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Le opere teatrali - Formiche

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Testi <strong>teatrali</strong> di Vincenzo Cerami<br />

<strong>Le</strong> disgrazie<br />

Due tempi (mai rappresentato) (1973).<br />

Il sipario ducale<br />

Riduzione teatrale dell'omonimo romanzo di Paolo Volponi. Regia di Franco Enriquez.<br />

Con Paolo Bonacelli, Pina Cei, Paolo Graziosi, Valeria Moriconi.<br />

Teatro Argentina di Roma, 1975.<br />

Ambientato a Urbino, Il sipario ducale si articola attraverso due storie parallele e alternative, nel clima<br />

inquieto e torbido segnato dalla strage di piazza Fontana: la storia del conte Oddino Oddi-Semproni,<br />

che sogna di ripristinare i suoi vecchi domini medioevali, e quella dell'anarchico Gaspare Subissoni e<br />

della sua compagna Vivés, che destati dalla bomba esplosa nella Banca dell'Agricoltura, sognano di<br />

reinserirsi nella politica attiva. Due sogni che si traducono, sia pure in termini diversi, nella stessa<br />

frustrazione: nel primo caso perché la realtà è cambiata; nel secondo perché, purtroppo, non è cambiata<br />

affatto.<br />

L’amore delle tre melarance<br />

Regia di Angelo Savelli.<br />

Con Ivan De Paola, Roberto Vezzosi, Francesco di Francescantonio, Francesca Breschi, Fabienne<br />

Pasquet, Gigio Morra, Antonella Cioli, Norma Martelli.<br />

Musiche di Nicola Piovani, scene e costumi di Tobia Ercolino.<br />

Prima rappresentazione a Fiesole il 18 luglio 1984. Una creazione della compagnia “Pupi e Fresedde”<br />

per il Festival di Avignone.<br />

Il Centro internazionale di Drammaturgia di Fiesole ha pubblicato il testo della commedia nel 1985.<br />

L’enclave des Papes ou La nouvelle villégiature<br />

Testo di Vincenzo Cerami, collaborazione di Fausta Garavini e Robert Lafont, regia di Jean-Claude<br />

Penchenat.<br />

Con Aziz Arbia, Catherine Bonafé, Marie-Hélène Bonafé, Marie-Berthe Bornens, Christian Coulomb<br />

etc.<br />

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Una creazione del Théâtre du Campagnol e del Théâtre de la Carriera, Francia 1984.<br />

«La mia esperienza al Théâtre du Campagnol è stata fondamentale, e non soltanto all’approfondimento<br />

del linguaggio teatrale. Infatti lo studio compiuto dagli attori di quella compagnia, sotto la guida di<br />

Jean-Claude Penchenat, ha molte affinità con il lavoro del narratore, il quale, più spesso di quanto si<br />

pensi, non costruisce una storia intorno a personaggi prestabiliti, ma, al contrario, cerca i personaggi<br />

attraverso la storia. Impianta cioè la drammaturgia in modo da mettere in scena personaggi<br />

riconoscibili, coerenti, autentici e per questo sorprendenti e originali.<br />

Ho scritto per (ma sarebbe più corretto dire “con”) “<strong>Le</strong> Campagnol” una commedia dal titolo<br />

L’Enclave des papes, era il 1984. Quattro mesi di prove a Parigi e quasi altri due a Arles, che avevano<br />

come traguardo l’allestimento di una commedia completa e complessa, partendo da un canovaccio<br />

appena abbozzato.<br />

Il procedimento creativo per la messa in scena della commedia operato da Penchenat e dalla sua<br />

équipe, non è dissimile da quello assunto da uno scrittore che inventa in solitudine. Si parte sempre da<br />

un vuoto, da uno spazio vuoto, quindi tragico, che bisogna riempire di vita. La riproduzione artificiosa<br />

della vita, sulla pagina scritta o sul palcoscenico, è un atto altrettanto tragico, perché ricostruisce e<br />

mima, con le leggi del linguaggio e delle convenzioni linguistiche, una realtà presunta. L’artista si<br />

convince di raccontare qualcosa che è veramente accaduto o sta accadendo in quel momento nella<br />

realtà. Ma sa di costruire un feticcio.<br />

Abbiamo lavorato con ventisette attori che andavano trasformati in ventisette personaggi, ognuno con<br />

la propria personalità, la propria cultura, il proprio lessico. C’era un luogo preciso in cui dar vita ai<br />

personaggi: era una grande pedana non più spessa di venti centimetri. Non si poteva salire là sopra con<br />

gli abiti e gli atteggiamenti di ogni giorno, come su un marciapiede. Quello era il luogo “altro”, della<br />

trasformazione, del vuoto carismatico da riempire. Se si doveva attraversare il plateau bisognava<br />

almeno mettersi in testa un cappellaccio oppure infilare la giacca alla rovescia o camminare scalzi.<br />

Un personaggio, in quanto tale, è persona molto lontana, con qualcosa di eccezionale, di letterario,<br />

rispetto all’attore (e allo scrittore). Incarnarlo, nel paziente lavoro del Campagnol, è un viaggio di<br />

avvicinamento progressivo, nel quale si cerca il background di ogni figura, un modo di essere che viene<br />

dal passato, da una esistenza irripetibile. Anche nel modo di sfogliare un giornale si rivela un<br />

temperamento. La maggior parte del tempo utilizzato da Penchenat e dai suoi attori si consumava nel<br />

cercare di andare più “lontano” possibile nella ricerca dei personaggi. Jean-Claude li metteva ognuno di<br />

fronte all’altro e poi ognuno di fronte a tutti. Ricordo con divertimento il giorno in cui l’attrice che<br />

doveva interpretare il ruolo della governante ha eseguito l’“esercizio del caffè”. Il regista le ha messo<br />

una tazzina in mano, lei doveva bere quel caffè in modi diversi, a seconda di chi aveva davanti. Ho<br />

visto ventisei modi diversi di sorseggiare un caffè. Nella commedia l’attrice non prende mai il caffè,<br />

però nella sua memoria quei momenti sono rimasti, sono stati uno scambio di segni muti, di sentimenti<br />

che nella messa in scena finale hanno reso espressivo, teatrale ogni minimo gesto. I personaggi di<br />

Penchenat sanno esattamente, nel momento in cui entrano in scena, che ora è, se fuori piove o c’è il<br />

sole, se è giorno o se è notte. Anche il rapporto con i loro abiti e con gli oggetti, con le luci serve al<br />

racconto. Anche l’ingresso di una mosca diventa teatro.» V. C.<br />

Sua Maestà<br />

Regia di Luca De Fusco.<br />

Con Mario Scaccia, Edoardo Sala, Federico Pacifici, Franco Bisazza, Isabella Salvato.<br />

Scenografia di Firouz Galdo, costumi di Firouz Galdo e Maria Pia Paolelli.<br />

Primo Festival delle Ville Vesuviane, Ercolano, 1986.<br />

Testo pubblicato da Theoria, Roma 1986.<br />

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«Ogni racconto è sempre storia di un conflitto. Ma ci sono conflitti talmente antichi e codificati che si<br />

presentano immobili come una categoria dello spirito. Il bene e il male, per esempio, il fato e il libero<br />

arbitrio. Nel caso specifico di Sua Maestà: il servo e il padrone. Il contrasto tra questi due estremi ha da<br />

sempre offerto spazi fertilissimi di fantasia agli inventori di storie. Tuttavia non bisogna lasciarsi<br />

ingannare dall’apparenza. Spesso il conflitto più evidente è solo pretestuale e serve da copertina ad una<br />

vicenda che mette in scena una fitta rete di altri conflitti nei quali vivono temi e sentimenti della<br />

contemporaneità, dell’autore e dei suoi coevi. In questa commedia non c’è denuncia dell’ingiustizia di<br />

un rapporto di potere ma di un esistere secondo linguaggi. Non si tratta di camaleonti che mutano<br />

colore a seconda dell’ ambiente in cui si muovono, ma il camaleonte diventa lupo nella foresta e il lupo<br />

pesce nell’acqua e così via. I mali sociali e anche culturali, i dati psicologici si trovano a dover<br />

reinventare le proprie identità di volta in volta. E il teatro è il luogo dei travestimenti, delle<br />

trasformazioni e dei comportamenti contrastanti. Il Re è sovrano nella Corte e si riconosce tale in<br />

quanto ha sudditi. Se invece lo si abbandona su un’isola deserta e selvaggia diventa un’altra cosa. Il suo<br />

problema è di sapere che cosa. L’uomo rinasce sempre, quindi, passando semplicemente da una stanza<br />

a un’altra: la scenografia muta la sua identità e il suo linguaggio. Ho scritto questa commedia quasi di<br />

getto mettendo insieme l’esperienza letteraria e quella teatrale, più tecnica, acquisita in alcuni anni di<br />

lavoro proprio sopra il palcoscenico. Mi è infatti risultato molto utile aver lavorato in Francia e in Italia<br />

con attori e compagnie diverse. La speranza è quella di essere riuscito ad armonizzare, nel massimo<br />

della libertà creativa, l’esigenza di una poetica e ricerca letteraria personale con quella di una scrittura<br />

teatrale specifica, recitabile.»<br />

V. C.<br />

«Un Re simpatico, non ottuso, un despota illuminato, finisce su un’isola selvaggia con il suo Buffone.<br />

Li circonda una Natura potente, li circondano gli animali, l’odore dell’erba, il rumore della pioggia… E<br />

allora il Re si chiede la ragione dei “ruoli”. Sua Maestà perché Il Buffone di Sua Maestà perché E<br />

decide che, in fondo, questi ruoli potrebbero essere cambiati.» Da una intervista di Rita Sala, Buffone,<br />

perché sei buffone, “Il Messaggero”, 12/02/1986, sul testo edito.<br />

Sa Majesté<br />

Adattamento di Yves Rouquette, regia di Serge Martin.<br />

Con Paul Crauchet, Miguel Angel Cienfuegos, Alain Berlioux, Chantal Grassineau, Jacques Folgado,<br />

Christian Coulomb e Marie-Hélène Bonafé.<br />

Musiche di Lucien Bertolina.<br />

Tournée in Francia settembre-ottobre 1986.<br />

«Bien loin au large de Sète ou des Saintes-Maries-de-la-Mer, un Roi et son Bouffon sont naufragés sur<br />

une île déserte. <strong>Le</strong> Roi face à son double ricanant, dans une nature hostile redevient banalement,<br />

comiquement, mortellement homme. Il sera question de leurs peurs et de leurs querelles, de leur regret<br />

poignant du faste passé et de leur tentation de se perdre dans la liberté infinie de l’île…<br />

Miraculeusement sauvés, ils retrouvent la cour: le Prince va être couronné roi, contre son gré et ses<br />

penchants. <strong>Le</strong> Roi, incognito dans son ancien royaume tente d’exercer le métier de bouffon auprés de<br />

son fils, le vrai bouffon le détrône. Personne au bout du compte n’étant plus Royal que le vrai Roi et<br />

plus bouffon que le vrai bouffon, chacun retrouve sa place, dans un ordre revenu, que le Roi et son<br />

bouffon savent maintenant fragile et illusoire. Dialogues incisifs, humour, comique de mots et de<br />

situations à rebondissements, comique de l’absurde, tissent cette comédie de Vincenzo Cerami.» “De<br />

Novelas la Carriera”, Journal du Théâtre de la Carriera, Arles, n° 24, sept. 1986.<br />

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Imagine!<br />

Saggio di drammaturgia scritto con gli studenti del Centro internazionale di drammaturgia di Fiesole,<br />

1986.<br />

Casa fondata nel 1878<br />

Commedia in due tempi, regia di Marcello Bartoli.<br />

Con Enrico Amprimo, Anna Chiara Caselli, Uliana Cevenini, Patrizia de Libero, Gabriele Duma,<br />

Daniela Nicosia, Roberto Petruzzelli.<br />

Scene di Andrè Benaim, costumi di Anne Marie Heinrich, musiche di Nicola Piovani, luci e direzione<br />

tecnica di Guido Mariani.<br />

Centro internazionale di drammaturgia, Fiesole, dal 6 luglio 1986 al “Chiostro delle Donne”.<br />

Testo-esercizio scritto, sulla base di improvvisazioni <strong>teatrali</strong>, per gli allievi del Centro di Drammaturgia<br />

di Fiesole. Una sorta di affresco storico: nel corso del primo tempo, ambientato nel 1878, si narra la<br />

storia di una famiglia che fonda e gestisce una fabbrica di biscotti. Il secondo tempo ci porta<br />

nell’attualità: la fabbrica è gestita dai pronipoti dei fondatori, alle prese con i problemi generati dal<br />

capitalismo.<br />

«Ho trovato il clima giusto per tentare una cosa importante, per scrivere un testo su misura, ma anche<br />

per inventare degli attori su misura per un testo, ho trovato la possibilità di sperimentare tutto. Abbiamo<br />

selezionato sette attori (giovani, già attori, ma per quanto possibile privi dei vizi e dei vezzi del<br />

mestiere). Dato che erano sette ho pensato di dare loro in carico i vizi capitali, di cercare una<br />

caratterizzazione per ogni vizio, cioè ho cercato di dare vita a sette persone caratterizzate da un vizio<br />

dominante. Ho preso come luogo di riferimento teatrale una casa, quella in cui un contadino “inventa”<br />

il biscotto dal quale nasceranno tutte le fortune e i misfatti di una dinastia, quella che parte appunto<br />

dalla Casa fondata nel 1878 per crescere, prosperare e giungere fino ai più drammatici e complessi<br />

giorni del nostro vivere contemporaneo. Con Marcello Bartoli mi sono inteso molto bene e anche lui ha<br />

fatto uno sforzo di generosità per togliersi alcuni degli stereotipi più cari ed “aiutare” il testo. Gli attori<br />

sono tutti di grandissima buona volontà, alcuni di grande talento. Il problema è forse quello che,<br />

essendo loro alla prima esperienza, il tempo (che pure è straordinariamente lungo, quattro mesi, per i<br />

tempi di prova italiani) è poco.» Dall’intervista di Sara Mamone, Un teatro senza Maestà, “l’Unità”, 1<br />

luglio 1986.<br />

<strong>Le</strong> statue di ghiaccio<br />

Breve testo teatrale su S. Francesco, 1986.<br />

Hello George!<br />

Regia di Marcello Bartoli.<br />

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Con Franco Spadavecchia, Angelica Dettori, Marco Pagani, Sergio Mussida, Alessandro Ferrara, Olga<br />

Vinyals Martori, Riccardo Di Laura.<br />

Invenzioni scenografiche di Lorenzo Ghiglia, consulenza musicale di Mario Pasi.<br />

Cooperativa “Teatro del Buratto”, Teatro Verdi, Milano 1988.<br />

«Mettere Gershwin in scena mi sembrava troppo didascalico e anche poco elegante. Così ho inventato<br />

questa storia che nel contempo illustra la personalità artistica del musicista, attraverso un altro<br />

personaggio, e racconta l’irraggiungibilità di un mito, che poi è il sogno americano.» V. C., da<br />

Giampaolo Spinato, Quasi un musical alla ricerca del mito Gershwin, “la Repubblica”, 12 gennaio<br />

1988.<br />

«Ecco dunque il colpo di genio di Vincenzo Cerami, incaricato della drammaturgia di questo Gershwin<br />

“come un compito in classe”: parlare d’altro, anzi raccontare esattamente il problema, come ci si mette<br />

alla ricerca di George Gershwin. Gli ingredienti sono semplici: un altro immigrato, italiano questa<br />

volta, che non guasta mai. E musicista naturalmente, un musicista povero che si imbatte nella musica di<br />

Gershwin e fa fortuna facendo quello che faceva lui, cioè suonando per gli avventori di un locale. È<br />

innamorato “del mio amico George”, sempre intento a parlare di lui, a seguirlo, a cercare di<br />

raggiungerlo una buona volta, senza mai poterlo fare. Perché se il nostro piccolo italiano lo incontrasse,<br />

Gershwin, dovremmo poterlo vedere anche noi, e il trucco drammaturgico sarebbe stato perfettamente<br />

inutile.» Da Ugo Volli, Pianista italiano da Harlem a Parigi cercando Gershwin, “la Repubblica”, 16<br />

gennaio 1988.<br />

La Cantata del Fiore<br />

Cantata per tre voci e dodici strumenti, musiche di Nicola Piovani, ottava edizione del Festival<br />

Internazionale del Jazz “Rumori Mediterranei” di Roccella Jonica 1988 (testo pubblicato in un volume<br />

antologico, intitolato Di fronte ai classici. A colloquio con i Greci e i Latini, a cura di Ivano Dionigi,<br />

Bur Saggi 2002).<br />

<strong>Le</strong> Cantate del Fiore e del Buffo<br />

Con <strong>Le</strong>llo Arena, Norma Martelli, Donatella Pandimiglio, Simona Patitucci.<br />

Musiche di Nicola Piovani.<br />

L’Aquila, febbraio 1996.<br />

Lo spettacolo è diviso in due tempi. Nel primo tempo viene eseguita la Cantata del Fiore, composta nel<br />

1988, nel secondo tempo la Cantata del Buffo, composta nel 1990.<br />

In occasione della rappresentazione, nell’ottobre del 2003, delle Cantate del Fiore e del Buffo all’Aula<br />

Magna dell’Ateneo romano (con Aisha Cerami in sostituzione di Simona Patitucci), la IUC ha<br />

pubblicato nel programma il testo delle due Cantate.<br />

La storia di Narciso, spirito ribelle e indipendente. In un’assoluta e pericolosa impennata d’orgoglio<br />

sfida gli dei che, in cambio della libertà, gli chiedono di procreare. Ma Narciso si rifiuta di obbedire,<br />

così gli dei lo tentano facendogli incontrare Eco, una giovinetta bellissima. Eco si innamora di Narciso,<br />

si cancella in lui e ne ripete incantata ogni parola. Narciso, esasperato dalla continua ripetizione delle<br />

sue stesse parole, al colmo della noia abbandona la ragazzina, che per il dolore svanisce, divenendo<br />

pura voce. La vendetta divina non si fa attendere: Narciso si innamora del proprio volto riflesso in uno<br />

specchio d’acqua e, nel tentativo di baciarlo, affoga.<br />

Alla storia di Narciso si abbina quella di Caramella, uomo buffo, messo al mondo dagli dei allo scopo<br />

di portare l’ilarità tra gli uomini afflitti dalle tragedie e dalle guerre. Anche Caramella si oppone al<br />

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Fato, vuole sottrarsi al destino di buffone, così scappa e si nasconde alla corte del re Mida, di cui<br />

diventa il barbiere di fiducia. Un giorno, facendo la barba al re, scopre che a questi sono cresciute due<br />

ridicole orecchie d’asino: guai a lui se rivelerà ad alcuno questo segreto, verrà bruciato vivo avvolto in<br />

una camicia di pece. Caramella scappa di nuovo, si rifugia in un deserto e lì scava una buca, ficcandoci<br />

dentro la testa per poter urlare e seppellire il suo segreto. Ma da quella buca nascono delle canne che,<br />

con il soffio del vento, diffondono la verità su re Mida. Gli dei riescono nella loro impresa: il Buffo,<br />

senza volerlo, riesce a far ridere l’umanità.<br />

La casa al mare<br />

Regia di Luca De Filippo, 1990.<br />

Con Luca De Filippo, <strong>Le</strong>llo Arena, Tosca D’Aquino.<br />

Compagnia "L’arte della commedia".<br />

«La casa al mare racconta un’amicizia, un po’ scombinata in verità, tra due persone apparentemente<br />

normali. Corrado e Luigi si conoscono da molti anni, da quando erano ancora ragazzi. I due amici si<br />

trovano nella scomoda situazione di chi è diviso a metà tra gli scaduti valori di un tempo e le incertezze<br />

di oggi: non sanno cancellare fino in fondo il ‘vecchio’ e non sanno entrare in perfetta sintonia col<br />

‘nuovo’. Il loro modo di comportarsi, di parlare, di pensare, risulta così alquanto incongruo e talvolta<br />

addirittura comico. Luigi piange perché la moglie se n’è andata di casa portandosi dietro i bambini.<br />

Corrado se la ride, felice e contento, perché ha incontrato proprio quella mattina una ragazza bellissima<br />

e amabile, degna di un grande investimento sentimentale. Il primo, insomma, vive il crepuscolo di una<br />

lunga storia d’amore, mentre il secondo si trova all’alba di un futuro ricco di emozioni e di<br />

straordinarie promesse. Da qui tutto il grottesco dei contrasti e la comicità delle situazioni. La stessa<br />

antica amicizia si regge su un equilibrio sempre più instabile, perché uno vuole imporre all’altro la<br />

propria visione del mondo.<br />

Ma ecco che compare la misteriosa fanciulla di cui tanto favoleggia Corrado. È un incontro quasi<br />

clandestino, in una casa al mare fuori stagione. Qui Corrado mette in scena il meglio di se stesso per<br />

sedurre la sconosciuta. Sfoggia tutto il suo repertorio di uomo d’oggi, disinvolto, sicuro, aggressivo. E<br />

lei, timida, incerta, si lascia incantare, anche perché la muove un inconsapevole desiderio d’amore e di<br />

sicurezza. Alla fine Corrado e Luigi si ritrovano soli, si riscoprono gli amici di sempre: tanto diversi<br />

uno dall’altro, eppure tanto simili, accomunati da un destino che non può offrire loro altro che<br />

smarrimento e qualche speranza.» V. C.<br />

Traduzione di La finta serva di Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux.<br />

Regia di Luca De Fusco.<br />

Con Paola Pitagora, <strong>Le</strong>opoldo Mastelloni, Roberto Bisacco e Antonella Fattori.<br />

Scenografie di Firouz Galdo, costumi di Giusi Giustino, musiche di Nicola Piovani.<br />

Commedia andata in scena l’11 luglio 1991 a Villa Campolieto di Ercolano<br />

L’assassino<br />

Regia di Piovani e Cerami, musiche di Piovani.<br />

Teatro “La Comunità”, Roma 1992.<br />

Tratto da un racconto di Cerami che compare nella raccolta einaudiana, L’ipocrita, lo spettacolo è una<br />

specie di dialogo tra un personaggio e quattro sassofoni.<br />

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Un giro al Luna-park<br />

Radiodramma pubblicato in “Cinecritica”, XV, 24-25, gennaio/giugno 1992, pp. 20-25.<br />

Il signor Novecento<br />

Racconto musicale. Regia di Cerami e Piovani.<br />

Con <strong>Le</strong>llo Arena, Norma Martelli, Francesca Breschi, Donatella Pandimiglio e i solisti dell’Orchestra<br />

Aracoeli diretti da Nicola Piovani.<br />

Musiche di Nicola Piovani.<br />

Teatro Goldoni, Bagnacavallo 1992.<br />

Pubblicato dalla casa editrice Grin, “I copioni”, 1994.<br />

Il racconto del signor Novecento è un breve viaggio nelle stanze di una memoria privatissima, nella<br />

confusione del ricordo deformato dall’emozione. Un racconto nel quale hanno un medesimo ruolo<br />

narrativo le parole recitate, le parole cantate e la musica senza parole.<br />

«È la storia di una vita, raccontata dal protagonista che ripercorre un intero secolo. Il padre,<br />

bizzarramente, lo ha chiamato ‘Novecento’ perché è venuto alla luce proprio nel 1900.<br />

Il signor Novecento ha trascorso l’adolescenza nell’Italia povera post-unitaria, è diventato adulto con la<br />

prima guerra mondiale e nel fascismo. Ha attraversato la tragedia della seconda guerra mondiale. Si è<br />

sentito rinascere con la ricostruzione, col miracolo economico. È tramontato nella società di massa,<br />

dove, insieme con l’utopia di una palingenesi, si è cancellato lo zodiaco di riferimento che sempre ha<br />

informato la sua esistenza: dell’uomo di campagna, ormai, non gli è rimasto quasi nulla, ma il signor<br />

Novecento tutto questo non lo nota: la sua vita si svolge in un’apparente normalità. Non sospetta<br />

neanche per un momento di essere stato talvolta determinato dalla storia. I calzoni corti, i pantaloni alla<br />

zuava, i colletti inamidati, il girocollo della dolce-vita, gli abiti che il signor Novecento ha indossato<br />

nella sua lunga esistenza, hanno rappresentato successivi stili che egli ha via via adottato con estrema<br />

naturalezza.<br />

Il racconto si incentra su quattro episodi, nei quali il protagonista cerca qualcosa che ha perso o che non<br />

ha mai trovato: una volta è un paio di scarpe, un’altra un gruzzoletto di soldi che aveva ben nascosto da<br />

qualche parte. E intanto trascorre il tempo. Gli è quasi sempre accanto la moglie Pandora. La loro storia<br />

d’amore, per quanto controversa e tra alti e bassi, è l’unico punto fermo rimasto intatto durante così<br />

lunghi anni. I grandi eventi rimangono nello sfondo. La conquista della luna non modifica nulla in casa<br />

del signor Novecento, mentre la scoperta della penicillina salva la vita del primo dei figli.<br />

La storia comincia nel giorno del compleanno del signor Novecento. Si sta vestendo per andare ad un<br />

appuntamento importante. Ma non riesce a trovare una scarpa. La cerca e intanto racconta la sua vita.<br />

Gli fa da spalla la moglie, che a quella vita è legata con tutta se stessa. Oggi anche lei è una vecchia<br />

signora. Ma un tempo era bella e scontrosetta. D’incanto la narrazione comincia a fare balzi nel tempo.<br />

Tutta un’esistenza scorre via come se fosse passata in un solo giorno.<br />

La scena è semplice, i movimenti essenziali. Un’orchestra di tredici elementi stringe al centro gli attori:<br />

il signor Novecento e sua moglie. I due coniugi parlano in versi. Monologhi e dialoghi si alternano<br />

rapidamente, si contraddicono, battibeccano. I due protagonisti hanno la loro eco nelle due voci<br />

cantanti che sono, di volta in volta, la voce della loro anima, la voce e la sonorità della storia, il tempo<br />

che passa.<br />

L’orchestra reagisce come se avesse una personalità sua, estranea, come fosse il cuore di un ipotetico,<br />

segreto ascoltatore: si commuove, si diverte, si immedesima nelle trepidazioni del signor Novecento,<br />

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acconta ciò che questo piccolo uomo non può raccontare perché non lo sa, perché è completamente<br />

immerso nei soliti, quotidiani accidenti di una vita.» V. C.<br />

Nella stagione 2006/2007 Il Signor Novecento è stato rappresentato al Teatro Ambra Jovinelli, con gli<br />

attori <strong>Le</strong>llo Arena e Norma Martelli, le cantanti Aisha Cerami e Raffaela Siniscalchi, i Solisti<br />

dell’Orchestra Aracoeli diretti da Nicola Piovani. Lo spettacolo ha fatto una lunga tournée, che<br />

riprenderà anche nella prossima stagione 2007/2008.<br />

Teatro Excelsior<br />

Regia di Maurizio Scaparro.<br />

Con Massimo Ranieri.<br />

Musiche di Antonio Sinagra.<br />

“Compagnia italiana”, Teatro Eliseo, Roma 1993 e tournée.<br />

Siamo nel 1943, in una cittadina fuori mano ai piedi dell'Appennino, tra l'Abruzzo e le Marche. Il<br />

ventennio fascista è agli sgoccioli. Più di mezzo mondo è in guerra contro la grande Germania e contro<br />

la piccola Italia. Nel glorioso Teatro Excelsior, diventato cinema varietà, la premiata compagnia dei<br />

fratelli Ippolito sta provando lo spettacolo per il debutto della sera. È la prova di una delle tante<br />

compagnie <strong>teatrali</strong> che, nel momento in cui l’Italia è divisa tra il Sud liberato dagli americani e il Nord<br />

occupato dai tedeschi, si prepara ad affrontare il pubblico di sempre.<br />

Canti di scena<br />

Concerto di parole e musica di Vincenzo Cerami e Nicola Piovani. Messa in scena degli autori.<br />

Con Vincenzo Cerami, Norma Martelli, i cantanti Donatella Pandimiglio, Pino Ingrosso e Simona<br />

Patitucci, i Solisti dell’Orchestra Aracoeli, pianista e direttore Nicola Piovani.<br />

Elementi pittorici di Emanuele Luzzati, luci di Sergio Rossi.<br />

Teatro dei Satiri, Roma 1993.<br />

Nel 1981 un primo abbozzo dello spettacolo Canti di scena è stato presentato al Festival di Eraklion a<br />

Creta, su commissione del terzo programma di Radio Atene.<br />

Lo spettacolo è andato in tournée ed è stato ripreso con continue varianti e novità fino al 2000.<br />

Pubblicato da Einaudi, Stile libero, con compact disc, nel 1999.<br />

Il sipario si apre sul poeta che si spreme le meningi: deve stendere le note di presentazione del suo<br />

spettacolo per il programma di sala. Scrive, rilegge, cancella, corregge… e fra i silenzi dei suoi dubbi e<br />

delle sue meditazioni Canti di scena prende corpo, si anima fra le quinte. Procedendo a balzi, per<br />

segmenti, in un tragitto labile ed emotivo, nel suo rapporto non sempre lineare con la poesia e nella sua<br />

passione amorosa per la <strong>teatrali</strong>tà, il poeta riesce infine a raggiungere il suo traguardo: il finale, la firma<br />

e la consegna del pezzo, scritto un po’ en poète e un po’, come si dice, sul tamburo.<br />

Ci sono musiche e poesie che si possono riascoltare all’infinito, perché sempre suscitano un’emozione<br />

nuova. Canti di scena è sicuramente stata la svolta più vistosa del lavoro di Cerami e Piovani. Cerami,<br />

autore delle parole, è entrato direttamente in scena. In questo modo si è aggiunta allo spettacolo una<br />

nuova figura retorica: il pubblico può assistere all’atto creativo dei due artisti (scrittore e compositore)<br />

che ogni sera si “affiatano” e improvvisano. Autore e attore sono realmente la stessa persona, così<br />

come il compositore e il direttore d’orchestra. L’intesa artistica si crea davanti agli occhi del pubblico<br />

cercando, hic et nunc, la giusta temperatura delle emozioni.<br />

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Canti di scena è uno spettacolo che ha continuamente proposto varianti. Edizione dopo edizione, gli<br />

autori non hanno fatto che apportare ritocchi, operare spostamenti, inventare nuovi inserti, sul respiro<br />

delle diverse platee e per provare ad andare “più lontano” insieme con il pubblico. Più che un racconto<br />

organico di fatti ordinati, Canti di scena è una drammaturgia orizzontale, giocata su contrasti emotivi e<br />

anticlimax. <strong>Le</strong> sonorità, il lessico, le fughe nella memoria, il senso del tempo, i ritmi, interagiscono per<br />

proporsi come sentimento della nostra epoca, dove l’alto e il basso convivono. Aforismi e divertimenti;<br />

toni epici, satirici, lirici, infantili; calchi e spiazzamenti linguistici convivono contaminandosi e<br />

modificando i propri segni fino al punto che si può ridere col dramma e commuoversi con la comicità.<br />

Questo sentire le cose (insieme austero e scettico) con cuore leggero ma pensoso, è ciò che alla fine<br />

resta dello spettacolo, è l’impercettibile tessuto connettivo di brani all’apparenza contraddittori e<br />

inconciliabili.<br />

Borderò<br />

Regia di Cerami e Piovani. Musiche di Nicola Piovani.<br />

Con <strong>Le</strong>llo Arena, Nicola Di Pinto, Aisha Cerami e i solisti dell’Orchestra Aracoeli.<br />

Teatro della Cometa, Roma 1994.<br />

Nel gergo teatrale “fare borderò” significa andare in scena per raggiungere quel minimo di<br />

rappresentazioni necessario a una compagnia per beneficiare del contributo governativo. Raffaello<br />

Tarallo, il protagonista, è un attore che va alla deriva, costretto a mettere in piedi in quattro e quattr'otto<br />

uno spettacolino per fare appunto “borderò”. Si presenta davanti al suo pubblico in accappatoio e<br />

chiede pietà per la sua umiliante recita. Mette le mani avanti e confessa di aver rabberciato un copione<br />

per ragioni burocratiche. La scenografia che utilizzerà è quella che sta già sul palcoscenico, montata<br />

per un precedente spettacolo. Tarallo confessa di andare avanti a colpi di esibizioni provvisorie,<br />

interlocutorie, aspettando una stagione nuova, un futuro sicuro. Ma mentre è lì che chiede perdono, le<br />

sue paure prendono la forma di fantasmi <strong>teatrali</strong>. Il desiderio di vedere realizzati i suoi modesti sogni di<br />

gloria e di liberarsi del suo presente, ricco di frustrazioni e privo di borderò, lo spinge a tentare il<br />

grande viaggio fino a naufragare, per ritrovarsi poi su un’isola disabitata. È l’isola magica di Calibano.<br />

E la magia è la stessa di Prospero, del Faust o delle sfere di cristallo. Con Tarallo ha naufragato anche il<br />

suo Re, il suo unico pubblico in quell’isoletta deserta, e lui è un guitto, un buffone di corte e continua a<br />

fare il suo mestiere, rallegra sua maestà con numeri comici e malinconici, che sempre più prendono i<br />

colori e i suoni dei suoi incubi rimossi.<br />

Un vero amico<br />

farsa tragica in cinque puntate radiofoniche, novembre 1995.<br />

L’ultimo addio<br />

Breve testo teatrale.<br />

Pubblicato in Addii. Testi di congedo/ Congedi nei testi, a cura di Mariella di Maio e Roberto Fedi,<br />

Bulzoni, Roma 1996.<br />

L’assassinio di Gonzago<br />

Breve testo teatrale. Regia di Tonino Conte, musiche di Nicola Piovani.<br />

Allestimento del Teatro della Tosse di Genova, 1996.<br />

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Nell’ambito di un progetto biennale dedicato a Shakespeare, intitolato L’opera completa di William<br />

Shakespeare, Tonino Conte ha chiesto a scrittori e a personalità della cultura italiana di ripensare e di<br />

riscrivere alcuni dei capolavori shakespeariani.<br />

In L’assassinio di Gonzago si prende lo spunto dalla recita dei comici dell’Amleto, per dare uno<br />

sguardo dietro le quinte della compagnia girovaga e mettere in luce un intrigante contrasto, interpretato<br />

anche con canzoni, sull’arte e il mestiere dell’attore: esagerazione, esasperazione, o naturalezza<br />

La casa al mare<br />

Regia di Attilio Corsini.<br />

Con Massimo Wertmüller, Angelo Orlando e Tosca D’Aquino.<br />

Musiche di Nicola Piovani.<br />

Teatro Vittoria, Roma, dal 2 dicembre 1997.<br />

«Il copione nacque da un mio racconto che si intitolava Due scemi, ed era una storia piena di<br />

disincanto, una vicenda divertente ma anche amara e aggressiva, la cui crudeltà si perse un po’ per<br />

strada dando luogo a uno schietto e bel successo comico di pubblico. Il perno di tutto resta<br />

l’ambientamento in un condominio di Ladispoli. Preferisco la fauna umana di un sesto piano al mare<br />

con ascensore rotto, anziché i proprietari di villette. Mi interessa di più la gente straziata o resa buffa<br />

dal tran tran delle cose quotidiane, dai sentimenti medi. […] C’è Corrado, con una separazione alle<br />

spalle, che conosce in tribunale una ragazza entusiasmante e, per tentare un approccio s’affretta a<br />

chiedere le chiavi di un appartamento estivo all’amico Luigi, afflitto invece dall’abbandono del tetto<br />

coniugale della moglie, che s’è anche portata via i figli. Uno di loro ha la sensazione che gli si apra una<br />

porta, l’altro la vede appena chiusa. A favore ottenuto, Corrado si fa sotto con la donna, che è benevola<br />

e ben disposta, mentre lui non può fare a meno d’atteggiarsi, di far scena e rovina tutto, finché ai due<br />

amici non rimane che progettare di mettere assieme le loro solitudini.» Da una dichiarazione di V. C. in<br />

Rodolfo Di Giammarco, <strong>Le</strong> piccole umanità nei palazzi di Ladispoli, “la Repubblica”, 2 dicembre<br />

1997.<br />

Dormi ch'è ancora notte<br />

Breve testo teatrale. Regia di Gigi dall’Aglio.<br />

Con Ninetto Davoli, Paolo Bocelli, Veronica Barelli.<br />

Teatro Stabile di Parma, 1998.<br />

Uccellacci e uccellini, il film di Pier Paolo Pasolini, è del 1965. Vi si narravano le avventure di Totò e<br />

Ninetto, alle prese con la caduta delle ideologie e l’affermazione definitiva della società di massa.<br />

Padre e figlio camminano come in una favola popolare e intanto apprendono inconsapevolmente le<br />

nuove regole del vivere comune. Qui sono vittime e là carnefici, ora innocenti creature francescane, ora<br />

crudeli padroni di casa. Li accompagna un corvo pedante e meditabondo, che non si fa scrupoli a<br />

stigmatizzare le loro azioni e i loro pensieri. La sua voce è quella dell’ideologia la quale, appunto, alla<br />

fine verrà divorata dai due picari affamati. Dormi ch'è ancora notte è appena una luce che si accende,<br />

per un momento, sul destino del personaggio di Ninetto a quasi trent’anni dal famoso film. Ninetto<br />

incontra di nuovo il Corvo: sono cambiati tutti e due. Il primo ha quasi completamente perso la<br />

memoria, il secondo fa fatica ad accettare il nuovo Ninetto, ormai uomo in questa nostra società<br />

proteiforme e priva di qualsiasi zodiaco di riferimento pedagogico. Il figlio di Totò incontra anche<br />

Luna, la sgualdrinella bruna che aveva accolto nel proprio grembo padre e figlio. L’eros ha cambiato di<br />

segno.<br />

L’assenza di ideologia mostra un Corvo totalmente spogliato dell’antica passione e dell’antica<br />

razionalità. Appare pateticamente annodato su se stesso, spinto a rifiutare il presente solo perché<br />

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incodificabile. L’emozione non nasce più da un cuore che spera ma da un cuore che malinconicamente<br />

ricorda e ammette la sconfitta. La rappresentazione è, in fondo, il racconto di un’assenza, di un vuoto.<br />

Non c’è più Totò, non c’è più Pasolini, non c’è più l’Italia delle passioni. C’è il corpo di Ninetto,<br />

creaturalmente vivo e come allora vittima. Ma questa volta è preda di un modello di sviluppo che lo<br />

utilizza come puro consumatore.<br />

Romanzo musicale<br />

Regia di Cerami e Piovani, musiche di Piovani.<br />

Con Vincenzo Cerami, Ninetto Davoli, Norma Martelli. Cantanti: Pino Ingrosso, Donatella<br />

Pandimiglio e Simona Patitucci. Orchestra Aracoeli.<br />

Teatro Mancinelli, Orvieto 1998.<br />

Il racconto si svolge nell’incanto della musica, delle suggestioni visive proposte da un grande maestro<br />

come Milo Manara, delle luci evocative di Sergio Rossi. Parole e musica scorrono lungo un filo<br />

narrativo che mette in scena alcuni personaggi della mitologia. Da una parte il personaggio di Libero,<br />

tutto teso a vivere e a godere il presente, ambiguamente diviso tra edonismo brutale e sincere tentazioni<br />

epicuree. Dall’altra parte gli eroi imbarcati sulla nave Argo per inseguire il sogno della palingenesi<br />

incarnato nel mitico Vello d’Oro. Gli Argonauti remano verso l’utopia mentre il crudo, realistico<br />

Libero li irride quasi con disperazione. Chiude il romanzo l’apparizione di Ulisse. L’eroe omerico salva<br />

i suoi marinai che perdono la memoria mangiando il loto dell’Isola Felice, poi, alla fine delle sue<br />

lunghe peregrinazioni, sfida anche lui l’ignoto, insegue il suo Vello d’Oro varcando le Colonne<br />

d’Ercole, e soccombendo.<br />

Durante il 1998, per il Teatro Stabile di Parma e a cura del regista Franco Però, Cerami legge, in<br />

sinagoghe e chiese della Lombardia e dell’Emilia Romagna, L’Ecclesiaste, nella versione di Guido<br />

Ceronetti. Al pianoforte Alessandro Roveri.<br />

Nell’ambito del Festivaletteratura di Mantova del 1999, nel corso di tre pomeriggi Cerami, nella<br />

sinagoga Norsa, ripresenta la sua lettura di L’Ecclesiaste.<br />

«Qohélet è il testo più importante della mia vita. Lo conoscevo fin da bambino, nelle diverse versioni<br />

della Bibbia. Poi ho incontrato la traduzione di Ceronetti, che mi ha fatto provare il bisogno di<br />

pronunciare queste parole a voce alta, come se fossero la proiezione di un silenzio che decide di<br />

misurarsi con la grandezza. La mia non è un’interpretazione da attore. Cerco piuttosto di prendere il<br />

ritmo della scrittura, immedesimandomi in Qohélet e pronunciando il testo come se lo stessi scrivendo<br />

di getto. Come se quelle parole nascessero dal nulla. Il pubblico è attento, suggestionato, addirittura<br />

spaventato dalla durezza e dallo strazio poetico del testo. Anche se c’è anche una zona che mi piace<br />

definire romantica, quando si dice “Meglio due di uno solo”, tutto il testo è multiforme, contraddittorio,<br />

spiazza continuamente il lettore, negando ciò che ha appena affermato. Lì davvero il Cristo non c’è,<br />

non c’è nessuna mediazione tra il lettore dell’Ecclesiaste e Dio. C’è soltanto un grande vuoto che<br />

sbalordisce, crea fobia, fa tremare. <strong>Le</strong>ggendo questo testo si intuisce che la presenza di Cristo è venuta<br />

a medicare questo vuoto, a riempire questa condizione insopportabile. Dio ha fatto il mondo, si legge in<br />

Qohélet, “perché l’uomo non trovi nessuna traccia di lui”, ed è una delle verità insopportabili enunciate<br />

in quest’opera. Soltanto con Cristo l’immagine dell’assoluto diventa amica e l’uomo viene riscattato<br />

dalla sua solitudine astrale. Del resto anche La vita è bella, che pure nasce dalla tragedia<br />

dell’Olocausto, racconta una storia compresa nell’orizzonte della cultura cristiana. Al centro del film,<br />

se ci si pensa bene, c’è una famiglia, che è poi la Sacra Famiglia. Per me risulta impossibile<br />

immaginare la trascendenza senza riferirmi alla figura di Cristo.» V. C.<br />

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Dal 16 al 20 marzo del 2005 è stata presentata una nuova versione di L’Ecclesiaste presso il Piccolo del<br />

Teatro Ambra Jovinelli di Roma. La messa in scena si è avvalsa della partecipazione del musicista<br />

Aidan Zammit; la lettura del testo sacro è continuata con diverse repliche. La sera del 24 marzo 2007<br />

nell’aula I della Facoltà di Giurisprudenza dell’università “La Sapienza” di Roma, in occasione della<br />

seconda edizione de «L’Università della notte. L’Europa dei saperi», Cerami ha ripresentato la sua<br />

interpretazione di L’Ecclesiaste. Con questo testo è anche intervenuto a Castelbasso (Teramo).<br />

La Pietà<br />

Stabat Mater concertante per due voci femminili, voce recitante e orchestra.<br />

Testi di Cerami, musiche di Piovani.<br />

Con Gigi Proietti, Amii Stewart, Rita Cammarano e i solisti dell’orchestra Aracoeli.<br />

Teatro Mancinelli, Orvieto 1998.<br />

Due madri: ambedue piangono il proprio figlio morto. La prima madre, in un paese opulento e<br />

consumista, ha visto suo figlio ucciso dalla droga, vittima di una società smarrita nei miti sbagliati del<br />

benessere e nella perdita del sentimento della trascendenza. La seconda ha perso il figlio ucciso dalla<br />

fame: la carestia di un paese del Terzo mondo non ha risparmiato il ragazzino che si è smagrito, ha<br />

mangiato la terra e davanti agli occhi di lei si è spento. Due madri addolorate, due cause di morte<br />

opposte, ma vittime dello stesso modello di sviluppo planetario. Ripercorrendo la forma dello Stabat<br />

Mater classico, La Pietà canta, in versi liberi, il dolore archetipo della madre per la perdita del figlio, il<br />

dolore di Maria sotto la croce, citando a tratti i versi rituali di Jacopone da Todi sia in traduzione<br />

moderna, sia nell’originale latino.<br />

«Lo stesso Cerami ricorda che questa Pietà è nata nell’intimo di un musicista e di uno scrittore armati<br />

soltanto di una penna e un pianoforte. Il “libretto” è intensamente coinvolgente. <strong>Le</strong> madri sono due: una<br />

bianca (piange il figlio ucciso dalla droga) e una nera (piange il figlio che non ha avuto nulla da<br />

mangiare). Alle due madri si aggiungerà poi quella più antica, che piange il figlio morto sulla croce.<br />

Intorno alle madri del nostro tempo c’è tutto un mondo che non s’accorge più di nulla. Il fantasma di<br />

Brecht sembra, a volte, aggirarsi tra le tragedie spalancate da Cerami (“la metropolitana è un verme / è<br />

un branco di iene la carovana/ di macchine e taxi”). E, almeno una volta, anche nella musica, incline<br />

alla malinconia di Catalani, prima di sfociare nelle due ultime parti (quinta e sesta, nelle quali La Pietà<br />

raggiunge, nel suo ambito, la soglia del capolavoro) il fantasma di Kurt Weil sembra aggirarsi tra suoni<br />

nervosi e non pietosi, nel cui alone si è sempre tenuta la voce di Gigi Proietti, anche quando attraverso<br />

il luminoso canto di Amii Stewart (madre nera), La Pietà accoglie i versi latini di Jacopone da Todi,<br />

coinvolti nella cullante melodia della ninna-nanna.» Dalla recensione allo spettacolo (allestito al Teatro<br />

Quirino di Roma) di Erasmo Valente, “La Pietà”, voci di donne a lutto, 13 aprile 2000.<br />

Ring<br />

Regia di Franco Però.<br />

Con Elena Arvigò, Paolo Bocelli, Laura Cleri, Fabrizio Croci, Stefano <strong>Le</strong>scovelli, Francesco Stella,<br />

Tania Rocchetta, Davide Rotoli.<br />

Produzione “Teatro Stabile di Parma”, al Teatro Due di Parma dal 17 marzo al 2 aprile 2000.<br />

«Ring non è solo un testo sulla boxe, anche se questo sport innerva indubbiamente tutto lo spettacolo.<br />

L’idea mi è nata soprattutto per la voglia di scrivere una commedia dove gli attori in scena parlassero lo<br />

stesso linguaggio degli spettatori in sala. Il linguaggio della vita, insomma, come succedeva a Goldoni,<br />

Pirandello, Eduardo. Così ho pensato a un soggetto che ha al suo centro la storia di un ex pugile, di<br />

poco più di cinquant’anni. Uno di quelli che cercano di vincere la nostalgia per il ring aprendo una<br />

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palestra e allevando ragazzi. Ma intanto la boxe è cambiata: non ci sono più quegli artisti della velocità,<br />

meravigliosi nel movimento delle gambe, che sono stati sostituiti dai devastatori da k.o. E i ragazzi che<br />

il nostro istruttore si trova davanti sono stati tirati su con gli omogeneizzati e le fosfatine, non hanno<br />

più tanta voglia di soffrire… le cose vanno male. […] Sta per chiudere la palestra quando un amico gli<br />

porta un ragazzo tunisino che ha visto battersi, salito al nord dopo aver sbarcato il lunario a Mazara del<br />

Vallo come tagliatore di teste di gamberetti. Il proprietario della palestra di dedica al giovane, che gli<br />

ricorda il grande Ray Sugar <strong>Le</strong>onard, perché ne ha intuito le qualità di velocità e di leggerezza. Ma si<br />

rende subito conto che gli manca la “castagna”, cioè quel pugno micidiale capace di stendere gli<br />

avversari. […] Decide di insegnargli la cattiveria. […] Ma non può fare a meno di chiedersi dove<br />

finisca la cattiveria e dove inizi la violenza vera. E decide di insegnargli la violenza.» Palco ring,<br />

intervista di Maria Grazia Gregori, “l’Unità”, 15 marzo 2000.<br />

Socrate<br />

Liberamente tratto da Platone e Aristofane.<br />

Regia di Gigi Proietti.<br />

Con Gigi Proietti, Martina Carpi, Francesca Caratozzolo, Umberto Ceriani, Gianfranco Mauri ecc. In<br />

scena un quintetto d’archi.<br />

Scene di Quirino Conti, musiche di Nicola Piovani, movimenti mimici di Marise Flach, luci di Gerardo<br />

Modica.<br />

Piccolo Teatro di Milano, 2000.<br />

Pubblicazione del testo a cura del teatro.<br />

Per narrare gli ultimi giorni della vita di Socrate, Cerami si avvale di un accorto montaggio cronologico<br />

includente il flash-back, evitando la vana impresa di riproporci una Grecia di cartapesta. E così quello<br />

di Socrate diventa, con ritrovata attualità, il caso di un filosofo che introduce nell'Atene soddisfatta<br />

dell’ “età dell'oro” l'arma rivoluzionaria del dubbio dialettico, che accetta la cicuta impostagli da una<br />

“tirannide democratica” per affermare l'obbedienza alla legge morale e che rifiuta la fuga dal carcere<br />

per non farsi complice della corruzione. Ai suoi discepoli, che lo scongiurano di salvarsi con la fuga,<br />

alla moglie, al guardiano e al comandante del carcere il filosofo oppone il dovere della coerenza e il<br />

rispetto della legge: beve la cicuta e muore. Nella seconda parte Cerami introduce la beffarda caricatura<br />

che di Socrate fa Aristofane, nel tribunale trasformato in cavea delle Nuvole. Per poi farlo tornare a<br />

essere il condannato a morte che si congeda da una società che lo accusa di corrompere i giovani per<br />

averli spinti alla rivoluzione della libertà.<br />

«Al di là dell’alta lezione di Socrate, del suo rigore e della sua fedeltà ai propri principi (che pure<br />

disegnano i tratti fondamentali del personaggio) il testo teatrale che ho scritto vuole mettere in rilievo i<br />

meccanismi attraverso i quali il grande filosofo ateniese smonta il comune sapere mostrandone<br />

vuotaggini, pregiudizi e parassitarie ritualità. La sapienza di cui Socrate parla non è, come può<br />

sembrare in prima lettura, valore in sé, ma mira a risposte tanto utili e concrete quanto impossibili. La<br />

moralità quindi altro non è che ricerca di una verità non raggiungibile, nemmeno dopo la morte. La<br />

moralità socratica si attua concretamente quando evidenzia i falsi convincimenti che fanno da vacuo<br />

zodiaco di riferimento a una società, come quella ateniese ai tempi dell’amnistia generale del 403 (che<br />

somigliano così brutalmente ai nostri), nella quale tutti credono di sapere e non sanno, in cui tutti sono<br />

convinti di essere nel giusto e invece vivono nell’errore, conformisticamente. Una democrazia che si<br />

costruisce su principi sbagliati e che ricava benefici dai pregiudizi del popolo, che addirittura fa della<br />

corruzione, come ad Atene dopo la caduta dei Trenta e la ricostruzione della democrazia, una tacita<br />

regola da tutti accettata, non si può definire tale. Per questo l’etica di Socrate, scardinando le effimere<br />

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certezze del popolo, è pericolosamente eversiva. Egli difende le leggi in quanto tali e nello stesso<br />

tempo toglie loro il punto d’appoggio, invalidandone i valori che ne ispirano l’applicazione. Tra le<br />

accuse che il filosofo riceve dal tribunale e che hanno spinto i cinquecentouno giudici a condannarlo a<br />

morte c’è quella che oggi chiameremmo di “plagio”. Socrate, solo attraverso il ragionamento,<br />

spingendo semplicemente a ragionare, destabilizza i suoi interlocutori fino al punto di traumatizzarli, di<br />

far perdere loro ogni certezza, prostrandoli, riducendoli a vittime di ciò che Ernesto de Martino<br />

chiamava “presenza malata”, senso della perdita di sé.<br />

Nello spettacolo che ho scritto nel 2000 per il “Piccolo” di Milano e per un attore di straordinaria<br />

intensità e ironia come Gigi Proietti, ho tentato di “incollare” il personaggio teatrale alla retorica<br />

socratica; di mettere in scena, accanto al dettato morale del filosofo, la stringente logica di un pensiero<br />

che, appunto, mettesse a nudo la rete di ipocrisie e opportunismi che tesse l’immortalità, ormai<br />

fisiologica e “normale” nel corpo dello Stato. Ma a parlare sul palcoscenico non può essere solo il<br />

pensiero di un filosofo. Per quanto coerente e interessante possa essere ha bisogno di un corpo, di un<br />

vissuto, di affetti, di tensioni contraddittorie e umane. Il Socrate teatrale agisce, è condizionato e messo<br />

in difficoltà dalle circostanze. Il suo “sapere” viene raccontato (e sporcato) anche con la gestualità, con<br />

i silenzi, con gli sguardi; il suo discorso ha, per peculiarità del linguaggio teatrale, molti sensi impliciti,<br />

non espressi con le parole del protagonista.<br />

Un’accurata griglia narrativa è necessaria per la mise en situation di un personaggio che prende<br />

decisioni radicali come quella di rifiutare la libertà illegale per scegliere la morte. Tale è la ragione<br />

dello sconvolgimento temporale dei fatti rispetto alla fabula degli ultimi giorni del filosofo. Lo<br />

spettacolo evita la cronologia e modifica i tempi di alcuni passaggi presenti nei testi di Platone. Il<br />

processo, ad esempio, è raccontato in flash-back e il momento in cui Socrate beve la cicuta non<br />

corrisponde a quanto raccontato nel Fedone. <strong>Le</strong> modifiche hanno, appunto, il compito di introdurre<br />

pathos là dove la serrata logica dei discorsi si fa pura dottrina.<br />

Ho anche previsto, a un terzo del secondo tempo, un inserto liberamente tratto da <strong>Le</strong> nuvole di<br />

Aristofane. La sua funzione è di mostrare, con una rappresentazione viva, il linciaggio cui è stata per<br />

anni sottoposta la figura di Socrate e anche per restituire i sapori di una società reale che vive fuori<br />

dall’aula del tribunale. La scena, oltretutto, fa da anticlimax alla severità del processo introducendo<br />

nella tragedia una sciatta quanto cruda spettacolarizzazione dei principi socratici, ridicolizzandoli e<br />

riducendoli a barzelletta. Ovviamente ogni riferimento all’oggi è del tutto casuale<br />

Per quanto concerne l’obbligo di sintesi teatrale ho preferito concentrare la tragedia soprattutto intorno<br />

a due punti, centrali tra l’altro nel pensiero socratico: la morale e la conoscenza. Li ho preferiti, ad<br />

esempio, ai pur sublimi argomenti sull’eros, perché mi apparivano adeguati alla situazione<br />

drammaturgia (la carcerazione e l’esecuzione capitale) e perché di evidentissima attualità. Lo spettatore<br />

non potrà infatti evitare di accostare le problematiche del tempo di Socrate a quelle di oggi, benché<br />

abbia accuratamente evitato ogni forma di attualizzazione. I discorsi del filosofo sono di fatto ancora<br />

scottanti, e molto probabilmente rimarranno tali per chi sa quanti secoli.» V. C.<br />

Francesco, il musical<br />

Regia di Claudio Insegno e Fabrizio Angelini.<br />

Con Antonello Angiolillo e Aisha Cerami.<br />

Musiche di Benoit Jutras.<br />

Lyrick Theatre, Assisi 2000.<br />

La storia di San Francesco vista attraverso gli occhi di <strong>Le</strong>onardo, un giovane che, attratto dalla<br />

“perfetta letizia” predicata dal fraticello di Assisi, deve sottomettersi a una serie di prove fino al suo<br />

definitivo accoglimento nell’Ordine.<br />

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«Mi faceva paura il carisma di San Francesco. Un santo che ho sempre visto come un personaggio della<br />

mitologia greca, proteiforme. Una figura difficile da focalizzare. Così, ho spazzato via i sociologismi e<br />

gli ideologismi che hanno spesso avvolto il Poverello di Assisi. Ho evitato la storia dell’uomo,<br />

altrimenti sarebbe uscita la figura di un “pazzo”, di un invasato. Ho invece scelto di raccontare la storia<br />

di un vero santo: uno che fa i miracoli e arriva all’essenzialità dell’esistenza. Non c’è nessun taglio<br />

eversivo o rivoluzionario nel mio lavoro. Francesco più che un ribelle è un uomo e un santo. Forte e<br />

semplice. Io volevo andare dritto all’animo del santo. Così, ho inventato un personaggio che mi facesse<br />

da filtro: un fraticello che vive nel mito di San Francesco, che lo insegue e lo spia. Il santo è visto con<br />

gli occhi di questo giovane, è lui il personaggio chiave, quello che mi ha permesso di comporre un<br />

“mosaico” sul leggendario santo. Così, la struttura del musical è diventata leggera, senza bisogno di<br />

calcare la mano in chiave moderna. San Francesco rappresenta comunque tutto quello che le società<br />

organizzate reprimono: con le sue rinunce aveva già capito come liberarsi dei codici, dei<br />

condizionamenti culturali, di tutti quei comportamenti che la società impone. Anche la lingua può<br />

essere repressione della nostra libertà. Francesco insegna: nasciamo nudi, quindi ci rivestiamo con la<br />

cultura, ma dobbiamo essere capaci anche di spogliarci di tutto per arrivare alla parte più profonda che<br />

c’è in ogni creatura umana. In Francesco, il musical c’è in qualche modo una parabola di morte e<br />

resurrezione, di rinascita ed ascesi mistica. Per il musical utilizzo il Cantico delle creature. Ma non<br />

ripropongo la poesia aulica. La poesia viene in qualche modo “sporcata” dal ragazzino che ci racconta<br />

del santo, si tratta di una poesia che non entra direttamente nello spettacolo se non in modo trasversale.<br />

Così, si apprezza di più l’assoluta modernità di Francesco, un santo molto amato perché è lì, vivo nei<br />

secoli. Altri santi si dimenticano, lui no.» V. C.<br />

<strong>Le</strong>ttere al metronomo<br />

Coordinamento scenico di Norma Martelli.<br />

Con Vincenzo Cerami, Aisha Cerami e il tastierista Aidan Zammit. Musica di Nicola Piovani.<br />

Questa performance è andata in scena per cinque serate nel settembre del 2002 nell’ambito del Festival<br />

della <strong>Le</strong>tteratura di Mantova.<br />

Un metronomo, come fosse un cuore che batte, scandisce il ritmo (qui rabbioso, lì ossessivo o<br />

rassegnato) delle parole che compongono l’epistolario. <strong>Le</strong> luci si accendono su un musicista alla<br />

consolle, Aidan Zammit e su una cantante, Aisha Cerami. Cerami è in proscenio, dietro al leggio.<br />

«<strong>Le</strong>ttere al metronomo è un epistolario in versi. Chi scrive vive da sempre nella metropoli, tra<br />

mitologie disfatte e sogni lacerati. I destinatari sono pescati nella folla, riemergono da memorie<br />

rumorose, dove si agitano appena passioni decadute, amori andati in fumo, progetti rimasti eterne<br />

promesse. L’autore delle lettere scrive e si ascolta, con ironia, vuole che la propria voce fugga da un<br />

silenzio interiore, metafisico e assordante. Vuole, per un momento, fare smorfie allo specchio. Sa che<br />

quelle missive raggiungeranno persone ormai lontane e senza ricordi. Sono lettere vacue, messaggi<br />

nella bottiglia lanciata in uno stadio urlante. Ma non importa, la vita è linguaggio. I panorami sono<br />

appunto della città popolosa, e anche il tono di voce è di cemento e di polvere, e talvolta ha la<br />

desolazione della discarica. <strong>Le</strong> parole sono scritte per essere ascoltate e non lette in solitudine. Hanno<br />

un suono, che ha significati reconditi e imprevisti, e che dilata in canto. La musica riempie i vuoti creati<br />

dall’emozione di chi sta parlando del proprio vivere.» V. C.<br />

«E non perdonando amici, donne, colleghi e certa umanità in cui s’è imbattuto, Cerami elegge qui<br />

l’invettiva a drammaturgia, ci fa pensare alle insolenze di Wilcock e di Flaiano, all’icasticità di<br />

Manganelli, alla furia radicale di Bogosian, allo humour impietoso del “Signore e signori” dell’ultimo<br />

Alan Bennett. Ma c’è anche proprio un marchio tutto suo di immoralismo, di svagatezza furiosa e di<br />

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cantilena famelica in armonia sempre con le partiture dettate da Nicola Piovani. Al di là di un’oscura<br />

pietà, l’acme è in una sequenza di maledizioni che neanche Artaud e <strong>Le</strong>nny Bruce messi insieme<br />

avrebbero potuto concepire.» Dalla recensione di Rodolfo Di Giammarco, Cerami, lettere<br />

immaginarie contro il mondo molesto, “la Repubblica”, 25 ottobre 2004, p. 39.<br />

Una nuova versione dello spettacolo è stata rappresentata al Piccolo del Teatro Ambra Jovinelli di<br />

Roma nel mese di ottobre del 2004, per poi proseguire con numerose repliche anche nel 2005 e nel<br />

2006.<br />

La vera storia di Alcmena<br />

Microcommedia comica rappresentata al Mittelfest, a Cividale del Friuli, a luglio del 2003.<br />

L’Isola della Luce<br />

Cantata di Nicola Piovani per due voci cantanti, Noa e Pino Ingrosso, la voce recitante dell'attore greco<br />

Nikitas Tsakiroglou, la chitarra di Gil Dor e l'orchestra Ara Coeli diretta dallo stesso Piovani.<br />

I testi in poesia sono di Vincenzo Cerami. Sono state inserite dal maestro Piovani anche citazioni da<br />

Sicilo (il suo epitaffio è il primo testo dell’antichità greca con una minima annotazione musicale),<br />

dall’Ecclesiaste, da George Byron (il testo poetico Darkness), da Albert Einstein (che ha descritto<br />

scientificamente e in maniera filosofica la natura della luce).<br />

È andata in scena, in prima mondiale, il 14 settembre 2003 a Delos, la magica isola delle Cicladi<br />

greche, un lembo di terra disabitato e bellissimo. Commissionata dal governo greco per le “Olimpiadi<br />

della Cultura”, la serie di eventi che hanno accompagnato l’avvicinamento ai giochi olimpici del 2004,<br />

l’opera del compositore italiano è il racconto in musica della paura dell’oscurità e della speranza che<br />

trionfi la luce.<br />

Fra i concerti della stagione 2004-2005, l’Istituzione Universitaria dei Concerti dell’Università “La<br />

Sapienza” di Roma ha presentato in prima esecuzione italiana L’isola della Luce, cantata per voce<br />

femminile, voce maschile, voce recitante e orchestra. La rappresentazione, che si è svolta presso l’Aula<br />

Magna dell’università, ha avuto come interpreti Noa, Pino Ingrosso, Omero Antonutti e i Solisti<br />

dell’Orchestra Aracoeli diretti da Nicola Piovani.<br />

Gli amici di Salamanca (Die Freunde von Salamanka D.326)<br />

Singspiel comico in due atti di Johann Mayrhofer, musica di Franz Schubert.<br />

Edizione critica dell’Internationale Schubert-Gesellschaft a cura di Marco Beghelli.<br />

Dialoghi parlati e proposta drammaturgica di Vincenzo Cerami.<br />

Regia Franco Ripa di Meana. Maestro concertatore e direttore Rodolfo Bonucci.<br />

Sei rappresentazioni nel maggio del 2004 al Teatro Comunale di Bologna.<br />

Il comico e la spalla<br />

Regia di Jean-Claude Penchenat.<br />

Con Tuccio Musumeci, Pippo Pattavina, Anna Malvica, Aisha Cerami e il fisarmonicista Fabio<br />

Ceccarelli.<br />

Commento musicale di Nicola Piovani, scenografia di Roberto Moscoso.<br />

Sala Verga del Teatro Stabile di Catania, maggio-giugno 2004.<br />

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Il copione, tradotto in francese, è stato pubblicato nella rivista “Auteurs en scène”, n° 6, nella rubrica<br />

“Théâtres d’ailleurs”, 2004.<br />

«Ho preso due figure classiche della comicità. Il ‘900 è pieno di prototipi di ditte famose, di gemellaggi<br />

del palcoscenico, e basti fare tra i tanti i nomi dei fratelli De Rege, di Totò e Peppino, di Totò e<br />

Castellani, di Tognazzi e Vianello. Andando indietro nel tempo, tutto si ritrova in Don Giovanni e<br />

Sganarello, ma c’è anche una sequenza deliziosa dell’Inferno tra Dante e Virgilio all’insegna del “Vai<br />

avanti tu”…[…] Io credo di sorprendere con una lente una giornata speciale in cui due amici uniti da<br />

30 anni di spettacolo gomito a gomito si trovano di fronte a una scelta: infrangere la gabbia che li tiene<br />

assieme e provare a camminare da soli, separatamente, oppure rinchiudersi di nuovo nella dimensione<br />

in cui hanno vissuto tra sberleffi e facezie incarnando i ruoli fissi di carnefice e vittima. Qualcosa di<br />

patetico, per la loro età, visto che hanno ognuno una sessantina d’anni. L’intrusione della ragazza opera<br />

come una cartina al tornasole, ma il mestiere di tutti e due non può essere sconvolto.» Dall’intervista di<br />

Rodolfo Di Giammarco, “Trasformo in dramma la coppia comica”, “la Repubblica”, 21 maggio<br />

2004.<br />

A partire da gennaio 2005 la tragicommedia di Cerami è andata in tournée nei più importanti teatri<br />

italiani.<br />

Concha Bonita<br />

Opera musicale di Alfredo Arias e René de Ceccatty. La versione italiana del testo è firmata da<br />

Vincenzo Cerami e Nicola Piovani.<br />

Con Gennaro Cannavacciuolo, Mauro Gioia, Sandra Guido, Antonio Interlandi, Sibilla Malara,<br />

Alejandra Radano, Gabriella Zanchi / Gennaro Cannavacciuolo, Raffaele La Tagliata, Sibilla Malara,<br />

Alejandra Radano, Catherine Ringer, Gianfranco Vergoni, Gabriella Zanchi (2005/06); Sinan Bertrand,<br />

Gennaro Cannavacciuolo, Mauro Gioia, Sibilla Malara, Alejandra Radano, Sandra Rumolino, Gabriella<br />

Zanchi (2006/07).<br />

Regia di Alfredo Arias.<br />

Musiche di Nicola Piovani.<br />

Scenografie di Francesco Bancheri.<br />

Ideazione costumi di Françoise Tournafond.<br />

Luci di Franco Ferrari.<br />

Ideazione trucco e parrucche di Jean-Luc Don Vito.<br />

Orchestra Aracoeli.<br />

Pianista e direttore Enrico Arias.<br />

Produzione Teatro Ambra Jovinelli - Compagnia della Luna.<br />

A febbraio del 2005 è andato in scena all’Ambra Jovinelli il primo allestimento in italiano del musical<br />

rappresentato in Francia nel 2002.<br />

Nella stagione teatrale 2006/2007 lo spettacolo ha fatto una lunga tournée toccando nuovamente Roma,<br />

dove è stato rappresentato con grande successo presso il teatro Brancaccio.<br />

La Cantata dei Cent’anni<br />

Opera musicale di Vincenzo Cerami e Nicola Piovani scritta per il Centenario della nascita della Cgil.<br />

Cantanti: Pino Ingrosso, Alessandro Quarta, Raffaella Siniscalchi, Gabriella Zanchi. Voce recitante:<br />

Massimo Wertmüller. Orchestra Roma Sinfonietta diretta da Nicola Piovani.<br />

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La prima esecuzione è andata in scena nel maggio 2006 a Roma presso l’Auditorium Parco della<br />

Musica, Sala Santa Cecilia, eccezionalmente con la partecipazione di Gigi Proietti come voce recitante.<br />

«Devo confessare che in un primo momento mi sono spaventato. Come fare a restituire il senso di una<br />

storia così lunga e importante, ricca di episodi esaltanti, strazianti e tragici come quella della Cgil<br />

Tutto in un’opera piena di musica … L’idea drammaturgica mi è stata ispirata da una semplice frase<br />

che recita l’Ecclesiaste nella Bibbia, là dove dice che “due sono meglio di uno, perché se uno cade<br />

l’altro lo rialza”. In questa frase c’è tutto il senso della solidarietà, del primato dell’uomo,<br />

dell’amicizia. L’ho messa al centro di tutto, in modo da inquadrare l’opera della Cgil in un contesto<br />

antropologico, e quasi religioso.» V. C.<br />

«Quando ho diretto l’orchestra e ho sentito dietro le spalle il respiro degli spettatori accorsi in teatro o<br />

in piazza, da Trieste a Siracusa, raccolti a celebrare con noi questo compleanno centenario, quando ho<br />

sentito che l’emozione saliva e ho avvertito che qualcuno riconosceva nascosto nei pentagrammi il giro<br />

armonico dell’Internazionale, ho fatto fatica a restare lucido, a battere il tempo. Ho rischiato di perdere<br />

il conto delle battute.» V. C.<br />

Lo spettacolo è stato replicato come “evento speciale” nel corso dell’estate 2006 in molte tra le più<br />

importanti città italiane. A luglio del 2007 è uscito il testo della cantata completo di cd, a cura della<br />

casa editrice della Cgil, Ediesse.<br />

Made in Italy<br />

Pièce scritta da Vincenzo Cerami per festeggiare i dieci anni di «Festivaletteratura».<br />

Regia, immagini, scene e luci di Giorgio Di Tullio.<br />

Con Aisha Cerami e Vincenzo Cerami, alla tastiera Enrico Arias / Emiliano Begni.<br />

Musiche curate da Nicola Piovani.<br />

Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Ambra Jovinelli in collaborazione con il Festivaletteratura, è stato<br />

presentato al Teatro Ariston di Mantova il 7 e l’8 settembre 2006 e replicato in varie occasioni.<br />

Dal 17 al 22 aprile 2007 Made in Italy è andato in scena al Teatro Ambra Jovinelli di Roma.<br />

Sola me ne vo<br />

Monologo scritto da Vincenzo Cerami, Giampiero Solari, Riccardo Cassini e Mariangela Melato.<br />

Regia di Giampiero Solari.<br />

Con Mariangela Melato.<br />

Musiche originali, arrangiamenti e orchestrazioni di <strong>Le</strong>onardo De Amicis.<br />

Coreografie di Luca Tommassini.<br />

Disegno luci di Marcello Jazzetti.<br />

Prodotto dalla Ballandi Entertainment S.p.A., lo spettacolo ha debuttato a Genova il 16 gennaio 2007<br />

per poi proseguire con una lunga tournée di almeno 140 repliche nei teatri più prestigiosi d’Italia fino a<br />

dicembre 2007, toccando città come Milano, Catania, Bologna, Firenze, Napoli e Roma.<br />

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