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1 Abstract La prima parte dell'articolo discute criticamente il concetto ...

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<strong>La</strong> seconda <strong>parte</strong> dell’articolo esplora quest’ipotesi riportando gli effetti di un<br />

potenziamento dell’attenzione, delle funzioni esecutive e della memoria di lavoro nel<br />

caso di D., un ragazzo di 14 anni con una diagnosi di disab<strong>il</strong>ità intellettiva lieve.<br />

Introduzione<br />

Propongo in questo studio alcune riflessioni critiche sulle pratiche diagnostiche che<br />

ut<strong>il</strong>izzano <strong>il</strong> <strong>concetto</strong> di disab<strong>il</strong>ità intellettiva ispirandosi al DSM; seguirà la descrizione<br />

di una valutazione e di un intervento motivati da queste riflessioni.<br />

Com’è noto, <strong>il</strong> DSM IV classifica <strong>il</strong> ritardo mentale nell’Asse II, insieme ai disturbi di<br />

personalità; <strong>il</strong> DSM V, che sarà pubblicato nel 2013, non ut<strong>il</strong>izza più <strong>il</strong> termine ritardo<br />

mentale ma usa <strong>il</strong> sinonimo di disab<strong>il</strong>ità intellettiva includendolo tra i Disturbi<br />

Neuroevolutivi. Nel DSM V la diagnosi di disab<strong>il</strong>ità intellettiva evolutiva<br />

(Intellectual Developmental Disorder) richiede tre condizioni: un deficit intellettivo, un<br />

deficit nel funzionamento adattivo e un inizio del disturbo nel periodo evolutivo. Il<br />

deficit intellettivo è attestato da 2 o più deviazioni standard sotto la media nel QI<br />

(dunque un punteggio di 70 o più basso) ed è valutato in maniera “psicometricamente<br />

affidab<strong>il</strong>e”. Anche <strong>il</strong> deficit nel funzionamento adattivo deve essere valutato con<br />

strumenti statisticamente affidab<strong>il</strong>i.<br />

Per la disab<strong>il</strong>ità intellettiva evolutiva, così come per altri tipi di disturbi, <strong>il</strong> DSM<br />

consegna l’affidab<strong>il</strong>ità e intersoggettività delle categorie diagnostiche agli strumenti<br />

psicometrici. Fonda quindi la sua validità scientifica sulla valutazione psicometrica dei<br />

“sintomi” piuttosto che su una teoria neurologica o psicologica. <strong>La</strong> questione<br />

epistemologica non di poco r<strong>il</strong>evo è però se gli strumenti psicometrici siano sufficienti<br />

per definire un disturbo una “realtà naturale”, piuttosto che un costrutto derivato da<br />

qualche teoria.<br />

Come affermano Rodrigues e Banzato (2009), sarebbe consolante se a una categoria<br />

diagnostica stab<strong>il</strong>ita sulla base di una descrizione psicometrica dei sintomi<br />

corrispondessero caratteristiche neurobiologiche e prognostiche uniche che<br />

permettono di distinguere un determinato disturbo da altri possib<strong>il</strong>i disturbi. Tuttavia<br />

sappiamo che non è così, molti disturbi psichiatrici sono spesso diffic<strong>il</strong>i da distinguere<br />

uno dall’altro e la loro natura è di “gradazione” lungo un continuum, piuttosto che di<br />

discontinuità qualitativa.<br />

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