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RECENSIONI&REPORTS recensione Roland Barthes La camera chiara. Nota sulla fotografia tr. it. a cura di R. Guidieri Einaudi, Torino 2003, pp. 130, € 15 Il tramonto della metafisica ha decretato la fine della dicotomia tra mondo vero e mondo apparente, sancendo la definitiva vittoria del regno dell’apparenza, dato che, fenomenologicamente ciò che appare coincide con ciò che è. Se, come voleva Hannah Arendt, siamo esseri visibili il cui statuto è mostrarsi all’occhio di un altro che ci riconosca, potremmo dire che il XXI secolo porta a compimento tale paradigma, configurandosi come epoca dell’immagine tout court. L’immagine oggi pare sostituire il linguaggio, la parola scritta, l’espressione viva della mimica nel suo immediato espletarsi, addirittura sembra presentare uno statuto ontologico più certo della vita stessa. La nostra identità pare assumere rilievo non tanto perché siamo al mondo, immersi già da sempre all’interno di un orizzonte di vita e di significazione, quanto piuttosto perché continuiamo a produrre feticci iconografici che ci immortalano in tutti i momenti della nostra vita. Pensiamo ai vari e variegati “diari virtuali” che corrediamo di foto, video e quant’altro possa attestare in maniera inequivocabile la nostra presenza nel mondo. Esistere significa allora essere visti, essere immortalati da un obiettivo che certifica senza inganno alcuno che “noi c’eravamo”. Ne l’avventura di un fotografo, pubblicato per la prima volta nel 1970, Calvino prendeva di mira i “fotografi della domenica”, quelli che con famigliola ridente al seguito, astuccio 258
S&F_n. 9_2013 e apparecchio a tracolla partivano baldanzosi per la solita gita fuori porta. Tuttavia solo quando la settimana successiva avevano in mano le effigi di mogli arrossate in costume da bagno e di vivaci pargoli sguazzanti nell’acqua, la giornata di festa trascorsa diventava reale, tangibile, acquistando «l’irrevocabilità di ciò che è stato e non può più essere messo in dubbio» (I. Calvino, L’avventura di un fotografo Milano, 1990, p. 39). Ma che cos’è l’immagine e nella fattispecie la fotografia, che, sebbene attraverso forme mutevoli, ha di fatto invaso la nostra società a partire dalla fine del XIX Secolo È la domanda cui cerca di rispondere Roland Barthes in questo breve quanto ispirato testo. Il desiderio di Barthes è ontologico: della fotografia vuole catturare l’essenza, vuole scoprire cioè cosa essa sia in sé. Lo fa tuttavia a partire dalla propria esperienza personale di Spectator, di soggetto non esperto che guarda le foto. Il suo interesse è di tipo sentimentale più che eminentemente gnoseologico: la foto talvolta gli appare come una ferita. La fotografia al fondo è l’espressione della contingenza assoluta, di ciò che è avvenuto una sola volta: essa «ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente» (Barthes, p. 6). L’immagine per certi versi appiattisce il suo referente all’interno di una tautologia: «nella foto la pipa è sempre una pipa, inesorabilmente» (p. 7). L’ipostatizzazione che mette in scena ha qualcosa del “ritorno del morto”. Al momento dello scatto, colui che viene fotografato non è né oggetto, né soggetto, bensì un soggetto che si sente diventare oggetto. Secondo l’autore si tratta di una micro‐esperienza della morte, nella quale si diventa spettri. Una foto può piacerci o non piacerci, colpirci, irritarci addirittura, e tuttavia l’emozione che essa provoca ha solitamente la durata ridotta dello sguardo distratto che la attraversa, mentre la mano sta già sfogliando altro. Di essa non 259
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Roland Barthes<br />
La camera chiara. Nota sulla fotografia<br />
tr. <strong>it</strong>. a cura di R. Guidieri<br />
Einaudi, Torino 2003, pp. 130, € 15<br />
Il tramonto della metafisica ha decretato<br />
la fine della dicotomia tra mondo vero e<br />
mondo apparente, sancendo la defin<strong>it</strong>iva<br />
v<strong>it</strong>toria del regno dell’apparenza, dato<br />
che, fenomenologicamente ciò che appare<br />
coincide con ciò che è. Se, come voleva<br />
Hannah Arendt, siamo esseri visibili il<br />
cui statuto è mostrarsi all’occhio di un<br />
altro che ci riconosca, potremmo dire che<br />
il XXI secolo porta a compimento tale<br />
paradigma, configurandosi come epoca<br />
dell’immagine tout court. L’immagine oggi<br />
pare sost<strong>it</strong>uire il linguaggio, la parola<br />
scr<strong>it</strong>ta, l’espressione viva della mimica nel suo immediato<br />
espletarsi, addir<strong>it</strong>tura sembra presentare uno statuto ontologico<br />
più certo della v<strong>it</strong>a stessa. La nostra ident<strong>it</strong>à pare assumere<br />
rilievo non tanto perché siamo al mondo, immersi già da sempre<br />
all’interno di un orizzonte di v<strong>it</strong>a e di significazione, quanto<br />
piuttosto perché continuiamo a produrre feticci iconografici che<br />
ci immortalano in tutti i momenti della nostra v<strong>it</strong>a. Pensiamo ai<br />
vari e variegati “diari virtuali” che corrediamo di foto, video e<br />
quant’altro possa attestare in maniera inequivocabile la nostra<br />
presenza nel mondo. Esistere significa allora essere visti, essere<br />
immortalati da un obiettivo che certifica senza inganno alcuno che<br />
“noi c’eravamo”. Ne l’avventura di un fotografo, pubblicato per la<br />
prima volta nel 1970, Calvino prendeva di mira i “fotografi della<br />
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