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ARTE_2 Mariangela Caporale, Vita e morte sulla scena invisibile nella forma che traduce la vita nel suo specchio, nella forma che traduce la vita nell’idea. È la donna che danza. Come Ofelia dopo i fiori, nell’acqua. [...] e tue grandi visioni ti strozzavan la parola e l’Infinito tremendo smarrì il tuo sguardo azzurro! scrive Rimbaud 7 . La vita viene all’essere. Ma il venire della vita all’essere vince l’apparenza dell’essere, quell’apparenza esposta nella definitezza dell’idea; la vita viene all’essere rimanendogli di fronte, alterità dell’infinito che strappa agli occhi la visione. Che toglie alla ragione la parola. La vita si separa dalla forma e accade nella distanza irriducibile dallo specchio del vero, dall’idea. La vita che viene dalla donna, la vita partorita nessuno la vede, incandescente accadere immediato della verità vivente, della fluidità. Senza essere è la vita partorita, senza l’essere che Aristotele ha consegnato all’eterno passato: vita finita nel pensiero, to ti en einai, quod quid erat esse. È così dunque L’essere è stato, dice il Filosofo, ma se l’essere è stato non è la vita. L’essere non vive, appartiene alla morte. La morte viene all’essere e all’essere si unisce, medesima a esso: essa è l’ombra che scende dall’iperuranio, irreale verità specchiata, fenomeno che ha vinto il buio, che ha aperto e spiegato lo sconosciuto chiuso in sé. La morte viene all’essere imitando la sua evidenza. Solo la morte occupa il teatro. Sua è la rappresentazione. Solo la morte è vista. Essere eidetico è l’essere della morte, visibile nella fermezza della forma, nella risolutezza perenne, perennemente identica, della verità che si fa vedere. La morte appartiene all’idea, visione che chiude il cerchio della vita. 7 A. Rimbaud, Ofelia, in Opere, tr. it. Feltrinelli, Milano, 2000, p. 35. 206
3. Persa è la madre. Persa è primavera 8 Sulla scena appare Kore. S&F_n. 9_2013 Ma è la vita a preparare la morte alla scena, la vita prepara la morte alla visione, ma quello che noi, vedendo la morte danzare, quello che noi, vedendo la morte in scena, vediamo, è la vita invisibile che sottrae la morte alla visione e le imprime la danza, è la vita che sottrae la morte all’essere e le consegna il buio trasparente, senza mistero, senza attesa di conoscenza, senza desiderio di sapere, il buio della verità senza idea, morte sconosciuta, inconoscibile morte vivente, sconosciuta morte inconoscibile, che appartiene alla vita e all’essere mai. Alla donna Jan Fabre consegna la danza. Che non dice nulla, e nulla lascia apparire, se non la morte colma di vita, senza che il teatro la contenga, senza che la contenga la scena, senza che possa trattenersi nella perfezione della rappresentazione. Senza essere vista. Danza il corpo della donna, danza il corpo che dà la vita alla morte. Danza il corpo la vita della morte, l’invisibile vivente danza per rapire la morte alla scena, per toglierla dal gioco della ragione disvelante. Danza il corpo della donna ed è soggettività senza proposizione, occhi che fissano il buio, mani che non prendono. Donna che dà la vita, invisibile vita reale, sfuggita all’idea, alla presa dell’occhio della mente, inoggettivata, inconoscibile, spaventosa libertà dalla presa. La sua mano è vuota e l’occhio è chiuso. Danza il corpo che dà al mondo la vita e la morte. Ma è sempre il 17 gennaio 1975. Proserpina, è detta dai più. Virgilio Sieni le ha dato la danza, ispirato dal testo di Giorgio 8 Dante, Purgatorio, XXVIII, 49‐51. 207
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ARTE_2 Mariangela Caporale, V<strong>it</strong>a e morte sulla scena invisibile<br />
nella forma che traduce la v<strong>it</strong>a nel suo specchio, nella forma che<br />
traduce la v<strong>it</strong>a nell’idea.<br />
È la donna che danza.<br />
Come Ofelia dopo i fiori, nell’acqua.<br />
[...] e tue grandi visioni ti strozzavan la parola<br />
e l’Infin<strong>it</strong>o tremendo smarrì il tuo sguardo azzurro!<br />
scrive Rimbaud 7 .<br />
La v<strong>it</strong>a viene all’essere. Ma il venire della v<strong>it</strong>a all’essere vince<br />
l’apparenza dell’essere, quell’apparenza esposta nella defin<strong>it</strong>ezza<br />
dell’idea; la v<strong>it</strong>a viene all’essere rimanendogli di fronte,<br />
alter<strong>it</strong>à dell’infin<strong>it</strong>o che strappa agli occhi la visione. Che<br />
toglie alla ragione la parola. La v<strong>it</strong>a si separa dalla forma e<br />
accade nella distanza irriducibile dallo specchio del vero,<br />
dall’idea. La v<strong>it</strong>a che viene dalla donna, la v<strong>it</strong>a partor<strong>it</strong>a<br />
nessuno la vede, incandescente accadere immediato della ver<strong>it</strong>à<br />
vivente, della fluid<strong>it</strong>à.<br />
Senza essere è la v<strong>it</strong>a partor<strong>it</strong>a, senza l’essere che Aristotele ha<br />
consegnato all’eterno passato: v<strong>it</strong>a fin<strong>it</strong>a nel pensiero, to ti en<br />
einai, quod quid erat esse. È così dunque L’essere è stato, dice<br />
il Filosofo, ma se l’essere è stato non è la v<strong>it</strong>a. L’essere non<br />
vive, appartiene alla morte.<br />
La morte viene all’essere e all’essere si unisce, medesima a esso:<br />
essa è l’ombra che scende dall’iperuranio, irreale ver<strong>it</strong>à<br />
specchiata, fenomeno che ha vinto il buio, che ha aperto e<br />
spiegato lo sconosciuto chiuso in sé. La morte viene all’essere<br />
im<strong>it</strong>ando la sua evidenza. Solo la morte occupa il teatro. Sua è la<br />
rappresentazione. Solo la morte è vista. Essere eidetico è<br />
l’essere della morte, visibile nella fermezza della forma, nella<br />
risolutezza perenne, perennemente identica, della ver<strong>it</strong>à che si fa<br />
vedere. La morte appartiene all’idea, visione che chiude il<br />
cerchio della v<strong>it</strong>a.<br />
7 A. Rimbaud, Ofelia, in Opere, tr. <strong>it</strong>. Feltrinelli, Milano, 2000, p. 35.<br />
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