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<strong>www</strong>.<strong>etnografiadig<strong>it</strong>ale</strong>.<strong>it</strong> <br />

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comun<strong>it</strong>à di sangue e pixel <br />

Don’t worry – I’m a good Indian. I’m from the West, love nature, and have a <br />

special, intimate connection w<strong>it</strong>h the environment…I can speak w<strong>it</strong>h my <br />

animal cousind, and believe <strong>it</strong> or not I’m appropriately spir<strong>it</strong>ual. (Even <br />

smoke the Pipe)…I hope I am authentic enough” <br />

(Durham, 2002:211). <br />

L’imbarazzo immediato derivato dall’inv<strong>it</strong>o di scrivere su Avatar, cioè sul film di James Cameron, deriva da <br />

una condizione personale troppo esposta su tale questione. Nel senso che entrambi i lati “binari” (quello <br />

“etnico” e quello “avatarico”) del film sono stati da me vissuti in prima persona come ricerca sul campo: <br />

Avatar è stata la rivista di antropologia e arti dig<strong>it</strong>ali da me ideata e diretta dalla fine degli anni 90 fino alla <br />

sua secca conclusione; la ricerca etnografica sulle culture indigene brasiliane mi ha fatto vivere e riflettere, <br />

emozionare e crescere nelle mie visioni sulle alter<strong>it</strong>à radicali dall’inizio dei 90. Quindi per me questo intero <br />

decennio si apre con l’incontro Xavante e si chiude con il progetto Avatar. <strong>Etnografia</strong> e dig<strong>it</strong>ale sono <br />

connessi. Infatti, tali esperienze progettuali sono cost<strong>it</strong>utive dell’ipotesi su cui continuo a lavorare della <br />

tensione dialogica e confl<strong>it</strong>tuale tra aldeia e metropoli. Cioè tra i villaggi dove vivono le culture defin<strong>it</strong>e <br />

“native” e la metropoli comunicazionale dove, tra l’altro, si producono cinema e tecnologie dig<strong>it</strong>ali. Questo <br />

è il mio imbarazzo: un eccesso di coinvolgimento sulle mie scelte anche personali che mi hanno fatto <br />

decidere di lasciare Roma e l’univers<strong>it</strong>à <strong>it</strong>aliana. <br />

a-­‐ Xavante, Bororo o Na’vi <br />

Il Mato Grosso è uno stato del Brasile, paese che ha una cost<strong>it</strong>uzione federale affine a quella degli Stati <br />

Un<strong>it</strong>i. Negli ultimi anni, la soia – l’oro verde – ha cost<strong>it</strong>u<strong>it</strong>o una enorme fonte di espansione economica <br />

dell’intera regione, che ha contribu<strong>it</strong>o al nuovo ruolo internazionale del paese. Tale prodotto, di cui si fanno <br />

persino tre raccolti l’anno, non solo accresce la ricchezza prodotta dalla stato, quanto favorisce la crescente <br />

alleanza strategica globale con la Cina, grande consumatrice e importatrice della soia brasiliana. Ricordo <br />

ancora perfettamente una mia esperienza di diversi anni fa, in una delle prime vis<strong>it</strong>e all’aldeia Bororo, in cui <br />

fui costretto a guidare un fuoristrada in un traffico da incubo per i continui camion stracarichi di questa <br />

soia, su un asfalto che si sbriciolava sotto i pneumatici di questi sgangherati trucks troppo pesanti, <br />

provocando enormi crateri di terra rossa intorno ai quali – ripeto intorno ai quali e no lateralmente – si <br />

dovevano fare continue peripezie acrobatiche per andare avanti. Fu il mio battesimo della soia su <br />

quell’unica strada stratale che passa vicino a una c<strong>it</strong>tà – Rondonia – dedicata all’esploratore che per primo <br />

tentò di difendere e di creare riserve per i diversi gruppi indigeni, Rondon stesso di madre bororo. <br />

Tale mare verde vuole tracimare in quello che resta di queste riserve e ha gli strumenti per avere successo: <br />

in primo luogo offrendo briciole di denaro ad alcuni cacique per ottenere il permesso di entrare nei loro <br />

terr<strong>it</strong>ori extra-­‐legem per i fazendeiros. Questi hanno un potere diffuso, controllando tutta la produzione e i <br />

governi locali, senza che la polizia federale possa intervenire con una continu<strong>it</strong>à che offra un minimo di <br />

garanzia pol<strong>it</strong>ica. Essi si chiamano, secondo una tradizione antica, anche coroneis e hanno una forza mil<strong>it</strong>are <br />

privata -­‐ criminale/marginale -­‐ come per l’assassino di Chico Mendes. Allora si potrebbe affermare che <br />

quell’oggetto prezioso nascosto dal Grande Albero dei Na’vi abbia in Mato Grosso il colore verde della soia


pronta per la zafra e in attesa di penetrare con le buone o con le cattive nelle contigue terre Xavantes e <br />

Bororo. Terre che, come ripete costantemente una stampa compiacente o corrotta, sarebbero estese <br />

eccessivamente per la scarsa popolazione che le ab<strong>it</strong>a; mentre i “contadini” – cioè i fazendeiros – lavorano <br />

duro per arricchire il paese in una terra detta insufficiente. <br />

Xavante e Bororo sono tra loro profondamente diversi. La storia delle loro culture è lunga e non la rifaccio <br />

qui; gli Xavantes furono costretti ad abbandonare i loro terr<strong>it</strong>ori, cioè a essere deportati per una questione <br />

giudiziaria legata alla terra da loro ab<strong>it</strong>ata che ha coinvolto anche la nostra ENI. Costretti a vivere in <br />

prossim<strong>it</strong>à dei loro osp<strong>it</strong>i Bororo (già noti alla letteratura antropologica per i celebri cap<strong>it</strong>oli cui Lévi-­‐Strauss <br />

ha dedicato loro sui “tristi tropici”), gli Xavantes si sono da sempre caratterizzati come un popolo guerriero <br />

forte – bravo come si dice in Brasile – che ha dato filo da torcere all’eserc<strong>it</strong>o brasiliano e che non si ferma <br />

dinanzi ai soprusi di qualsiasi tipo ancora oggi. Da un paio di decenni il loro tasso demografico cresce e <br />

quando si uniscono per i loro r<strong>it</strong>uali o per reagire a una ingiustizia possono arrivare in migliaia dalle varie <br />

aldeias, alti e muscolosi, ben nutr<strong>it</strong>i e addestrati agli esercizi fisici e allo sport, armati non solo di archi, <br />

frecce e bonduras, con strategie di attacco e difesa impressionanti. Non è casuale che l’aereo di caccia <br />

brasiliano si chiami appunto Xavante… <br />

Il loro r<strong>it</strong>uale più noto, cui ho potuto partecipare su inv<strong>it</strong>o di un cacique, si chiama foração das orelhas: per i <br />

mesi del r<strong>it</strong>uale si vive in una sospensione delle attiv<strong>it</strong>à normali, in preparazione di forare il lobo auricolare <br />

delle nuove generazioni che stanno per diventare guerrieri e mutare di nome nel loro bel r<strong>it</strong>o di passaggio. <br />

Dopo il foro, praticato da un guerriero anziano appartenente a un clan diverso da quello del giovane, si <br />

infila un pal<strong>it</strong>o, cioè un orecchino di legno di circa tre cm di lunghezza e largo 3-­‐4 mm. In tal modo, solo <br />

dopo che è stato forato, il neo guerriero può forare una donna e quindi sposarsi, per cui diventa chiaro <br />

perché il pal<strong>it</strong>o ha il nome dell’organo gen<strong>it</strong>ale maschile. <br />

I Bororo, loro osp<strong>it</strong>i involontari, sono diventati spesso v<strong>it</strong>time degli Xavantes. Da qui una reciproca <br />

diffidenza difficile a superarsi. Per fortuna in questi ultimi anni la s<strong>it</strong>uazione sta mutando anche per loro: il <br />

tasso di natal<strong>it</strong>à cresce, meno significativamente degli Xavantes ma cresce, l’assistenza san<strong>it</strong>aria è ancora <br />

precaria ma non assente, il sistema nutr<strong>it</strong>ivo migliora e anche l’educazione. Non sono pochi quelli che <br />

studiano antropologia o come Kleber – ora mio caro amico – che è laureato in biologia. E da questo humus <br />

culturale sta nascendo la volontà di ristabilire la loro aldeia tradizionale utilizzando il dig<strong>it</strong>ale come mezzo di <br />

ricerca e documentazione. Il loro r<strong>it</strong>uale per eccellenza è il funerale e ho potuto assistere anche a questo <br />

complesso r<strong>it</strong>o sempre su inv<strong>it</strong>o di Kleber e di alcuni altri bororo. Posso dire che entrambi i r<strong>it</strong>uali -­‐ foração <br />

das orelhas xavante e funeral bororo – sono state le esperienze culturali più straordinare cui ho potuto <br />

partecipare nelle mie ricerche etnografiche. Un trasbordare di emozioni e visioni, canti e danze, calore <br />

diurno e freddo notturno, pao de cachorro che ti penetra nei piedi e borrachudas che ti mordono in ogni <br />

frammento di pelle visibile, digiuni e sete -­‐ esperienza, quest’ultima, la più estrema. <br />

Entrambi i r<strong>it</strong>uali sono sopravvissuti all’ingerenza salesiana che, in nome di una difesa contro i fazendeiros e <br />

pol<strong>it</strong>ici senza scrupoli, hanno iniziato e stanno continuando la più colonialista delle missioni: evangelizzare <br />

l’altro, sottraendo la forza delicata delle loro culture attraverso strumenti sottili che vanno dalla nozione di <br />

peccato e colpa, alle offerte di medicinali e assistenza alimentare o giuridica. Abbiamo quindi una prima <br />

variazione alla proposta Avatar, cioè l’espansione crescente di missionari cattolici e ancor più protestanti <br />

(che sono recenti, più aggressivi e fondamentalisti) riesce a creare una rete persuasiva di complic<strong>it</strong>à, ricatti, <br />

benefici materiali attraverso cui guidare e correggere le loro anime. Classico esempio di una religios<strong>it</strong>à <br />

tutta materialista applicata a persone da convertire rispetto a una filosofia di v<strong>it</strong>a altra che, per motivi <br />

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inspiegabili, diventa inaccettabile per i cristiani e fonte di una missione v<strong>it</strong>ale: convertire -­‐ termine pessimo <br />

quanto esemplare di una procedura di dominio continuo. I missionari si convincono di stare nel giusto, con <br />

il loro dio, e questo li leg<strong>it</strong>tima a procedere verso una deculturazione sistematica e quotidiana. <br />

James Cameron vive in California dove ci sono tra i migliori antropologi attuali e celebri biblioteche: parlare <br />

con Renato Rosaldo o George Marcus non dovrebbe essere un suo problema. E nemmeno dare un’occhiata <br />

ai tanti testi da Marvin Harris, Dennis Tedlock a Clifford Geertz che sono c<strong>it</strong>ati da ogni studente di primo <br />

anno. Niente. Il suo scopo non è quello di dare un minimo di informazioni e conoscenze sulle culture <br />

“native”. Tanto meno di far crescere la consapevolezza tra i vari pubblici filmici che le cose sono un po’ più <br />

complesse da come si continua a far credere nella tradizione cinematografica di Hollywood. Per essere <br />

brutale: l’unica antropologia che Cameron conosce e “rielabora” è quella di Tarzan, rivest<strong>it</strong>a dal peggio <br />

romanticismo pseudo-­‐russoviano stile National Geographic o Geo&Geo (1). Il modello è semplice e <br />

funzionale: il film applica un modulo sado-­‐masochista allo spettatore globalizzato (sì, caro A.A., ancora <br />

quello affrontato da Adorno nell’industria culturale “illuminista”). Lo si colpevolizza masochisticamente di <br />

aver distrutto la “natura” e gli “indiani”; e lo si fa identificare sadicamente con l’eroe vendicatore e <br />

assassino leg<strong>it</strong>timo. Cameron, involontario fan della “Dialettica dell’Illuminismo” , continua nell’immutabile <br />

cuore di tenebra secondo cui l’Occidente è il Male (nel caso specifico un eserc<strong>it</strong>o troppo simile a un <br />

videogame per essere davvero identificato con quello degli Usa) e il Bene risiede nelle radici naturalistiche e <br />

naif dei selvaggi che avrebbero mantenuto un sacrale rapporto con la natura e la v<strong>it</strong>a, una natura-­‐donna <br />

selvaggia, certo, piena di animalacci e precipizi quanto divertente ed ecc<strong>it</strong>ante. <br />

Viceversa nelle scuole Xavantes,la cui forma già da sola vale una ricerca, essendo una rielaborazione <br />

sincretica tra lo stile conico tradizionale con in cima rami e foglie per far passare l’aria su una base circolare <br />

di cemento più solida e igienica. E dentro ci sono tanti banchi quanti sono gli studenti e su ognuno c’è il <br />

computer acceso, su cui specie le ragazze elaborano i loro comp<strong>it</strong>i e ricerche. Sottolineo specie le ragazze, <br />

in quanto tra gli Xavantes il preconcetto diciamo “machista” è molto forte, cui accenno solo in quanto <br />

mer<strong>it</strong>erebbe una articolata riflessione. Comunque il risultato è che le ragazze sono più brave dei maschietti <br />

al pc e questo intacca l’orgoglio del cyber-­‐guerriero. E i professori, dall’aria ironica e arguta che mi <br />

ricordano l’amico e filosofo Decio, danno lezioni di lingua e letteratura portoghese-­‐brasiliana e xavante. <br />

Sulla lavagna, una frase di Gramsci… <br />

Divino Tserewaru è il giovane xavante che, quando arrivai nel ’98 nella sua aldeia con videocamera <br />

analogica, macchina fotografica, tacquino, mi si presentò davanti con la sua telecamera dig<strong>it</strong>ale filmandomi. <br />

Il senso di un mondo che mutava radicalmente mi apparve chiarissimo in quel momento e mai lo scorderò: <br />

il mio potere, cioè il potere dell’antropologo o del giornalista, del turista o del missionario, era messo in <br />

discussione dalla semplice presenza del video nelle sue mani “divine” che intaccavano il mio ruolo. E il <br />

mio sapere … Non ero più “io” a poter rappresentare l’altro, selvaggio, nativo o Na’vi. L’altro aveva <br />

imparato a rappresentarsi da solo e anzi mi rappresentava. Ora nella casa di Divino vi è una modernissima <br />

centralina di montaggio e di ed<strong>it</strong>ing: cioè lui non solo filma, ma costruisce narrativamente i suoi video con <br />

una sapienza soggettiva per i vari climax. E alcuni di questi video sono stati girati in aldeias diverse da <br />

quelle xavantes, uno dei quali a Mariposa do Sol tra i Macuxi, laddove Divino ha realizzato uno dei più bei <br />

documentari antropologici e mil<strong>it</strong>anti che abbia mai visto. Purtroppo James Cameron non lo conosce come <br />

la maggioranza schiacciante-­‐schiacciata del pubblico tv-­‐filmico. Il maestro di Divino si chiama Vincent <br />

Carelli, fondatore di Videos nas Aldeias, i cui film dovrebbero essere amati, studiati e c<strong>it</strong>ati da chiunque <br />

vorrebbe fare i film su tale argomento. Tra cui Bechis e i suoi “uomini rossi”…


Documentare la propria cultura attraverso il dig<strong>it</strong>ale è la sfida di oggi che coinvolge e avvolge sia le culture <br />

“indigene” e sia le varie culture metropol<strong>it</strong>ane nella divers<strong>it</strong>à dei propri spazi-­‐tempi e modi-­‐stili. Le <br />

tecnologie analogiche, infatti, erano costose, pesanti, care, difficili da usare e impossibili da aggiustare; con <br />

il dig<strong>it</strong>ale uno xavante può avvisare in tempo reale di un sopruso e favorire una immediata mobil<strong>it</strong>azione; <br />

può registrare un evento e inviarlo nelle altre aldeias o in ogni parte del mondo; può facilmente ed<strong>it</strong>arlo e <br />

persino venderlo. Filmare un evento indigeno è possibile solo se si accetta e favorisce che anche gli stessi <br />

soggetti – da oggetti passivi naturalistici, senza nome o età, indifeso panorama etnico – siano riconosciuti <br />

come tali nella tensione pol<strong>it</strong>ica, dialogica e sincretica che trans<strong>it</strong>a dalla conoscenza iniziale alla <br />

composizione finale del testo. È questa una prospettiva che può favorire la diffusione decentrata delle <br />

transculture e non le v<strong>it</strong>torie monologiche nel botteghino. <br />

b-­‐ Avatar, Bateson e l’arte <br />

Tutto questo per introdurre il secondo punto della mia riflessione esperienziale, quella per certi versi <br />

ancora più soggettiva e direi amara, che inizialmente mi ha causato un ambiguo senso tra la rivinc<strong>it</strong>a e il <br />

disastro appena il film fu annunciato: come se avessi una sorta di copyright sull’avatar, cosa semplicemente <br />

priva di senso, o se mer<strong>it</strong>assi un riconoscimento dopo tanti anni in cui quando pronunciavo il nome della <br />

rivista – Avatar, appunto – colleghi o amici o semplici conoscenti non la intendevano e la deformavano nel <br />

modi e toni più strambi. Ricordo il “mio” preside al consiglio di facoltà che annunciò l’usc<strong>it</strong>a della rivista <br />

Aratara, Avaratata o qualcosa del genere. E adesso, dopo un solo giorno di proiezione e i molti spot, <br />

neanche il bambino del villaggio più sperduto lo pronuncia male e tutti sanno cosa sia un avatar. Però… <br />

però il problema, caro James Cameron, è che l’idea di avatar secondo la filosofia hindu e poi nella sua <br />

diversione dig<strong>it</strong>ale, l’idea profonda -­‐ mistica o comunicazionale -­‐ sta nel fatto della molteplic<strong>it</strong>à di <br />

manifestazione del dio nelle varie ent<strong>it</strong>à empiriche ovvero nella plural<strong>it</strong>à ident<strong>it</strong>aria del soggetto che <br />

pratica gli e-­‐space del web. La molteplic<strong>it</strong>à soggettiva del’avatar cerca di oltrepassare potenzialmente il <br />

dualismo, anzi quella logica binaria da cui persino i software si stanno disvincolando, in quanto è proprio la <br />

prospettiva avatarica che esprime una sorta di utopia concreta, materialimmateriale, che potrebbe favorire <br />

la ricerca dell’oltre piuttosto che del contro. E invece Avatar-­‐film è la massima estensione del dualismo <br />

bene-­‐male, una applicazione senza scrupoli e ormai fin troppo facile nel rappresentare il peggio come <br />

ridicolo-­‐mostruoso; e di converso il meglio come puro, bello, onesto e soprattutto che ha un rapporto sacro <br />

con la natura. E qui viene da r<strong>it</strong>ornare alla ironicamara c<strong>it</strong>azione iniziale di Jimmie Durham, grande artista <br />

cherokee che, nel prendere in giro i “bianchi” alla ricerca dell’”indiano” ecologico o originario, sembra <br />

rivolgersi a persone proprio come Cameron, persone che con un mix difficile da dipanare tra ingenu<strong>it</strong>à e <br />

cinismo continuano a propinare questo dicotomico razzismo alla rovescia. È dai tempi di Soldato Blu che <br />

questo rovesciamento dei buoni in cattivi e viceversa non dovrebbe funzionare più, proprio in quanto <br />

riproduce industrialmente l’imperterr<strong>it</strong>a opposizione dicotomica. <br />

E allora come in una elegia dove si mescola Tarzan e Heidegger, Rousseau e Gunga Din la commozione <br />

dilaga nel brivido del buon selvaggio… anzi no… mi correggo maliziosamente: della selvaggia dal sex-­‐appeal <br />

transorganico e postuman che insegna a vivere e ad amare a un “eroe” che esclude a priori, cioè dopo il <br />

primo fotogramma, ogni possibile identificazione. Ma evidentemente non deve essere così in platea. Si <br />

rifletta sulla “dialettica” dell’identificazione: all’estrema banal<strong>it</strong>à fisiognomica dell’eroe realista, <br />

corrisponde una simmetrica eccezional<strong>it</strong>à dell’eroe avatarico. Mi domando se lo spettatore riesce a <br />

scivolare schizoidamente tra le due ident<strong>it</strong>à: domanda inutile perché il botteghino ha già risposto. Di <br />

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conseguenza, lo spettatore si sente paral<strong>it</strong>ico come l’eroe soldato, seduto nelle varie platee in sedie senza <br />

rotelle, si assimila all’infelice che non sa più correre, troppo ab<strong>it</strong>uato ai r<strong>it</strong>mi urbani dove al massimo si <br />

corre fermi nei tapis-­‐roulant recap<strong>it</strong>ati direttamente a casa mentre si osserva una parete grigia o la tv <br />

illuminata. E improvvisamente riscopre l’ebbrezza della corsa libera e senza direzione che il suo avatar <br />

accende. <br />

Una volta chiar<strong>it</strong>o nella parte etnografica la sfida confl<strong>it</strong>tuale di Xavantes e Bororo con il dig<strong>it</strong>ale, il mio <br />

malessere gira sul perchè il cinema di James Cameron – cioè l’unico che regna globalmente, quello <br />

hollywoodiano – sembra non riuscire mai a incontrare Jimmie Durham, ovvero un cherokee mil<strong>it</strong>ante di <br />

Wounded Knee che, in segu<strong>it</strong>o allo sconforto derivato dalla difficoltà di liberazione della propria gente, <br />

decide di dedicarsi all’arte contemporanea. Supremo scandalo per una persona che cr<strong>it</strong>ica ogni stereotipo <br />

incrostato sull’ “indiano”, a partire dalla tassonomia utilizzata per individuarlo e classificarlo. “”Noi <br />

indiani””, dice, e mette le doppie virgolette ironizzando sulla persistenza di questo termine che riproduce <br />

un fraintendimento coloniale continuo nei secoli: e che sembra impedire l’uso di Cherokee che, come è <br />

noto, ormai sembra individuare solo un ottimo fuoristrada. Un brand ecologico e selvaggio. L’arte <br />

contemporanea espressa da soggettiv<strong>it</strong>à irregolari come quella di Durham non rimane immobile, fuori dal <br />

tempo e dallo spazio, nel ruolo esotizzato predisposto all’interno di riserve stile theme-­‐park; e qui essere <br />

fotografati a prezzi correnti dai turisti che trans<strong>it</strong>ano indifferentemente tra Hare Krishna e Ghost Dance, <br />

alla ricerca del popolo-­‐di-­‐natura, volkish, ingenuo e istintivo. Purtroppo le opere visuali o scr<strong>it</strong>te di Durham <br />

non riescono ad essere percep<strong>it</strong>e o neanche immaginate da Cameron e dalla sua Grande Narrazione che <br />

almeno con Avatar dovrebbe essere chiaro che non solo non è morta, ma che è vivissima e che ha solo <br />

trans<strong>it</strong>ato di genere. Filosofia e antropologia sono unificate da Cameron. Avatar è una parodia de L’ecologia <br />

della mente di Bateson: una trama che connette alberi di sequoia, anemoni di mare, videogame, pandore <br />

preistoriche alla sacral<strong>it</strong>à della natura e agli spettatori occhiuti. Suggestioni batesoniane senza Gregory. Il <br />

divario non è certo tra le “due culture” – quelle tecno-­‐scientifiche e quelle umanistiche: questo cinema ha <br />

chiaramente unificato tecnologia e cultura, scienza e storia. Forse il confl<strong>it</strong>to (per me semplificativo) è tra i <br />

flussi di arti dig<strong>it</strong>ali, la web-­‐comunicazione soggettivizzata, i nuovi media di cui il cinema 3D è l’attuale <br />

campione. È bizzarra questa s<strong>it</strong>uazione in cui tanta arte ha accettato da tempo, ben prima di Fluxus, la sfida <br />

di relazionare corpo e tecnologia, per cui alcuni degli artisti contemporanei più sensibili hanno espresso e <br />

continuano a esprimere alcune delle emozioni più innovative incorporando arte e dig<strong>it</strong>ale (cfr “Documenta” <br />

con Posthuman che ormai è storia dell’arte); mentre “il” cinema -­‐ che entra nelle forme più emotive e <br />

inus<strong>it</strong>ate offerte da queste stesse tecnologie – continua a rinserrare le culture “etniche” nel recinto della <br />

stessa oppressiva banal<strong>it</strong>à. <br />

Ho adorato le immagini di Avatar che inventano fantasmagorie del XXI secolo e penetrano indubbiamente <br />

nel sublime della meraviglia. Sono invenzioni continue che dilatano la pupilla oltre le regole normali della <br />

percezione orb<strong>it</strong>ale. Ogni movimento di camera sui primi piani degli occhi di lei-­‐avatar fanno scorrere <br />

mondi sognanti alla Grandville, si aprono nei multiversi di piante-­‐meduse galleggianti: un suo primo piano <br />

include ogni altro sguardo, i miei sensi sprofondano e si innalzano per ogni sorpresa applicata da questo <br />

sound-­‐design alterato dal quale non si potrà tornare indietro. E invece si assiste ancora e sempre ai mostri <br />

preistorici e ai goldrake-­‐usa… <br />

Questo allora il problema. Se oggi la forbice non è più tra le “due culture”, significa che le due lame si <br />

divaricano all’interno della stessa cultura umanistica: due lame che da tempo usano il tecno-­‐dig<strong>it</strong>ale <br />

(nell’arte o nel cinema) e che, invece di essere interconnesse, sembrano allontanarsi tra loro sideralmente. <br />

Questa forbice si lacera sempre più e diventa quasi comica quando Cameron inquadra i Na’vi un<strong>it</strong>i per le <br />

mani adorando l’albero-­‐totem primigenio e danzando uga uga! Neanche nelle pubblic<strong>it</strong>à razzializzate dei


’50 si era vista una cosa simile. La scena è la stessa da sempre: e si deve dire che è i-­‐n-­‐s-­‐o-­‐p-­‐p-­‐o-­‐r-­‐t-­‐a-­‐b-­‐i-­‐l-­‐e. <br />

Qui Alberto Abruzzese ha ragione ripetendo che il paradigma è ancora e sempre King Kong. Immortale e <br />

indistruttibile, il selvaggio rimane tale anche quando – anzi soprattutto quando -­‐ commuove per la sua <br />

religios<strong>it</strong>à naif verso una natura-­‐videogioco e per il senso di comun<strong>it</strong>à che sa esprimere. Volksgemeinschaft <br />

forever… Il cavaliere della valle sol<strong>it</strong>aria è tornato, anzi, Shane non è mai part<strong>it</strong>o perché non ci <br />

abbandonerà mai. <br />

Non certo Gregory Bateson è ispiratore del film, come qualcuno ingenuamente ha affermato, ma la <br />

peggiore tradizione sociologica-­‐filosofica da Toennies a Heidegger che continua a invocare la comun<strong>it</strong>à di <br />

sangue e di pixel per uscire dalle anomie attuali. Dovrebbe essere chiaro che è proprio tale ossessiva <br />

affermazione delle radici il nodo nodoso, ideologia ossuta tra le ideologie, razzismo rovesciato e dr<strong>it</strong>to nello <br />

stesso tempo che blocca l’affermazione compos<strong>it</strong>iva di narrazioni – né grandi né piccole – semplicemente <br />

altre e forse alla ricerca dell’oltre. <br />

Non è vero che la tecnologia è diventata l’unico contenuto che muta lasciando e rinserrando la storia nel <br />

sempre uguale. Se fosse vera questa ipotesi, riguarderebbe ogni forma espressiva della cultura mentre si è <br />

visto che per le arti visuali non è così. E anche per lo stesso cinema: si pensi alle oscur<strong>it</strong>à segrete che <br />

Haneke riesce a rivelare o alle dissoluzioni del pattern-­‐hollywood che un Lynch continua a risvegliare. Ma <br />

questi sono esempi, come accennavo all’inizio, che coinvolgono un altro cinema, un cinema diverso da <br />

questo mainstream. La sfida di Avatar è questa radicale ambigu<strong>it</strong>à, più estrema di tante altre operazioni, <br />

per cui può essere giusto parlare di un prima e dopo Cameron-­‐Avatar: ma solo da un punto di vista delle <br />

visioni di una realtà aumentata, direi di una realtà illim<strong>it</strong>ata quale il suo cinema riesce a masticare. Per il <br />

resto, pare un film-­‐saggio finalizzato a confermare le stanche tesi di laurea che continuano ad applicare la <br />

morfologia di Propp sull’eroe dalla fiaba al cinema; o l’ecc<strong>it</strong>ante attrazione che ancora continua a eserc<strong>it</strong>are <br />

Schmidt sul pol<strong>it</strong>ico basato sulla dicotomia amico-­‐nemico applicato alle masse dig<strong>it</strong>ali. <br />

c – Pixel dust <br />

Non posso immaginare cosa penseranno Bororo o Xavante nel Mato Grosso vedendo il film. Forse come <br />

altri spettatori disperati (quei palestinesi che si sono dipinti di blu) si identificheranno con i Na’vi o li <br />

useranno per i loro dir<strong>it</strong>ti. Forse i Bororo vedranno nel Grande Albero il loro villaggio tradizionale di forma <br />

circolare, con al centro il ba<strong>it</strong>o, la casa degli uomini, al cui centro del centro vi è un grande palo che è <br />

simbolicamente connesso con l’intero cosmo; questo modello circolare, come accennavo, è stato in molti <br />

casi distrutto dalla car<strong>it</strong>à cristiana dei salesiani e trasformato in case di cemento a forma di 7 che <br />

accumulano un calore intensivo che le capanne filtravano e disperdevano. Mai dimenticherò la prima volta <br />

che arrivai in una aldeia xavante di notte, dopo una corsa folle sulle strade sterrate con il loro pick-­‐up, <br />

aggrappato da qualche parte per ev<strong>it</strong>are i rami che si richiudevano per abbattersi su noi in piedi: la notte <br />

era quasi di luna nuova e,una volta arrivato, solo dopo un po’ di tempo la mia vista percepì che stavo al <br />

centro del villaggio e che intorno vi erano gli anziani con le loro mogli e soprattutto Domingos Mahoro’e’o, <br />

il cacique mio amico con cui mi ero incontrato già diverse volte in contesti molto diversi. Lui mi abbracciò e <br />

poi iniziò un lungo discorso in xavante di cui non capivo nulla se non il senso che potevo immaginare. E poi <br />

su sua richiesta ho dovuto rivolgere a mia volta un discorso agli uomini e alle donne a me intorno con un <br />

mio portoghese che si emozionava più di quanto avrei immaginato. E poi ci stringemmo tutti le mani <br />

formando un circolo con le braccia oblique verso il suolo, le gambe divaricate, il canto r<strong>it</strong>mico e forte che <br />

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cercai sub<strong>it</strong>o di seguire, mentre le gambe si rinserravano e riaprivano r<strong>it</strong>micamente sollevando polvere e i <br />

piedi, nello strusciare al suolo, producevano un r<strong>it</strong>mo di accompagnamento. <br />

Né mai dimenticherò l’incontro con José Carlos, mestre dei canti bororo, che mi accolse nella sua capanna <br />

durante il funerale della moglie morta e tracciò con un bastone una linea di polvere tra lui e me dicendo <br />

con forza che lui stava e sarebbe rimasto da questa parte in quanto bororo e che io stavo e sarei rimasto da <br />

quell’altra in quanto romano. Come dire che lo scambio culturale e persino emotivo tra noi era quasi <br />

impossibile per l’eccesso di differenza e forse di potere. L’essere riusc<strong>it</strong>o a vincere almeno parzialmente <br />

questa sua dura diffidenza rimane uno degli eventi di cui posso sentirmi pieno: per cui alla fine dei nostri <br />

incontri la polvere sollevata da quel bastone ricadde sia dalla sua che dalla mia parte. E che questo <br />

rappresentò per me un vero r<strong>it</strong>o di iniziazione alla fine del quale qualcosa di mescolò e impolverò da <br />

entrambi i lati dei nostri corpi. <br />

L’ultimo ricordo che voglio tracciare, prima delle conclusioni finali o parziali, è adatto al nostro tema <br />

cinema/etnic<strong>it</strong>à: era l’11 ottobre 1992 e mi trovavo in una piccola scuola Guaranì nel versante argentino <br />

insieme a Domingos Mahoro’e’o. Una scuola gest<strong>it</strong>a da una maestra argentina che per me era ed è una <br />

eroina, insegnando spagnolo e guarani a dei bambini dalla condizione san<strong>it</strong>aria e alimentare disastrosa, <br />

bambini di 2-­‐3 anni con ulcere nel viso o nel corpo ripiene di mosche, chiazze di mosche che si ag<strong>it</strong>avano <br />

per succhiare il loro sangue, un sangue già esangue per il poco che potevano mangiare. E che mangiare: <br />

quando arrivava la camionetta da una caserma non lontana, volenterosi soldati scaricavano un pentolone <br />

con i resti della loro mensa tutti mescolati e maleodoranti, residui di grasso o pezzi di osso attaccati a una <br />

mappazza di riso su cui di nuovo le mosche si avventavano. Fu lì che vedemmo di sera, in un piccolo <br />

televisore, un film a mio avviso molto discutibile -­‐ Mission di Ronald Jaffe -­‐ che per una sorpresa della <br />

storia fu filmato proprio a pochi chilometri da dove stavamo, a Iguaçu, una delle cascate più impressionanti <br />

al mondo. Alla fine Domingos Mahoro’e’o si alzò e disse: “Questa è storia”. Poco dopo la maestra ricordò <br />

che il giorno dopo si sarebbe festeggiato il cinquecentenario della cosiddetta “scoperta” dell’America, per <br />

cui in quella sera noi stavamo ricordando l’ultimo giorno libero di quelle genti che si sarebbero chiamati <br />

indios in omaggio agli errori di Colombo (2). <br />

Questi tre esempi – la forza simbolica dell’aldeia circolare, la linea di polvere che separa e forse mescola, la <br />

conquista coloniale che sembra non finire mai – insieme agli altri già presentati sull’uso potenzialmente <br />

liberatorio del dig<strong>it</strong>ale per le culture “indigene”, mi causano un ambiguo girare intorno Avatar. Un senso <br />

per me inusuale di rimprovero, delusione e quasi rancore per quello che potrebbe essere il cinema che <br />

amo si mescola con una fascinazione per gli ined<strong>it</strong>i panorami visionari e per un sublime tipo di bellezza <br />

possibile. Insomma Avatar solleva una polvere di pixel che si innalza con una forza visuale accecante, la cui <br />

ricaduta è lenta, lentissima, sembra rimanere sospesa nell’aria incerta su quale versante del suolo <br />

immateriale posarsi o continuare a fluttuare come un pulviscolo numinoso che il giorno dopo si dissolverà <br />

nell’oblio. <br />

Note <br />

1.Un bell’articolo di Raffaele Oriani sul Corriere della Sera del 5/3/2010 informa sul rapporto tra antropologi Usa e una <br />

antropologa, Montgomery McFate, che chiarisce tutte le mie cr<strong>it</strong>iche al film: secondo una tradizione iniziata negli anni <br />

60, l’eserc<strong>it</strong>o degli Usa arruolava antropologi/e per conoscere le culture locali dove si affermavano movimenti di <br />

liberazione. E all’epoca gli antropologi si rifiutarono di dare informazioni all’eserc<strong>it</strong>o per capire meglio e quindi poter <br />

controllare mil<strong>it</strong>armente quelle popolazioni che cercavano di affermare il loro dir<strong>it</strong>to alla libertà (. “Se li vuoi vincere, <br />

li devi conoscere”…). Ora questa antropologa embedded ha ripreso questo ruolo in Iraq e Afganistan e, guarda caso, è


l’unica che Cameron abbia consultato per immaginare il suo film. “Montgomery McFate è convinta che il suo drappello<br />

di antropologi embedded abbia il mer<strong>it</strong>o storico di aver fatto diminuire il numero dei civili uccisi per errore”. Già: solo <br />

che lei non si chiede il perché dell’invasione dell’Iraq da parte dei Bush. Invasione accettata come un fatto pos<strong>it</strong>ivo e <br />

pos<strong>it</strong>ivista. Il suo progetto Cultural Preparation of the Environment ha un nome ancora valido, per me: neocolonialismo.<br />

Per fortuna gli antropologi statun<strong>it</strong>ensi hanno respinto queste procedure usando lo stesso mio concetto. <br />

2.Sulla questione della crisi delle tassonomie in relazione alle culture etniche, rinvio a questa purtroppo lunga <br />

c<strong>it</strong>azione tratta dalla mia introduzione al n. 3 di Avatar su “arte ed etnic<strong>it</strong>à”: <br />

“L’altro di è de-­‐nativizzato. Ha sottratto la classificazione di ”nativo” come esclusiva della sua ident<strong>it</strong>à. Quello che è <br />

stato il paradigma dell’antropologia – cogliere il punto di vista nativo – ora sta ridefinendosi in modo ben diverso: <br />

cogliere il punto di vista dell’auto-­‐rappresentazione. E in questo prefisso – “auto” -­‐ vi è un soggetto che non è più <br />

inscrivibile dentro una cultura di appartenenza compatta e immobile. Con auto-­‐rappresentazione non si deve <br />

intendere che la cultura Cherokee o Bororo è rappresentabile solo da un soggetto locale: anche questo è un sistema <br />

logico unificato che è inscr<strong>it</strong>to in un potere occidentale obsoleto, per quanto ancora vivo di dominio. <br />

Qui si moltiplicano soggettiv<strong>it</strong>à “native” che dissolvono il concetto stesso di nativo. Se prima le etichette per l’altro <br />

erano selvaggio, prim<strong>it</strong>ivo, senza-­‐scr<strong>it</strong>tura, ora l’uso del termine ben educato di nativo rimane ambiguo. Nella parola si <br />

afferma una vicinanza con l’essere nato, nato-­‐lì, cioè precedente, originario e quindi più autentico perché più-­‐nato. <br />

Eppure tutti noi siamo nati in qualche “lì” e questo non dovrebbe dare nessun dir<strong>it</strong>to di precedenza o purezza… Solo l’ <br />

“indiano” è nativo (na’vi), campione di natura-­‐amore-­‐animali, un po’ shamano, iper-­‐sex e pre-­‐tech, alquanto alterato <br />

da fumi r<strong>it</strong>ualizzati. A tale immagine di nativo, qualche presunto “nativo” non ci sta più. <br />

Avatar dichiara decaduto l’uso antropologico del termine “nativo” per indicare popolazioni prima defin<strong>it</strong>e selvagge o <br />

prim<strong>it</strong>ive. Avatar sollec<strong>it</strong>a l’uso dei termini che loro stessi adottano: Cherokee, Xavante, Bororo, Textal. Avatar si <br />

impegna a non favorire la riproduzione di tassonomie che riproducono non solo linguisticamente il dominio coloniale. <br />

Avatar si schiera sulla svolta basata nell’auto-­‐rappresentazione” (Canevacci, 2002, p 3) <br />

Bibliografia <br />

Canevacci, M., Forward in Avatar n. 3, Roma, Meltemi, 2002 <br />

Durham, J, Cowboys and …, in Avatar n. 3, Roma, Meltemi, 2002 <br />

<strong>www</strong>.<strong>etnografiadig<strong>it</strong>ale</strong>.<strong>it</strong> <br />

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