto<br />
Milanese per la storia dell’età contemporanea della<br />
resistenza e del movimento operaio, Annali 6. Studi e<br />
strumenti di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano<br />
2004, pp. 213-219.
Annuncio pubblicitario<br />
della Società italiana Ernesto<br />
Breda, anni dieci<br />
75
76<br />
Cristina De Vecchi,<br />
studiosa di fenomenologia<br />
dell’immagine, si occupa di<br />
fotografia e cura gli archivi<br />
di alcuni fotografi italiani<br />
<strong>LA</strong> STORIA<br />
Immagini e immaginario della tecnica<br />
nell’Archivio fotografico Breda<br />
Costruzione di una caldaia<br />
per locomotive a vapore,<br />
anni venti<br />
Cristina De Vecchi
Alleanza tra macchina fotografica<br />
e immagini della tecnica<br />
Le immagini della tecnica all’inizio dell’Ottocento<br />
sono principalmente immagini di oggetti, non<br />
diversamente da quanto accade in altri ambiti<br />
della fotografia. La predilezione che la fotografia<br />
ha mostrato, fin dalle sue origini, per gli oggetti<br />
è stata spesso spiegata con la subordinazione ai<br />
limiti tecnici del procedimento fotografico. Più<br />
ricco di conseguenze sembra il punto di vista<br />
secondo il quale al contrario “la fotografia<br />
dell’oggetto si costruisce su una nuova estetica<br />
che magnifica, sacralizza e trasfigura l’oggetto e<br />
contribuisce ad affrancare il mezzo fotografico da<br />
ogni riferimento pittorico passato inscrivendolo<br />
nel cuore stesso della rappresentazione della<br />
modernità” 1 . La rinnovata coscienza tecnica,<br />
implicita nell’uso documentario, consente alla<br />
fotografia di superare la crisi di identità che,<br />
ancora sul finire dell’Ottocento, la obbliga a<br />
nascondere le proprie forme sotto le vesti<br />
dell’incisione o del dipinto. È nelle immagini degli<br />
oggetti che la fotografia, anche in ambito<br />
artistico, assume in proprio e applica le<br />
caratteristiche meccaniche e mimetiche del mezzo<br />
e le sue conseguenze estetiche: nettezza<br />
dell’immagine, piani ravvicinati e precisione del<br />
dettaglio, ruolo della luce nella costruzione<br />
dell’immagine. Tecnicamente la scelta si<br />
concretizza nell’abolizione di ogni forma di<br />
intervento estetizzante nella stampa fotografica e<br />
nel fare di quest’ultima un fedele rendiconto di<br />
una realtà sapientemente orchestrata.<br />
Inoltre la particolare affermazione della fotografia<br />
in ambito tecnico-industriale è anche rivelatrice<br />
di ciò che i contemporanei pensano della sua<br />
natura: l’immagine fotografica è vissuta anzitutto<br />
come testimonianza autentica del reale, la sua<br />
perfezione analogica ne suggerisce l’uso come<br />
efficace strumento per l’inventario. L’archivio<br />
fotografico della Breda, da questo punto di vista,<br />
è un’ulteriore conferma dell’alleanza tra<br />
macchina fotografica e tecnica. È stato notato<br />
come lo strumento fotografico si sia mostrato<br />
poco adatto a esprimere la maestà del quadro<br />
offerto dalla potenza della nascente industria<br />
siderurgica2 . Il “sublime industriale”, dove<br />
convivono seduzione e timore, trova la sua<br />
migliore espressione in letteratura e nelle arti<br />
tradizionali del disegno e della pittura.<br />
L’approccio fotografico si rivela invece migliore<br />
77
78<br />
Locomotiva-tender 290 per le<br />
ferrovie Nord Milano, 1923<br />
alleato della macchina industriale, della quale<br />
consente di documentare i progressi. L’utopia<br />
industriale, la promessa di un futuro migliore è<br />
testimoniata dalla prova fotografica, capace di<br />
diffondere agli occhi del mondo, tappa per<br />
tappa, la nascita degli stabilimenti, dei reparti e<br />
dei prodotti. Grazie al suo ruolo promozionale la<br />
fotografia, raddoppiando e moltiplicando il<br />
segno e la presenza del prodotto, si fa valere<br />
come immagine dell’avvenire.<br />
Dal punto di vista della tipologia il patrimonio<br />
fotografico della Breda rispetta la varietà del<br />
rapporto tra fotografia e industria agli inizi del<br />
Novecento: edifici, reparti, uffici, qualche foto di<br />
lavoro, molte immagini che mostrano la<br />
successione dei modelli delle motrici e dei vagoni<br />
e infine la serie più tecnica, dedicata alle “parti”<br />
della locomotiva3 . Questa scelta interpreta anche<br />
i diversi generi della fotografia documentaria<br />
(paesaggio industriale, architettura, ritratto<br />
sociale, oggetti) e declina l’immaginario<br />
industriale del periodo: la visione utopica<br />
dell’insediamento industriale, quella del lavoro,<br />
che si fa eroica nel montaggio e nel trasporto
della locomotiva, e infine quella “oggettiva”<br />
della tecnica, nelle immagini della locomotiva ma<br />
ancor più nella documentazione minuziosa delle<br />
sue componenti.<br />
Il compito del fotografo d’impresa è di realizzare<br />
inquadrature degli edifici industriali e degli interni<br />
dei reparti che possano servire ai fini della<br />
comunicazione pubblicitaria o celebrativa<br />
dell’azienda.<br />
Nel catalogo per l’Esposizione internazionale di<br />
Milano del <strong>1906</strong> o nel volume concepito per<br />
celebrare la produzione della millesima locomotiva<br />
Breda del 1908, l’immagine fotografica è per lo<br />
più riservata alla documentazione degli oggetti,<br />
mentre per i luoghi, le architetture e le scene di<br />
lavoro è ancora necessario l’intervento valorizzante<br />
della mano del disegnatore. È la nozione di<br />
autenticità che contribuisce a determinare il ruolo<br />
dominante della fotografia nella costruzione<br />
dell’identità aziendale. Ma poiché l’identità non è<br />
un oggetto da scoprire ma da costruire, il risultato<br />
di una narrazione, il ricorso al valore documentario<br />
della fotografia, appare sempre più un richiamo<br />
all’evidenza dell’immagine, e sempre meno un<br />
rimando al vero. Il disegno o bozzetto “tratto da<br />
fotografia” funziona come un ritratto formalizzato<br />
che risponde alla finalità propria del volume<br />
celebrativo, mentre la fotografia è una “metafora<br />
viva” che fa dell’immagine qualche cosa a metà<br />
tra invenzione e scoperta4 . La rarità della presenza<br />
umana (anch’essa da ricondurre a problemi<br />
tecnici) rinforza la connotazione utopica delle<br />
immagini mentre il valore “realista” del mezzo<br />
conferisce alle visioni un’esistenza tangibile. Per gli<br />
industriali dell’epoca queste rappresentazioni<br />
confermano ad un tempo il loro talento visionario,<br />
il buon fondamento delle loro credenze<br />
economiche e rassicurano i destinatari circa la<br />
qualità tecnica, sociale e morale della loro impresa.<br />
Negli album celebrativi, accanto alle prospettive<br />
degli edifici e alle scene dei reparti, fa la sua<br />
comparsa l’immagine della macchina. La<br />
locomotiva e il dettaglio delle sue componenti<br />
tecniche assumono a loro modo la doppia<br />
connotazione di “autorità e magia” che fin<br />
dall’antichità accompagna l’immaginario della<br />
macchina5 . Accanto alla meraviglia per il<br />
funzionamento magico di macchine sofisticate si<br />
accompagna il senso di autorità per i prodotti e la<br />
loro affidabilità: l’assenza del controllo da parte<br />
dell’uomo sembra aumentare in qualche modo la<br />
veridicità dei loro risultati.<br />
79
Partenza dal porto di Genova<br />
di una locomotiva a vapore<br />
per l’Egitto, 1924<br />
81
82<br />
Stabilimento di Sesto San<br />
Giovanni, fonderia per ruote<br />
di locomotive, anni venti
L’archivio come luogo della visione<br />
Per evitare di cadere nell’interpretazione a<br />
posteriori, perdendo di vista il contesto di origine<br />
delle immagini fotografiche e le motivazioni che<br />
stanno alla base della loro produzione, è<br />
necessario saper distinguere la ricostruzione del<br />
“significato storico” del materiale fotografico<br />
dalla trasformazione che la nostra cultura visiva<br />
necessariamente imprime alle immagini. Infatti le<br />
fotografie “ben lontane dal costituire<br />
testimonianze autonome e obiettive della vicenda<br />
dell’impresa, sembrano infatti ancor più riluttanti<br />
dei documenti scritti a fornire le informazioni che<br />
si chiedono loro” 6 . A questa difficoltà risponde la<br />
funzione stessa dell’archivio: “Ai fini di un loro<br />
utilizzo come fonti storiche, è preliminare un<br />
lavoro di ricostruzione della serie, di verifica delle<br />
cronologie e di reperimento di tutte le<br />
informazioni utili riguardanti i soggetti<br />
raffigurati” 7 .<br />
Ma dal punto di vista più propriamente<br />
fotografico l’archivio è anche il risultato finale del<br />
lavoro, una realtà visiva che accompagna la storia<br />
della fotografia fin dalle sue origini. L’archivio,<br />
come luogo della collezione e della visione<br />
comparata delle immagini fotografiche, sviluppa<br />
una dialettica dell’identità e della differenza,<br />
della norma e della deviazione che mostra alla<br />
perfezione un’alternanza di economia e di<br />
immaginazione, di razionalità e di<br />
improvvisazione, di dati preesistenti e di<br />
interventi modificatori. Così intesa, la visione<br />
privilegiata dell’archivio si fonda su un’astrazione<br />
radicale che non autorizza più il sentimento<br />
immediato degli oggetti fotografati. Si tratta di<br />
una realtà complessa dove rivaleggiano l’estetica<br />
e il documentario e dove gli aspetti formali e<br />
fattuali si riconciliano.<br />
Oggetti e punti di vista<br />
Limitiamoci allora a guardare la serie “tecnica”<br />
delle componenti della locomotiva, ovvero quelle<br />
immagini che possiamo considerare a rigore<br />
come appartenenti al genere fotografico degli<br />
oggetti, mettendo per un attimo tra parentesi il<br />
contesto materiale della loro produzione. Non ci<br />
sarà difficile scorgere in queste immagini una<br />
stretta parentela con gli oggetti del movimento<br />
dadaista, da un lato, e dall’altro con lo “stile<br />
documentario” della fotografia del Novecento.<br />
“In ambito artistico il XX secolo si apre con un<br />
oggetto: un orinatoio, ribattezzato Fointaine<br />
esposto nel 1917 da Marcel Duchamp. La<br />
fotografia dell’oggetto realizzata da Alfred<br />
Stieglitz sconvolge il mondo dell’arte. Un simile<br />
oggetto assurto ad opera d’arte per il solo fatto<br />
di essere esposto, mette in discussione l’ordine<br />
83
84<br />
borghese e annuncia i mutamenti del nuovo<br />
secolo” 8 . Trapiantato e privato delle finalità che gli<br />
sono proprie, l’oggetto tecnico rivela potenzialità<br />
estetiche e significati inattesi e si espone alla<br />
possibilità di essere afferrato da un punto di vista<br />
formale. Il mondo risolutamente industriale e<br />
tecnico dei primi del secolo, popolato di<br />
manufatti, sente la fotografia come il mezzo<br />
meccanico adeguato e dunque “moderno”.<br />
Lo stile documentario<br />
Se sul versante dell’oggetto l’associazione è<br />
legittima anche da un punto di vista cronologico,<br />
sul versante dell’immagine si produce invece uno<br />
spostamento. Nelle serie “tecnica” riconosciamo<br />
una tendenza più tarda della fotografia. Lo “stile<br />
documentario” si afferma come tale verso la<br />
prima metà del Novecento e trova negli anni<br />
sessanta, nella fotografia dei Becher, la sua più<br />
consapevole applicazione all’oggetto tecnico9 .<br />
Questa concezione della fotografia, detta anche<br />
“nuova oggettività” fu spesso assimilata in sede<br />
critica alla fotografia concettuale. In realtà i<br />
Becher, contrapponendosi alla tendenza della<br />
“fotografia soggettiva” in cui le proprietà<br />
estetiche dell’immagine trionfano sul contenuto,<br />
si richiamano esplicitamente alla fotografia<br />
industriale dei primi del secolo. Ma vedere le<br />
analogie è utile soprattutto per riconoscere le<br />
differenze. Serve infatti ricordare che l’intenzione<br />
è ciò che differenzia lo stile documentario in<br />
fotografia dall’arte concettuale, così come è<br />
sempre l’intenzione che inesorabilmente<br />
distingue le immagini tecniche della Breda dal<br />
ready-made dadaista. Ciò che vale per la<br />
fotografia non è un oggetto qualunque,<br />
intercambiabile ad effetto, ma quell’oggetto in<br />
particolare, la sua forma specifica. In fin dei conti<br />
non è del tutto sbagliato il giudizio dei detrattori,<br />
che vedono nell’uso documentario della<br />
fotografia, sia esso espressione della professione<br />
o della ricerca, la sua condanna al ruolo di puro<br />
“inventario visivo”. Questa critica in realtà mette<br />
in luce un fatto incontestabile al quale si è<br />
accennato all’inizio: l’uso documentario della<br />
fotografia mostra i suoi limiti di fronte alla<br />
complessità della realtà industriale. Poiché se è<br />
possibile rendere “oggettivamente” la sua<br />
struttura tecnica altrettanto non si riesce a fare<br />
per quella sociale ed economica.<br />
Come si è visto, le pubblicazioni celebrative della<br />
Breda sembrano condividere l’idea che, se il<br />
dettaglio isolato può essere colto da una visione<br />
obiettivante, la totalità, dalla quale gli oggetti<br />
isolati traggono la loro funzione e la loro<br />
rilevanza, sfugge alla rappresentazione<br />
fotografica. È interessante notare come questa<br />
opinione ricordi il dibattito di natura scientifica
In senso orario:<br />
oliatore, lanterna, secchio,<br />
pala, scovolino e imbuto per<br />
l’olio,<br />
fondo di un cilindro,<br />
testa e croce di un raccordo<br />
biella cilindro,<br />
leva inversione di marcia,<br />
attrezzi fuochista<br />
85
86<br />
In senso orario:<br />
assale, raccordo<br />
scappamento camera fumo,<br />
componente camera fumo,<br />
coperchio della camera fumo
che, tra la fine dell’Ottocento e i primi del<br />
Novecento, si svolge sul ruolo del “meccanismo”<br />
e il suo rapporto con la”macchina” 10 .<br />
Fotografia senza autore<br />
“Gli oggetti che ci interessano hanno in comune di<br />
essere stati concepiti senza considerazione alcuna<br />
per le proporzioni e le strutture ornamentali. La<br />
loro estetica è caratterizzata dal fatto di essere stati<br />
creati senza intenzione estetica” 11 . Possiamo<br />
prendere a prestito questa affermazione<br />
programmatica dei Becher per descrivere la nostra<br />
“serie tecnica”. Le immagini esprimono bene il<br />
fascino che il mondo delle cose esercita sul<br />
fotografo intento a riprodurre, a fissare gli oggetti,<br />
grazie al mezzo fotografico, secondo un processo<br />
dove gli elementi estranei non devono avere, per<br />
così dire, parte alcuna. In queste immagini il solo<br />
procedimento autorizzato per il fotografo consiste<br />
nell’isolare l’oggetto dalla realtà circostante. Una<br />
sorta di operazione di astrazione, in quanto nel<br />
mondo gli oggetti si trovano tra di loro variamente<br />
compromessi. L’intervento, che il fotografo realizza<br />
grazie a una serie di accorgimenti tecnici, è<br />
necessario per ottenere quella che si pensa essere<br />
una “visione chiara” della loro forma, premessa<br />
necessaria al loro riconoscimento in quanto tali.<br />
“La tecnica non ha bisogno di essere interpretata,<br />
s’interpreta da sola. È sufficiente scegliere gli<br />
oggetti, metterli in immagine con precisione, e gli<br />
oggetti raccontano da se stessi la loro storia” 12 .<br />
Nell’oggetto tecnico la funzione è evidente e lo<br />
stile documentario vuole una fotografia senza<br />
autore. Ma è vero che la tecnica si interpreta da<br />
sola? Non è certo la tecnica sotto forma dei suoi<br />
oggetti (ruote, trasformatori, sospensioni, giunti,<br />
boccole ecc.) che le fotografie rendono visibili.<br />
Queste immagini non rendono semplicemente la<br />
realtà e neppure la interpretano ma è vero<br />
piuttosto che la realtà diventa sempre più simile a<br />
ciò che l’immagine fotografica mostra: “La<br />
fotografia porta in sé ciò che noi sappiamo del<br />
mondo accettandolo quale la macchina lo<br />
registra” 13 .<br />
Oggi, nel considerare queste immagini nel loro<br />
insieme, abbiamo la sensazione che il tempo abbia<br />
operato un notevole cambiamento di senso, là<br />
dove la valorizzazione della forma si è andata<br />
sostituendo all’aspetto documentario, fino ad<br />
occultarlo quasi del tutto. La funzione<br />
documentaria è venuta meno assieme alla<br />
funzione d’uso degli oggetti, lasciando spazio al<br />
sorgere della forma e con essa alla nostra reazione<br />
estetica. Il risultato estetico di questa serie di<br />
fotografie sotto il nostro sguardo è tale che viene<br />
da ricordare un’affermazione di Klee secondo la<br />
quale “l’arte non riproduce il visibile ma rende<br />
visibile” 14 .<br />
87
88<br />
1. Sylvie Aubenas, Dominique Versavel, Objets dans l’objectif,<br />
Sceren-Cndp, Paris 2005, p. 16.<br />
2. Didier Aubert, Photographie et utopie industrielle, “Revue<br />
française d’études américaines”, 89, 2001/3.<br />
3. Queste ultime, in particolare, sono state messe in luce<br />
grazie alla preziosa guida di Rosaria Moccia nella visione delle<br />
fotografie dell’Archivio storico Breda.<br />
4. Il termine, usato qui in modo del tutto disinvolto, rimanda<br />
sia all’ermeneutica di Paul Ricoeur sia alle riflessioni<br />
filosofiche di Aldo Gargani sul rapporto tra “linguaggio e<br />
tecnica”: “Nell’esperienza scientifica l’elemento estetico<br />
assume un particolare valore a proposito della ‘metafora viva’,<br />
di quel processo in base al quale solo in presenza di una<br />
nuova rappresentazione metaforica di un certo fenomeno di<br />
una certa realtà noi accediamo ad un’inedita conoscenza di<br />
quel fenomeno e di quella realtà” (Aldo Giorgio Gargani, Il<br />
testo del tempo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 7-8).<br />
5. Si veda Renato Betti, Macchina, in Enciclopedia, vol. 8,<br />
Einaudi, Torino 1979, in particolare il paragrafo I.1. Autorità e<br />
magia, pp. 607-608.<br />
6. Riferimento fondamentale a questo proposito resta il testo<br />
di Duccio Bigazzi, Gli archivi fotografici e la storia<br />
dell’industria, “Archivi e imprese”, 8, 1993, p. 11.<br />
7. D. Bigazzi, Gli archivi, cit., p. 17.<br />
8. S. Aubenas, D. Versavel, Objets dans l’objectif, cit., p. 20.<br />
9. Per la storia e l’estetica dello “stile documentario” si veda Olivier<br />
Lugon, Le stile documentaire, Macula, Paris 2001.<br />
10. Cfr. F. Reuleaux, cit. in R. Betti, Macchina, cit., in particolare il<br />
paragrafo I.6. La geometria delle macchine. Col termine di meccanismo<br />
si intendono quegli elementi “che non hanno una destinazione<br />
propria, diversa da quella […] di concorrere al funzionamento<br />
complessivo della macchina”. Le descrizioni “geometriche” che<br />
vedono la macchina come “un montaggio di pezzi”, lasciano<br />
insoddisfatto Reuleaux, autore di uno dei più noti testi sulle macchine<br />
di fine Ottocento:“esse sono intieramente o preponderatamente di<br />
natura descrittiva; l’essenziale si trova esposto come accessorio”.<br />
L’obiettivo è raggiungere una descrizione che sappia ricomporre la<br />
separazione tra gli aspetti pratici della costruzione e gli aspetti teorici<br />
del progetto che veda la macchina come “un insieme di corpi resistenti<br />
disposti in modo da obbligare col loro mezzo le forze meccaniche<br />
naturali ad agire secondo movimenti determinati” (pp. 617-620).<br />
11. Così si esprimono Bernd e Hilla Becher nel 1969. La citazione<br />
è tratta dal retro di copertina del catalogo della mostra Bernd et<br />
Hilla Becher, Centre Pompidou, Paris 2004. Sculture anonime è il<br />
titolo del saggio che i Becher pubblicano nel catalogo della loro<br />
esposizione di Düsseldorf del 1969, una delle più note raccolte<br />
delle loro foto di “oggetti” tecnici, volendo così sottolineare la<br />
differenza di fondo rispetto alle “sculture involontarie” della<br />
fotografia surrealista.<br />
12. Michael Köhler, Interview mit Bernd und Hilla Becher, 1989,<br />
cit. in Armin Zweite, Bernd et Hilla Becher: “Proposition pour une<br />
façon de voir”. 10 perspectives, in Bernd et Hilla Becher, cit., p. 9.<br />
13. Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1978, p. 22.<br />
14. Cit. in A. Zweite, Bernd et Hilla Becher: “Proposition pour<br />
une façon de voir”, cit., p. 9.
A sinistra:<br />
valvola coale per lo sfogo<br />
vapore<br />
A destra:<br />
martinetto sollevatore<br />
per locomotive<br />
89
90<br />
G. Broglio (attribuito),<br />
progetto per l’edificio di<br />
ingresso e la direzione della<br />
Breda a Sesto San Giovanni,<br />
1916<br />
<strong>LA</strong> STORIA<br />
Urbanistica<br />
e architettura di fabbrica alle<br />
origini di Sesto industriale<br />
Cecilia Colombo
“Nel loro complesso i tre stabilimenti di proprietà<br />
della Società Breda occupano ora oltre 456.000<br />
mq di area, dei quali 97.000 coperti; anzi,<br />
essendo alcuni fabbricati a due piani, l’area<br />
coperta utilizzata è effettivamente di mq<br />
105.000. Queste officine dispongono<br />
complessivamente di 4000 cavalli di forza<br />
installata, distribuita sotto forma di corrente<br />
elettrica mediante 12 km di linee. Sono servite<br />
da 19 km di binario a scartamento normale,<br />
utilizzati parte per montaggi, parte per manovre<br />
e depositi. Dispongono di circa 1400 macchine<br />
utensili; di 27 gru a ponte e di 7 carri di<br />
trasbordo. Danno lavoro complessivamente a<br />
circa 4500 operai”. Così l’entusiastica<br />
enumerazione della “potenza” aziendale Breda<br />
nel 1908, anno della millesima locomotiva1 .<br />
L’arrivo della Breda a Sesto (1903) inaugura una<br />
stagione del tutto nuova nel processo di<br />
industrializzazione del territorio: quella dei grandi<br />
complessi produttivi, che nel giro di pochi anni<br />
(la Ercole Marelli si insedia nel 1905, la A.F.L.<br />
Falck nel <strong>1906</strong>) trasformano radicalmente il<br />
paesaggio urbano e sociale. Una<br />
industrializzazione esogena, prodottasi a causa di<br />
fenomeni non legati alla storia locale ma<br />
dipendenti dalle dinamiche dello sviluppo<br />
economico della città di Milano.<br />
Numerose indagini di storia economica,<br />
sociologia urbana, archeologia industriale hanno<br />
ormai tracciato con chiarezza il quadro della<br />
particolarissima città-fabbrica di Sesto2 . Si vuole<br />
qui fornire una sintesi davvero rapida, una<br />
veduta panoramica della nascita di questa<br />
“Stalingrado d’Italia”, che nella seconda metà<br />
dell’Ottocentoo passa da piccolo centro agricolo<br />
– con attività manifatturiere legate al settore<br />
tessile, in particolare filatura e torcitura della seta<br />
– a snodo di importanti vie di comunicazione:<br />
una linea ferroviaria internazionale (la linea<br />
cruciale del Gottardo, aperta nel 1882 saldandosi<br />
alla Milano-Monza, tratta “antesignana” della<br />
rete italiana) cui si collega un proprio scalo merci<br />
(costruito a partire dal 1885) e un servizio di<br />
trasporto locale (la tramvia a cavalli per Milano,<br />
elettrificata nel 1901), offrendo così le condizioni<br />
ideali per lo sviluppo.<br />
Nei tardi anni ottanta infatti compaiono le prime<br />
fabbriche metallurgiche (carpenterie in ferro,<br />
lattonieri) di iniziativa locale, che mettono in luce<br />
la vocazione di Sesto come bacino di raccolta di<br />
manodopera dalla popolosa area prealpina.<br />
Cecilia Colombo,<br />
storica dell’architettura e del<br />
disegno industriale, insegna<br />
storia dell’architettura<br />
all’Università degli studi<br />
di Milano<br />
91
Manodopera rigettata dalle ricorrenti crisi<br />
agricole, il cui basso costo suona come un invito<br />
assai allettante per gli imprenditori milanesi. I<br />
quali, secondo un preciso piano di<br />
allontanamento dell’industria pesante dal centro<br />
città, ben presto iniziano trasferire a Sesto le loro<br />
produzioni. La comodità dei collegamenti con il<br />
capoluogo, poi, facilita gli spostamenti del<br />
personale dirigente e tecnico e le comunicazioni<br />
con le sedi di rappresentanza rimaste in centro.<br />
Il primo tra questi insediamenti “non serici” di<br />
provenienza milanese è certo l’Osva - Officine di<br />
Sesto San Giovanni Valsecchi Abramo,<br />
impiantato nel 1891; una fonderia e smalteria<br />
che produce rubinetterie e attrezzature sanitarie.<br />
Con il nuovo secolo – e con la trasportabilità<br />
dell’energia elettrica su larga scala – entrano in<br />
scena anche la meccanica e la siderurgia. Il ritmo<br />
della crescita è martellante: oltre alla Breda, nel<br />
1903 apre la Campari; nel 1905, oltre alla Marelli<br />
aprono le fonderie Attilio Franco e Luigi Balconi,<br />
le Pompe Gabbioneta, le Corderie e trafilerie<br />
Spadaccini, le officine Menin; nel <strong>1906</strong> la Falck,<br />
nel 1907 il Laminatoio Nazionale, nel 1909 le<br />
distillerie Moroni, e così via, solo per citare le più<br />
note in una costellazione di grandi e piccole<br />
imprese che procedono poi, tra fusioni,<br />
acquisizioni e filiazioni, verso la definizione dei<br />
grandi gruppi industriali moderni. Non bisogna<br />
inoltre dimenticare la Pirelli, che sebbene<br />
Stabilimento Breda Milano,<br />
inizio Novecento<br />
93
94<br />
Veduta degli stabilimenti<br />
Breda di Milano, Sesto San<br />
Giovanni e Niguarda, fine<br />
anni dieci<br />
localizzata in territorio milanese gravita sul polo<br />
urbano di Sesto ben prima di occuparne una<br />
fetta nel 19323 .<br />
La localizzazione di queste imprese segue<br />
“naturalmente” quella delle infrastrutture,<br />
dapprima il tracciato del vialone asburgico tra<br />
Milano e Monza e poi, con il comparire<br />
dell’industria pesante, la linea ferroviaria e le sue<br />
possibili diramazioni. Gli industriali milanesi si<br />
procurano facilmente i terreni ex agricoli ubicati<br />
lungo la ferrovia, attraverso alcune società<br />
immobiliari appositamente costituite unendo i loro<br />
capitali a quelli della proprietà fondiaria, di banche<br />
e gruppi finanziari interessati ai futuri investimenti
immobiliari. Due di queste, in particolare,<br />
condizionano l’urbanistica sestese, come nuclei dei<br />
successivi sviluppi, rispettivamente, delle aree<br />
Breda-Pirelli e Falck: la SAQINM e la SA Milano4 .<br />
La prima studia un progetto di quartiere<br />
industriale per 5 milioni di mq tra Milano e<br />
Monza, da costruirsi lungo un ampio viale, un<br />
moderno “asse attrezzato” corrispondente alla<br />
direttrice di viale Zara; la seconda procede<br />
all’acquisto di vastissime aree a est della ferrovia e<br />
alla stesura di un piano di espansione urbana<br />
lungo l’asse obliquo di viale Italia.<br />
In molti casi il trasloco a Sesto, con la costruzione<br />
dei nuovi impianti, è l’occasione per un<br />
ragguardevole ammodernamento produttivo<br />
dell’azienda, un aggiornamento tecnologico e<br />
igienico (secondo le regole sempre più severe<br />
dettate dalle compagnie di assicurazione). La<br />
soddisfazione per la “qualità” dei nuovi ambienti<br />
di lavoro emerge dal confronto con i vecchi<br />
spazi: “All’Elvetica5 si scorge lo studio e la<br />
preoccupazione di usufruire nel miglior modo del<br />
poco spazio disponibile, di godere ogni angolo,<br />
ogni vano. I cortili sono quasi soppressi, i<br />
magazzini ridotti al minimo […] A Sesto invece è<br />
caratteristica la regolarità e l’uniformità dei<br />
fabbricati, costruiti secondo un piano preordinato<br />
e separati da vasti piazzali. Le tettoie sono tutte<br />
con ossatura di ferro, coperte a sheds, con ampi<br />
lucernari che diffondono una luce uniforme e<br />
copiosa. […] La sala per la lavorazione meccanica<br />
del legno è dotata del più moderno macchinario<br />
e l’ambiente è mantenuto pulito e scevro di<br />
polvere mediante l’aspirazione meccanica dei<br />
trucioli” 6 .<br />
Quanto ai tipi architettonici degli edifici<br />
industriali, se nell’Ottocento prevaleva quello di<br />
95
96<br />
Planimetria dello<br />
stabilimento Breda di Sesto<br />
San Giovanni, dal volume<br />
Per la millesima locomotiva,<br />
1908
Progetto di ampliamento<br />
degli stabilimenti Breda di<br />
Sesto San Giovanni, anni<br />
venti<br />
97
98<br />
ordinarie costruzioni a più piani, che si<br />
susseguivano lungo il fronte stradale, il nuovo<br />
paesaggio urbano sestese è caratterizzato da<br />
immense fabbriche sviluppate in orizzontale, da<br />
cui spuntano qua e là esili ciminiere. Dietro<br />
lunghi, monotoni muri perimetrali interrotti solo<br />
dagli ingressi e dalle facciate delle palazzine<br />
direzionali, ingentiliti da qualche elemento<br />
architettonico vagamente modernista, si osserva<br />
il ripetersi invariato dei capannoni a shed,<br />
collegati da una rete interna di percorsi<br />
intrecciati: binari, strade, passerelle. Dietro quei<br />
muri, a partire dal grande impulso ricevuto dalle<br />
commesse belliche e fino a tutti gli anni trenta, si<br />
organizzano le cittadelle aziendali Breda, Falck,<br />
Marelli, Pirelli.<br />
Difficile trovare la firma di un progettista: queste<br />
cattedrali della produzione – di cui pochissime<br />
testimonianze sopravvivono oggi, molto alterate<br />
– sono per lo più anonime, disegnate<br />
verosimilmente dagli uffici tecnici7 o ancor più<br />
semplicemente dalle stesse imprese edili che ne<br />
ricevono la commessa.<br />
I capannoni utilizzano strutture in acciaio o in<br />
cemento armato e coperture metalliche, con i<br />
caratteristici lucernari degli sheds orientati verso<br />
nord. I più imponenti, come la Breda locomotive,<br />
hanno travi a traliccio in cemento armato anche<br />
per la copertura. Le pareti in semplici mattoni,<br />
spesso lasciati a vista, si aprono con sequenze di<br />
finestroni ad arco ribassato.<br />
“L’architettura è per il 90% business e per il<br />
10% arte”, amava dire Albert Kahn, l’architetto<br />
delle grandi compagnie automobilistiche<br />
statunitensi, da Packard a General Motors,<br />
Dodge e Ford – per la quale disegnerà più di<br />
mille edifici8 . Negli anni in cui sorgono i<br />
capannoni sestesi, Kahn introduce negli Usa la<br />
maglia strutturale in cemento armato (già<br />
conosciuta in Europa) e realizza stabilimenti<br />
luminosi, puliti, funzionali, che ospitano le prime<br />
catene di produzione fordiste; edifici dominati<br />
dalla razionalità, dal controllo della sequenza<br />
spaziale in base alle fasi produttive. E se non si<br />
può affermare lo stesso per gli impianti di Sesto,<br />
dove l’edificazione è graduale, dettata<br />
soprattutto dalle contingenze (ad esempio le<br />
cospicue commesse ferroviarie, l’aggiunta di una<br />
linea produttiva o di una lavorazione prima data<br />
all’esterno, l’ampliamento dei magazzini),<br />
l’estensione del costruito (tra il 1903 e il 1911<br />
Sesto è il sito con la più rapida e la più vasta<br />
industrializzazione in Europa) indica che un<br />
richiamo ai grandi distretti industriali di Detroit<br />
non è certo azzardato.<br />
Circondano i grandi impianti, e qualificano nel<br />
tempo il tessuto urbano sestese, i numerosi<br />
quartieri residenziali e servizi per i dipendenti,<br />
voluti dalle imprese anche di medie dimensioni
fin dai primi anni del secolo, concepiti nell’ottica<br />
paternalistica per stabilizzare e “fidelizzare” la<br />
manodopera. Anche sui villaggi operai di Sesto,<br />
che a differenza dei capannoni restano oggi in<br />
gran parte riconoscibili, gli studi sono numerosi9 :<br />
basti qui ricordare che essi si inseriscono a pieno<br />
titolo nell’ampio dibattito apertosi sul tema<br />
dell’alloggio popolare agli inizi del Novecento10 ,<br />
terreno di sperimentazioni tipologiche e<br />
tecnologiche. Soprattutto occorre menzionare –<br />
oltre al villaggio Falck, sorto negli anni venti a<br />
partire da alcune prime case del <strong>1906</strong>-08 –<br />
l’opera di Giovanni Broglio, all’epoca l’unico<br />
professionista veramente specializzato nel settore<br />
Stabilimento Breda Milano,<br />
vista dall’alzaia Martesana,<br />
dal catalogo dell’Esposizione<br />
internazionale di Milano<br />
del <strong>1906</strong><br />
99
100
grazie alla sua formazione presso la milanese<br />
Società Umanitaria11 . Già dal 1910 egli firma le<br />
realizzazioni Breda: in tutto sei caseggiati a più<br />
piani, alcuni villini per impiegati e il dormitorio<br />
operaio. Certo per il tramite di Broglio, che dal<br />
1913 è il primo direttore tecnico dell’Iacp<br />
milanese, la Società Breda entra nelle<br />
partecipazioni azionarie dello stesso Iacp,<br />
contribuendo alla realizzazione dei numerosissimi<br />
quartieri popolari della metropoli da lui diretti<br />
fino al 1934, compreso il borgo Pirelli alla<br />
Bicocca. L’attenta composizione spaziale,<br />
l’economia costruttiva, il dignitoso decoro che i<br />
suoi edifici felicemente coniugano rappresentano<br />
tuttora il volto non solo dei quartieri di Sesto, ma<br />
di intere zone di Milano.<br />
Infine, se tra gli interventi architettonici più<br />
qualificati nel panorama dell’architettura di<br />
fabbrica a Sesto, di solito riservati ai luoghi<br />
rappresentativi e alle attività direzionali, è<br />
d’obbligo citare la “fabbrica firmata” 12 della<br />
Campari di Luigi Perrone (1904), ancora una<br />
volta è da ricordare il Broglio. Negli anni<br />
immediatamente precedenti il primo conflitto<br />
mondiale progetta la sede dell’Istituto tecnico<br />
scientifico Ernesto Breda (inaugurato nel 1920),<br />
nato per le prove metallografiche dei prodotti<br />
Breda ed evolutosi come centro di ricerca<br />
tecnologica sui materiali. Un edificio<br />
monumentale ma al contempo semplice e<br />
austero, impostato su sequenze di grandi<br />
finestrature e senza troppe concessioni al<br />
decorativismo eclettico. Nello stesso periodo<br />
disegna anche un’imponente serie di edifici per<br />
“ingresso e direzione stabilimento di Sesto S.G.”<br />
come testimonia la foto di un suo bel disegno13 .<br />
Si tratta di un progetto grandioso e forse, visto il<br />
tono accademico che esprime, mai<br />
effettivamente destinato all’esecuzione.<br />
L’architettura di fabbrica è nobilitata, i capannoni<br />
gerarchicamente sottomessi a una lunga cortina<br />
di edifici, alternati a portici e preceduti da<br />
un’ampia “corte d’onore” con aiuole e fontane:<br />
una improbabile, ma seducente, Versailles della<br />
meccanica.<br />
1. Per la millesima locomotiva, Sieb, Milano 1908, p. 21.<br />
2. Ad esempio: Alberto Bassi, schede in AA.VV, I monumenti<br />
storico industriali della Lombardia. Censimento regionale,in<br />
“Quaderni di documentazione regionale”, 166, 1977;<br />
Gianfranco Petrillo (a cura di), La città delle fabbriche: Sesto<br />
San Giovanni, 1880-1945, Istituto milanese per la storia della<br />
resistenza e del movimento operaio, Sesto San Giovanni 1978;<br />
Alberto Bassi, Per una storia dell’architettura di fabbrica e<br />
dell’abitazione operaia a Sesto San Giovanni. Ricostruzione<br />
documentaria e fonti iconografiche, tesi di laurea, Università<br />
degli studi di Milano, a.a. 1982-83; Luigi Trezzi (a cura di),<br />
Sesto San Giovanni 1880-1921. Economia e società: la<br />
trasformazione, Banca di credito cooperativo, Sesto San<br />
Stabilimento Breda<br />
Sesto San Giovanni, carrello<br />
trasbordatore dei veicoli,<br />
dal catalogo dell’Esposizione<br />
internazionale di Milano<br />
del <strong>1906</strong><br />
101
102<br />
Giovanni 1997; Athos Geminiani (a cura di), Il Novecento a<br />
Sesto San Giovanni. Il secolo delle trasformazioni tra cronaca e<br />
storia, vol. I: 1898-1920, Pezzini, Viareggio 2000; Isec (a cura<br />
di), La città delle fabbriche. Viaggio nella Sesto San Giovanni<br />
del ‘900, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 2002.<br />
3. Con la fondazione nel 1934 della Sapsa (Società anonima<br />
prodotti Sapsa e affini), ditta sorta nel 1929 come Salpa (S.A.<br />
lavorazioni pelli e affini) e acquisita dalla Pirelli per la<br />
produzione della gommapiuma, il cui vasto stabilimento<br />
presenta una palazzina uffici firmata, sembra, da Giuseppe<br />
Pagano. Cfr. M. Fratelli, Sapsa, 1929, in Antonello Negri (a cura<br />
di), La fortuna del moderno, Edifir, Firenze 1992, pp. 84-86;<br />
Isec (a cura di), La città delle fabbriche, cit., p. 48.<br />
4. Per la SAQINM, Società anonima quartiere industriale nord<br />
Milano, si veda Un nuovo grande quartiere a Milano, in “Le<br />
case popolari e le città giardino”, 6, I, 1909.<br />
5. È il nome dello stabilimento Breda di Milano, in via<br />
Melchiorre Gioia.<br />
6. Per la millesima locomotiva, cit., p. 20. Vedi anche<br />
Esposizione di Milano <strong>1906</strong> Stabilimenti della società, Sieb,<br />
Milano <strong>1906</strong>.<br />
7. Ad esempio Alberto Bassi, in Insediamenti operai a Sesto<br />
San Giovanni, in AA.VV., Archeologia industriale: indagini sul<br />
territorio in Lombardia e Veneto, Unicopli, Milano 1989, p.<br />
202, individua una possibile attribuzione degli edifici per la<br />
Falck all’ingegnere Amilcare Mella, direttore dell’ufficio<br />
tecnico della società.<br />
8. Su Kahn, cfr. Federico Bucci, L’architetto di Ford: Albert Kahn e<br />
il progetto della fabbrica moderna, CittàStudi Edizioni, Milano<br />
1991; L. Bergeron, M.T. Maiullari-Pontois, The factory<br />
architecture of Albert Kahn, in “Architecture Week”, 25, 2000, p.<br />
C1.1.<br />
9. Si vedano gli studi citati in nota 2.<br />
10. In particolare dopo l’approvazione della legge Luzzatti del<br />
1903 che assegna fondi e facilitazioni fiscali a quegli enti,<br />
pubblici o privati, che promuovono l’edilizia popolare.<br />
11. Per una biografia di Broglio, cfr. Ornella Selvafolta, La<br />
Società Umanitaria e le case popolari a Milano 1900-1910,in<br />
“Storia Urbana”, 11, 1980, pp. 29-65.<br />
12. La definizione è in A. Bassi, Insediamenti operai, cit., p.<br />
199. Qui Perrone, architetto di stampo storicista, più<br />
facilmente impiegato nei restauri o negli edifici del centro,<br />
propone un’elegante interpretazione del “neoromanico dei<br />
servizi” di ascendenza boitiana per la facciata, oltre a<br />
un’innovativa soluzione costruttiva in cemento armato per il<br />
salone di lavorazione.<br />
13. La fotografia, inedita, siglata da Broglio sul bordo, è<br />
incollata su un cartoncino con dedica all’ingegner Radice, un<br />
dirigente della Breda: “all’Egr. Ing. Radice con tanti auguri/ G.<br />
Broglio/ 1 gennaio 1916”; tuttavia è archiviata con la dicitura<br />
“G. Brioschi”, che io credo sia un’errata traslitterazione della<br />
firma.
SGUARDI SUL TRENO<br />
Locomotiva/ferrovia/stazione:<br />
e il cinema fu<br />
Antonio Costa<br />
Antonio Costa<br />
è professore ordinario<br />
di storia del cinema<br />
alla facoltà di design e arti<br />
dell’Università Iuav<br />
di Venezia<br />
103
104<br />
“Neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate<br />
delle locomotive”. È questa una delle prime<br />
immagini che Marinetti getta in faccia al lettore nel<br />
Manifesto di fondazione del futurismo (1909). Ma<br />
già da quattordici anni, i fratelli Lumière avevano<br />
lanciato dal loro schermo, su spettatori incantati e<br />
impauriti, una locomotiva in corsa: L’Arrivée d’un<br />
train à la Ciotat (1895). Stupore e meraviglia, come<br />
riferirono i cronisti, avevano suscitato le prime<br />
vedute dei fratelli Lumière. Ci fu chi, in La sortie<br />
d’usine, trovò incredibile la quantità di operai che<br />
potevano stare in un’unica inquadratura ("in<br />
cinquanta secondi passano per quella porta<br />
proiettata sullo schermo più di cento personaggi").<br />
E chi, in Repas du bébé, notò le foglie mosse dal<br />
vento. Molti si divertirono alla gag di Arroseur et<br />
arrosé. Ma fu il treno che si impose come<br />
protagonista della nuova mitologia delle immagini<br />
in movimento. Il cinema irruppe nella storia in<br />
treno. E in treno attraversò di prepotenza il confine<br />
tra i due secoli.<br />
Lo sguardo è mobile<br />
Forse fu una leggenda metropolitana la notizia del<br />
pubblico che scappava terrorizzato per timore che<br />
la locomotiva precipitasse dallo schermo nella sala.<br />
Ma cosa importa? Come trovata pubblicitaria<br />
funzionava. Nell’immaginario collettivo le origini<br />
del cinema sono un treno, una stazione, un<br />
binario, dei passeggeri. Questa è la scena primaria.<br />
E il treno ricambiò il favore permettendo alla<br />
cinepresa di mettersi in marcia: Panorama pris<br />
d’un train en marche (1898) di Georges Méliès. La<br />
straniante immagine della locomotiva precipitata<br />
in strada dopo aver sfondato la vetrata di Gare de<br />
Montparnasse (1895) trovò di lì a qualche anno<br />
una sorta di replica nel fantastico flamboyant di<br />
Méliès: Voyage à travers l’impossible (1904). Tra<br />
cinema e treno c’è un legame che va ben oltre<br />
l’ambientazione ferroviaria di molte pellicole delle<br />
origini, dai fratelli Lumière a The Great Train<br />
Robbery (1903) di Edwin S. Porter. Il treno ha<br />
modificato la nostra esperienza percettiva e,<br />
quindi, la nostra idea di spazio e di tempo. Il<br />
cinema non ha fatto altro che procedere nella<br />
stessa direzione. Ancor prima della sua invenzione,<br />
i luoghi di divertimento offrivano la simulazione di<br />
vedute dal (finto) finestrino di un treno, come<br />
accade nella sequenza del Prater di Lettera da una<br />
sconosciuta (Letter from an Unknown Woman,<br />
1948) di Max Ophuls. Sul ruolo che la<br />
combinazione tra cinema e treno ha avuto nella<br />
storia dell’esperienza estetica novecentesca hanno<br />
scritto pagine importanti Schivelbusch [1977],<br />
Kern [1933] e Ceserani [2002]. I teorici del<br />
cinema, da parte loro, hanno lavorato sulle<br />
implicazioni di tale combinazione. Jacques<br />
Aumont ha parlato di “mobilitazione dello
sguardo” [1989] e Noël Burch di “viaggio<br />
immobile” [1991]. Per quanto il futurismo abbia<br />
poi finito per preferire l’individualismo anarchico<br />
dell’automobile e dell’aeroplano [Ceserani 2002,<br />
pp. 266-267] le suggestioni plastiche e visive del<br />
treno saranno ben presenti nel cinema europeo<br />
degli anni venti. La Roue (La rosa sulle rotaie,<br />
1923) di Abel Gance, nonostante una forte<br />
componente convenzionalmente melodrammatica,<br />
offre un vasto repertorio di variazioni sui temi della<br />
velocità, dell’acciaio, della macchina [Canudo<br />
1995, pp. 197-199]. Inoltre, Berlin: die Sinfonie<br />
der Großstadt (1927) di Walter Ruttmann si apre<br />
con una serie di riprese da un treno che penetra<br />
nel cuore della città. Suggestivi effetti visivi legati<br />
al viaggio in treno marcano alcuni passaggi di Le<br />
Feu Mathias Pascal (1925) che Marcel L’Herbier ha<br />
ricavato dal romanzo di Pirandello. Gance e<br />
L’Herbier usano il treno sia in funzione narrativa,<br />
sia plastica e simbolica (Je change de train, dice il<br />
Mathias Pascal di L’Herbier, compiendo una sorta<br />
di enigmatico balletto tra i binari della stazione). E<br />
la funzione simbolica del treno (il destino che<br />
irrompe nella vita degli uomini) è riproposta in altri<br />
film degli anni venti: da Scherben di Lupu-Pick<br />
(che in italiano diventa La rotaia) a Rotaie (1930)<br />
di Mario Camerini. Indimenticabile è la sagoma<br />
nera della locomotiva che, al deposito bagagli<br />
della stazione, incombe sul corpo piegato del<br />
protagonista di Der Letzte Mann (L’ultimo uomo,<br />
1924) di Murnau. Treno non significa solo<br />
locomotiva, vagoni illuminati che sfrecciano nella<br />
notte, paesaggi visti dal finestrino: ci sono anche le<br />
stazioni ferroviarie con le loro architetture, orologi,<br />
vetrate, semafori e altoparlanti, pannelli degli orari e<br />
con la loro ambiance sonora. Era quindi inevitabile<br />
che determinate funzioni narrative, che<br />
appartengono alla fiaba non meno che all’epica e al<br />
romanzo, quali partenza, distacco, viaggio dell’eroe,<br />
ricongiunzione, trovassero nel dispositivo ferroviario<br />
uno scenario ideale: da Breve incontro (Brief<br />
Encounter, 1945) di David Lean a Stazione Termini<br />
(1953) di De Sica, da Lo scambista (De<br />
Wisselwachter, 1986) di Jos Stelling a La stazione<br />
(1990) di Sergio Rubini [per un esauriente, e<br />
illustratissimo, repertorio di film sul rapporto<br />
treno/cinema vedi Scanarotti 1997].<br />
Ventesimo secolo<br />
Ventesimo secolo (Twentieth Century, 1934) di<br />
Howard Hawks è un titolo eccellente per<br />
ricordare che il treno non solo percorre l’intera<br />
storia del cinema, ma attraversa anche tutti i<br />
generi. Twentieth Century è il nome di un treno<br />
di lusso in cui un produttore teatrale (John<br />
Barrymore) incontra per caso la ex moglie (Carole<br />
Lombard), diventata una star di Hollywood. Il<br />
treno è un luogo ideale per far cominciare uno<br />
105
106<br />
dei classici della commedia sofisticata che è anche<br />
una riflessione sui rapporti tra teatro e cinema.<br />
Proprio in un treno si svolge la parte più<br />
decisamente sbilanciata in direzione della<br />
sophisticated comedy di Intrigo internazionale<br />
(North by Northwest, 1959) di Alfred Hitchcock,<br />
maestro nel combinare thrilling e (sottile)<br />
erotismo. L’intera opera di Hitchcock è lì a<br />
dimostrare come il treno sia un dispositivo ideale<br />
per la produzione di suspense.<br />
Vediamo perché. Il treno viaggia oltre che nello<br />
spazio anche nel tempo: ha dei tragitti prefissati<br />
(stazioni di partenza e d’arrivo) e dei vincoli<br />
temporali (gli orari). Se poniamo mente a una<br />
delle più azzeccate definizioni di suspense<br />
(dilatazione del tempo tra due momenti<br />
obbligati), il gioco è fatto. In treno è ambientato<br />
uno dei capolavori del periodo inglese di<br />
Hitchcock: La signora scompare (The Lady<br />
Vanishes, 1938). Ma in treno si svolge anche una<br />
memorabile sequenza di Il club dei trentanove<br />
(The Thirty-Nine Steps, 1935). Del periodo<br />
americano sono Il sospetto (Suspicion, 1941), in<br />
cui tutto comincia con un formidabile duetto tra<br />
Cary Grant e Joan Fontaine in uno<br />
scompartimento di treno, e Delitto per delitto che<br />
in originale si chiama però Strangers on a Train<br />
(1951). Il fatto poi che nell’edizione francese lo<br />
stesso film si intitoli L’inconnu du Nord-Express ci<br />
ricorda come i nomi di treni (o locomotive)<br />
entrino spesso a far parte dei titoli di un film. Il<br />
primo posto spetta a The General, la locomotiva<br />
che Buster Keaton ama non meno della bella<br />
Annebelle Lee (purtroppo in italiano il titolo<br />
divenne Come vinsi la guerra, 1927). Seguono<br />
Shanghai Express (1932) di Josef von Sternberg,<br />
Assassinio sull’Orient Express (Murder on the<br />
Orient-Express, 1974) di Sidney Lumet (ma non è<br />
l’unico titolo dedicato al mitico treno), Trans-<br />
Europ-Express (1966) di Alain Robbe-Grillet. È<br />
nello scompartimento di un Orient Express tutto<br />
ricostruito in studio che i protagonisti di The Black<br />
Cat (1934) di Edgar Ulmer iniziano il loro viaggio<br />
in un vero e proprio museo degli orrori, avendo<br />
come guide Bela Lugosi e Boris Karloff (come a<br />
dire Dracula e la “creatura” di Frankenstein per la<br />
prima volta insieme). Il treno e la costruzione delle<br />
linee ferroviarie verso Ovest sono componenti<br />
essenziali del mito della frontiera. Inevitabile<br />
quindi la presenza del treno nel genere western,<br />
da Iron Horse (1924) di John Ford a La conquista<br />
del West (How the West Was Won, 1962) che,<br />
nell’episodio Railroad diretto da George Marshall,<br />
celebra la ferrovia come uno dei miti fondatori<br />
dell’epopea del West (gli altri episodi si chiamano<br />
Rivers, Plains e Outlaws). Mito che Sergio Leone<br />
non ha certo trascurato, dandoci in uno dei suoi<br />
rifacimenti iper-manieristi, la sua personale<br />
versione dell’”arrivo di un treno” (C’era una volta<br />
il West, 1968).
Trenitalia<br />
Tra i mezzi di trasporto, il cinema italiano ha<br />
privilegiato in assoluto l’automobile. La bicicletta,<br />
pur essendo diventata un emblema del<br />
neorealismo grazie al successo internazionale di<br />
Ladri di biciclette (1948), ha avuto nella corriera un<br />
importante rivale nell’iconografia dell’Italia del<br />
secondo dopoguerra. E il treno? Venendo da<br />
lontano, il mezzo ferroviario attraversa l’intera<br />
storia del cinema italiano. È il treno a compiere il<br />
passaggio dagli anni trenta al neorealismo. Due<br />
titoli, principalmente sono da citare: Treno<br />
popolare (1933) di Raffaello Matarazzo e La porta<br />
del cielo (1945) di Vittorio De Sica.<br />
Il film di Matarazzo, che a dire il vero combina il<br />
treno con la bicicletta, è un film corale che<br />
propaganda le iniziative turistico-culturali delle<br />
organizzazioni dopolavoristiche del fascismo. Il<br />
viaggio domenicale da Roma a Orvieto diventa un<br />
pretesto per una serie di ritratti di grande<br />
freschezza, ottenuti grazie all’impiego di attori non<br />
professionisti e all’attenzione riservata a<br />
comportamenti e psicologie della gente comune.<br />
Tanto è vero che in quest’opera, che segna il<br />
debutto di Matarazzo, taluno ha evidenziato<br />
anticipazioni del neorealismo. Girato da De Sica a<br />
Roma nel 1944, durante l’occupazione tedesca, La<br />
porta del cielo ebbe un’uscita alquanto fortunosa<br />
nel febbraio del 1945: il film, alla cui sceneggiatura<br />
collaborò anche Zavattini, racconta il viaggio di un<br />
treno di pellegrini verso Loreto e, nonostante una<br />
certa retorica edificante, presenta non pochi segni<br />
di quel rinnovamento in senso realistico che il<br />
cinema italiano avrebbe conosciuto di lì a poco.<br />
Insomma, il treno nel nostro cinema è, oltre che<br />
un mezzo di trasporto, un rivelatore di<br />
comportamenti individuali e collettivi. In un treno<br />
inizia e finisce il trip onirico di Fellini/Mastroianni<br />
in La città delle donne (1980), una sorta di<br />
summa di tutte le funzioni simboliche del treno<br />
(e del viaggio in territori sconosciuti). E al treno<br />
sono legate due tra le maggiori interpretazioni di<br />
Nino Manfredi, uno dei protagonisti della grande<br />
stagione della commedia all’italiana (Vittorio<br />
Gassman, al contrario, dà il meglio di sé in auto:<br />
da Il sorpasso di Dino Risi a La congiuntura di<br />
Ettore Scola). La prima è quella che Manfredi ci<br />
offre in L’avventura di un soldato, tratto da un<br />
racconto di Calvino, episodio del film collettivo<br />
L’amore difficile (1963). Vi si narra l’attrazione<br />
erotica che si stabilisce tra una giovane vedova e un<br />
soldato in licenza: tutto si svolge nello<br />
scompartimento di un treno e senza parole. La<br />
seconda è quella del personaggio di Michele<br />
Abbagnano in Café Express (1980) di Nanny Loy: vi<br />
si narrano le disavventure di un venditore clandestino<br />
di caffè sul tratto notturno da Vallo della Lucania a<br />
Napoli. Nello stesso anno in cui Loy usava un treno<br />
notturno del profondo Sud per riproporre in versione<br />
107
108<br />
incupita maschere e stereotipi della commedia,<br />
Giuseppe Bertolucci girava un documentario sulla<br />
stazione di Milano nel quale una parata di<br />
personaggi notturni faceva emergere un autentico<br />
“mondo alla rovescia” (Panni sporchi, 1980).<br />
Sui personaggi, sulle situazioni e sui comportamenti<br />
piuttosto che sulla macchina, sul dispositivo insiste il<br />
cinema italiano. In uno scompartimento di un<br />
vagone letto (Totò a colori, 1950) e in una stazione<br />
di uno sperduto paesino (Destinazione Piovarolo,<br />
1955) sono ambientate due celebri interpretazioni di<br />
Totò: se nel primo Totò irride e sbeffeggia il sistema<br />
di privilegi e sopraffazioni che nell’Italia del secondo<br />
dopoguerra trovava nei rituali del viaggio in treno<br />
uno straordinario rivelatore, nel secondo l’apparato<br />
tecnico-amministrativo delle Ferrovie dello stato<br />
permette a Totò di aggiungere al suo personaggio<br />
un’inedita coloritura, gogoliana più kafkiana.<br />
Certo, mancano nel cinema italiano opere come<br />
L’angelo del male (La bête humaine, 1938) di Jean<br />
Renoir, frutto maturo di una grande stagione,<br />
capace di dare una rappresentazione forte di<br />
caratteri e situazioni e nello stesso tempo restituire<br />
con tratti realistici e suggestivi l’universo ferroviario, il<br />
rapporto uomo-macchina, i luoghi che definiscono<br />
un senso di appartenenza e di identità sociale.<br />
Tuttavia qualche titolo almeno va ricordato: da Il<br />
ferroviere (1955), diretto e interpretato da Pietro<br />
Germi, a Cuore (1985) di Luigi Comencini. Con una<br />
certa libertà rispetto all’originale di De Amicis,<br />
Comencini ci mostra, in una stazione di Torino in cui<br />
stanno partendo i soldati per il fronte della prima<br />
guerra mondiale, uno storico abbraccio tra l’ing.<br />
Bottini (Enrico) e il fuochista Garrone accanto a una<br />
sbuffante locomotiva che non ha più niente, ma<br />
proprio niente, in comune con quella evocata<br />
qualche anno prima da Marinetti.<br />
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI<br />
Aumont, Jacques, L’œil interminable. Cinéma et peinture,<br />
Séguier, Paris 1989, tr. it. L’occhio interminabile. Cinema e<br />
pittura, Marsilio, Venezia 1991<br />
Burch, Noël, La lucarne de l’infini, Nathan, Paris 1991, tr. it. Il<br />
lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico,<br />
Pratiche, Parma 1994<br />
Canudo, Ricciotto, L’usine aux images, Édition intégrale établie<br />
par J.-P. Morel, Séguier-Arté, Paris 1995<br />
Ceserani, Remo, Treni di carta, Bollati Boringhieri, Torino 2002<br />
Kern, Stephen, The Culture of Time and Space 1980-1918,<br />
Harvard U.P., Cambridge, Mass., 1983, tr. it. Il tempo e lo<br />
spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento,Il<br />
Mulino, Bologna 1988<br />
Scanarotti, Roberto, Treno e cinema: percorsi paralleli, Le mani,<br />
Recco 1997<br />
Schivelbusch, Wolfgang, Geschichte des Eisenbahnreise, Carl<br />
Hanser Verlag, München-Wien 1977, tr. it. Storia dei viaggi in<br />
ferrovia, Einaudi, Torino 1988
SGUARDI SUL TRENO<br />
Da Turner a Dubuffet:<br />
per un percorso dell’arte in treno<br />
Eliana Princi<br />
Eliana Princi,<br />
storica dell’arte, lavora alla<br />
facoltà di design e arti<br />
dell’Università Iuav di<br />
Venezia, presso il corso di<br />
laurea in arti visive<br />
109
110<br />
Scarpe. Scarpe allineate, capovolte, consunte,<br />
slacciate, deformate. Vincent van Gogh ne<br />
dipinge un intero campionario verso gli anni<br />
ottanta dell’Ottocento con una pittura<br />
bituminosa, sommaria, onnivora perché inghiotte<br />
ogni particolare che non sia il soggetto, nudo e<br />
crudo. Le scarpe di Van Gogh ci osservano dalle<br />
loro tele a ricordare un tempo e un mondo che<br />
ancora misurava la terra con l’ampiezza dello<br />
sguardo, le ore con l’alternarsi di alba e tramonto.<br />
In realtà era già passato il treno di Joseph Mallord<br />
William Turner, anzi Pioggia, vapore, velocità: un<br />
titolo assolutamente futurista per un quadro<br />
dipinto nel 1844. Il pittore inglese compie<br />
davvero una fusione di questi elementi, mescola<br />
cielo e terra, addensa nubi di pioggia e di vapore,<br />
avvolge il paesaggio di densi strati dorati e<br />
azzurrini, da cui fa sbucare il treno – una piccola<br />
sagoma scura indistinta – che si proietta verso<br />
l’osservatore. La poetica romantica del Sublime<br />
che scorreva nell’ombra, nel mistero,<br />
nell’inquietudine di una natura segreta e<br />
selvaggia ora vola veloce con il treno, il nuovo<br />
simbolo di una forza irrazionale e inarrestabile,<br />
messaggero di Moloch, dritto verso l’ignoto.<br />
L’ignoto è la modernità che probabilmente Turner,<br />
che muore nel 1851, non sa ancora prevedere.<br />
In quello stesso 1851 Londra si veste di vetro e<br />
ghisa con la costruzione della stazione di King’s<br />
Cross e l’inaugurazione del Crystal Palace: la<br />
tecnologia avanza, le idee si fanno sempre più<br />
ardite, nonostante gli strali che John Ruskin aveva<br />
indirizzato proprio contro il treno: “La ferrovia<br />
trasforma l’uomo da viaggiatore in pacco vivente.<br />
In quel momento egli è separato dalle<br />
caratteristiche più nobili della sua umanità per un<br />
potere di locomozione di dimensioni planetarie.<br />
Non chiedetegli di ammirare nulla. Garantitegli un<br />
trasporto sicuro, congedatelo rapidamente: di<br />
nient’altro vi ringrazierà”. È il 1849, ne Le sette<br />
lampade dell’architettura: Ruskin sarà superato<br />
appena due anni dopo da uno sbuffo di vapore.<br />
In effetti la visione che il treno suscita fin dal suo<br />
primo apparire è piuttosto contraddittoria: è Il<br />
vagone di terza classe di Honoré Daumier (1863-<br />
65), una carrozza che il pittore ritrae dal basso,<br />
piazzando la tela proprio dentro il vagone e quindi<br />
facendo sedere idealmente anche noi sulle panche<br />
di legno. Qui, stipati l’uno accanto all’altro, si<br />
accalcano donne, bambini, uomini, un’umanità<br />
misera e diseredata – la terza classe, appunto –<br />
costretta a lasciare i propri luoghi familiari per<br />
cercare lavoro altrove.<br />
Il realismo portato dal treno di Daumier avrà lunga<br />
strada nel corso del Novecento: i contadini che vi<br />
sono dipinti sono già figure dell’alienazione e della<br />
solitudine in cui sono immersi i viaggiatori<br />
sopravvissuti a trentun’anni di guerre mondiali,<br />
soli, tra la folla inconsapevole.<br />
Ma il treno è anche un totem dei tempi moderni,
cui si sacrificano uomini, energie, capitali economici.<br />
Eccoci dunque in Alta Slesia, all’interno della<br />
fabbrica reale di materiali ferroviari, la<br />
Königschütte, dove Adolph von Menzel va a<br />
studiare i “moderni ciclopi” – così recita il<br />
sottotitolo del quadro – della Ferriera (1875).<br />
Centro ideale e fulcro dell’opera è l’idolo di ferro<br />
incandescente che viene forgiato, attorno a cui si<br />
affollano operai – una massa brulicante dai volti<br />
indistinti – e macchinari, in un clima di<br />
concitazione di cui pare di poter percepire il<br />
rumore assordante, il calore del fuoco, perfino la<br />
fatica. Il pennello di Menzel descrive le<br />
contraddizioni di una società in espansione, ma<br />
non arriva alla denuncia, ne compie piuttosto una<br />
traduzione epica.<br />
In quegli stessi anni in Italia Passa il treno di<br />
Giuseppe De Nittis (1869) e si lascia dietro matasse<br />
di vapore lattiginoso che inonda i campi arati,<br />
mentre dentro la galleria della Stazione centrale di<br />
Milano (1889) Angelo Morbelli non dipinge tanto<br />
le locomotive in sosta o in arrivo – relegate in piani<br />
secondari – quanto il vuoto che si crea tra queste.<br />
La stazione è uno spazio di solitudini, la partenza<br />
genera uno scompenso.<br />
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del<br />
Novecento ogni viaggio d’arte approda a Parigi,<br />
capitale di idee e di fermenti, luogo di scambi<br />
culturali, in cui affluiscono artisti da tutta Europa.<br />
La stazione non è solo il simbolo di questi scambi,<br />
il luogo che accoglie o congeda, offrendo l’ultimo<br />
souvenir de Paris, ma diventa uno dei laboratori del<br />
linguaggio impressionista. Vi si possono incontrare<br />
Édouard Manet, Camille Pissarro, Alfred Sisley.<br />
Nel 1877 Claude Monet dipinge un intero ciclo<br />
dedicato alla Gare Saint-Lazare che ritrae in ore<br />
diverse del giorno: “Alla partenza del treno il fumo<br />
delle locomotive è talmente denso che non si<br />
distingue quasi nulla. È un incanto, una vera<br />
fantasmagoria”, dichiara l’artista all’amico Pierre-<br />
Auguste Renoir.<br />
Luce, aria, vapore, architettura: Monet ammira la<br />
combinazione di questi elementi e ne fa<br />
trascrizioni che variano di ora in ora: la mattina la<br />
scena ha un’intonazione azzurrina, il vapore si<br />
condensa in bolle iridate, si espande verso il<br />
grande soffitto di vetro, filtra attraverso le griglie<br />
di ferro delle capriate, si confonde con le nuvole<br />
sopra Parigi. Al tramonto la città è incendiata di<br />
oro e arancione che penetrano fin dentro la<br />
galleria, confondono i profili dei treni, attenuano<br />
i marroni, bagnano di una polvere dorata i<br />
111
112<br />
gruppi dei viaggiatori.<br />
La Gare Saint-Lazare è la cattedrale laica di<br />
Monet, anticipa il ciclo che il pittore dedicherà<br />
alla chiesa di Rouen quasi vent’anni dopo.<br />
Il tema della stazione del resto è cogente per chi<br />
vive, seppur a brevi tratti come Monet, la vita<br />
parigina; Charles Baudelaire aveva più volte<br />
invitato gli artisti a “essere del proprio tempo” e<br />
Émile Zola aveva sottolineato il carattere di<br />
necessità dei nuovi spunti visivi impressionisti:<br />
“Puoi sentire il rumore dei treni che riempiono la<br />
stazione. Puoi vedere i vapori del fumo che si<br />
addensano sotto le enormi vetrate del tetto.<br />
Questa è l’arte di oggi. Gli artisti moderni hanno<br />
scoperto la poesia delle stazioni ferroviarie, così<br />
come i loro padri avevano scoperto il fascino<br />
delle foreste e dei fiumi”.<br />
Monet aderisce dunque alla realtà, alla modernità,<br />
redigendone una cronaca vibrante e satura di<br />
colore; nello stesso anno, in Italia, Giosuè Carducci<br />
fornisce una versione assai diversa del mito<br />
tecnologico nelle sue Odi barbare: “Già il mostro,<br />
conscio di sua metallica/ anima, sbuffa, crolla,<br />
ansa, i fiammei/ occhi sbarra; immane pe’ l buio/<br />
gitta il fischio che sfida lo spazio”.<br />
Il poeta ci fa calare nell’antro fumoso e sinistro di<br />
Efesto che forgia metalli dai lampi luciferini, ma<br />
vent’anni dopo Filippo Tommaso Marinetti ne<br />
recupera l’immagine insieme terribile e visionaria<br />
per farne un inno alla modernità. È il 20 febbraio<br />
1909, il primo manifesto futurista canta “l’amor<br />
del pericolo, l’abitudine all’energia e alla<br />
temerità”, e ancora le “stazioni ingorde,<br />
divoratrici di serpi che fumano [...]. Le locomotive<br />
dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie,<br />
come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi”.<br />
La macchina futurista, con il suo carico di rumori<br />
stridenti, potenza visiva e velocità inaugurava la<br />
tratta Milano-Parigi per poi raggiungere, con i<br />
futurismi, l’intera Europa.<br />
Più pacata, introspettiva, in certo modo solitaria<br />
è la versione che Umberto Boccioni fornisce del<br />
treno nel ciclo Stati d’animo, a cui lavora nel<br />
corso del 1911, dipingendone varie versioni.<br />
Il treno, la stazione, diventano luoghi di<br />
riflessione, centri di sentimenti: Boccioni mette in<br />
scena i diversi stati d’animo che si creano a ogni<br />
partenza – li intitola Gli addii, Quelli che vanno,<br />
Quelli che restano –, raccontando la condizione<br />
di chi lascia le proprie abitudini e gli affetti per<br />
affrontare l’ignoto, il disagio delle separazioni, la<br />
solitudine di chi rimane.
Linee acute, spezzate, multicolori aggrediscono le<br />
figure di Quelli che vanno e li trascinano in avanti<br />
con un ritmo impetuoso; Gli addii hanno linee<br />
avvolgenti, onde di colore infuocato che si<br />
allacciano tra loro, abbracci sinuosi tra chi presto<br />
dovrà separarsi; mentre una fitta pioggia azzurroverde<br />
cala densa come una cortina su Quelli che<br />
restano e vagano solitari nel vuoto.<br />
Boccioni compone una sottile alchimia emotiva e<br />
cromatica, condensa un’intera narrazione in<br />
visioni eloquenti che in seguito avrebbe spiegato:<br />
“La direzione delle forme e delle linee era fissata<br />
con un determinato scopo drammatico (spiegavo<br />
la diversità emozionale delle linee perpendicolari,<br />
ondulate e spossate nel quadro Quelli che<br />
restano; delle linee confuse, agitate, dirette e<br />
curve nel quadro Gli addii; e delle linee<br />
orizzontali, fuggenti, rapide e sobbalzanti nel<br />
quadro Quelli che vanno). Nell’affermare ciò mi<br />
basavo su questa intuizione: ad ogni emozione<br />
sensoria corrisponde un’analoga forma-colore”.<br />
Dallo studio della macchina, il mostro d’acciaio<br />
dagli occhi fiammeggianti, dalla potenza della<br />
velocità che supera ogni ostacolo, la pittura<br />
passa a descrivere lo stato emotivo: il racconto si<br />
sposta dal treno alle emozioni del viaggiatore.<br />
Nello stesso anno del ciclo di Boccioni, anche<br />
Marcel Duchamp – che del resto guarda con<br />
interesse alla ricerca futurista sul movimento –<br />
descrive la malinconia di un viaggio: è il Giovane<br />
triste in treno. Si tratta di un autoritratto,<br />
un’immagine inconsueta giacché non<br />
identificabile, meccanica, sommaria che<br />
Duchamp stesso spiega così: “Ci sono due<br />
aspetti in questo quadro. Uno è il movimento del<br />
treno, l’altro è il giovane triste nel corridoio che<br />
cammina avanti e indietro, cosicché abbiamo due<br />
movimenti paralleli che si corrispondono tra loro.<br />
Inoltre c’è la deformazione della figura del<br />
giovane, che io chiamavo allora parallelismo<br />
elementare. È una specie di decomposizione<br />
formale, un disporsi a ventaglio in pannelli lineari<br />
che corrono parallelamente l’uno all’altro e che<br />
deformano il soggetto. In tal modo esso è teso<br />
come se fosse un elastico”.<br />
Se il giovane Duchamp è triste, in treno, Giorgio<br />
De Chirico dipinge in quegli anni la dimensione<br />
stessa della malinconia in opere già metafisiche,<br />
tra 1913 e 1914.<br />
Il viaggio inquietante, L’incertezza del poeta, Il<br />
sogno trasformato, Gioie ed enigmi di un’ora<br />
strana, Gare Montparnasse - La malinconia della<br />
partenza, sono tutte visioni pervase da un senso di<br />
sospensione inquieta, da un’atmosfera saturnina<br />
in cui strani fatti, strani oggetti insinuano minacce<br />
alla normalità e lasciano l’osservatore incerto.<br />
Il treno passa di quadro in quadro – un trenino di<br />
sogno, una Freccia Azzurra sbuffante piccole<br />
nuvole di fumo bianco – ma la sua corsa non è<br />
innocua, devia ulteriormente il senso della scena<br />
113
114<br />
verso l’anomalia, il disagio. Nelle Meditazioni di un<br />
pittore De Chirico spiega – o meglio aggiunge<br />
dubbi – alla mescolanza di oggetti spiazzanti:<br />
“Sentimento africano. L’arco è là per sempre.<br />
Ombra da destra a sinistra. [...] Una vela; naviglio<br />
dolce dai fianchi così teneri. Treno che passa:<br />
enigma. Felicità del banano; volontà di frutti<br />
maturi, dorati e dolci”.<br />
Il treno con il suo bagaglio di spazio e tempo –<br />
orari da rispettare, lunghezze da ricoprire – con il<br />
suo aspetto conciliante di giocattolo è dipinto in<br />
situazioni del tutto spiazzanti, impossibili: punta<br />
dritto all’osservatore, come una minaccia, oppure<br />
compie un’apparente pacifica corsa dietro muretti<br />
di mattoni in spazi assurdi, su binari inesistenti.<br />
Un’altra folle corsa è quella descritta nell’alveo<br />
del surrealismo da René Magritte. La sua<br />
locomotiva, dipinta perfettamente in punta di<br />
pennello, è sospesa a mezz’aria ed esce con<br />
naturalezza dal vano di un caminetto, in una sala<br />
da pranzo borghese. La scena non si spiega né<br />
con gli altri rari elementi del quadro (il pavimento<br />
di parquet, un orologio da tavolo, due candelabri<br />
e uno specchio), né con il titolo, La durata<br />
pugnalata. Magritte unisce l’assurdo, provoca un<br />
deragliamento di senso, dà voce al sogno,<br />
all’irrazionale, all’inconscio.<br />
Procedendo negli anni venti del Novecento, treno<br />
e stazioni diventano sempre più luoghi dello<br />
spaesamento e della solitudine: Mario Sironi li<br />
ambienta in periferie deserte e scure, mentre<br />
Edward Hopper li riassume nelle linee di binari<br />
che corrono accanto a edifici vuoti, angoscianti: la<br />
sua Casa vicino alla ferrovia (1925) ispira perfino<br />
Alfred Hitchcock per l’ambientazione di Psycho.<br />
La seconda guerra mondiale conduce nuove<br />
memorie di “strade ferrate”: i treni blindati dei<br />
deportati, i vagoni della Croce Rossa, separazioni<br />
laceranti. I dipinti accolgono ostaggi, fuggitivi,<br />
sopravvissuti: la pittura esclude sempre di più treno<br />
e stazioni per raccontare il viaggiatore, che diventa<br />
immagine dell’uomo moderno.<br />
Si fissa così per sempre il moto perpetuo dell’Uomo<br />
che cammina di Alberto Giacometti, elaborato a<br />
partire dagli anni quaranta o il disorientamento del<br />
Viaggiatore smarrito che Jean Dubuffet dipinge nel<br />
1950. La dimensione moderna del viaggio è quella<br />
della conoscenza che costa energia psichica ed<br />
emotiva e il viaggiatore è spesso raffigurato solo,<br />
perfino senza bagaglio.<br />
Non ci sono più vagoni, binari, itinerari tracciati, il<br />
viaggio è aperto a tutte le direzioni: train de vie.
SGUARDI SUL TRENO<br />
Un bello e orribile mostro<br />
Remo Ceserani<br />
Remo Ceserani<br />
è professore ordinario di<br />
letterature comparate<br />
all’Università di Bologna<br />
115
116<br />
In un libro che ho dedicato al tema<br />
dell’immaginario in ferrovia nei tempi eroici fra<br />
Ottocento e primo Novecento [Treni di carta, 1993],<br />
la locomotiva ha un posto importante. Seguendo<br />
da vicino l’esempio delle osservazioni molto acute di<br />
W. Benjamin [1928, 1982] e di alcuni studi<br />
pionieristici, da parte di storici della cultura, della<br />
sensibilità, della letteratura e della pittura, come per<br />
esempio quelli di M. Baroli [1964] in Francia, di W.<br />
Schivelbusch [1977], H. Glaser [1981], D. Hoeges<br />
[1981] e J. Mahr [1982] in Germania, di F. Richards<br />
e J.M. MacKenzie [1986] in Inghilterra, di L. Marx<br />
[1964, 1988] e H. Rand [1987] negli Stati Uniti, ho<br />
cercato di analizzare, per testi campione, gli effetti<br />
più vistosi avuti dall’irruzione del treno sulle<br />
abitudini di vita, sui ritmi di lavoro e di spostamento<br />
fra luoghi e paesi, sulla percezione dello spazio e<br />
del tempo delle popolazioni europee e degli altri<br />
continenti. Dopo la pubblicazione del libro,<br />
l’interesse per l’argomento è notevolmente<br />
cresciuto: sono venute esposizioni, celebrazioni,<br />
raccolte di testi e fotografie e numerosi altri studi,<br />
come, per esempio, quelli di L. Bernardini [1997]<br />
sulle ferrovie nell’est europeo, di T. Geraci [1999]<br />
sugli incontri fra musica e ferrovia, di un gruppo di<br />
miei allievi su testi di Verne, D’Annunzio, García<br />
Márquez e parecchi altri [Pellini, Polacco, Zanotti<br />
1995], di un folto gruppo di studiosi francesi<br />
coordinati da B. Urbani [2004] sul treno in<br />
letteratura e nelle arti figurative ecc.<br />
Per tutto l’Ottocento la nuova entusiasmante,<br />
ingombrante, minacciosa presenza della<br />
locomotiva nel paesaggio tradizionale (la<br />
“macchina nel giardino”, come ha scritto Leo<br />
Marx) ha suscitato reazioni contrastanti. Furono<br />
abbastanza numerosi, specialmente fra gli<br />
intellettuali, coloro che considerarono la<br />
locomotiva, i binari diritti della ferrovia, i tunnel, i<br />
ponti, le stazioni fumanti come una novità ostile e<br />
minacciosa, un elemento di squilibrio, di<br />
accelerazione forzata, di scombussolamento per la<br />
vita esteriore e interiore dell’uomo. Furono create<br />
allora alcune fortunate immagini e metafore: la<br />
locomotiva come mostro infuocato e fumante, che<br />
fa tornare in vita il mito antico di Vulcano; il treno<br />
che si snoda come un serpente o un drago che<br />
emette fumo e fuoco; le linee diritte che tagliano il<br />
paesaggio, bucano i monti, fan violenza alla<br />
natura; la forza trainante della locomotiva come<br />
simbolo del destino; il rotolio e il ritmo monotono<br />
delle ruote come espressione di un controllo<br />
macchinistico del tempo ancor più perturbante di<br />
quello espresso dal ticchettio dell’orologio e dallo<br />
scatto delle lancette sul quadrante; i depositi<br />
fumanti, le officine delle locomotive, le gallerie delle<br />
stazioni come luoghi di desolazione, confusione,<br />
perdizione. Fra i testi che ho raccolto ci sono poesie<br />
di Wordsworth e Musset, prose meditative di<br />
Thoreau, romanzi di Dickens, Tolstoj, Hardy e tanti<br />
altri. Fra le poesie posso ricordare qui il sonetto di
Gioacchino Belli Le carrozze a vapore (“Che<br />
naturale! Naturale un cavolo./ Ma po’ èsse un<br />
affetto naturale/ volà un frullone com’avesse l’ale?/<br />
Qui c’entra er patto tacito cor diavolo”, 1843) o<br />
l’inno A Satana (1863) di Giosuè Carducci: “Un<br />
bello e orribile/ Mostro si sferra,/ Corre gli oceani/<br />
Corre la terra:// Corusco e fumido/ Come i vulcani,/<br />
I monti supera,/ Divora i piani;// Sorvola i baratri;/<br />
Poi si nasconde/ Per antri incogniti,/ Per vie<br />
profonde;// Ed esce; e indomito/ Di lido in lido/<br />
Come di turbine/ Manda il suo grido,// Come di<br />
turbine/ L’alito spande:/ E passa, o popoli, Satana il<br />
grande”. [Poesie, 1939, pp. 384-85]<br />
E potrei citare testi di poeti francesi, tedeschi,<br />
inglesi, spagnoli, americani, russi che hanno lo<br />
stesso tono. Quanto ai romanzi basta forse che io<br />
ricordi uno straordinario romanzo ferroviario di Zola,<br />
che ha avuto la fortuna di essere commentato da<br />
due grandi critici del Novecento, come Barthes e<br />
Deleuze e di essere trasferito sullo schermo da due<br />
grandissimi registi, come Jean Renoir e Fritz Lang. Il<br />
romanzo ha per protagonisti una locomotiva, a cui<br />
allude già il titolo (La bête humaine, 1890) e un<br />
macchinista, Jacques Lantier, che è tragicamente<br />
diviso fra l’amore casto per la sua locomotiva, che<br />
lui chiama affettuosamente La Lison, e quello<br />
peccaminoso per la bellissima e seducente Séverine.<br />
Tutt’e due gli oggetti d’amore sono destinati a una<br />
fine tragica: la locomotiva muore, quasi come una<br />
creatura umana, dopo essersi violentemente<br />
scontrata con un carro a un passaggio a livello;<br />
Séverine muore accoltellata da Jacques.<br />
Non sono mancati, tuttavia, per tutto l’Ottocento<br />
anche gli intellettuali, gli scrittori, i poeti, gli autori<br />
di musiche e canzoni che hanno accolto l’arrivo<br />
della locomotiva con favore ed entusiasmo. Di qui<br />
un altro nucleo di immagini e metafore e un’altra<br />
tradizione culturale e letteraria, che si è sviluppata<br />
in alternativa e contrapposizione (qualche volta,<br />
anche, in anticipo) rispetto a quella ostile alla<br />
ferrovia. Non pochi sono i testi che rappresentano<br />
il treno come simbolo del progresso, del cammino<br />
ormai diritto e accelerato delle società umane, con<br />
l’aiuto della tecnologia, verso le nuove frontiere e<br />
conquiste della modernità. Di qui una tradizione<br />
culturale e letteraria, anch’essa consistente, di<br />
connotazioni positive del treno, della ferrovia, della<br />
velocità dei viaggi, delle arditezze delle linee che<br />
attraversano le pianure e i monti d’Europa e poi di<br />
quelle transcontinentali e transiberiane, del lusso e<br />
dell’avventurosità esotica dell’Orient-Express,<br />
dell’eroica operosità dei macchinisti, dei fuochisti,<br />
dei costruttori di massicciate e posatori di binari,<br />
dei segnalatori, delle squadre di spalatori antineve.<br />
Poesie entusiastiche di scrittori di chiara adesione<br />
democratica e progressista, storie e canzoni del<br />
West, mitologia futurista, musei della scienza e<br />
della tecnica, collezionismo, canzoni sovietiche<br />
della rivoluzione intitolate Locomotiva nostra non ti<br />
fermar: è tutto un patrimonio culturale e testuale<br />
117
118<br />
che rientra in questa tradizione. Forse basta che io<br />
ricordi, fra questo nutrito materiale, una pagina<br />
dello scrittore danese di fiabe Christian Andersen,<br />
entusiasta del suo primo viaggio in ferrovia,<br />
compiuto in Germania nel 1840: ”O, quale<br />
impresa grandiosa dello spirito è questa scoperta!<br />
Ci si sente potenti come i maghi dell’antichità!<br />
Attacchiamo il cavallo magico alla carrozza e lo<br />
spazio scompare! Voliamo come le nuvole in<br />
tempesta, come gli uccelli migratori in viaggio. Il<br />
nostro cavallo selvaggio sbuffa e ansima, dalle sue<br />
froge esce un fumo nerastro. Non avrebbe potuto<br />
Mefistofele volare più velocemente insieme con<br />
Faust sul suo mantello! Con mezzi naturali siamo<br />
in questo nostro tempo capaci di un potere che nel<br />
Medioevo veniva attribuito solo al diavolo”. [citato<br />
in Mahr, 1982, pp. 32-33]<br />
Oppure una bella, entusiastica poesia di Walt<br />
Whitman, To a Locomotive in Winter (A una<br />
locomotiva d’inverno, 1876): “Tu per il mio<br />
recitativo/ tu nella bufera sferzante proprio come<br />
ora, la neve, il giorno invernale che declina/ tu<br />
nella tua panoplia, il tuo ritmico doppio palpito e il<br />
tuo battito convulso,/ il tuo nero corpo cilindrico,<br />
ottoni dorati e acciaio argenteo,/ le tue spranghe<br />
laterali massicce, le aste parallele di connessione,<br />
che girano, fan la spola ai tuoi fianchi,/ la tua<br />
pulsazione e il tuo ruggito ritmici, che ora cresce<br />
ora diminuisce a poco a poco nella distanza./ Il tuo<br />
grande faro sporgente fissato sulla tua fronte,/ il<br />
tuo lungo, pallido, ondeggiante vessillo di vapore,<br />
colorato di tenue porpora,/ le nuvole dense e<br />
nerastre vomitate dal tuo fumaiolo,/ la tua struttura<br />
ben lavorata, le tue molle e valvole, il luccichio<br />
vibrante delle tue ruote,/ il tuo traino di carrozze<br />
che ti seguono ubbidienti e allegre,/ traverso<br />
burrasche e bonaccia, ora veloci, ora lente, ma<br />
sempre regolarmente correndo;/ simbolo tipico del<br />
moderno emblema di movimento e potenza polso<br />
del continente,/ per una volta vieni e servi la Musa<br />
e prendi forma nel verso, proprio come qui ti<br />
vedo,/ nella bufera e sotto i colpi delle raffiche di<br />
vento e con la neve che cade,/ di giorno la tua<br />
campana ammonente che suona le sue note,/ di<br />
notte i segnali delle tue lucerne silenziose che<br />
ondeggiano.// Bellezza dalla gola feroce!/ Tuona<br />
nel mio canto con tutta la tua musica selvaggia, le<br />
tue lucerne ondeggianti di note,/ la risata del tuo<br />
pazzo fischio, echeggiante, rombante come il<br />
terremoto, svegliando ogni cosa,/ tu che sei legge<br />
completa a te stessa e ti tieni saldamente al<br />
percorso dei binari,/ (nessuna dolce affabilità di<br />
arpe piagnucolose o di petulanti pianoforti la tua)/ i<br />
tuoi trilli e gridi vengono restituiti da rocce e<br />
colline,/ lanciata sulle vaste praterie, attraverso i<br />
laghi,/ ai liberi cieli scatenata e lieta e forte”.<br />
[1965, pp. 471-472]<br />
L’immaginario ferroviario dell’Ottocento, come<br />
risulta da questi testi si è costituito in un sistema di<br />
strutture semantiche nettamente polarizzate, che si
possono schematicamente rappresentare sotto<br />
forma di contrapposizioni:<br />
a) la contrapposizione, nelle descrizioni della<br />
locomotiva, fra organismo naturale dotato di forza<br />
animale, bello e armonioso, e macchina metallica,<br />
dotata di forza artificiale, perturbante e mostruosa,<br />
nata nelle profondità della terra delle miniere, che<br />
utilizza per i suoi movimenti una “via metallica” e<br />
che spesso dentro la terra ritorna con i suoi tunnel.<br />
Da una parte il cavallo, dall’altra la vaporiera: di qui<br />
tutta una serie di contrapposizioni, ma anche di<br />
immagini metaforiche che si trovano in quasi tutti i<br />
testi, sia in positivo che in negativo, e che<br />
attribuiscono alla locomotiva le caratteristiche e gli<br />
attributi di un cavallo artificiale e mostruoso (il<br />
calore e il fuoco interiore, le narici sbuffanti, gli<br />
occhi spalancati, la criniera di fumo, ecc.), o di un<br />
animale favoloso come il drago o persino di uno<br />
esotico come l’elefante;<br />
b) la contrapposizione fra alcuni strumenti naturali<br />
(le ugole degli uccelli, il vento che stormisce fra gli<br />
alberi) che emettono un suono bello da ascoltare e<br />
funzionale alla comunicazione fra la natura e gli<br />
esseri che la popolano, oppure fra alcuni strumenti<br />
musicali che emettono suoni assai dolci per<br />
l’orecchio (l’arpa, il corno del boscaiolo, quello del<br />
postiglione) e lo strumento che viene utilizzato<br />
dalle locomotive, stridulo, disumano, minaccioso,<br />
che può ricordare (come ad Andersen) l’ultimo<br />
grido del maiale ammazzato e il rumore<br />
sferragliante dei treni stessi, così nuovo e<br />
impressionante che induce alcuni a tentare, come<br />
per scommessa, la sua resa onomatopeica, quasi a<br />
gara con quelle poesie e musiche che hanno<br />
sempre tentato di rendere, onomatopeicamente, i<br />
rumori della natura;<br />
c) la contrapposizione fra il movimento naturale,<br />
lento, avventuroso e magari anche tortuoso<br />
dell’uomo nel mondo (e in particolare di quella<br />
specie di incarnazione dell’uomo romantico che fu<br />
il Wanderer), o anche il movimento agile e veloce<br />
degli uccelli, delle nuvole, del vento e per contro il<br />
movimento diritto, determinato, obbligato del<br />
treno sui binari e del tracciato del treno, fra una<br />
stazione e l’altra, attraverso le più varie scene di<br />
natura, senza fermarsi davanti a nessun tipo di<br />
ostacoli, e quindi anche dei viaggiatori, spettatori<br />
immobili, che si vedono passare davanti agli occhi,<br />
inquadrati dai finestrini, i paesaggi della natura,<br />
con un movimento veloce e un montaggio quasi<br />
cinematografico.<br />
Gradualmente, tuttavia, nel corso dell’Ottocento, e<br />
poi nel Novecento, la locomotiva ha perso,<br />
nell’immaginario comune e in quello letterario, i<br />
connotati del mostro pauroso. Il mostro è stato<br />
addomesticato, divenendo un giocattolo per<br />
bambini o una riproduzione in miniatura per le<br />
collezioni degli adulti. Esso ha offerto ai poeti e ai<br />
romanzieri la possibilità di trasformarlo in<br />
personaggio benevolo e amico (così, per esempio,<br />
119
120<br />
nel romanzo per l’infanzia di Edith Nesbit The<br />
Railway Children [I bambini della ferrovia, <strong>1906</strong>],<br />
nella filastrocca Henriette Bimmelbahn [Il trenino<br />
Enrichetta, 1963] di James Krüss e nella favoletta<br />
The little train [La piccola locomotiva, 1973] di<br />
Graham Greene). Esso ha ispirato poesie come<br />
l’espressionistica Lokomotive [La locomotiva, 1912]<br />
di Gerrit Engelke e poi manifesti futuristi, canzoni<br />
rivoluzionarie o sentimentali, da Pete Seeger a<br />
Francesco Guccini a Bruce Springsteen.<br />
Fra i tanti testi che potrei citare mi soffermo su una<br />
poesia poco nota di Giovanni Alfredo Cesareo,<br />
intitolata proprio La locomotiva (1912). È una<br />
poesia di chiara impronta carducciana, che dall’ode<br />
barbara di Carducci Alla stazione in una mattina<br />
d’autunno trae molti spunti ed echeggia molte<br />
espressioni, ma che ha anche una certa originalità,<br />
soprattutto nella sperimentazione stilistica e<br />
metrica: “Sul fiammeggiante vespero/ Nera<br />
s’accampa la locomotiva/ E accidïosa fumica,/<br />
Mentre in torno si mescola e vocifera/ La svarïata<br />
folla cui l’ansia/ Spine in quell’afa torpida./<br />
Trascorre a quando a quando/ Gente che parte:<br />
con bagagli in mano/ Va i carri un dopo l’altro<br />
interrogando,/ S’arrischia in fine e sale/ I tremuli<br />
sportelli sbatacchiando./ Giunge un clamore<br />
languido a distesa/ Dal mar lontano,/ E subitaneo,<br />
quasi ad un segnale,/ Vibra il giulìo scampanìo<br />
d’una chiesa./ Ma le prime ombre calano,/ E già,<br />
com’occhio che improvviso fòlgori,/ Or qua or là<br />
s’illumina un fanale./ Passan, ripassano/ I cantonieri<br />
di fretta: crosciano/ Grida e rimbrotti: l’accesa<br />
macchina/ Si squassa e alita,/ E i vagoni si cozzano<br />
tra loro/ Con un rimbombo tragico e sonoro./ Scatta<br />
un comando:/ Un fischio di rimando/ Querulo,<br />
acuto, lungo, fòra l’aria,/ E il treno si divincola/ Su le<br />
rotaïe sussultando e ansando.// Dietro/ Qualche/<br />
Vetro,/ Qualche / Viso/ Bianco,/ Qualche/ Riso/<br />
Stanco,/ Qualche/ Gesto/ Lesto;// Ma più celeri/ I<br />
vagoni/ Si succedono,/ E i furgoni/ Sul binario/<br />
Trabalzanti/ Strepitanti/ Varcan Varcano;// E il treno,<br />
con palpito eguale, guadagna/ Fiammando nel<br />
buio, l’aperta campagna./ La chiostra de’ monti da<br />
torno vacilla;/ Repente un padule nell’ombra<br />
sfavilla,/ Dispare una greggia di scialbe capanne/ Di<br />
là da una siepe scrosciante di canne,/ Leggera si<br />
libra nell’aria una torre,/ E il treno, con rombo<br />
terribile, corre./ Le nuvole fosche s’inseguon pe’l<br />
cielo/ Coprendo le stelle smarrite d’un velo:/<br />
Trapassan burroni, villaggi dormenti,/ Dirupi,<br />
sodaglie sinistre, torrenti:/ La luna vïaggia, tra gli<br />
alberi, sola,/ E il treno, con rugghio di turbine,<br />
vola.// Su i massi rigidi,/ C’a’ lati incombono,/ I vetri<br />
stampano/ Chiari riverberi:/ Dileguan alberi/<br />
Com’ombre livide,/ Nell’albor fumido:/ I fili aerei/<br />
Lenti s’abbassano,/ Ratti risalgono/ A sbuffi, a<br />
volvoli,/ L’atra caligine/ Intorbida l’aria,/ Mentre la<br />
macchina/ Tonando penetra/ Lungo il freddo<br />
andito/ Con rauchi sibili,/ E gl’invisibili/ Echi<br />
rispondono/ Empiendo d’ululi/ Il sotterraneo.// Ma
sbuca il convoglio nell’umida sera/ Tra i vènti che<br />
dietro gli volano a schiera./ La luna campeggia sul<br />
vasto orizzonte,/ Sbozzando qua l’arco massiccio<br />
d’un ponte,/ Là un fiume, che opaco tra i pioppi<br />
deriva,/ E dentro si svampa la locomotiva;/ E miste<br />
alle forme del vero, le forme/ Tramate di sogno dal<br />
core che dorme:/ Palagi di marmo su isole strane,/ E<br />
palme, e verzieri di rosa, e fontane,/ E un lume che<br />
ammicca nell’ombra remota:/ L’accese una mano<br />
che forse t’è nota?/ Chi plora da presso? Chi d’alto<br />
minaccia?/ Ma per la riviera di gigli che abbraccia/ Il<br />
cielo e la terra, vien l’ardua galera;/ E sotto i suoi<br />
bianchi tendali, una schiera/ Immobile e assorta di<br />
bianche Sibille,/ Scrutando la luna con òrbe pupille,/<br />
Si sfoga in un canto che affanna e che molce,/ Fra<br />
quanti n’udì l’universo, il più dolce,/ E il canto si<br />
spazia per piani, per boschi,/ Per valli selvose di<br />
frassini foschi:/ Attoniti i gioghi si rizzano in fondo/<br />
Su vigne e cascine che girano in tondo./ E il treno<br />
serpeggia, precipita, sale,/ Sprizzando la fiamma del<br />
doppio fanale.// Ma un fischio stridulo/ Fende lo<br />
spazio:/ La luna limpida/ Splende: rallentasi/ La corsa:<br />
tintinniscono/ I campanelli elettrici./ Sbalzana e<br />
tituba/ A tratti il ferreo/ Convoglio; fulgida/ Di lumi,<br />
palpita/ Entro la nebbia/ La città enorme e tacita.<br />
Sfilano macchine,/ Carri, scale, argani;/ E l’alte<br />
lampade/ A torno spandono/ Un baglior gelido/ Ove<br />
spettrali appaiono,/ Come in un sogno, gli uomini./<br />
Ma con movimento / Isnodato, a stento,/ Il convoglio<br />
gira/ Su le rote inerti,/ E a sfagli incerti/ Ancora va,/<br />
Finché si stira,/ E sta.// La gente in frotte si versa<br />
all’uscita:/ O andature stanche! O occhi torbidi!/<br />
Ecco, è svanita/ L’ebbrezza del sogno datore d’oblii;/<br />
E dalle cento fauci/ Della città sopita/ Esala grave il<br />
tedio della vita”. [in Romanò 1955, pp. 354-58]<br />
Il testo, che nella tematica e nel lessico si rifà<br />
chiaramente a Carducci mentre nella<br />
sperimentazione metrica si rifà altrettanto<br />
chiaramente a D’Annunzio, non è privo di<br />
interesse. A differenza di Carducci, che assisteva<br />
soltanto alla partenza del treno, Cesareo ne segue<br />
tutto il percorso, dalla partenza all’arrivo, e cerca<br />
con il ritmo dei suoi versi di imitarne i movimenti.<br />
La prima strofa, con versi di varia lunghezza<br />
(prevalentemente endecasillabi, settenari e quinari),<br />
con rime sparse qua e là e frequenti parole<br />
sdrucciole in rima, vuol quasi imitare la forza<br />
dinamica della locomotiva, impaziente di partire, e<br />
il movimento confuso della folla dei viaggiatori, dei<br />
ferrovieri, della città. La seconda e la terza strofa<br />
imitano il pesante avvio del convoglio, con versi di<br />
parole bisillabe e rime frequenti, seguiti da versi un<br />
poco più lunghi e parole in rima frequentemente<br />
sdrucciole. Segue una strofa che vuole imitare il<br />
movimento ormai veloce e disteso del treno ed è<br />
costituita da versi martelliani, con rime baciate e<br />
parole piane. Poi la corsa a volte rallenta a volte si<br />
stende, con un ritmo che alterna i versi brevi tutti<br />
sdruccioli e di nuovo i martelliani lunghi e piani. La<br />
poesia si chiude con una strofa che, con tante<br />
121
122<br />
parole sdrucciole, spesso onomatopeiche, cerca di<br />
imitare il rallentamento e alla fine la conclusione<br />
della corsa. Si tratta, come si può constatare, di<br />
una poesia di carattere sperimentale, che cerca di<br />
dare, con i suoi mezzi, soprattutto ritmici, un<br />
contributo alla lenta domesticizzazione della<br />
locomotiva e del treno.<br />
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Il restauro della <strong>830</strong><br />
Roberto Celotta<br />
ingegnere aeronautico, ha lavorato all’Agusta e alla Siae Marchetti; studioso di storia e tecnica delle ferrovie<br />
In questa immagine<br />
e nelle seguenti alcune fasi<br />
del restauro della<br />
locomotiva <strong>830</strong>.017<br />
MATERIALI<br />
123
124<br />
Parlare del restauro della <strong>830</strong>-017 non è facile<br />
per il significato stesso che il vocabolario italiano<br />
attribuisce al concetto di restauro e cioè quello di<br />
restituzione di un’opera o manufatto al suo stato<br />
primitivo mediante lavori di riparazione,<br />
rifacimento o rinnovamento.<br />
E questo, non perché tali attività fossero<br />
particolarmente difficoltose sulla <strong>830</strong>-017 ma<br />
perché il gruppo di locomotive catalogato dalle<br />
FS come <strong>830</strong> ha avuto una vita travagliata ed è<br />
alla fine risultato uno dei più raccogliticci del suo<br />
inventario, al punto da rendere problematica<br />
l’identificazione di una configurazione di<br />
riferimento della macchina.<br />
Un minimo di storia ci aiuta a comprendere<br />
meglio quanto sopra affermato.<br />
Quando nel giugno del 1905 vennero costituite<br />
le Ferrovie dello stato, esse incamerarono,<br />
nell’arco di un paio d’anni, un gran numero di<br />
locomotive provenienti dalle varie società private<br />
sin allora esistenti, cioè la Rete Adriatica, la Rete<br />
Mediterranea e la Rete Sicula. Le FS, insieme ad<br />
alcune locomotive valide, si ritrovarono un gran<br />
numero di macchine spesso vecchie e con<br />
potenze assolutamente insufficienti.<br />
Non fu questo il caso delle <strong>830</strong> perché, tra le<br />
molte locotender, cioè locomotive con scorte<br />
d’acqua e carbone a bordo, con tre assi<br />
accoppiati e ruote di piccolo diametro, queste<br />
erano ancora in consegna, avevano una buona<br />
potenza e soprattutto una concezione innovativa.<br />
Infatti questo tipo di locomotive, realizzato per la<br />
Rete Mediterranea, era stato usato sia per servizi<br />
di linea con treni viaggiatori leggeri che per le<br />
manovre negli scali ferroviari. Il soddisfacente<br />
risultato ottenuto fu la loro fortuna e al tempo<br />
stesso la loro sfortuna perché da esse fu<br />
sviluppato dalle FS il gruppo 835, uno dei suoi<br />
più riusciti e numerosi (370 macchine), che<br />
presto le soppiantò negli scali di tutt’Italia.<br />
In realtà la Rete Mediterranea aveva ordinato nel<br />
1900 un primo lotto di 6 macchine, numerate da<br />
6801 a 6806 e nel 1903 un secondo lotto di 14<br />
macchine, numerato da 6807 a 6820. Di queste,<br />
il primo lotto di 6, costruito dalle Officine<br />
meccaniche di Saronno e leggermente meno<br />
pesanti e potenti, andarono a costituire presso le<br />
FS il gruppo 829, mentre le successive 14<br />
costituirono il gruppo <strong>830</strong>, costruite dalla Breda<br />
e caratterizzate da una caldaia più vaporiera.<br />
La caldaia più vaporiera era una caratteristica<br />
molto importante perché trattandosi, in entrambi<br />
i casi, di macchine a vapore saturo, le perdite di<br />
potenza dovute alla condensazione di questo<br />
vapore erano in generale piuttosto sensibili e<br />
quindi era assolutamente positivo avere un<br />
generatore di vapore esuberante e in grado di<br />
compensare almeno parzialmente gli effetti della<br />
condensazione.<br />
Sotto la gestione delle FS, le <strong>830</strong> del primo lotto
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126
127
128<br />
furono numerate dalla -001 alla -014 e, nello<br />
stesso 1905, fu ordinato un ulteriore lotto di 30<br />
macchine, numerate dalla -015 alla -044, che<br />
costituì la seconda serie delle <strong>830</strong> e che si<br />
differenziava esteriormente dalla prima per avere<br />
un telaio più lungo nella parte posteriore e<br />
quindi una carbonaia di maggiore capacità e una<br />
cabina di taglio più moderno.<br />
Ci troviamo quindi di fronte a una serie di<br />
macchine con caratteristiche distinte tra prima e<br />
seconda serie e ulteriormente differenziate a<br />
seconda che siano rimaste sempre in ambito FS,<br />
noleggiate o vendute; tra quest’ultime, a parte<br />
11 macchine finite al Ministero della marina dove<br />
mantennero le caratteristiche originarie, le altre<br />
finirono prevalentemente alla Montecatini,<br />
all’Ilva, alla Cogne, alla Cokitalia, e le ultime 9<br />
vendute, a due società di servizi esercenti le<br />
manovre nel porto di Genova.<br />
Fu presumibilmente nel 1936 che la <strong>830</strong>-017,<br />
oggetto del restauro, finì alla Cokitalia, società<br />
nel 1980 confluita nell’Italiana Coke, che tuttora<br />
possiede la originaria <strong>830</strong>-001 Breda, ex 6807<br />
Rete Mediterranea.<br />
Nel 1988 l’allora Finanziaria Ernesto Breda,<br />
saputo che la locomotiva Italiana Coke N°3 era in<br />
realtà la ex <strong>830</strong>-017 FS, numero di costruzione<br />
758 della Breda, ne presentò formale richiesta di<br />
acquisto, con l’intenzione di collocarla in un<br />
proprio museo. La domanda fu accolta dalla<br />
Italiana Coke, che anzi si dichiarò disposta a<br />
donare la macchina e così la nostra <strong>830</strong>-017<br />
tornò a Sesto in un capannone distaccato dove<br />
fu preservata in attesa dei tempi migliori,<br />
finalmente arrivati.<br />
Ma negli anni di servizio alla Cokitalia, la<br />
macchina aveva subito profonde modifiche, sia<br />
per via delle necessità manutentive sia per<br />
renderla un po’ più confortevole per il personale<br />
di macchina e adatta ai suoi nuovi compiti, che<br />
ne hanno alterato la fisionomia della cabina e<br />
delle casse d’acqua.<br />
E qui nasce il problema principale alla base<br />
dell’operazione di restauro: restaurare, ma a<br />
quale configurazione? Come una macchina<br />
rappresentativa di un ben preciso gruppo di<br />
locomotive FS, alla cui costituzione partecipò<br />
attivamente la Breda, oppure come una generica<br />
locomotiva a vapore per tramandare un simbolo<br />
dell’attività della Breda nel campo ferroviario,<br />
senza tener conto di come questo prodotto sia<br />
stato modificato nel tempo dagli utilizzatori?<br />
Nella prima ipotesi, pur tralasciando il ricostituito<br />
e raccogliticcio secondo gruppo <strong>830</strong>, una<br />
configurazione della <strong>830</strong> del gruppo originale<br />
non è univocamente identificabile, perché le<br />
prime 6 macchine commissionate dalla Rete<br />
Adriatica erano diverse da quelle costruite sotto<br />
la gestione FS.<br />
Allora, ci si può riferire alla sola <strong>830</strong>-017, sigla
che però identifica una ben precisa macchina<br />
delle FS, di cui esiste una foto che ne mostra, tra<br />
l’altro la significativa mancanza del compressore<br />
o pompa dell’aria, come veniva detta dai<br />
ferrovieri, per l’azionamento del freno continuo.<br />
Infatti questa macchina, a differenza delle altre<br />
dello stesso gruppo, è priva dell’impianto di<br />
frenatura ad aria compressa e dispone del solo<br />
freno a vapore e del freno meccanico di<br />
stazionamento. Il che ci fa supporre che proprio la<br />
-017 possa essere servita per la sperimentazione di<br />
quel concetto di macchina da manovra poi attuato<br />
col gruppo 835, perché di solito nelle manovre<br />
non si utilizzava il freno ad aria compressa sia per<br />
risparmiare tempo sia perché la maggior parte dei<br />
carri di allora ne era sprovvista. Non è infatti un<br />
caso che anche la prima serie delle 835 fosse priva<br />
di tale impianto e avesse una cassetta degli<br />
attrezzi al posto del compressore.<br />
Altro particolare della -017 è la sua caldaia,<br />
marcata <strong>1906</strong>, ma dotata di tubi bollitori lisci<br />
come quella delle 835 e non ondulati di tipo<br />
Serve, più efficienti ma di più onerosa<br />
manutenzione, come quella delle altre <strong>830</strong>.<br />
Come documentato dal libretto della caldaia,<br />
conservato presso l’Archivio storico Breda,<br />
quest’ultima pare sostituita con quella unificata<br />
delle 835 oppure è stata dotata sin dall’inizio di<br />
una caldaia allora sperimentale, poi standard sul<br />
gruppo 835.<br />
In ogni caso, se si opta per restaurare la <strong>830</strong>-017<br />
daremo un contributo alla memoria storica delle<br />
FS e dovremo necessariamente ricondurci alla sua<br />
configurazione originaria, altrimenti, considerato<br />
che la vita operativa della locomotiva è stata<br />
spesa in parti grosso modo uguali sui binari delle<br />
FS e nell’industria, possiamo tramandare<br />
l’altrettanto valida memoria storica della<br />
movimentazione dei carri all’interno delle grandi<br />
industrie e quindi ricondurci alla configurazione<br />
pressoché costante mantenuta durante la sua<br />
attività presso la cokeria. Ma in questo caso<br />
avremo restaurato la locomotiva Italiana Coke N°<br />
3 e non la <strong>830</strong>-017 FS.<br />
La decisione non è facile perché se la seconda<br />
opzione è più semplice e meno costosa, è pur<br />
vero che ci rende una locomotiva abbastanza<br />
anonima e non una delle pochissime se non<br />
addirittura l’unica <strong>830</strong> Breda di seconda serie<br />
sopravvissuta.<br />
È anche vero che la macchina non è destinata a<br />
un museo ferroviario dove sarebbe stato tassativo<br />
restaurare la <strong>830</strong>-017 nel suo stato d’origine<br />
presso le FS, ma è destinata a un museo del<br />
lavoro, in cui l’attività della Breda più che il<br />
singolo prodotto è sicuramente l’elemento<br />
catalizzatore.<br />
Si è allora fatta strada l’idea che poteva avere un<br />
senso un restauro che evidenziasse le linee<br />
generali della locomotiva FS ma che al tempo<br />
129
130<br />
stesso conservasse una traccia di come il lavoro<br />
dell’uomo aveva nel tempo modificato il mezzo<br />
meccanico per renderlo più consono alle sue<br />
necessità: una locomotiva che non è esattamente<br />
la <strong>830</strong>-017 ma conserva, nella cabina, nelle casse<br />
d’acqua, nei piastroni frontali e nei respingenti, le<br />
modifiche apportate dalla cokeria.<br />
Questa macchina, riverniciata secondo i canoni<br />
FS, riporta le targhe sia della Italiana Coke N°3<br />
sia della <strong>830</strong>-017 originale FS, a testimonianza<br />
della sua doppia vita sui binari.<br />
Si è deciso di tenere sollevata la macchina di<br />
alcuni centimetri sul piano del ferro del binario,<br />
in modo da lasciare libere le ruote di girare grazie<br />
a un motore elettrico e opportuna trasmissione<br />
celati nel telaio. Un movimento lento, intorno ai<br />
quattro giri al minuto, ma che consenta di<br />
apprezzare la bellezza e la sensazione di<br />
dinamismo che traspare dall’andirivieni dei<br />
pistoni e dall’armonico gioco delle bielle di<br />
accoppiamento e di distribuzione.<br />
Non è questa la sede per una trattazione<br />
puntuale delle fasi concrete del restauro che è<br />
durato oltre un anno e ha richiesto diversi tipi di<br />
competenze, oltre che l’entusiasmo e la passione<br />
di aziende e persone. A cominciare dalla<br />
Ansaldo-Camozzi, che ha sponsorizzato il lavoro<br />
e ospitato la macchina nei suoi capannoni, non<br />
ha mai lesinato mezzi, materiali e, all’occorrenza,<br />
manodopera. Il grosso dell’attività è stato<br />
condotto poi da Corrado Ferulli e Patrizia<br />
Ricciardi, affiancati da tre ex lavoratori Breda (cui<br />
peraltro si deve anche buona parte del lavoro di<br />
salvaguardia dei materiali d’archivio dell’azienda):<br />
Rodolfo Spadaro, Giuseppe Bruscella e Carlo<br />
Vimercati.
MATERIALI<br />
L’Archivio storico Breda<br />
Grazia Marcialis, Alberto De Cristofaro, Primo Ferrari<br />
<strong>Fondazione</strong> Isec<br />
Rubrica contratti, 1<strong>830</strong>-1952<br />
131
132<br />
Nel 1886 l’ingegner Ernesto Breda rilevò<br />
l’Elvetica, una piccola società milanese operante<br />
nel settore meccanico-ferroviario, e costituì<br />
l’accomandita semplice ing. Ernesto Breda e C.<br />
Pochi anni dopo, nel 1899, la società cambiò la<br />
sua ragione sociale in Società italiana Ernesto<br />
Breda per costruzioni meccaniche (Sieb).<br />
All’intento iniziale di specializzare l’azienda nella<br />
produzione di locomotive e materiale ferroviario<br />
in genere, si affiancarono, via via, nuove<br />
produzioni. Nel 1936 le unità tecnico-produttive<br />
del complesso erano cinque e nelle sezioni I e II<br />
(elettromeccanica e locomotive, ferroviaria) si<br />
produceva materiale ferroviario.<br />
Nel 1951, a seguito dell’approfondirsi della crisi<br />
economica del gruppo, l’avvocato Pietro Sette fu<br />
nominato commissario straordinario dal Fondo<br />
per il finanziamento dell’industria meccanica<br />
(Fim) con l’incarico di procedere al riassetto del<br />
complesso industriale. La Sieb divenne Finanziaria<br />
Ernesto Breda e le sezioni di produzione furono<br />
trasformate in società per azioni controllate dalla<br />
Finanziaria.<br />
È opportuno richiamare, anche se sinteticamente,<br />
questi fatti storici perché proprio in una delle<br />
società Breda si costituì il primo nucleo<br />
dell’attuale Archivio storico. Nel 1980 quattro<br />
dipendenti della Breda Termomeccanica – società<br />
nata dalla I sezione –, Rodolfo Spadaro,<br />
Giuseppe Bruscella, Ivano Baucia e Carlo<br />
Vimercati, assistendo sconcertati all’invio al<br />
macero della documentazione che costituiva la<br />
memoria storica dell’azienda, si posero il<br />
problema in un primo momento del salvataggio<br />
e poi del recupero di ogni tipo di materiale che<br />
testimoniasse l’attività delle sezioni di produzione<br />
I e II e delle società da queste derivate.<br />
Nel 1983, grazie al pressing dei nostri valenti<br />
“bredisti”, l’Archivio fu dichiarato di notevole<br />
interesse storico dalla Soprintendenza archivistica<br />
della Lombardia. Nel 1986 la Finanziaria Ernesto<br />
Breda, in occasione delle celebrazioni del<br />
centenario della Sieb, resasi conto dell’interesse<br />
che l’Archivio storico aveva suscitato fra molti<br />
studiosi di storia dell’industria – come Valerio<br />
Castronovo, che aveva a sua volta incoraggiato fin<br />
dagli inizi il lavoro dei quattro “fondatori” – ,<br />
promosse la costituzione di un proprio archivio<br />
storico, con lo scopo di “valorizzare l’identità e la<br />
memoria storica della società, ma anche per<br />
soddisfare le richieste di documentazione e di
icerche che ci provengono da più parti”,<br />
incorporando il nucleo già esistente. Spadaro<br />
divenne responsabile dell’Archivio storico, mentre<br />
la ricerca e il recupero della documentazione<br />
divennero sistematici e rivolti all’intero complesso<br />
Breda.<br />
In seguito alla dichiarazione sullo stato di<br />
liquidazione della Finanziaria nel 1994 e al<br />
passaggio di proprietà delle società del gruppo, si<br />
presentò il problema delle sorti dell’Archivio e<br />
soprattutto della possibilità di dispersione della<br />
documentazione fino ad allora raccolta, come<br />
molto spesso accade agli archivi e alle biblioteche<br />
aziendali. A questo punto ritornò in primo piano<br />
Spadaro, che prese contatto con la <strong>Fondazione</strong><br />
Isec e successivamente con il Comune di Sesto<br />
San Giovanni per verificare la possibilità di<br />
acquisizione dell’Archivio da parte del comune<br />
stesso. Non va dimenticato che la Breda aveva<br />
avuto una notevole influenza sulla vita sociale,<br />
produttiva e politica della città e che tre sindaci<br />
di Sesto, dal 1945 al 1970, erano stati lavoratori<br />
di questa impresa (Rodolfo Camagni operaio<br />
della III sezione fucine, Abramo Oldrini<br />
capotecnico della I sezione, Giuseppe Carrà<br />
operaio della I).<br />
La realizzazione del progetto fu resa possibile<br />
grazie al parere favorevole espresso dalla<br />
Soprintendenza archivistica regionale e dalla<br />
direzione della Finanziaria e l’iter si concluse il 16<br />
ottobre 1995 con la firma di una convenzione tra<br />
la Finanziaria e il Comune di Sesto San Giovanni,<br />
che depositò l’Archivo presso la <strong>Fondazione</strong> Isec<br />
per l’ordinamento e la conservazione.<br />
La parte cartacea era costituita da circa 250 metri<br />
lineari e conservava i libri sociali della Sieb e della<br />
Feb, la documentazione prodotta e/o ricevuta<br />
dagli organi dirigenti delle stesse, quella relativa<br />
alle sezioni di produzione e in parte alle società<br />
per azioni da queste derivate. Dalle carte è<br />
possibile ricostruire l’attività amministrativa, la<br />
politica aziendale, l’organizzazione del lavoro, le<br />
diverse fasi della produzione (dalla ricerca<br />
tecnico-scientifica alla realizzazione del prodotto),<br />
la promozione dell’immagine, i rapporti aziendapersonale;<br />
a questo proposito vale la pena<br />
ricordare che il patrimonio archivistico della<br />
<strong>Fondazione</strong> Isec comprende una ricca<br />
documentazione delle organizzazioni dei<br />
lavoratori e degli organismi politici e sindacali<br />
presenti all’interno dell’impresa.<br />
Completava e arricchiva l’Archivio una ricca<br />
133
134<br />
documentazione di altra natura: 45.000<br />
immagini fotografiche comprendenti i negativi su<br />
lastra o pellicola e le stampe, circa 9000 disegni<br />
tecnici, centinaia fra modelli di manufatti, 1000<br />
tra bozzetti e fotografie utilizzati per le<br />
campagne pubblicitarie, attrezzi e utensili di<br />
officina e d’ufficio, stemmi e marchi aziendali,<br />
targhe di prodotto o di identificazione degli<br />
stabilimenti, parti di corredo di carrozze<br />
ferroviarie, ecc., una testimonianza di culture,<br />
quella materiale e quella del lavoro, ormai in via<br />
di estinzione.<br />
I documenti iconografici e quelli materiali<br />
testimoniano l’enorme diversificazione produttiva<br />
della Breda, che è nota soprattutto per la<br />
costruzione di locomotive e carrozze ferroviarie<br />
(dalla Littorina al Settebello), tram, autobus e<br />
filobus, carrozze per la metropolitana milanese,<br />
navi, aerei, armi, macchine agricole, macchinari<br />
per l’industria mineraria, siderurgica,<br />
metalmeccanica, elettronica, fino all’industria
Disegno tecnico della targa<br />
in bronzo da apporre sulle<br />
locomotive, anni dieci<br />
135
136<br />
Registro delle assunzioni<br />
Breda, 1916-17<br />
nucleare, ma ha realizzato anche frigoriferi,<br />
ciclomotori (il celebre, ma invero non eccezionale<br />
Bredino) e telai per calze, tanto che un motto<br />
degli operai, dei tecnici e del movimento dei<br />
consigli di gestione, nel secondo dopoguerra,<br />
recitava “la Breda produce dall’ago alle navi”.<br />
Dopo il trasferimento dell’Archivio nei locali della<br />
<strong>Fondazione</strong> Isec la ricerca di ulteriore<br />
documentazione è proseguita alacremente, tanto<br />
che oggi la parte cartacea ha raggiunto i 600<br />
metri lineari.<br />
Per quanto riguarda più specificamente la<br />
documentazione relativa alle costruzioni<br />
ferroviarie (locomotive, carri, carrozze)<br />
nell’Archivio Breda possono essere consultati i<br />
registri dei preventivi relativi alla produzione e<br />
alla fornitura di materiali ferroviari ad altre<br />
società, gli elenchi delle commesse; studi,<br />
progetti e relazioni tecniche di prodotti,<br />
componenti, dispositivi speciali; manuali e<br />
cataloghi; materiale pubblicitario nelle diverse<br />
fasi di elaborazione, dalla fotografia ritoccata ai<br />
disegni preparatori fino al bozzetto finale che<br />
avrebbe illustrato un depliant, un catalogo o<br />
avrebbe dato vita a un manifesto.<br />
La documentazione copre un arco cronologico<br />
che va dalla fine dell’Ottocento alla metà del<br />
Novecento. L’inventario dell’Archivio è<br />
consultabile on line.
MATERIALI<br />
L’Archivio fotografico<br />
Maria Rosaria Moccia<br />
<strong>Fondazione</strong> Isec<br />
Ingresso di una locomotiva a<br />
vapore alla Breda di Sesto<br />
San Giovanni, anni dieci<br />
137
138<br />
L’esistenza di un archivio fotografico aziendale<br />
pone come prima domanda quella delle<br />
motivazioni, delle funzioni e degli scopi che<br />
l’azienda ha espresso nella decisione di avvalersi di<br />
questo tipo di autodescrizione e<br />
autorappresentazione. Mentre l’esistenza di altri<br />
archivi, come quello amministrativo o delle<br />
commesse, è atto imprescindibile dell’attività<br />
aziendale – la sua non esistenza deriva soltanto<br />
dalla sua dispersione – per gli archivi fotografici o<br />
per le raccolte fotografiche, l’intenzionalità e le<br />
modalità di formazione sono primo significativo<br />
elemento di analisi.<br />
Nel nostro caso, pur con le dispersioni e le<br />
manomissioni, questa intenzionalità risulta chiara<br />
ed esplicita, meno facile è la ricostruzione delle<br />
varie fasi e delle procedure di produzione e<br />
conservazione connesse ai cambiamenti societari,<br />
alle attribuzioni di responsabilità aziendale su<br />
questo settore, alla storia dell’archivio nei momenti<br />
decisivi di passaggio di proprietà o di chiusura<br />
dell’azienda.<br />
Esistono pochi esempi in Italia di produzione di<br />
immagini in proprio o comunque sistematiche da<br />
parte delle imprese industriali, casi in cui si può<br />
parlare di un vero e proprio “archivio fotografico<br />
aziendale” e non più genericamente di raccolte<br />
fotografiche. Non abbiamo sufficienti informazioni<br />
in altri settori dell’archivio Breda che ci permettano<br />
di ricostruire con precisione la costituzione e la<br />
storia dell’archivio aziendale, ma alcuni documenti<br />
ci confermano l’esistenza di un ufficio fotografico<br />
(dal 1937 al 1965), in cui lavorava il fotografo<br />
Giuseppe Carlucci (che rimase anche in seguito il<br />
fotografo “ufficiale” della Breda come<br />
collaboratore). Inoltre altri due aspetti connotano<br />
tutta la documentazione fotografica come<br />
produzione sistematica in proprio: in primo luogo<br />
l’ampiezza, la fitta scansione cronologica e le<br />
caratteristiche iconografiche; in secondo luogo<br />
l’esistenza di strumenti di corredo con funzioni di<br />
registrazione e di accesso al contenuto delle<br />
immagini (due registri inventariali dal dopoguerra<br />
agli anni '80 e un catalogo suddiviso per categorie<br />
fino al 1949).<br />
Sono state già descritte, nella presentazione<br />
dell’Archivio storico Breda, le vicende<br />
dell’acquisizione della documentazione che ci<br />
spiega anche la presenza di raggruppamenti<br />
temporalmente e funzionalmente diversi.<br />
Il nucleo centrale dell’Archivio è costituito da circa<br />
40.000 immagini in positivo, di cui per circa<br />
20.000 si possiedono i supporti originali (lastre e<br />
pellicole). Tali immagini sono riconducibili a un<br />
arco temporale che va dai primi del Novecento<br />
agli anni settanta. Un raggruppamento di circa<br />
5000 foto, pervenuto distintamente, riguarda la<br />
documentazione fotografica della Breda<br />
termomeccanica (dagli anni sessanta agli anni<br />
ottanta).
A questo fondo principale vanno aggiunti i<br />
numerosi album fotografici aziendali che, come è<br />
noto, rispondono generalmente a due esigenze<br />
fondamentali: la prima riguarda la necessità di<br />
costruire una storia visiva dell’azienda o di<br />
evidenziare più sinteticamente il contenuto<br />
dell’archivio; la seconda riguarda invece necessità<br />
di carattere celebrativo o occasionale per un<br />
ristretto numero di fruitori (dirigenti, politici o altri<br />
personaggi e istituzioni).<br />
Nell’archivio fotografico Breda distinguiamo un<br />
fondo omogeneo di 47 album fotografici che<br />
rispondono alla prima tipologia (conservativi e<br />
descrittivi dell’attività aziendale). Questi album di<br />
grandi dimensioni (50x70 cm), contenenti in ogni<br />
pagina più foto, sono divisi tematicamente sulla<br />
base delle diverse attività produttive e di alcuni<br />
temi generali (Visite, ritratti di personaggi; Istituto<br />
scientifico Breda; Fiere; Locomotive; Veicoli;<br />
Elettromeccanica; Cantiere navale; Armi e<br />
munizioni; Aeronautica; Macchine industriali;<br />
Caldaie; Autocarri, trattori, carpenterie, caldaie;<br />
Autocarri, motori; Macchine agricole).<br />
Alla seconda tipologia appartengono 30 album<br />
che rispondono ognuno a esigenze di<br />
comunicazione di carattere diverso, ma comunque<br />
legate a occasionalità rappresentative o<br />
documentarie ben precise. Tra questi segnaliamo<br />
gli album su specifici prodotti (armi, trasformatori<br />
ecc.), quello sulle case popolari a Milano costruite<br />
dallo Iacp, oppure quelli sui padiglioni fieristici.<br />
Evidentemente, a seconda dell’occasione o<br />
dell’epoca in cui sono stati prodotti, questi album<br />
presentano, dal punto di vista della confezione<br />
(legatura, copertina, ecc.), caratteristiche che ci<br />
permettono di individuare, insieme alla loro<br />
destinazione, anche modalità e cultura<br />
documentaria del relativo periodo storico.<br />
Oltre ai raggruppamenti descritti, vogliamo<br />
segnalare, come documenti visivi connessi alla<br />
documentazione fotografica, il fondo Bozzetti. Si<br />
tratta di 1000 documenti, costituiti in gran parte<br />
da fotografie utilizzate per prodotti pubblicitari o<br />
per pubblicazioni, che hanno subito processi di<br />
riconfigurazione grafica (ritocchi, progetti di grafica<br />
pubblicitaria, ecc.). Il fondo è di grande rilevanza<br />
per lo studio della presentazione grafica dei<br />
prodotti in relazione alla cultura della pubblicistica<br />
aziendale e tecnica delle diverse fasi storiche.<br />
Le stampe e le lastre dell’archivio originario,<br />
acquisite dal Comune di Sesto San Giovanni e<br />
poi depositate presso l’Isec, hanno subito un<br />
primo riordino coordinato da Rodolfo Spadaro.<br />
In questa fase l’operazione preliminare,<br />
indispensabile per ricostruire la consistenza<br />
complessiva della documentazione, è stata la<br />
riproduzione in positivo dei supporti negativi<br />
(lastre e pellicole). Una priorità per gli archivi<br />
fotografici, in particolare di archivi<br />
quantitativamente consistenti e che hanno subito<br />
139
140<br />
manomissioni dell’ordinamento originario, è la<br />
necessità di ricongiungere documenti (negativi,<br />
positivi, copie) relativi a uno stesso scatto<br />
fotografico, e di identificare il contenuto<br />
dell’immagine. È evidente che, in assenza di questi<br />
dati di riconoscimento e di un ordinamento fisico<br />
di carattere tematico, l’accesso alle immagini è<br />
sostanzialmente impossibile. Oggi, la<br />
digitalizzazione e la catalogazione informatizzata<br />
rende questo problema meno pressante, ma<br />
comunque da considerare per archivi di grandi<br />
dimensioni in cui la catalogazione di tutte le<br />
immagini richiede tempi molto lunghi e risorse<br />
economiche ingenti.<br />
Sempre in questa fase è stato formulato un sistema<br />
di classificazione tematica e si è iniziata<br />
l’individuazione dei soggetti e delle date per 6200<br />
immagini selezionate. Queste foto sono andate a<br />
costituire il primo nucleo accessibile alla<br />
consultazione da parte degli studiosi.<br />
La seconda fase di riordino, iniziata da un anno<br />
circa, si è posta l’obiettivo di procedere alla<br />
ricostruzione dell’ordinamento tematico di tutte le<br />
altre foto e alla individuazione di soggetti e date<br />
delle singole immagini, utilizzando i registri<br />
inventariali e il catalogo di schede esistenti suddiviso<br />
per categorie. Solo in seguito a questo lavoro si è<br />
potuto effettuare il definitivo riordino fisico dei<br />
documenti in supporti (buste e scatole) con<br />
particolari requisiti tecnici per la conservazione sulla<br />
base degli standard nazionali e internazionali.<br />
Successivamente si potrà procedere alla scansione<br />
delle immagini e alla loro catalogazione<br />
informatizzata utilizzando il software SIRBeC<br />
elaborato dalla Regione Lombardia sulla base degli<br />
standard descrittivi predisposti dall’Iccd (Istituto<br />
centrale per il catalogo e la documentazione).<br />
In ogni caso, terminato il riordino fisico, i documenti<br />
potranno facilmente essere consultati utilizzando,<br />
come accesso, il sistema di classificazione articolato<br />
nelle seguenti voci generali: Personaggi, visite,<br />
cerimonie; Fiere e mostre (con relative visite),<br />
pubblicità; Attività sociali; Stabilimenti e reparti;<br />
Danni di guerra e sinistri; Istituto scientifico tecnico<br />
“Ernesto Breda”; Trasporti su rotaia; Trasporti su<br />
strada; Macchine agricole; Armi; Navi e cantiere<br />
navale; Aeronautica; Motori a combustione;<br />
Miniere; Macchine elettriche; Macchine idrauliche;<br />
Impianti (centrali elettriche, caldaie, petrolchimica,<br />
ecc); Macchine industriali; Altre produzioni.<br />
All’interno di ognuna di queste classi generali<br />
sono previsti livelli ulteriori di approfondimento di<br />
cui diamo qui un esempio per la classe Trasporti:<br />
Locomotive; Locomotori; Carrozze ferroviarie;<br />
Carri ferroviari speciali; Automotrici elettriche;<br />
Altre automotrici; Elettrotreni e treni; Tram,<br />
tramvie, metropolitane.<br />
Come hanno evidenziato alcuni storici<br />
dell’industria, la lettura delle immagini<br />
fotografiche, al di là della loro funzione di pura
illustrazione, può e deve essere integrata con<br />
informazioni provenienti da altre fonti<br />
(commesse, disegni tecnici, bozzetti,<br />
pubblicazioni, ecc.) per contribuire all’analisi di<br />
processi storici, tecnologici, economici<br />
dell’azienda e dei settori industriali di riferimento.<br />
Ci si propone quindi di sviluppare le necessarie<br />
connessioni tra documenti appartenenti a fondi<br />
archivistici differenziati, come già previsto da<br />
alcuni innovativi software di catalogazione.<br />
L’Archivio storico Breda, per la ricchezza della sua<br />
documentazione, può rappresentare un caso<br />
esemplare in questa direzione.<br />
Ci sembra utile accennare, in chiusura di questa<br />
breve presentazione, alle valenze storicodocumentarie<br />
dell’Archivio fotografico Breda.<br />
Se il primo evidente valore dell’archivio è di<br />
documentare la storia dell’attività dell’azienda (dalla<br />
produzione alla commercializzazione, alla dirigenza,<br />
alle relazioni industriali), un secondo valore di più<br />
largo raggio è la lettura delle immagini in funzione<br />
dei cambiamenti socio-economici del paese, dei<br />
servizi e delle infrastrutture territoriali o della storia<br />
della tecnologia e del design o ancora dei<br />
comportamenti sociali. Per esempio le immagini sui<br />
trasporti visualizzano in modo evidente le fasi<br />
significative di sviluppo di servizi e infrastrutture o<br />
l’attenzione, dal punto di vista progettuale, al gusto<br />
e alle esigenze di consumo, o anche al<br />
cambiamento della viabilità e del contesto cittadino.<br />
Così come la documentazione su una visita di<br />
Togliatti nei primi anni cinquanta a Sesto San<br />
Giovanni e agli stabilimenti Breda supera il senso<br />
aziendale dell’evento e si ricollega alla storia del<br />
paese e del contesto sociale dell’area sestese. E così<br />
per molti altri temi documentati.<br />
Molti studiosi hanno messo in luce negli ultimi anni<br />
l’interesse della documentazione fotografica delle<br />
aziende, pur legata nella sua produzione ad aspetti<br />
funzionali e di documentazione del “reale”, per<br />
analisi di carattere visivo sui codici espressivi e<br />
culturali di questo tipo di fonti. Le immagini ci<br />
dicono molto della cultura che sottende la loro<br />
produzione e circolazione a partire dalla<br />
committenza, dai fotografi, dai personaggi<br />
rappresentati: numerose sono le ricerche<br />
sull’iconografia del lavoro e dei suoi soggetti,<br />
mentre tutta da sviluppare è, ad esempio, la<br />
ricerca sui codici rappresentativi di oggetti,<br />
macchine e strumenti di lavorazione o sulla<br />
cultura tecnica e grafica che caratterizza la<br />
pubblicistica dei prodotti industriali.<br />
L’insieme degli archivi fotografici della <strong>Fondazione</strong><br />
Isec (Breda, Marelli e altre raccolte minori)<br />
rappresenta, per ricerche su questi aspetti, una vera<br />
miniera in cui scavare, grazie anche alla ricchezza di<br />
accessi al documento oggi permessa dalle nuove<br />
tecnologie informatiche e metodologie<br />
documentarie.<br />
141
142<br />
Manutenzione di una<br />
locomotiva a vapore alla<br />
Breda, anni venti
E alla distanza di cent’anni resuscita Giorgio Oldrini 3<br />
Prefazione Luigi Ganapini 5<br />
La locomotiva Breda <strong>830</strong> del <strong>1906</strong> Alberto Bassi e Raimonda Riccini 7<br />
La storia<br />
Dalla meccanica generale alla specializzazione: Breda 1886-1908 Giorgio Bigatti 12<br />
Tecnica al lavoro: una macchina ai primi del Novecento Raimonda Riccini 26<br />
Progettazione e costruzione ferroviaria alla Breda agli inizi del secolo scorso Alberto Bassi 46<br />
La comunicazione grafica Breda all’inizio del Novecento Fiorella Bulegato 63<br />
Immagini e immaginario della tecnica nell’Archivio fotografico Breda Cristina De Vecchi 76<br />
Urbanistica e architettura di fabbrica alle origini di Sesto industriale Cecilia Colombo 90<br />
Sguardi sul treno<br />
Locomotiva/ferrovia/stazione: e il cinema fu Antonio Costa 103<br />
Da Turner a Dubuffet: per un percorso dell’arte in treno Eliana Princi 109<br />
Un bello e orribile mostro Remo Ceserani 115<br />
Materiali<br />
Indice<br />
Il restauro della <strong>830</strong> Roberto Celotta 123<br />
L’Archivio storico Breda Grazia Marcialis, Alberto De Cristofaro, Primo Ferrari 131<br />
L’Archivio fotografico Maria Rosaria Moccia 137<br />
143
144<br />
Finito di stampare nel mese di giugno 2006<br />
presso le Arti Grafiche Torri di Cologno Monzese (MI)