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CORSO DI SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA (GRUPPO ABELE ...

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<strong>CORSO</strong> <strong>DI</strong> <strong>SOCIOLOGIA</strong> <strong>DELLA</strong> <strong>DEVIANZA</strong> (<strong>GRUPPO</strong> <strong>ABELE</strong>)<br />

Il corso presenta interventi di:<br />

Luigi Ciotti (presidente del Gruppo Abele e di Libera, associazioni, nomi e numeri<br />

contro la mafia – segr.ciotti@ gruppoabele.org)<br />

Franco Floris (direttore di Animazione Sociale – animazionesociale@<br />

gruppoabele.org )<br />

Michele Gagliardo ( bububu.teen.con-percorsi con i giovani del Gruppo Abele –<br />

bububu.teen.con@ gruppoabele.org)<br />

Leopoldo Grosso (vicepresidente del Gruppo Abele- leopoldo.grosso@<br />

gruppoabele.org)<br />

Pino Maranzano (responsabile dell’Aliseo realtà impegnata nel contrastare la<br />

diffusione dell’alcolismo – abele_aliseo@libero.it)<br />

Duccio Scatolero ( professore di Criminologia alla Facoltà di Psicologia di Torino e<br />

collaboratore di Spazi d’Intesa, realtà del Gruppo Abele che si occupa di gestione dei<br />

conflitti - )<br />

Guido Tallone (Gruppo Abele , guidotallone@ gruppoabele.org)<br />

La bibliografia intende offrire alcune indicazioni utili per il lavoro di docenti, educatori e alunni.<br />

Vengono indicate opere di carattere formativo ma anche strumenti utili per l’attività didattica, per<br />

facilitare un’auto formazione personale a chi voglia approfondire le tematiche affrontate nel Corso:<br />

disagio, relazionalità educativa, pluridipendenze, fenomenologia della devianza.<br />

ALLEGATI: vengono allegati in appendice alle lezioni alcuni contributi (articoli, brani degli stessi<br />

o di altri autori) che riteniamo importanti per completare l’argomento. Tutti i contributi in allegato<br />

sono stati pubblicati nella rivista Animazione Sociale.<br />

ANNUARIO SOCIALE: i contenuti del percorso proposto possono essere completati con i dati e le<br />

informazioni presenti nell’Annuario Sociale, ulteriori informazioni e aggiornamenti potete trovarli nel nuovo<br />

sito del Gruppo Abele(www.gruppoabele.org).<br />

MODULO 1: Prevenzione, disagio e adolescenza<br />

INTRODUZIONE<br />

Luigi Ciotti<br />

LEZIONE 1<br />

Proposta di vocabolario<br />

(Guido Tallone)<br />

Rappresentazioni del disagio e dell’adolescenza<br />

(Franco Floris)<br />

Se la comunità fa spazio agli adolescenti<br />

(Franco Floris)<br />

Metodologie di intervento: il lavoro in rete<br />

(Michele Gagliardo)<br />

Scuola e territorio: l’integrazione dei percorsi educativi<br />

(Guido Tallone)<br />

1


LEZIONE 2<br />

Gli orientamenti culturali e metodologici sulla prevenzione alle dipendenze<br />

(Michele Gagliardo)<br />

LEZIONE 3<br />

La prevenzione: dall’ansia del dover tentare comunque qualcosa all’incontro in una<br />

dimensione simbolica (Michele Gagliardo)<br />

Moltiplicare è meglio che curare: promuovere opportunità in una scuola che cambia<br />

(Guido Tallone)<br />

La relazione educativa (Michele Gagliardo)<br />

LEZIONE 4<br />

Le fatiche del vivere in società complesse (Michele Gagliardo)<br />

ALLEGATI:<br />

ANIMAZIONE COME PROCESSO CHE DA’ SIGNIFICATO ALL’ESISTENZA<br />

di Franca Olivetti Manoukian<br />

L ’ASCOLTO E L’OSSERVAZIONE NELLA PROGETTUALITA’ <strong>DI</strong>ALOGICA di<br />

Francesco d’Angella, Franca Olivetti Manoukian<br />

SETTE PENSIERI SULL’EDUCARE di Andrea Canevaro<br />

INTRODUZIONE di Luigi Ciotti<br />

Il cambiamento epocale che stiamo vivendo ci ha imposto grandi riflessioni: tutto<br />

questo è avvenuto in un orizzonte culturale che non hanno costruito i nostri ragazzi<br />

ma che abbiamo costruito noi adulti, e questo orizzonte culturale dal quale siamo<br />

bombardati tutti e tutti i giorni, è un orizzonte culturale in cui la prestazione,<br />

l’apparire, l’immagine, la ricchezza, il potere, il possesso, sono gli elementi centrali.<br />

Ai ragazzi da una parte è offerto questo orizzonte culturale e dall’altra una vita reale<br />

che è fatta di sacrifici, di battute d’arresto, di mancanza di lavoro, di problemi, di<br />

fatiche e di frustrazioni. Tra questi due poli opposti si forma un corto circuito che fa<br />

crescere il numero di persone che ha paura, che tende verso la trasgressione, la fuga,<br />

verso forme di evasione e dipendenza. Allora che fare<br />

Io credo che la grande proposta oggi da fare, a tutti, giovani ed adulti, è quella di<br />

avere il coraggio di essere inadeguati, essere inadeguati a quell’orizzonte culturale<br />

che ci sta rovinando e travolgendo tutti. Dobbiamo sconfiggere l’ottica<br />

dell’iperprestazione, la cultura del “bello e perfetto” , riconquistando il senso della<br />

propria fragilità. Questo implica la coscienza del proprio limite rispetto a<br />

quell’orizzonte ma anche, e soprattutto, il recupero della centralità della persona,<br />

della dimensione umana, delle relazioni, della vera partecipazione. Credo sia<br />

importante più che mai oggi nella società dell’iperprestazione educare i giovani<br />

all’errore, a far fronte alle frustrazioni. I ragazzi riflettono in parte i pregi e i difetti<br />

del mondo adulto. Molti infatti fanno fatica a gestire le frustrazioni, a confrontarsi<br />

con i limiti, ad accettare il proprio errore e il limite altrui. Crescono in una società<br />

che educa al consumismo di tutto, anche di se stessi e i messaggi di giovani rampanti,<br />

bravi, sicuri, belli e ricchi, fanno crescere il bisogno di essere sempre all’altezza, di<br />

avere successo, e la voglia di consumarsi per le cose senza preoccuparsi di dare un<br />

senso, un significato a se stessi.<br />

2


E’ importante per un educatore leggere questi cambiamenti, queste trasformazioni,<br />

ed educare a leggere le trasformazioni e i cambiamenti affinché i giovani siano<br />

cittadini coscienti e responsabili. Prevenire non vuol dire rinchiudere nella paura,<br />

perché la paura non educa e non riesce neanche a prevenire. La paura favorisce<br />

squilibri, curiosità, ansie, insicurezze, chiusura. La via della prevenzione è dare al<br />

ragazzo gli strumenti perché sia in grado di leggere la realtà con la sua testa. Le<br />

persone in crescita non hanno bisogno di tante lezioni e morali, hanno bisogno di<br />

testimoni concreti vicini, presenti, che li accompagnino e gli facciano conoscere la<br />

grammatica della vita. C’è un enorme bisogno di adulti che si impegnino a creare le<br />

condizioni perché i giovani possano crescere dentro. Di adulti che accompagnino i<br />

loro percorsi di crescita, anche avendo idee diverse, che li accompagnino nelle loro<br />

domande. Li accompagnino però, non li portino.<br />

I giovani non ci chiedono di essere d’accordo con loro, non hanno bisogno di adulti<br />

che scimmiottino il loro gergo, creato peraltro proprio per distinguersi e creare un<br />

proprio spazio anche nella lingua, non ci chiedono di amare le stesse trasmissioni o<br />

gli stessi film o di ascoltare la loro stessa musica. Ci chiedono però di ascoltarli, di<br />

non barricarci dietro un diverso linguaggio o una diversa cultura generazionale, ma<br />

di cercare invece strade sempre nuove per comunicare. Hanno bisogno di adulti che<br />

gli diano fiducia, che creino nella scuola e fuori della scuola ambienti formativi in<br />

cui i loro bisogni possano essere riconosciuti insieme alle loro responsabilità. In cui<br />

gli studenti si sentano riconosciuti cittadini della comunità a cui appartengono. Per<br />

far questo abbiamo quattro chiavi:<br />

− Riconoscere ai giovani le loro competenze, incontrarli, mettere sempre al centro<br />

la persona nella sua specificità, con il suo linguaggio e la sua cultura.<br />

- accompagnare e non portare. Acquisire quella flessibilità interna che rende<br />

possibile all’educatore il porre in discussione il suo percorso nel momento in cui<br />

nella relazione emergano risorse non previste e stimoli da parte dei ragazzi per<br />

cambiare direzione. Spesso sono gli educati ad indicare all’educatore le strade<br />

giuste di un percorso di formazione.<br />

- non dare solo risposte tecniche ma sapersi mettere in gioco, non barricarsi nelle<br />

proprie paure, nel timore di non essere all’altezza, di non essere capace,<br />

rifiutando il nuovo e cercando sicurezze nei percorsi da sempre seguiti.<br />

− partire dal positivo, non dai problemi. Non lavorare per la prevenzione da ma per<br />

la<br />

promozione di educando gli stessi ragazzi a diventare “trasmettitori” tra pari,<br />

moltiplicatori.<br />

. dare spazio ai vissuti e alle emozioni<br />

. usare linguaggi diversi per comunicare.<br />

. porre molta attenzione alla dimensione del reale: trovare strumenti opportuni per<br />

vivere il reale, per combattere la fuga nel virtuale, recuperando la realtà nella<br />

relazione educativa.<br />

3


Gli studiosi ci dicono che nel 1987 il numero di vocaboli usati nel mondo giovanile<br />

erano 1600, nel 2000 il numero di vocaboli sono solo 600. Nessuno vuole<br />

demonizzare la televisione o gli strumenti della grande comunicazione ma prendiamo<br />

coscienza insieme che la tv parla ma non comunica, non c’è esercizio di parola.<br />

Nonostante i nuovi strumenti, apparentemente di grande comunicazione, mai come in<br />

questo momento noi viviamo la povertà della comunicazione. Nell’era delle grandi<br />

comunicazioni, noi siamo poveri di vera informazione. Allora non ci si può non<br />

chiedere se ci possono essere anche altri strumenti per rompere quella distanza di<br />

povertà di comunicazione, per parlare con i ragazzi, con la gente. Noi crediamo che<br />

tutto possa essere messo in gioco in questo senso e in questa direzione, ma qui viene<br />

il nodo. Alla fine degli anni ottanta è avvenuto un grande cambiamento: c’è chi ha<br />

preso coscienza e c’è chi ancora oggi ancora non ne prende coscienza. Il grande<br />

cambiamento epocale nel mondo giovanile è stato questo: in quegli anni è nata la<br />

nuova musica tecnologica, è nata una nuova cultura, sottocultura sotto alcuni<br />

aspetti, sono fioriti nuovi linguaggi, un nuovo modo di gestire il tempo libero. I<br />

giovani si sono riappropriati della notte, ma soprattutto, in una situazione<br />

particolare, si sono diffuse le nuove droghe chimico-sintetiche. In quegli anni si sono<br />

andati affermando nuovi stili di vita e di consumo, altre forme di dipendenza che non<br />

devono confondersi con la tossicodipendenza. Consumi estremamente compatibili<br />

con una vita normale ma che denunciano con il loro affermarsi le zone d’ombra della<br />

normalità, come le denunciano l’anoressia e la bulimia, altre forme di dipendenza, di<br />

fatica, di insofferenza, di ricerca, che non devono essere sottovalutate.<br />

Non ignorare questo cambiamento significa ad esempio aprire spazi di parola, ma<br />

non solo di parola, con gli adolescenti su temi come il divertimento, il piacere, lo star<br />

bene in gruppo, il rischio, la trasgressione, la paura, la notte come dimensione nella<br />

quale cambiare identità e vivere ciò che non si può essere e fare di giorno. Ma<br />

significa anche aprirsi all’uso di linguaggi diversi di comunicazione, tra i quali il<br />

linguaggio gestuale abbia il suo spazio. Valorizzare nel modo giusto il ballo, la<br />

musica, il bisogno di una comunicazione più autentica e più diretta.<br />

I giovani tra i 14 e i 28 anni in Italia sono 9 milioni, le discoteche in Italia sono 5<br />

mila, 300 sono le discoteche di tendenza, ci lavorano 150 mila persone tanto per<br />

dare un dato importante, se ci sono dei locali criminali dopo un po’ vengono<br />

eliminati, ma non è tutto sporco. Bisogna chiedersi cosa fare in senso propositivo,<br />

come molti se lo stanno chiedendo, gli stessi gestori delle discoteche, insieme alla<br />

bella musica, quella musica dei ragazzi, del ballo, del segno della festa. E’<br />

necessario riempire di contenuti e dare una mano ai nostri ragazzi, anche isolando i<br />

criminali.<br />

Quali altri spazi possiamo costruire con i nostri ragazzi oggi Di fatto, è stimato che<br />

nel venerdì, il sabato e la domenica sera, di quei 9 milioni di quella fascia d’età<br />

vanno in discoteca punte minime che vanno da 3 milioni e mezzo a 5 milioni e mezzo<br />

di giovani. E’ un dato ed è su questo dato che noi dobbiamo chiederci come<br />

possiamo costruire e portare contenuti e riflessione per non rimanere schiacciati, noi<br />

e loro, dentro quell’orizzonte culturale.<br />

4


LEZIONE 1<br />

PROPOSTA <strong>DI</strong> VOCABOLARIO di Guido Tallone<br />

Tentare un vocabolario dell’educare è impresa quasi impossibile. Ciò che qui<br />

viene proposto è un semplice esercizio, una ri-lettura di termini per lasciare che le<br />

parole ci coinvolgano con le loro provocazioni, immagini e proposte.<br />

La parte scritta in carattere più piccolo corsivo vuole essere una breve sintesi<br />

essenziale di lavori pervenuti – via e-mail o via fax – da alcuni interlocutori con cui è<br />

stato avviato un confronto: è dalla polifonia delle voci che possono emergere le<br />

suggestioni più ricche e significative. L’altra parte rappresenta una possibile<br />

riflessione personale.<br />

Mancano – volutamente – molti termini. Sono assenti i vocaboli che chiunque<br />

può aggiungere. Come in un gioco aperto all’infinito dove il senso del procedere è<br />

dato dal collegarsi a quanto precede. Giocare con le parole, non dimentichiamolo, è<br />

percorso che ci porta anche ad incontrarci e forse a ritrovarci.<br />

Se da questo inseguire alcuni “termini” troviamo insieme le “parole” con le quali<br />

collaborare, costruire speranza e dilatare giustizia, ben venga anche l’ipotesi di un<br />

vocabolario incompleto.<br />

Agio/disagio:<br />

“Stato di benessere fisico e mentale, dovuto alla sensazione di essere in un ambiente<br />

o in una situazione conosciuta o priva di quegli ostacoli che impediscono il vivere /<br />

condizione di malessere frutto di azioni subite e di difficoltà di adattamento che<br />

espone la persona singola e/o la collettività a rischi e patologie.”<br />

“Disagio” – secondo gli esperti del linguaggio – significa “lontananza”.<br />

Lontananza da Sé, dai propri desideri più profondi, lontananza dalle persone con cui<br />

si sono costruite relazioni significative, lontananza da condizioni di vita buona,<br />

lontananza rispetto ad un orizzonte di senso in cui sia possibile riconoscersi ed<br />

essere riconosciuti. Lontananza-vicinanza, disagio-agio, malessere-benessere,<br />

malattia-salute sono le polarità estreme di una serie di dimensioni rispetto alle quali,<br />

in differenti momenti della vita, ogni persona si colloca, in posizioni sempre<br />

differenti. Non è possibile ritenere appannaggio di alcuni l’agio, il benessere, la<br />

salute, l’educazione e di altri il disagio, il malessere, la malattia e la cura.<br />

Riconoscere l’unitarietà della persona significa rompere con linguaggi e schemi<br />

interpretativi che, più o meno indirettamente, tendono a scindere in due il nostro<br />

essere persone unitarie, quali che siano le “luci” e le “ombre” di ognuno.<br />

“Disagio” e “agio” sono i due poli fra i quali si muove il percorso di vita di tutti. E’<br />

compito di ognuno, ma è dovere anche delle istituzioni e delle politiche sociali,<br />

costruire le condizioni perché – da una parte – l’agio e la salute diventino sempre<br />

più situazione esistenziale di un sempre maggior numero di persone e – dall’altra – il<br />

5


disagio e la malattia siano, per tutti, momento di passaggio, condizioni particolari di<br />

specifici momenti di crisi e di cambiamento, risorse anche per il proprio benessere,<br />

mai destinate a cristallizzarsi in modo irrimediabile e stabilizzato. Riscoprire la<br />

bellezza di percorsi che costruiscano “vicinanza” – anche nel “disagio” - significa<br />

essere “presenti accanto” all’”altro” perché non si senta solo nel “normale”<br />

momento del cambiamento, nel superare ostacoli e nella fatica dell’affrontare le<br />

“trasformazioni” del vivere.<br />

Contesto famigliare:<br />

Quando si tenta di definire la “famiglia” - all’interno delle società complesse - ci si<br />

trova di fronte alla parzialità, relatività ed insufficienza di ogni definizione. E’ una<br />

realtà multidimensionale che risente profondamente delle concezioni etiche, religiose,<br />

antropologiche e culturali di chi la osserva e che cambia con modalità anche molto<br />

variabili estensione, volto e senso (dalla famiglia priva di “nucleo” a quelle con più<br />

nuclei, passando per le più svariate posizioni intermendie). Le relazioni famigliari,<br />

nonostante la loro crescente fragilità, rappresentano tuttavia una risorsa insostituibile<br />

per ogni persona. Rappresentano infatti il luogo della socializzazione primaria ed<br />

assolvono ad essenziali funzioni per sviluppo e la costruzione dell’identità dei loro<br />

membri (la cui realizzazione personale possono favorire od ostacolare): sono sistemi<br />

relazionali e simbolici che - attraverso la funzione biologica della riproduzione,<br />

dell’educazione e dell’elaborazione del lutto - gestiscono lo sviluppo della vita umana<br />

lungo l’asse verticale del tempo, e rappresentano anche lo snodo di integrazione fra<br />

tempo e spazio privati e tempo e spazio sociale. E’ all’interno della famiglia che si<br />

giocano gran parte delle possibilità, per gli individui, di “”adattarsi ed integrarsi” nel<br />

sistema sociale. Le funzioni famigliari sono dunque essenziali ed insostituibili e, data<br />

la loro complessità, devono essere sostenute da un’attenzione particolare da parte<br />

delle istituzioni, delle forme organizzate del sociale e della politica, un’attenzione che<br />

ne rispetti la pluralità delle forme e le specifiche originalità di ognuna. Dar vita ad un<br />

ampio movimento di reale e concreto servizio alle famiglie - capace di sostenere la<br />

loro effettiva cittadinanza - significa, in particolare, accompagnarle nella costruzione<br />

di legami vitali con il territorio, nella gestione dei rapporti tra le generazioni e<br />

soprattutto nella capacità di soddisfare i bisogni educativi dei suoi membri (bisogno<br />

di comunicare, di contenere le paure, di costruire un progetto di vita, di far fronte alle<br />

frustrazioni, di proposte), nella crescita qualitativa delle relazioni famigliari ed infine<br />

nell’acquisizione di titolarità effettiva delle politiche sociali generali e specifiche<br />

6


Devianza:<br />

“Comportamento che è uscito dai "canoni normalmente"<br />

accettati dalla società, che si scosta dalla norma stabilita dal gruppo di<br />

appartenenza e che disattende le aspettative sociali. Anche se può essere correlata a<br />

disagio e a difficoltà od impossibilità - da parte dell’individuo - nell’adattarsi<br />

all’ambiente in cui vive o nell’integrarsi nel gruppo di appartenenza, non possiamo<br />

riduttivamente usare il termine in senso necessariamente negativo. E’ comunque un<br />

cambiamento di direzione - rispetto ai modelli proposti dalla società - i cui esiti<br />

personali e sociali sono difficilmente valutabili.”<br />

Il dato forse più significativo dell’attuale contesto culturale (simboleggiato dal<br />

costante richiamo al concetto di “complessità”) è rappresentato dal fatto che sono<br />

venuti meno i punti di vista privilegiati e certi da cui troppi hanno per secoli preteso<br />

di osservare, interpretare e controllare i fenomeni. Oggi non è semplicemente più<br />

possibile. Siamo ormai dentro a percorsi sociali e culturali in cui nessuno riesce più<br />

non solo ad avere l’unica chiave interpretativa, ma nemmeno la presunta<br />

autorevolezza per valutare e controllare. Tutto ciò – applicato nel lavoro sociale –<br />

rappresenta una grossa sfida e ha risvolti etici non indifferenti. E’ in questo<br />

orizzonte che è necessario ripensare – senza operare riduzioni – anche la cosiddetta<br />

“devianza”, rileggendola all’interno di un più ampio discorso relativo al<br />

“cambiamento sociale”. Il cambiamento sociale, in un paradigma di complessità,<br />

non dipende solo da un criterio, ma è dato da più fattori e costruito da una pluralità<br />

di eventi che interpretano e ridefiniscono le linee della storia (intesa non solo come<br />

“cronos” - succedersi di momenti - ma soprattutto come “autocomprendersi che si<br />

evolve”). In una cultura della “complessità” - dunque - anche ciò che siamo<br />

abituati a chiamare “devianza”, “disagio” o “trasgressione” è un potenziale<br />

elemento di cambiamento che contribuisce, se non rimosso e negato, a ridefinire il<br />

paradigma sociale. Solo se questi elementi sono “accolti” e “riconosciuti” (che non<br />

vuol dire “giustificati”) si crea quella dialogicità interlocutoria che permette di<br />

comprendere ed interpretare il cambiamento sociale. Ciò non significa<br />

“giustificare” anche i possibili “errori”. L’”errore” resta tale, ma è anch’esso<br />

parte integrante del percorso di crescita, una “pausa obbligata” che costringe sì a<br />

fermarsi, per riposizionare e riorganizzare la propria azione, ma che porta<br />

comunque sempre nuove informazioni ed una ulteriore possibilità di interiorizzare i<br />

contenuti, di migliorare le proprie scelte e la propria consapevolezza di sé e della<br />

realtà. E’ una sfida affascinante perché - anziché rassicurare, chiudere, proteggere<br />

e normalizzare tutto per riportarlo nel nostro orizzonte di senso - ci chiede di essere i<br />

co-protagonisti di quelle trasformazioni di vasta portata che stanno ridefinendo le<br />

nostre vite.<br />

7


Diritti:<br />

“Ciò che deve essere salvaguardato – in virtù della semplice esistenza – per il<br />

soddisfacimento di bisogni essenziali riconosciuti e – di conseguenza - tutelati da<br />

sistemi di norme o di leggi condivise. I diritti - per il cui riconoscimento è stato<br />

necessario lottare e per la cui estensione a tutti la lotta è ancor oggi necessaria -<br />

garantiscono e tutelano la persona, ne sanciscono la dignità ed appartenenza alla<br />

società. E’ il riconoscimento di diritti che permette alle persone di agire e di avere<br />

più o meno accesso alla vita comune.”<br />

La dimensione interpersonale delle relazioni educative e terapeutiche è monca se<br />

non è ancorata alla dimensione socio-politica dell’educare. E’ certamente<br />

impensabile sganciare la dimensione educativa dalla relazionalità e dalla reciprocità.<br />

E’ però necessario fare attenzione a non chiudere esclusivamente nella relazione<br />

interpersonale il senso dell’educare, perché sempre la relazione educativa va restituita<br />

alla sua dimensione socio-politica. Costruire sé stessi è “diventare persone”, ma si ha<br />

bisogno – perché ciò accada - del riconoscimento sociale e politico da parte di altri,<br />

che siano capaci di rispettare la libertà, la diversità, l’originalità e - comunque sia – la<br />

dignità di ciascuno. Diventare individui necessita di riconoscimento sociale e<br />

politico. Cogliere tale dimensione significa ritradurre e rinegoziare in termini di<br />

“diritti” ciò che non può essere “elargito” come favore, privilegio, assistenza<br />

(laddove il bisogno viene intercettato come “favore” nascono mafie, illegalità,<br />

corruzione, dipendenze, schiavitù, …). Senza dimenticare che non è sufficiente il<br />

riconoscimento “formale” dei diritti perchè questi vengano attuati, ma che – anche i<br />

diritti – necessitano di esercizio, di pluri-competenze e di gradualità perché vengano<br />

interiorizzati ed entrino a far parte delle effettive possibilità di azione delle persone.<br />

Essere attenti alla dimensione socio-politica dell’educare significa dunque anche non<br />

fermarsi alla rivendicazione dei soli diritti (civili o sociali). Il solo diritto rivendicato<br />

può prestare il fianco a quelle culture egoistiche dove tutto è centrato sulla esclusiva<br />

ricerca di benessere individuale, totalmente disarticolato dal bene comune. Non<br />

soltanto quindi educare alla rivendicazione del diritto ma anche al dovere della<br />

partecipazione. Il diritto sociale ed individuale di ciascuno di noi deve essere<br />

sostenuto dall’altrettanto fondamentale diritto e dovere alla partecipazione sociale.<br />

Siamo co-protagonisti del bene comune nella misura in cui promuoviamo l’esercizio<br />

– per tutti – dei diritti della persona costruendo percorsi educativi che favoriscano<br />

sempre più ampie e variegate modalità di partecipazione.<br />

8


Educare:<br />

“Trasmettere un modello comportamentale e dei contenuti.<br />

Condividere le regole. Interagire con la persona, rispettandola, in un rapporto che è<br />

bilaterale e non unidirezionale.<br />

Porsi in relazione e confrontarsi. Condividere l’esperienza. Consapevolezza del<br />

proprio limite di educatore e arricchimento nella diversità. Aiutare a far emergere le<br />

potenzialità che sono insite nella persona: fornire mezzi e strumenti”.<br />

Educare ed educarsi significa passare dalla precarietà del sentirsi “gettati”<br />

nell’esperienza del vivere senza capirne il senso e senza sapere cosa fare,<br />

all’intravedere, fra tante possibilità, un possibile percorso che è “sentito” come<br />

proprio e che è scelto perché vi si riconosce quella forma che si desidera essere e<br />

diventare. In ciò consiste il “pro-gettare” proprio dell’educare: “gettarsi al di là” di<br />

ciò che si è ed essere disposti ad investire energie, fatica e risorse per realizzare il<br />

proprio progetto. Senza dimenticare che nessun educatore ha la “chiave” per<br />

costruire il progetto di vita di nessun altro. E’ l’esperienza vissuta ciò che ci educa<br />

davvero. Perché solo l’esperienza interiorizzata e compresa con la mente e con il<br />

cuore ci spinge al di là delle nostre abitudini, delle nostre conoscenze, delle nostre<br />

radicate certezze. E’ l’esperienza a farci conoscere la gamma di possibilità della<br />

nostra esistenza. E’ l’esperienza che ci fa conoscere noi e il mondo. Essere<br />

“educatore” significa essere “compagno”, testimone attento del percorso di vita<br />

dell’altro, con cui si sceglie di condividere un cammino. La meta del tragitto viene<br />

concordata, così come i ritmi del procedere sono ben calibrati sul passo di entrambi.<br />

La strada non è mai pre-definita o già conosciuta in anticipo, così come non sono predeterminabili<br />

gli incontri, le accellerazioni, le soste o gli ostacoli, che vanno letti e<br />

decifrati passo per passo. L’unica meta fissa è lo stesso accompagnare, la<br />

costruzione della relazione. Ed è attraverso la realizzazione del percorso che ognuno<br />

giunge all’educazione ed alla costruzione di sé.<br />

Lavoro di rete:<br />

“Lavoro fatto in sinergia fra diversi soggetti presenti sul territorio, ognuno con un<br />

ruolo diverso e specifico, per il raggiungimento di obiettivi comuni in un processo di<br />

cambiamento necessario in risposta a problemi emersi. E’ un metodo operativo che<br />

presuppone e promuove la conoscenza delle opportunità e delle risorse del territorio<br />

per utilizzarle ed integrarle al meglio, e di cui le relazioni umane costituiscono il<br />

presupposto, lo strumento del cambiamento e l’obiettivo da raggiungere per<br />

migliorare la qualità della vita propria ed altrui.”<br />

Educare e progettare dentro la complessità significa impegnarsi innanzitutto a<br />

lavorare con altri, per non ridurre il sociale ad una sola prospettiva, abituandosi in<br />

prima persona a gestire l’incertezza che la rinuncia a punti di vista assoluti comporta.<br />

9


Intendere la progettazione come un’azione che moltiplica prospettive, opportunità ed<br />

occasioni significa stare dentro le alleanze educative con la fantasia e la creatività che<br />

la rete di alleanze permette, ma con l’obiettivo di facilitare l’emergere di nuove<br />

opportunità e possibilità. Il cambiamento sociale è frutto di un lavoro condiviso: non<br />

può essere il singolo soggetto o gruppo a costruire il cambiamento. Il singolo può<br />

solo essere un punto della rete sociale, al cui interno si muove – come co-protagonista<br />

- inventando nuove opportunità con il contesto. Rispettoso della storia di quella rete<br />

sociale, tentando di riconoscerne gli aspetti più sani. Consapevoli inoltre del fatto<br />

che la maggiore difficoltà sta nel fatto che tutti gli attori realmente coinvolti nel<br />

lavoro comune sono implicati personalmente sia da un punto di vista emotivo sia da<br />

un punto di vista cognitivo, e ciò rende necessario prendere in considerazione,<br />

contenere ed incanalare in modo costruttivo le dimensioni personali di ognuno.<br />

Anche se il lavoro di rete è caratterizzato da legami “deboli”, che permettono cioè a<br />

ciascuno di mantenere una propria identità ed autonomia di azione, ciononostante<br />

attivare percorsi di cambiamento mobilita spesso negli stessi operatori dimensioni<br />

affettive profonde, che a volte sono i primi ostacoli alla realizzazione dell’azione.<br />

Fare in modo che in ogni fase della progettazione vi sia una reale condivisione - per<br />

quanto riguarda l’individuazione dei problemi, degli obiettivi e delle azioni da<br />

mettere in atto - fa sì che sia possibile una progettazione in cui tutti gli operatori si<br />

identificano e si riconoscono. E’ questa la prima condizione perché sia la effettiva ed<br />

affettiva partecipazione delle persone coinvolte a farsi automaticamente garante del<br />

fatto che le azioni che si intraprendono siano realmente significative.<br />

Prevenzione:<br />

“Domandare per capire. Ascoltare per verificare che cosa manca, che cosa si può<br />

offrire, chi lo deve fare, alfine di ottenere un benessere.<br />

Prevenire significa informare. Rimuovere degli ostacoli e far sì che non si creino<br />

situazioni a rischio.<br />

Sensibilizzare, indurre al riflessione per evitare o ridurre eventi negativi.Intervenire<br />

prima del problema o per evitare che il problema diventi più grande.<br />

Costruire spazi di vita di qualità, riconoscibili da tutti”.<br />

Oggi l’eccessiva enfasi sulla “prevenzione” è “parola” che denuncia la scarsa<br />

attenzione per più efficaci investimenti educativi. Tale enfasi può tradire infatti<br />

l’indifferenza, il timore, a volte la paura od il giudizio di condanna che caratterizzano<br />

spesso alcuni inconsapevoli modi di avvicinarsi e confrontarsi con chi – con i suoi<br />

comportamenti – sfida le nostre convinzioni e certezze. Non si tratta - con questo - di<br />

screditare le pratiche di “prevenzione” tout-court, né tantomeno di sminuire<br />

l’importanza di tanti percorsi educativi e preventivi attuati in questi anni a partire<br />

dall’attenzione ad intervenire “a monte” rispetto al costituirsi e cronicizzarsi di tante<br />

forme di disagio. Sicuramente il grosso guadagno sociale che la cultura della<br />

prevenzione ha in modo molto forte affermato e reso tensione comune è proprio<br />

10


questo. Non possiamo tuttavia esimerci dal sottolineare la fragilità delle pratiche di<br />

prevenzione allorquando questa è stata intesa – da una parte - al riparo da posizioni<br />

educative chiare o - dall’altra - con un approccio allarmistico ed occasionale. Perché<br />

è questo il nodo: spostare le pratiche di prevenzione dall’emergenza che le costringe<br />

in percorsi provvisori, precari ed estemporanei ai processi che costituiscono<br />

l’accompagnamento educativo e l’agire sociale in cui le varie agenzie (educative e<br />

non) ed i soggetti sono solitamente impegnati. Significa inserire il “fare<br />

prevenzione” all’interno delle normali pratiche “educative” e “politiche” e non<br />

“oltre”, in una zona franca ed incomunicante con gli addetti dell’educare e dell’agire<br />

sociale; vuol dire che il tema prevenzione deve diventare parte integrante di un più<br />

vasto piano educativo territoriale capace di promuovere le competenze che già<br />

esistono. Si tratta cioè di considerare prima e fondamentale tappa del vero prevenire<br />

la restituzione della centralità – culturale, politica e sociale – all’”educare”,<br />

riallacciando i fili di un tessuto sociale (forse oggi un po’ allentato) e riconoscendo e<br />

restituendo alle persone, alle famiglie e alle comunità quelle competenze formative di<br />

cui sono le prime depositarie.<br />

Promozione:<br />

“Azioni (coinvolgimento, sensibilizzazione, informazione, educazione) volte a<br />

favorire lo sviluppo di una comunità facendosi portatori di un’idea, attraverso nuovi<br />

stili di comportamento, facilitando trasformazioni. La promozione stimola l'apertura,<br />

la conoscenza, la crescita, l'offerta di opportunità intese come diritti, cercando di<br />

incrementare il protagonismo e la cittadinanza attiva di tutti in una circolarità positiva<br />

che si autoalimenta.”<br />

Riconoscere e recuperare la dimensione educativa della progettazione sociale<br />

significa inoltre lavorare sempre più in un’ottica promozionale, facilitando cioè<br />

cambiamento, crescita, apertura a sempre nuove possibilità, apprendimento,<br />

trasformazione. Non si può non cambiare. Nessuna staticità è concessa al vivere<br />

perchè ciò che si ferma non vive più. Crescere significa quindi innanzitutto sottrarsi<br />

ad ogni illusione di staticità e scegliere di diventare protagonisti e “registi” del<br />

proprio cambiamento, accompagnando ciò che si trasforma con l’intelligenza di chi<br />

sa riposizionarsi in termini dinamici. Fare “promozione” significa anche e soprattutto<br />

questo: facilitare le capacità riflessive, critiche e creative di ognuno perché tutti<br />

possano essere protagonisti del cambiamento proprio e della comunità di cui sono<br />

parte. La partecipazione al vissuto comune ed alla vita della comunità ne sono il<br />

corollario: la “promozione” è sempre polifonica, frutto di più voci. Solo nel contatto<br />

con la realtà fuori di noi, nel riconoscimento reciproco e nella comune partecipazione<br />

alla costruzione di realtà condivise si costituisce quell’intreccio di esperienze e di<br />

relazioni che dà forma alla crescita ed alla trasformazione di ognuno. L’uomo non si<br />

auto-produce, ma cresce nel condividere con altri la fatica del costruire. E’ sempre<br />

più viva oggi la necessità di compiere scelte culturali e politiche a favore di ampi<br />

11


piani promozionali che vedano quanti più soggetti di una comunità impegnati in<br />

azioni condivise tese alla costituzione e tutela dei beni comuni, alla promozione della<br />

giustizia sociale, delle libertà chiamate a convivere e della tutela dell’ambiente,<br />

all’interno di percorsi di partecipazione. Sono soprattutto coordinamento,<br />

partecipazione, sforzo comune per individuare strategie condivise, progettazioni volte<br />

a costruire il futuro ciò che riconosce alle persone un ruolo vitale e da protagonista e<br />

che restituisce loro quello spazio “politico” che gli appartiene.<br />

Rischio:<br />

“Situazione di cui - a seguito di circostanze non prevedibili, comportamenti azzardati<br />

o condizioni pericolose - non si può sapere con certezza l’esito e/o in cui è forte la<br />

possibilità di conseguenze negative o dannose per sé e/o per gli altri. È un punto<br />

interrogativo – presente nell’agire degli uomini – attraverso la cui elaborazione<br />

avviene anche la crescita.”<br />

Rischiare è tentativo di appropriarsi della sacralità e della magia dell’esistere,<br />

desiderio di un’esperienza che non si vuole soltanto vivere ma dominare esorcizzando<br />

la morte, illusione di onnipotenza che fa ricercare la sensazione di essere più forti<br />

dello stesso destino. Rischiare è tutto questo ed altro ancora, se estremizzato. E’<br />

caratteristica inalterata dell’età giovanile o preoccupante specificità dell’epoca<br />

attuale Difficile rispondere, ma forse – in ogni caso – risponde al bisogno, di ogni<br />

ragazzo o ragazza, di vivere misurando sé stessi innanzitutto ed interrogando la vita,<br />

sfidandola per conoscerne i confini. Anche rischiare – in questo senso - è un diritto.<br />

Quanto sa, il mondo degli adulti, cogliere questo bisogno e costruire i modi perché –<br />

per i giovani - assumersi dei rischi sia un normale momento di crescita e non un<br />

inutile e pericoloso spreco di risorse ed energie<br />

Servizi:<br />

“Luogo deputato a dare risposte alle persone attraverso un insieme organizzato di<br />

risorse umane e materiali per il perseguimento di obiettivi definiti e condivisi.<br />

Luogo di comprensione della realtà esterna più grande e rete che semplifica e<br />

sintetizza la complessità presente.<br />

Insieme di risorse (operatori, mezzi, utenti) organizzati per la conoscenza, l’analisi e<br />

la risposta dei bisogni.<br />

Lavoro insieme, che ha una competenza e dei suoi obiettivi. Luogo istituzionale e di<br />

risposta al bisogno, sia diretta, come accompagnamento, che indiretta come<br />

orientamento.<br />

Organizzazione in evoluzione per l’attenzione ai bisogni che emergono”.<br />

Sia che vengano indicati trattamenti terapeutici, consulenze, interventi o diagnosi,<br />

sia che vengano proposti corsi, seminari di formazione, analisi o lavori di gruppo,<br />

12


possiamo definire i “servizi” - pubblici o privati che siano - come “l’insieme integrato<br />

di attività, prestazioni e processi di lavoro offerti alle persone perché queste riescano<br />

a risolvere o gestire meglio uno o più dei loro problemi”. E’ importante - in ogni<br />

possibile riflessione sul lavoro dei cosiddetti “servizi” – non perdere mai di vista<br />

questo essenziale punto di partenza, il fatto cioè che sono le persone (soggetti<br />

individuali, gruppi, famiglie, organizzazioni o quartieri che siano), i loro problemi e<br />

le loro competenze nel farvi fronte (da riconoscere e da potenziare) il fulcro ed il<br />

centro di qualsivoglia intervento sociale. In altre parole: il lavoro sociale è sempre<br />

teso a potenziare la competenza, il protagonismo, la libertà e la partecipazione dei<br />

cosiddetti “clienti”. Se viene smarrita questa priorità rischia immediatamente di<br />

collocarsi in un orizzonte che – inconsapevolmente – riproduce quanto vorrebbe ed è<br />

convinto di modificare. Da questo punto di vista essere capaci di comprendere in<br />

profondità le domande più o meno consapevoli che le persone pongono, saper<br />

sospendere il giudizio quando ci si rende conto di non essere in grado di cogliere gli<br />

elementi centrali di una situazione, saper andare al di là delle possibili simpatie od<br />

antipatie legate ai propri vissuti interiori, alle proprie certezze od alla risonanza<br />

sociale che certe forme di problemi suscitano, sono elementi essenziali per far sì che<br />

il proprio relazionarsi con i problemi non sia mediato in modo inconsapevole ed<br />

assoluto dai propri modi di essere acquisiti e dalle proprie conoscenze pregresse.<br />

Oggi non è facile - vista la frammentazione e la complessità esistenti - ascoltare ed<br />

analizzare tanto la realtà quanto i reali bisogni delle persone. E' essenziale<br />

"incontrare" effettivamente i bisogni di tutti favorendo la creazione o l'utilizzo di<br />

luoghi di scambio, di dibattito e di confronto dove tali bisogni possano farsi<br />

«domanda» e «progetto» discusso e condiviso. Solo un ascolto ed un dialogo<br />

sofisticato ed acuto fanno sì che l’impegno sociale non perda mai di vista i suoi<br />

obiettivi.<br />

Strada:<br />

“Ambiente esterno, spazio comune, luogo di passaggio, di osservazione, di<br />

conoscenza, di incontro e di aggregazione, ma anche luogo nel quale diventano<br />

visibili fenomeni di degrado, rischio, pericolo, emarginazione, povertà,<br />

indifferenza.… E’ anche via che permette comunicazione, percorsi e direzioni da<br />

seguire, rendendo possibile individuare delle mete e riuscire a raggiungerle.”<br />

La strada è stata e continua ad essere per molti gruppi che lavorano nel sociale<br />

punto di partenza per tante riflessioni e progetti, luogo di provocazione e di stimolo.<br />

Luogo simbolico della vita, del movimento e del cambiamento, la strada è quello<br />

spazio comune abitato da tutti - perché a tutti accessibile - che più sa mostrarci, senza<br />

selezioni di sorta, l’umanità con cui condividiamo il nostro territorio. Simbolo<br />

dell’incontro con l’altro e dello scambio, la strada è spesso anche lo spazio in cui a<br />

volte ci scontriamo con ciò che disturba il nostro ordine ed il nostro modo a volte<br />

ripetitivo di avvicinare le situazioni e le persone, che ci pone degli interrogativi e che<br />

ci chiede di andare continuamente oltre i nostri soliti “recinti” e “steccati”. Ci ricorda<br />

13


infatti l’esigenza di un confronto continuo con una società che cambia continuamente<br />

e produce in forme sempre diverse i suoi «anelli deboli», quelle “nuove povertà” che<br />

sorgono e si costruiscono con le più o meno percettibili trasformazioni ambientali,<br />

culturali, sociali e geo-politiche. La strada ci educa a non selezionare i compagni di<br />

viaggio, a confrontarci con l’incertezza ed il non-conosciuto, ad assumerci la<br />

complessa responsabilità di non ridurre i fenomeni ad aspetti soltanto locali o<br />

settoriali per saper comprendere ed intervenire sui processi globali, culturali, sociali o<br />

politici che si stratificano in ogni singola situazione o problema. Ci insegna<br />

l’interdipendenza che collega ogni anello (ambientale ma anche sociale, culturale e<br />

politico) con ogni altro e ci invita ad alzare lo sguardo, documentarci ed assumere le<br />

giuste responsabilità rispetto agli interscambi crescenti fra nord e sud del pianeta, alle<br />

problematiche aperte da un mondo socio-economico in rapida evoluzione,<br />

all’espandersi di situazioni di povertà materiali ed immateriali, alla scollatura<br />

crescente fra cittadini ed istituzioni.<br />

Territorio:<br />

“Spazio fisico-politico di appartenenza e di riferimento (comunità locale, provincia,<br />

regione, stato, pianeta, ecc…), con specifiche caratteristiche sociali, economiche e<br />

culturali. È l’ambito geopolitico in cui ci si sente inseriti, costituito da una rete<br />

complessa di persone unite da relazioni sociali, interessi comuni, codici morali,<br />

linguistici, ecc… di cui leggere le caratteristiche per conoscerne le esigenze e le<br />

risorse.”<br />

Per proiettarci in un domani a volte non ben conosciuto abbiamo bisogno di essere<br />

profondamente radicati in un presente che ci nutra, in uno spazio umanizzato che ci<br />

offra il calore dell’appartenenza, il sostegno di una rete di relazioni e che ci fornisca<br />

una storia ed una memoria da cui partire per progettare il futuro. Gli ambienti ed i<br />

territori nei quali viviamo spesso ci pongono vincoli, ma ci offrono anche quelle<br />

risorse, riconoscimenti ed opportunità di cui sono intessute le attività di lavoro, del<br />

tempo libero, le pratiche sociali e l’identità di ognuno. La frammentazione e<br />

globalizzazione oggi in atto fanno sì tuttavia che sempre più i nostri territori rischino<br />

quella disumanizzazione che li rende “non-luoghi”, spazi cioè anonimi, uguali ed<br />

impersonali che assolvono cioè a delle funzioni ma che non offrono né un’identità, né<br />

un senso di appartenenza, né una storia od una memoria. Insicurezza, paura, allarme,<br />

intolleranza verso chi arriva e localismo esasperato sono i modi con cui si esprime la<br />

crescente perdita di relazione fra cittadino e territorio. Abitare il territorio è tensione<br />

educativa che ci chiede di fare in modo che il territorio diventi luogo di vita per tutti e<br />

non solo geografia da attraversare o sede del proprio riparo. Significa –<br />

salvaguardando il diritto di tutti a riconoscersi in un territorio e ad appartenervi, senza<br />

con ciò giungere a conflitti ed espulsioni per altri – indirizzarsi alla promozione di<br />

relazioni, di servizi ed alla garanzia di una migliore qualità della vita e di una più<br />

ricca convivenza per tutti.<br />

14


Trasgressione:<br />

“Violazione volontaria di regole, norme (sociali o morali), leggi. Azione di<br />

contrapposizione e non aderenza rispetto a quanto condiviso.”<br />

Limite e trasgressione vivono l’uno dell’altra: non c’è trasgressione senza un limite<br />

che cerchi di incatenarla e non c’è limite se non esiste una vitalità da contenere ed<br />

incanalare. La trasgressione è infatti un’azione che supera ed infrange l’ordine delle<br />

leggi, dei confini e delle regole che esistono ed ordinano un determinato ambito di<br />

vita. Ma la trasgressione non è la negazione del limite. Ne è – paradossalmente – la<br />

ricerca. La trasgressione ha bisogno del limite, lo cerca e lo ribadisce in una<br />

circolarità senza fine. “Stare a questo gioco” – con gli adolescenti – significa<br />

cogliere anche, nelle loro trasgressioni, la ricerca di un’attenzione particolare, capace<br />

di aiutarli ad incanalare energie e vitalità in una circolarità virtuosa e progettuale. La<br />

trasgressione può assumere anche il significato della disobbedienza civile; impegno –<br />

detto con altre parole – per denunciare inadeguatezze legislative e per contribuire al<br />

cambiamento. Quando la trasgressione assume questo ruolo e significato è da<br />

intendersi come esercizio attivo di responsabilità critica e costruttiva. La<br />

trasgressione così intesa non è lontana dalla profezia ed è bene incontrarla (S.<br />

Francesco, Gandhi, M.L. King).<br />

RAPPRESENTAZIONI DEL <strong>DI</strong>SAGIO E DELL’ADOLESCENZA<br />

di Franco Floris<br />

Attraverso quali «occhiali» viene osservata l’adolescenza Questo interrogativo getta<br />

non pochi sospetti sulle modalità di lettura dell’adolescenza. Sospetti che nascono<br />

dalla presa di coscienza ormai diffusa, ma poco esercitata, che nessuna lettura è<br />

neutrale perché — in ogni caso — si mettono in gioco le proprie precomprensioni, se<br />

non i propri pregiudizi. Va quindi ribadita la parzialità di ogni lettura e rimessa in<br />

discussione la pretesa che «oggettivamente» le cose stiano così.<br />

Alcune ottiche di lettura in tal senso possono essere richiamate e rilette criticamente.<br />

Una prima ottica è quella che affronta l’adolescenza a partire dai condizionamenti<br />

della società, al punto che si parla degli adolescenti come se fossero quasi per intero<br />

determinati dall’ambiente. Le eventuali colpe, si diceva e si dice, sono del sistema,<br />

della società, dimenticando che in tal modo si finisce per non credere negli<br />

adolescenti e nella loro libertà di scelta e, di conseguenza, o si svaluta e banalizza<br />

ogni loro comportamento o lo si guarda con uno sguardo benevolo, se non complice.<br />

Si dimentica che l’assunzione soggettiva degli influssi e dei condizionamenti e la<br />

risposta alla loro pressione vengono autonomamente elaborate, al punto che è corretto<br />

parlare di un ventaglio di adolescenze, simili eppure diverse, che pur confrontandosi<br />

sugli stessi problemi e condividendo alcune intuizioni si orientano a stili di vita<br />

diversi.<br />

15


Una seconda lettura è quella che si limita a ribadire le grandi acquisizioni delle<br />

psicologie dell’adolescenza, con il rischio che i problemi di questa generazione di<br />

adolescenti non vengano specificati rispetto a quelli di venti o trent’anni fa. Fermo<br />

restando il contributo della psicologia, non si può non partire dal come questa<br />

generazione sta vivendo i suoi problemi, le sue tensioni, le sue ricerche, interagendo<br />

— per lo più inconsapevolmente — con questa società e con questa cultura. Non è<br />

sufficiente rifarsi ai pur importanti «compiti di sviluppo» per comprendere gli<br />

adolescenti di oggi. Come tutti gli esseri umani, gli adolescenti sono soggetti sociali e<br />

culturali e il loro approccio alla realtà nasce dall’interazione continua con l’evolversi<br />

della società — come insieme delle relazioni tra individui e gruppi, con posizioni di<br />

marginalità o di centralità, con ruoli attivi o passivi, con risorse insufficienti o<br />

sovrabbondanti — e della cultura — come insieme di diversi modelli di vita, mondi<br />

valoriali, regole non dette alla base dei comportamenti e rispondenti a immagini di<br />

uomo diversificate, con continue contaminazioni e conflitti tra le varie subculture.<br />

Una terza ottica di lettura insufficiente è quella caratterizzata dalla polarità «giovani<br />

come problema/giovani come risorsa», che può dare luogo a due esasperazioni<br />

pericolose: da un lato quella che riduce i giovani a «problema» e porta a descrizioni<br />

segnate da atteggiamenti di sfiducia, svalutazione critica se non distruttiva di quel che<br />

loro fanno o pensano; dall’altro quella che enfatizza i giovani come «risorsa»,<br />

trascurando tanto i problemi che storicamente essi stanno vivendo (una società che li<br />

tiene ai margini è incline a deresponsabilizzarli, non offre spazi in cui possano<br />

esercitare il loro potenziale costruttivo) quanto la risposta reattiva che essi per lo più<br />

danno a questi problemi (una tendenza a chiudersi in gruppi tribali, con i loro riti e<br />

miti particolaristici, con atteggiamenti di passivo adattamento alla società, lontani da<br />

una qualche discussione critica del disegno di base — e dunque dei rapporti di<br />

inclusione ed esclusione — della società).<br />

Se vedere i giovani come problema, oltre che riduttivo, è distruttivo di ogni<br />

possibilità di interagire in un clima di fiducia, dimenticare che ogni generazione ha i<br />

suoi problemi e scommettere solo sulla loro «parte buona» è mistificante. I giovani<br />

non vanno ridotti a problemi, ma non bisogna dimenticare che problemi — anche<br />

drammatici — ne incontrano nel loro tentativo di dare risposta alle sfide che la vita<br />

oggi pone. Se si vuol agire in un’ottica di animazione, non si può mai partire dai<br />

problemi, ma neppure dalla loro negazione.<br />

Si può andare oltre queste ottiche di lettura<br />

La strada che l’animazione indica porta a osservare gli adolescenti come degli<br />

esploratori all’interno di una cultura che si evolve generando frammentazioni,<br />

conflitti, diversificazioni, ramificazioni, ma anche sempre nuovi dialoghi fra<br />

diversità, intrecci valoriali inediti, nuovi mondi possibili.<br />

Nella loro esplorazione gli adolescenti sperimentano le tensioni, le ambiguità, le<br />

conflittualità in cui ci si dibatte. Tali tensioni nascono dal grembo delle<br />

contraddizioni ed esasperazioni in cui è venuta a cadere la generazione precedente, e<br />

a partire da queste la nuova generazione cerca dei sentieri per andare oltre. Ma<br />

nascono anche dalle nuove sfide davanti a cui l’umanità non è ancora attrezzata<br />

perché troppo «giovane» rispetto ai nuovi problemi, ai nuovi strumenti, alle<br />

16


possibilità offerte dall’esplosione della tecnica, dallo sviluppo dell’economia globale<br />

come dall’incontro tra culture diverse.<br />

Di fronte a questa situazione, muovendosi nell’ottica dei temi generatori di Paulo<br />

Freire, l’animazione scommette che ogni epoca storica nel fare i conti con le sue<br />

contraddizioni lavora per individuare dei sentieri che portino oltre, delle intuizioni su<br />

cui valga la pena sperimentarsi, dei salti di qualità che facciano uscire dalle<br />

ambivalenze, ma in fondo senza perdere la ricchezza che tali ambivalenze e polarità<br />

si portano dentro. Il vero campo di lavoro viene allora a essere determinato da<br />

ambivalenze e polarità fra le quali non si può scegliere e che — spesso — sono tra<br />

loro irriducibili. Come far convivere ciò che è irriducibile Come tenere alta la<br />

dialettica fra gli opposti in modo che possa emergere qualcosa di innovativo, quelli<br />

che Freire chiama i «temi generatori», cioè alcune intuizioni di futuro, capaci di<br />

intrecciarsi e fecondarsi tra loro generando a grappolo ulteriori possibilità di futuro,<br />

ancora da costruire e per nulla garantito, fino a tratteggiare nuovi disegni di vita<br />

sociale<br />

Parlare di temi generatori, tuttavia, non è sufficiente. Essi si danno concretamente,<br />

ma non sempre consapevolmente: sono luoghi di ricerca, dove però la ricerca è<br />

presente per lo più allo stato di intuizione germinale. C’è bisogno di alcune<br />

«condizioni» ambientali e soggettive perché possa svilupparsi, cioè irrobustirsi sul<br />

piano della passione individuale, ma ancor di più su quello della condivisione<br />

collettiva, attraverso processi di intersezione e contaminazione sia all’interno del<br />

mondo giovanile sia — e ancor di più — all’interno di un confronto dialogico con<br />

altre modalità culturali del vivere. Le intuizioni generatrici arrivano così a pervadere<br />

di una loro tonalità culturale, tipica di questa generazione, il modello di vita e di<br />

sviluppo.<br />

Senza questo, il rischio più plausibile, dopo qualche maldestro tentativo di andare<br />

oltre, è di ricadere nelle contraddizioni accettando di vivere divisi fra le tensioni o<br />

parti che finiscono per attraversare le persone. Il rischio è che le «parti» — alcune<br />

delle quali sono gravide di futuro, altre di regressione — non si incontrino, non si<br />

confrontino, non si fecondino, non generino. Il rischio è di venire risucchiati dalla<br />

parte regressiva dell’ambiente sociale e del proprio sé rinunciando a diventare<br />

soggetti autonomi, capaci di protendersi verso modelli di vita costruiti sul terreno<br />

tratteggiato dalle tensioni generatrici dell’oggi.<br />

La scommessa consiste nell’avere un approccio all’adolescenza e ai suoi temi<br />

generatori segnato fortemente dalla scelta di riconoscerli sempre — anche nelle<br />

situazioni più drammatiche — come soggetti attivi, ricercatori tenaci, ma anche dalla<br />

scelta di non rassegnarsi alle loro inconcludenze, ai loro passi falsi, alle loro<br />

regressioni quando si tratta di inoltrarsi nei «sentieri» che è possibile delineare solo<br />

ponendosi in ascolto dei temi generatori di «questi adolescenti».<br />

Dire quali siano questi temi generatori non è facile, anche perché essi si danno<br />

localmente, in situazione. È in ogni contesto giovanile che essi vanno lasciati<br />

emergere. Eppure si può anche dire che alcuni temi generatori sono oggi «vissuti» da<br />

molti adolescenti nei più diversi contesti, anche se il loro ascolto, il loro<br />

riconoscimento e la loro valorizzazione da parte degli adolescenti, e soprattutto da<br />

17


parte dei loro mondi formativi, danno spazio a subculture giovanili diverse. Detto<br />

questo, è importante arrischiarsi nel tratteggiarne alcuni, altrimenti non si riesce a<br />

trovare quel terreno di ricerca, quel luogo di conversazione e confronto, quella piazza<br />

in cui far confluire le diverse esperienze, che altro non è che il terreno dell’educare. Il<br />

terreno in cui i giovani sono contemporaneamente portatori di problemi e di risorse,<br />

ricche di intuizioni generatrici di futuro.<br />

Io e noi<br />

Un primo tema generatore va ricercato nella tensione tra «io» e «noi», tra possibilità<br />

di essere soggetto autonomo, geloso del proprio modello di vita, e possibilità di<br />

essere — allo stesso tempo — un noi, cioè un soggetto che accetta una qualche<br />

interdipendenza con altri soggetti e in questa interdipendenza non si sente ferito nella<br />

sua autonomia, anzi si sente potenziato nella sua soggettività.<br />

È innegabile che questa tensione sia tipicamente moderna e postmoderna, nel<br />

momento in cui si è maturato un sempre più consapevole diritto alla soggettività,<br />

liberandosi dalle imposizioni delle appartenenze sociali e culturali che finivano per<br />

«programmare» in modo rigido il soggetto.<br />

Viceversa assistiamo oggi all’esasperazione narcisistica della soggettività, al culto<br />

della propria autonomia individuale. Un fenomeno che rimanda anche<br />

all’affievolimento dei legami sociali, alla crisi delle ideologie e delle appartenenze,<br />

alla crisi dei processi politici e dunque del sentirsi rappresentati nell’orientare le<br />

grandi scelte della società. Continuamente si rischia di rinchiudere la propria<br />

soggettività all’interno di gruppi omogenei con legami affettivi molto stretti, a forte<br />

inclusività, fino a ritrovare la propria soggettività in forme tribali che sembrano il<br />

prolungamento dell’io narcisistico. Dall’altra, tutto questo insieme variegato di fattori<br />

porta a una nuova consapevolezza del legame profondo, irriducibile, primordiale che<br />

ci lega agli altri e alla stessa natura, consapevoli sempre di più di essere appartenenti<br />

(addirittura con esasperazioni panteistiche) a un qualche insieme fusionale. Lo stesso<br />

continuo sperimentarsi in gruppo, con tutte le alterne vicende che esso comporta, è<br />

segno di questa ricerca: come essere contemporaneamente io e noi<br />

È questo un interrogativo tutt’altro che astratto con cui il lavoro di animazione è<br />

chiamato a confrontarsi. La tensione tra io e noi può diventare luogo generatore di un<br />

modo nuovo di vivere l’essere coppia, l’essere gruppo, l’essere comunità. La<br />

scommessa è che gli adolescenti siano alla ricerca dentro tale tensione e che abbiano<br />

bisogno di qualcuno che faccia un pezzo di strada con loro, senza troppe complicità<br />

ma costruendo su quello su cui loro stanno provando a costruire, stimolando a non<br />

arrendersi, a sperimentare e rielaborare.<br />

Giorno e notte<br />

Un secondo tema generatore può essere ricercato nella tensione tra giorno e notte,<br />

come nella tensione tra feria e festa. C’è una forte attenzione a riscoprire la notte e la<br />

festa, consapevoli che ciò che si può sperimentare nella notte come nella festa sia<br />

qualcosa di antropologicamente molto arricchente, per lo più in<br />

continuità/discontinuità con le attività diurne e dunque con il lavoro e con lo studio,<br />

con le relazioni quotidiane familiari, come con quelle con il proprio ambiente usuale<br />

di vita.<br />

18


Che cosa può dare la notte La notte risponde intanto al distacco, al prendere le<br />

distanze dal giorno, anche se poi questo può portare a forme metacomunicative<br />

rispetto al giorno o a una semplice fuga da esso. La notte rimanda all’esplorazione di<br />

ciò che non si vede, al lasciarsi permeare dal mistero, dall’indicibile, a lasciarsi<br />

prendere da giochi simbolici quali la danza e la musica, a lasciarsi andare nello<br />

sperimentare stati di conoscenza altri, all’abbandonarsi al gioco misterioso che è<br />

l’incontro di coppia, allo sperimentarsi nel limite ponendo a rischio la propria<br />

esistenza, all’avventura come luogo in cui provare a delineare la propria soggettività.<br />

È sotto gli occhi di tutti il fatto che la tensione verso la notte, non meno che verso la<br />

festa, rischia di farsi scomposta, esasperata e tragica. Ma è anche vero che, tra tante<br />

ambivalenze, oggi la notte si rivela un momento antropologico forte.<br />

E la notte e la festa sono in tensione con il giorno e la feria, con tutto quel che questi<br />

comportano in fatto di legami e di regole sociali, di uso imprenditivo delle proprie<br />

risorse, di gioco dentro le molteplici appartenenze, di responsabilità collettiva.<br />

Al giorno e alla feria gli adolescenti non sembrano aver rinunciato, come luoghi in<br />

cui dire la loro esistenza, ma spesso li sentono più come un peso, qualcosa a cui non<br />

ci si può sottrarre o, anche, in cui si accettano dei compromessi o delle dipendenze<br />

rispetto alle proprie convinzioni che tocca alla notte e alla festa liberare.<br />

Come contaminare giorno e notte, feria e festa, in modo che i significati sperimentati<br />

nei miti e riti della notte e della festa possano pervadere il giorno, riscrivendo i criteri<br />

a partire dai quali riprogrammare criticamente gli impegni quotidiani, in cui spesso si<br />

vive espropriati, sottomessi a leggi economicistiche a cui non si annette significato<br />

In altre parole, come ridefinire il giorno a partire dalla notte e come, viceversa,<br />

rielaborare nella notte interrogativi, sofferenze, intuizioni maturate lungo il giorno E<br />

come far sì che l’essere cercante, che nella notte ha sempre visto un momento per<br />

«filosofare sulla vita», non si arrenda alle strumentalizzazioni mercantili che cercano<br />

di assorbirla per intero E cosa sono la notte e la festa sottratte alla logica del<br />

consumo e alle implosioni narcisistiche individuali e di gruppo<br />

Come si intravede, la tensione tra giorno e notte rimanda a una ricerca antropologica<br />

che può facilmente smarrirsi. Ma delinea anche un luogo di animazione molto<br />

stimolante.<br />

Desiderio e cura<br />

Una terza tensione generatrice può essere individuata tra desiderio e cura.<br />

L’esplosione del desiderio e l’abbandonarsi al suo evolversi nel tempo, affermando il<br />

diritto a continuare a esprimersi, a soddisfare bisogni, a trovare le tecniche che<br />

permettono di saziare tali bisogni, l’irrigidirsi odierno di individui e gruppi nella<br />

difesa rancorosa dei propri diritti, da una parte permette alle persone — ai giovani in<br />

particolare — di sperimentarsi senza limiti. L’unica regola sembrerebbe l’inseguire il<br />

moltiplicarsi dei desideri, senza mai vedere il mondo e le persone dalla parte dei<br />

diritti di base degli altri, a partire dal loro onore spesso calpestato proprio<br />

dall’esplodere dei propri diritti. Ciò che è possibile va sempre perseguito E la<br />

tecnica è ciò che permette di realizzare il desiderio<br />

D’altra parte, come non vedere nella sensibilità al desiderio una presa di distanza da<br />

modelli di vita rinunciatari, moraleggianti, in cui il soggetto doveva sacrificarsi,<br />

19


inunciare ancora una volta a ogni appagamento esistenziale È innegabile che la<br />

scoperta o riscoperta del desiderio sia oggi una forte spinta alla trasformazione delle<br />

esistenze. Una spinta che porta a forme esasperate di narcisismo individuale e di<br />

gruppo, alla perdita di una dimensione etica dell’esistenza, di una progettualità<br />

capace di farsi carico del «noi». Eppure, questo è il tempo in cui si riscopre l’aver<br />

cura dell’altro da sé attraverso forme che rimandano alla gratuità del dono, dunque<br />

attraverso un approccio che permette di vedere la propria autorealizzazione, personale<br />

e di gruppo, nel dono gratuito che non richiede contraccambio, ma pure genera un<br />

legame profondo, un’empatia grande che porta a farsi gratuitamente carico di, ad<br />

avere cura dell’altro in quanto altro. Da qui una diversa disponibilità ad assumere il<br />

limite come modo di canalizzare le proprie energie (la sublimazione) verso interessi<br />

di tipo collettivo — al livello della costruzione del noi — e una diversa sensibilità<br />

verso progettualità sociali che manifestino la scelta di aver cura della natura, o della<br />

persona con handicap, e dunque verso progettualità non efficientistiche, non più<br />

tecnocratiche.<br />

La tensione fra desiderio e cura delinea un’area di ricerca esistenziale stimolante, ma,<br />

ancora una volta, senza un adeguato percorso di animazione i due poli della tensione<br />

finiscono per separarsi nuovamente invece di riformularsi reciprocamente. Dopo<br />

alcuni tentativi, infatti, gli adolescenti rischiano da una parte di lasciare esplodere il<br />

loro desiderio o di coniugarlo con il proprio narcisismo, senza individuare il perché<br />

impegnarsi nel canalizzare le proprie energie esplosive in una progettualità in cui<br />

l’aver cura è luogo in cui il desiderio trova profondo appagamento; dall’altra<br />

rischiano di ridurre l’aver cura e la responsabilità attiva che ne segue a un comando<br />

esteriore, al quale non ci si può sottrarre, ma in cui non si trova soddisfazione<br />

esistenziale, ma soltanto un peso, un sacrificio, un’imposizione sociale, un ricatto<br />

mercantile.<br />

Sospensione e mistero<br />

Una quarta tensione può essere quella esistente fra sospensione del domandarsi e<br />

apertura al mistero, dove senso e non senso si incontrano in modo indecidibile.<br />

La sospensione del domandarsi ha significati ambivalenti, perché se da una parte<br />

sconfina nella rinuncia a essere animali culturali, dunque soggetti che si interrogano<br />

sul significato delle proprie avventure (in quanto tutto sembra rifluire nell’assurdo, in<br />

ciò che non può essere detto e dunque su cui bisogna tacere), dall’altra riassume un<br />

insieme di sensazioni che spingono al silenzio, al distacco, alla rinuncia a una parola<br />

che banalizza, al discorso che rischia di tradire.<br />

L’altro versante della tensione è quello dell’affacciarsi al mistero come qualcosa che<br />

si attraversa in ogni momento e come dimensione che va sperimentata. La ricerca di<br />

appartenenze segrete, di linguaggi esoterici, di gruppi orientaleggianti o new age, il<br />

consumo di sostanze che permettono di accedere a stati di coscienza inesplorati<br />

quotidianamente, sono espressione di un’attenzione al mistero intensa, anche se poi<br />

questa parte del sé fatica a dialogare con le altre parti maggiormente integrate in<br />

letture e approcci pragmatici, tecnologici, con la vita di ogni giorno.<br />

20


Luoghi di ricerca e di ricomposizione<br />

Scommettere sull’esistenza di temi generatori tra gli adolescenti è una precisa scelta<br />

di campo, in contrasto — come si è detto — con i molti luoghi comuni con cui si<br />

rappresentano e si valutano le nuove generazioni. Solo che, come è facile intuire, la<br />

ricerca intorno a tali temi è molto faticosa, proprio mentre è gravida di speranze<br />

inedite.<br />

Una ricerca faticosa perché, usciti dalle certezze delle grandi ideologie e di una<br />

religione che pretendeva di avere una risposta su tutto, si naviga nell’incertezza, con<br />

pochi e deboli punti di riferimento. Ma stranamente, proprio la fine di tali certezze<br />

ideologiche o religiose libera la possibilità di un’intensa e appassionante ricerca. In<br />

fondo c’è maggiormente spazio per la ricerca e la complessità della vita sociale. E il<br />

meticciato culturale, verso cui la globalizzazione sta incamminando l’umanità, se<br />

rischia di travolgere ogni forma di cultura locale, apre anche nuovi spazi, permette di<br />

individuare sentieri nuovi di ricerca nella «foresta culturale». Le contaminazioni sono<br />

maggiormente possibili e maggiormente feconde, a patto che si resista nella ricerca:<br />

non si cada cioè in un insano relativismo, in una tolleranza intollerante che si arrocca<br />

e assolutizza il proprio punto di vista, né ci si arrenda a modelli di vita ispirati<br />

all’economicismo che tende a pervadere per intero la vita delle persone e a regolare<br />

con le sue logiche mercantili le relazioni tra gruppi sociali, mettendo in crisi la<br />

consistenza del legame sociale nelle diverse comunità locali.<br />

Ma non si può negare che, soprattutto per gli adolescenti, tale ricerca sia faticosa, con<br />

il rischio di essere inconcludente, in quanto il rifiuto di alcuni modelli di vita non<br />

sempre riesce ad approdare all’individuazione di modelli di vita, se non alternativi in<br />

modo radicale, almeno capaci di restituire un poco di senso alla propria e altrui<br />

esistenza. Non si può quindi negare che la ricerca rischi di ricadere su se stessa, di<br />

implodere in modo tragico, generando scetticismo, relativismo, non senso.<br />

Le possibilità enormi offerte oggi dalla società complessa e dalla cultura complessa,<br />

dove la complessità è anche indice di ricchezza e di possibile generazione di mondi<br />

nuovi, rimandano, per quel che riguarda gli adolescenti — ma non solo loro —, a<br />

luoghi e processi di ricomposizione delle diverse rappresentazioni culturali, dei<br />

diversi modelli di vita, delle diverse appartenenze, delle diverse progettualità.<br />

Per ricorrere a un’immagine, la ricomposizione rimanda all’intelligente e paziente<br />

opera del mosaicista che inventa disegni e li realizza utilizzando pietre non solo di<br />

diverso colore, ma anche provenienti da terre diverse. La ricomposizione non nega<br />

ma valorizza la complessità, impegnandosi in disegni inediti, quei disegni appena<br />

tratteggiati dai temi generatori in cui si cerca di far incontrare e scontrare polarità<br />

opposte, senza rinunciare a nessuna delle due, come luogo dove il nuovo può<br />

scaturire.<br />

Un lavoro prezioso, oggi più indispensabile di ieri, quando spesso bastava accettare<br />

l’esistente sociale e culturale, ma rispetto al quale sembrano mancare condizioni<br />

ambientali sufficienti.<br />

La sensazione è che non ci siano oggi dei crocevia dove esercitarsi in questa azione di<br />

scoperta, valorizzazione e intreccio delle proprie parti e dei temi generatori. In tal<br />

modo si rischia di rimanere con più parti scomposte tra loro, generando non poca<br />

21


sofferenza, e si rischia di vivere contemporaneamente più vite che tra loro non<br />

comunicano, anzi spesso sono in contraddizione, compromettendo — a volte in modo<br />

grave — la capacità delle persone di animare dialoghi e intrecci nella loro esistenza e<br />

dunque di rintracciare un qualche filo rosso con cui intessere una personale trama di<br />

esistenza. Con il rischio di lasciarsi vivere, di essere posseduti ed espropriati dagli<br />

eventi, di dipendere da quello che succede fuori e dai propri umori del momento.<br />

Tentativi di ricomposizione<br />

Non è che oggi manchino momenti anche intensi di ricomposizione. La stessa<br />

scommessa finora avanzata che il mondo giovanile sia animato da tensioni generatrici<br />

va in questa direzione. Eppure alcune osservazioni vanno fatte.<br />

La ricomposizione sembra diventare spesso un’impresa di Sisifo da parte di singoli<br />

adolescenti, protesi a difendere la loro autonomia e a elaborare un personale fascio di<br />

idee. Con il rischio che la ricerca individuale, non avendo sufficienti contrappesi<br />

rispetto alle pressioni ambientali e sufficienti stimoli per resistere nella faticosa<br />

impresa, imploda su se stessa o si lasci appunto possedere da logiche ispirate a criteri<br />

economicistici o di esasperazione dell’individualismo.<br />

Più spesso la ricomposizione avviene a livello delle tribù culturali in cui la società è<br />

frantumata e che tendono a includere con legami forti i propri membri fino a<br />

depotenziare la loro soggettività (a questo punto i figli sono un clone dei genitori),<br />

generando un forte senso di difesa dei diritti tribali, a scapito dei diritti di chi della<br />

tribù non fa parte. Come non pensare che la società dei due terzi si stia organizzando<br />

tribalmente, con le tribù intente a costruire muri e difese In ogni caso sembra che<br />

l’unico luogo di ricomposizione — che, come si intuisce, comporta tagli vistosi<br />

rispetto alla complessità dei problemi — sia un microsociale che gioca in difesa, un<br />

microsociale arrogante, spesso rancoroso, con una rigidità selettiva rispetto ai<br />

messaggi e alle invocazioni di aiuto in circolazione e dunque con quella paradossale<br />

tolleranza intollerante che caratterizza le tribù, in base alla quale tutte le tribù hanno<br />

diritto a esistere, ma in fondo l’unica verità è quella della mia tribù. Le<br />

contaminazioni, gli intrecci, le interazioni alimentate da curiosità culturale, le<br />

fecondazioni reciproche non sembrano all’orizzonte.<br />

Non si può neppure negare che spesso gli adolescenti cerchino una ricomposizione di<br />

fatto nelle terre di nessuno, nei «non luoghi» dove le voci del tempo presente e della<br />

storia dell’umanità giungono fioche e un’intera generazione si ritrova quasi sola nel<br />

rielaborare il proprio continuo andirivieni o girovagare nella vita sociale. I non luoghi<br />

diventano spesso gli unici crocevia culturali in cui gli adolescenti possono ritrovarsi.<br />

Crocevia poco «sociali», non animati da elementi catalizzatori che permettano a<br />

messaggi ed esperienze di incontrarsi generando qualcosa di nuovo. Ma spesso, va<br />

ricordato, sono gli unici luoghi in cui i temi generatori di questa generazione<br />

emergono, anche se diventa difficile lavorarci sopra perché inaugurino nuovi mondi<br />

possibili.<br />

D’altra parte spesso le istituzioni, delegate a essere per tradizione i luoghi di<br />

rielaborazione dell’esistenza, non riescono a svolgere la loro funzione. Non riesce a<br />

esserlo la famiglia, non riesce a esserlo la scuola, non riesce a esserlo la Chiesa, che<br />

nel passato aveva quasi un monopolio in tal senso.<br />

22


Alcuni interrogativi<br />

E dunque Sono almeno quattro gli interrogativi che si pongono.<br />

Il primo: sono possibili luoghi di ricomposizione segnati dalla possibilità di far<br />

emergere i temi generatori e di essere laboratori di ricerca, più che ospedali<br />

ortopedici oppure supermercati, dove c’è pur sempre una qualche merce che pretende<br />

di essere la risposta ai bisogni<br />

Il secondo: possono esistere luoghi di ricomposizione che si aprano alla<br />

valorizzazione della complessità sociale e culturale, rifuggendo da chiusure<br />

tribalistiche, ma anche capaci di mettere in discussione i rischi di omologazione<br />

sottesi all’imperante economicismo che sacrifica l’esistenza ai criteri del successo<br />

nella competizione sociale<br />

Il terzo: possono esistere luoghi dove la ricerca a partire dai temi generatori è<br />

possibile per tutti, in quanto i linguaggi che vengono utilizzati sono praticabili da tutti<br />

e non solo dai soggetti più sensibili alla discussione teorica e al confronto analitico<br />

delle idee, come alla critica sociale e politica<br />

Il quarto: sono possibili luoghi di ricomposizione in cui si possa sperimentare, sulla<br />

base di una libera scelta e dunque al di fuori di ogni imposizione, il legame sociale e<br />

dunque un’appartenenza che non renda prigionieri, ma permetta di vivere nel micro<br />

quelli che sono i processi sociali e culturali più vasti e dove dunque ci siano le<br />

condizioni per lavorare a nche sull’insieme di regole sociali che sono le istituzioni,<br />

fino a dar vita consapevolmente a nuove istituzioni e a rigenerare quelle esistenti,<br />

rigenerando insieme il tessuto di base della comunità locale in cui si vive<br />

SE LA COMUNITA’ FA SPAZIO AGLI ADOLESCENTI<br />

di Franco Floris<br />

La sensibilità sociale, culturale e politica dell’animazione porta a vedere le vicende<br />

dei singoli gruppi dentro un più vasto processo di logoramento e di rigenerazione<br />

della comunità locale. Questo non per dimenticare i destinatari principali del proprio<br />

intervento, ma perché è improduttivo separare il gruppo dal suo ambiente: è<br />

nell’ambiente che il gruppo, se da una parte incontra contraddizioni e sfiducia nei<br />

suoi confronti, dall’altra trova risorse per procedere, a patto — come vedremo — che<br />

sia aperto a sempre nuovi stimoli e capace di «chiusure» verso l’ambiente per attivare<br />

al suo interno rielaborazioni autonome, in modo che le risposte alle provocazioni non<br />

siano quelle imposte da agenti esterni, ma siano risposte critiche — quanto basta — e<br />

creative.<br />

Più da vicino, un gruppo cresce se trova una disponibilità all’ascolto esplicito,<br />

all’intreccio di significati, se non da parte di tutto l’ambiente, di fatto frammentato e<br />

conflittuale, almeno da parte di soggetti e gruppi portatori di stimoli significativi —<br />

non necessariamente in sintonia con il sentire del gruppo, il quale invece può<br />

apprendere molto dalla dissonanza e dallo stesso conflitto con chi manifesta una<br />

cultura diversa.<br />

23


Il senso del lavoro di animazione deve essere riconosciuto e rispettato, anche se non<br />

sempre capito e condiviso fino in fondo, dai diversi attori sociali, in particolare dai<br />

decisori pubblici.<br />

Solo un continuo e rinnovato consenso della comunità è in grado di sostenere il<br />

gruppo nelle sue vicissitudini. Ma il consenso non si alimenta con un ingenuo<br />

compiacimento per quel che fanno i giovani, ma con la presa di coscienza che la<br />

crescita sociale e culturale dei giovani è connessa alla vivacità dell’ambiente. Se la<br />

comunità locale non lavora sui temi generatori che la abitano in profondità, al punto<br />

che non è sollecitata a porsi domande, percepire attese e decidere urgenze, il percorso<br />

degli adolescenti rischia l’asfissia e la morte prematura. In una comunità morta<br />

socialmente e culturalmente, diventa troppo gravoso per gli adolescenti, anche se non<br />

impossibile, essere inventivi e costruttivi.<br />

Tutto questo viene a tradursi in un percorso di base dell’animazione giovanile nella<br />

comunità locale. Percorso che vede protagonisti da una parte animatori e adolescenti<br />

e dall’altra i diversi attori sociali e i decisori pubblici.<br />

PRIMA FASE: DALL’ESPLORAZIONE CULTURALE<br />

E POLITICA AL CONTRATTO <strong>DI</strong> ANIMAZIONE<br />

La prima fase porta, dopo un primo incontro con i vari interlocutori di un progetto di<br />

animazione, a individuare aree di interazione di significati in cui i vari attori sociali<br />

possano riconoscersi per dare un senso al progetto e delinearne le grandi finalità —<br />

quelle finalità che costituiscono il vincolo, ma anche lo spazio sociale, in cui si può<br />

costruire. L’esito della prima fase del percorso è il «contratto sociale», che dà senso e<br />

permette di avviare il progetto di animazione indicandone le grandi finalità e i grandi<br />

criteri di passaggio all’azione, in un clima di profondo rispetto per il lavoro degli<br />

animatori, i quali, interagendo con gli adolescenti, dovranno di volta in volta<br />

individuare obiettivi e strategie d’azione nell’alveo delle grandi finalità inscritte nel<br />

«contratto». Un contratto sociale che, come si è visto, ha fatto incontrare diversi<br />

attori: giovani, animatori, amministratori, rappresentanti di associazioni, cittadini<br />

sensibili alle sfide che incontrano gli adolescenti e sono disposti a fare un pezzo di<br />

strada al loro fianco. Come si intuisce, non si tratta di un «contratto» firmato una<br />

volta per sempre.<br />

Una progettualità sociale<br />

La base più adeguata per un percorso di animazione è una «progettualità sociale»,<br />

espressiva di un vivace dialogo culturale e politico all’interno della comunità locale.<br />

Muoversi in questa logica è prendere le distanze da altri due approcci progettuali. È<br />

rifiutare, in primo luogo, una progettualità di settore affidata a tecnici o professionisti,<br />

ai quali si delega il perché e il come del progetto. È rifiutare, in secondo luogo, una<br />

progettazione a tavolino, lontana dalla mischia dei problemi locali, o preconfezionata,<br />

anche se fatta utilizzando altre esperienze, di per sé stimolanti ma senza presa se<br />

trasportate in un altro contesto.<br />

Gli attori in gioco sono persone, con le loro ambivalenze e conflittualità, ma sono<br />

soprattutto delle «culture», cioè dei modi diversificati di leggere i fatti, ordinare<br />

24


criteri di valutazione, progettare risposte alla luce di particolari valori. In altre parole,<br />

i vari attori sono anche (piccoli) mondi culturali non sempre facili da aprire alla<br />

comunicazione, non sempre sensibili ad altri punti di vista. Una prima fatica è allora<br />

l’esplorazione paziente, l’ascolto empatico, l’accoglienza rispettosa, la ricerca e la<br />

valorizzazione di intersezioni e di differenze dentro la cultura della comunità.<br />

Le culture in gioco sono tre — oltre a quella di cui sono testimoni gli animatori — e<br />

con ognuna di queste gli animatori sono chiamati a interagire in vista del possibile<br />

«contratto di animazione»: la cultura degli adolescenti, la cultura dei leader sociali e<br />

culturali, la cultura dei decisori politici locali.<br />

La ricerca di un contratto con gli adolescenti<br />

Ci sono anzitutto gli adolescenti, con le loro domande più o meno sofferte e con le<br />

loro intuizioni generatrici. I diversi «giri» di adolescenti sono micromondi culturali,<br />

spesso contigui ma non interagenti con altri micromondi adolescenziali e, soprattutto,<br />

con i mondi culturali degli adulti.<br />

L’avvio del percorso è possibile se un qualche esploratore culturale — l’animatore<br />

— va alla ricerca dei temi generatori locali che animano gli adolescenti. Entrarci<br />

dentro, accoglierli con una profonda empatia e con un forte atteggiamento di<br />

conferma esistenziale vuol dire delineare dove il mondo degli adolescenti e quello<br />

degli animatori possono intersecarsi. Parlare dell’animatore come esploratore<br />

culturale, che va a cercare le diverse tribù e le frequenta con la sensibilità di chi è<br />

appassionato ad altre culture, permette di insistere sulla necessità di non limitarsi al<br />

semplice elenco di bisogni attraverso ricerche quantitative standardizzate, questionari<br />

prefabbricati ed elaborazioni che spesso confermano dati risaputi, senza individuare<br />

intersezioni di significati che lascino vedere non solo problemi, ma soprattutto<br />

intuizioni generatrici su cui costruire. Per rilevare queste intuizioni occorre scendere<br />

in profondità, frequentando con continuità gli adolescenti, annotando i significati<br />

emergenti e provando a ricostruirli con intelligenza e rispetto, in dialogo con loro.<br />

Solo in questo modo si delinea — e non sempre — il «terreno» entro cui può avere<br />

luogo l’animazione.<br />

Dato poi che il mondo giovanile non è uniforme, ma è piuttosto un insieme di zolle<br />

culturali in movimento, con continui avvicinamenti e allontanamenti, fin dai primi<br />

contatti, mentre tenta di costruire una mappa delle tribù, l’animatore-esploratore evita<br />

di lasciarsi catturare da alcuna tribù, perché questo gli impedirebbe di esplorare le<br />

altre, bloccando fin dal nascere la possibilità di un’animazione allargata ai vari giri<br />

giovanili.<br />

Come si intuisce, le prime esplorazioni devono confluire nella possibilità che, a<br />

partire dalle intersezioni tra mondo culturale degli animatori e mondi culturali degli<br />

adolescenti, si possa arrivare a un «patto di animazione», il cui contenuto è dato dalla<br />

fiducia reciproca e dalla disponibilità a interagire, decidendo passo dopo passo il da<br />

farsi.<br />

25


L’intersezione con le culture della comunità<br />

Ma non basta aver individuato queste irrinunciabili intersezioni. Occorre che una<br />

parte dei significati che animano la comunità locale — espressi sia dalla sua<br />

leadership sociale e culturale che dai decisori pubblici — vengano a sovrapporsi con<br />

quelli degli animatori e quelli degli adolescenti. Non sarà mai una sovrapposizione<br />

totale — che non avrebbe senso, perché impedirebbe alle nuove generazioni di essere<br />

produttori autonomi di cultura —, ma una qualche intersezione deve esserci.<br />

Non è solo un gesto strategico da parte degli animatori il fermarsi a lavorare con i<br />

pubblici amministratori e con soggetti e gruppi che incarnano una leadership sociale e<br />

culturale per avviare una «progettazione sociale», disponibili ad apprendere gli uni<br />

dagli altri e quindi a favorire cambiamenti nell’intera comunità. Sottovalutare un<br />

approccio sociale alla progettazione può portare a incomprensioni profonde e a crisi<br />

di rigetto.<br />

Degli adolescenti, ancor prima dell’avvio del progetto di animazione, si sono<br />

occupati e si occupano in tanti, quasi sempre limitandosi a lavorare per la propria<br />

associazione o per il proprio gruppo. Ma, così facendo, ogni giro giovanile (a livello<br />

sportivo, religioso, culturale, musicale) rischia l’asfissia, in quanto solo<br />

un’interazione tra gruppi e una progettualità su alcuni aspetti condivisa permette di<br />

connettersi con altre risorse e di generarne di nuove, valorizzando luoghi, persone,<br />

iniziative che spesso rimangono ai margini della comunità. Non è facile uscire dagli<br />

steccati. Purtroppo l’esito è l’incapacità di una comunità di rigenerarsi e l’abbandono<br />

delle nuove generazioni a se stesse, mentre i responsabili di gruppi e associazioni si<br />

affaticano a rafforzare la loro organizzazione, pensando che il futuro della comunità<br />

coincida con la crescita della loro organizzazione.<br />

L’imporsi di un’impresa sociale locale<br />

Ma una comunità non è solo questa logica egocentrica, di corto respiro, in cui rischia<br />

di rinchiudersi l’associazionismo locale. In quasi tutte le comunità resiste un<br />

«desiderio collettivo» che porta a investire sulle nuove generazioni. Fare animazione<br />

è portare alla luce questo desiderio e i temi generatori connessi, fino alla<br />

consapevolezza che in una situazione complessa come una comunità locale nessuno è<br />

in grado da solo di orientare, dirigere né, tanto meno, imporre. Piuttosto, una volta<br />

percepito l’essere «parte», diventa possibile attivare «imprese sociali» locali, a cui<br />

partecipano le diverse parti in gioco, anche se non a diretto contatto con gli<br />

adolescenti.<br />

Parlare di impresa sociale o, meglio ancora, di intrapresa sociale rimanda alla ricerca<br />

di una diversa qualità di respiro sociale nella comunità. In altre parole, rimanda alla<br />

pubblica discussione della qualità di vita nella comunità, reagendo all’affievolirsi del<br />

legame sociale, al senso di impotenza, all’abbandono dei giovani a se stessi, al rifugio<br />

nella delega ai professionisti, per ricostruire invece un tessuto di interazioni, a partire<br />

da una ritrovata passione sociale: investire sui giovani. L’impresa sociale è allora un<br />

modo di ridefinire l’orizzonte e le finalità del fare comunità attorno al suo<br />

investimento sulle nuove generazioni, sulla base della scommessa che una comunità<br />

diventa tale se investe sui giovani.<br />

26


Tutto questo non avviene senza conflitti, senza momenti di scontro, in quanto le<br />

finalità dei diversi attori non rispondono sempre alla stessa idea di legame sociale, di<br />

solidarietà, di difesa degli ultimi, di investimento sui giovani. Ma se i legami sono<br />

costruiti in una logica di impresa sociale, è possibile apprendere anche dai conflitti.<br />

Un tavolo di politica dell’animazione<br />

La logica dell’impresa sociale rimanda alla costituzione di organismi di partnership.<br />

C’è partnership dove ci sono attori plurimi, portatori di culture diverse che, proprio in<br />

quanto tali, decidono che è il momento di interagire per dare vita a un nuovo<br />

organismo che nasce da interazioni sempre più autentiche, nelle quali si esce dalle<br />

fredde opposizioni e si interagisce anche personalmente, fino a condividere significati<br />

e ad alimentare una progettualità, per alcuni versi, espressiva di quel desiderio<br />

collettivo che anima la comunità.<br />

In questa prima fase diventa importante attivare una sorta di «tavolo di politica di<br />

animazione», cioè un gruppo di sostegno sociale, politico e culturale del progetto,<br />

costituito attraverso l’invito a parteciparvi rivolto a un certo numero di persone<br />

interessate e sufficientemente rappresentative dei diversi ambiti associativi e politici<br />

della comunità, capaci di condividere l’idea che l’animazione deve rimanere un<br />

percorso autonomo, sottratto a ogni strumentalizzazione di parte, pur sapendo che<br />

avviare un progetto di animazione è un gesto forte nella politica locale.<br />

Comprensibilmente è un tavolo a geometria variabile, nel senso che si allarga e si<br />

stringe, a seconda dell’evolversi del progetto, ma soprattutto per garantire nel tempo<br />

continuità e ricambio fra i partecipanti.<br />

Consapevole dell’autonomia del percorso di animazione, il tavolo di sostegno politico<br />

elabora e rielabora il senso del progetto, man mano che questo si evolve, con un<br />

confronto critico e costruttivo rispetto agli ostacoli che incontra, soprattutto quando<br />

metterà in discussione poteri già consolidati e punti di vista di culture dominanti.<br />

Nel rispetto dell’autonomia del percorso di animazione, il «tavolo» ricerca con i<br />

gruppi giovanili un confronto sulla base dei problemi e delle sfide in cui ci si trova<br />

tutti coinvolti, in modo che i giovani possano sentire di avere una sponda autorevole e<br />

disinteressata con cui fare il punto su problemi, valutare esperienze, far emergere<br />

contraddizioni, maturare alleanze non compiacenti, programmare con competenza.<br />

SECONDA FASE: DAL LAVORO <strong>DI</strong> <strong>GRUPPO</strong><br />

AL RETICOLO FRA GRUPPI<br />

Una volta firmato — per lo meno simbolicamente — una sorta di contratto sociale di<br />

animazione, capace di dare senso al progetto e di indicarne le grandi finalità e<br />

strategie, si entra in una seconda fase, quella che porta all’attivazione di uno o più<br />

gruppi di adolescenti e all’attivazione di interazioni fra i diversi gruppi. Di<br />

conseguenza, se nella prima fase, mentre comincia a immergersi nel mondo<br />

giovanile, l’animatore esprime la sua competenza nel sapersi muovere all’interno<br />

della comunità locale nelle sue diverse espressioni, ora è chiamato a esprimere la sua<br />

competenza nell’esplorare i diversi gruppi giovanili e nel sostenerli nel loro<br />

autonomo sviluppo. Comprensibilmente dovrà dedicarsi più da vicino all’attivazione,<br />

27


preferibilmente con l’aiuto di animatori volontari espressivi delle risorse spesso<br />

inesplorate della comunità, di uno o più piccoli gruppi di adolescenti, aiutandoli a<br />

evolversi lungo le fasi delineate nell’articolo precedente. Un animatore pertanto che<br />

sia esperto della conduzione di un piccolo gruppo — e su questo verrà anzitutto<br />

valutato il suo lavoro da parte della comunità locale —, ma che sia anche esperto<br />

dell’interazione fra i diversi gruppi.<br />

Una cittadinanza per tutti i gruppi<br />

I diversi gruppi vanno accompagnati nel loro autonomo sviluppo, in quanto ognuno è<br />

portatore di stimoli, messaggi culturali, modalità attraverso cui affrontare i problemi.<br />

Non tocca all’animatore valutare le diverse culture, ma piuttosto riconoscere la loro<br />

cittadinanza e sollecitarle a interagire con le altre culture giovanili e con l’ambiente,<br />

sapendo che l’incontro fra culture — anche se venato di conflittualità — porta al loro<br />

arricchimento.<br />

L’attenzione allo sviluppo di una pluralità di gruppi permette di cogliere<br />

maggiormente lo sfondo culturale dell’animazione, in particolare nella difesa del<br />

diritto di ogni cultura giovanile a evolversi e — ancora di più — a incontrarsi e<br />

contaminarsi con altre culture. In altre parole, partendo dal presupposto che le culture<br />

chiuse in se stesse o emarginate nel proprio ambiente (o entrambe le cose) rischiano<br />

di evolversi come culture tribali, rigide, incapaci di fare i conti con la complessità e<br />

incapaci di apprendere, l’animazione in una comunità locale evita di chiudersi in un<br />

unico giro di adolescenti. Tanto più che non è detto che quel giro sia significativo per<br />

gli altri.<br />

Se dunque l’animazione per forza di cose è impegnata a creare un qualche gruppo, è<br />

anche attenta a verificare che la cultura di quel gruppo sia rappresentativa per gli altri<br />

giovani, e a diventare il luogo in cui possono incontrarsi, con alterne vicende, più<br />

gruppi.<br />

Anche in questo l’animazione è un laboratorio della comunità, nella sua volontà, non<br />

sempre esplicitata, di riconoscere le culture periferiche e non emarginarle, fino a<br />

proporre loro di interagire e dunque di muoversi verso il centro, sapendo che in<br />

questo modo esse accettano di contaminarsi e, in tal modo, di evolversi.<br />

Un tavolo di coprogettazione tra gruppi<br />

Diventa importante, in questa fase, l’attivazione di un luogo di incontro e di<br />

coprogettazione tra i gruppi giovanili, almeno fra quelli desiderosi di muoversi con<br />

un doppio movimento: verso il centro e verso la periferia. Verso il centro, in quanto<br />

sentono il bisogno di ritrovarsi e ascoltarsi, discutere e protestare, progettare e agire<br />

insieme, avere un volto nella comunità e sperimentare successo al suo interno. Verso<br />

la periferia, in quanto sentono anche il bisogno di salvaguardare la loro autonomia e il<br />

loro piccolo mondo culturale che, in effetti, interagendo con gli altri ritorna nella sua<br />

«riserva» con un diverso bagaglio culturale, sociale e politico.<br />

Questo tavolo fra gruppi, non meno che il tavolo della politica dell’animazione<br />

delineato nella fase precedente, avrà delle configurazioni molto variabili, mai definite<br />

una volta per sempre, e modalità operative che potranno essere delineate solo con i<br />

28


gruppi che, lungo l’evolversi della piccola storia locale dell’animazione, entreranno e<br />

usciranno, si sentiranno rappresentati o meno dal tavolo, nel continuo andirivieni tra<br />

centro e periferia.<br />

Lavorare sul reticolo dei gruppi facendo crescere un tavolo dove i giovani possano<br />

discutere, programmare, attivarsi sul territorio, ribadisce l’idea di sviluppo della<br />

comunità locale alla base dell’animazione, vista non come sovrapposizione totale dei<br />

significati e, di conseguenza, come intreccio di legami forti e di forti interdipendenze,<br />

ma come un organismo che cresce allargando le intersezioni, rispettando — a volte<br />

dolorosamente e non senza conflitti — le aree di diversificazione e quindi i legami e<br />

le appartenenze deboli. Creare le condizioni per cui i gruppi si sperimentino come<br />

reticolo a legami deboli permette loro di sentirsi stimolati, ma anche rispettati<br />

nell’evolversi con un proprio passo.<br />

In questo modo è possibile tener ferma la scommessa che il gruppo è un’esperienza<br />

decisiva nell’adolescenza, in quanto è il luogo in cui elaborare i temi generatori, ma<br />

senza pretendere di uniformare i giri giovanili a un unico modello di gruppo. Così<br />

facendo, l’animazione offre a tutto il «reticolo» dei giri giovanili la possibilità di<br />

sperimentare legami innovativi nel partecipare a un’impresa sociale in cui tutti sono<br />

protagonisti e in cui si può arrivare alla scoperta che giovani si diventa «inventando<br />

un paese», un paese e una comunità diversi da quelli del passato.<br />

Da ultimo va aggiunto che questo movimento tra centro e periferia, tra progettualità<br />

comune e percorsi diversificati facilita l’emergere di leadership giovanili<br />

significative, capaci di azione costruttiva all’interno dei gruppi e dei reticoli e, forse,<br />

anche di ricambio politico nella comunità.<br />

Un movimento di animatori, garanzia di apertura<br />

Difficilmente c’è animazione in una comunità se in questa fase non si crea un locale<br />

movimento di animatori sia professionisti che volontari. A parte il fatto che<br />

un’alleanza tra animatori permette di fronteggiare meglio le fatiche nell’attivare il<br />

protagonismo degli adolescenti (fatiche che nascono da diffidenze — se non da<br />

gelosie e conflitti — tra associazioni tese a rafforzare se stesse, pensando che da<br />

questo dipenda il futuro della comunità), l’importanza della partnership tra animatori<br />

sta nel fatto che i gruppi giovanili sentono di poter contare su un certo numero di<br />

persone interessate al bene comune dei giovani e della comunità, in quanto con loro è<br />

possibile stabilire un clima di dialogo, dove non prevale la tolleranza passiva o il<br />

gioco al ribasso, ma il rilancio critico e appassionato rispetto alle comuni<br />

responsabilità.<br />

È decisivo che nella cultura professionale dell’animatore del progetto sia chiaro un<br />

disegno di socialità in cui professionisti e cittadini volontari si ritrovano dalla stessa<br />

parte, alleati rispetto a un compito comune, con competenze diverse da valorizzare e<br />

integrare. L’animatore, ancora una volta, sa che una sua funzione professionale è<br />

stimolare la comunità a generare risorse per far fronte alle sfide che incontra. Del<br />

resto l’animazione non prevede un aumento esponenziale degli animatori<br />

professionisti, ma la valorizzazione degli animatori volontari.<br />

29


Il confronto tra professionisti e volontari è di stimolo per entrambi, in quanto così<br />

possono contaminarsi culture sociali differenti, motivazioni e storie di vita diverse,<br />

superando i pregiudizi dei volontari, che non credono che l’animazione possa essere<br />

una professione, e i pregiudizi dei professionisti, che spesso non accettano che tra i<br />

volontari ci siano animatori competenti.<br />

In questa direzione l’animatore del progetto, più che cercare contatti troppo diretti<br />

con i diversi giri giovanili organizzati, valorizza gli altri animatori e sostiene quanti<br />

intendono attivare nuovi gruppi a livello sportivo, ricreativo, religioso, culturale.<br />

Creare una rete di animatori, perlopiù cercando di facilitare l’ ingresso di altri,<br />

moltiplica le risorse, in quanto saranno gli animatori a sostenere i giovani e il tavolo<br />

di coprogettazione, nel tentativo di buttare giù gli steccati, interagire, inventare<br />

iniziative comuni.<br />

Tocca a questo reticolo di animatori, mentre facilita nei gruppi il senso di<br />

appartenenza alla comunità locale, aiutarli a sporgersi progressivamente verso<br />

l’esterno, alla ricerca di stimoli in grado di aiutare gli adolescenti a maturare nuovi<br />

punti di vista per valutare — criticamente e costruttivamente — anche la propria<br />

comunità.<br />

Questa alleanza permette poi che i diversi gruppi di adolescenti non si chiudano al<br />

loro interno e non si distinguano troppo tra loro, ma si aprano a nuovi interessi e<br />

funzioni dentro la comunità. Il rischio è che, diversamente, si arrivi a un pericoloso<br />

etichettamento fra gruppi, impedendo loro di evolversi (così come l’etichettamento di<br />

una persona finisce per farla cadere nel principio della profezia che si autoavvera).<br />

Ma non è solo la chiusura a preoccupare; preoccupa di più il fatto che l’eccesso di<br />

distinzione, etichettamento e fronteggiamento tra gruppi impedisce l’aprirsi a<br />

interessi nuovi, a nuovi modi di agire, a una partecipazione diversa alla vita della<br />

comunità. E impedisce ai singoli di passare da un gruppo a un altro per rispondere a<br />

nuove domande ed esigenze soggettive. E così, per fare un esempio, alla scelta del<br />

volontariato gli adolescenti possono arrivare da percorsi personali e di gruppo molto<br />

diversi, ma a patto che gli steccati tra i diversi giri siano continuamente abbattuti con<br />

la mediazione degli animatori e che intorno allo stesso compito riescano ad allearsi<br />

uno o più gruppi. Altrimenti il volontariato diverrà terreno privato di una minoranza,<br />

impedendo ad altri di avvicinarsi e assestarsi in uno dei luoghi principi del rigenerarsi<br />

di una comunità (perché una comunità che non alimenti il volontariato porta in se<br />

stessa segni di morte).<br />

TERZA FASE: DALLA CENTRATURA SU AZIONI<br />

PROGETTUALI ALLA CRESCITA DEL SENSO <strong>DI</strong> POTERE<br />

Man mano che rinasce un clima di fiducia tra giri di adolescenti e fra questi e una<br />

certa parte del mondo adulto, diventa possibile sia a livello di gruppo che di<br />

intergruppo concentrarsi sul «compito», sul fare. In effetti man mano che la fiducia<br />

aumenta, attraverso percorsi di «crisi» che portano all’accoglienza degli altri nella<br />

loro diversità, si formano spazi in cui possono emergere significati che invece<br />

un’interazione superficiale non avrebbe fatto nascere. Si può entrare in un’ottica di<br />

progettazione che chiede a diversi attori di interagire, dialogare senza paura delle<br />

30


diversità, programmare e agire, consapevoli che il successo di tutti è il successo di<br />

ognuno.<br />

La produzione di beni comuni<br />

È il momento in cui si cominciano a progettare e realizzare le prime iniziative, le<br />

prime azioni a livello di gruppo e soprattutto — per quel che interessa in questo<br />

percorso — di intergruppo.<br />

Particolare importanza viene ad avere il successo di iniziative in cui possono<br />

riconoscersi un certo numero di gruppi — in quanto sono state individuate, decise,<br />

organizzate, gestite con la partecipazione di tutti e in cui si è potuta esprimere la<br />

scelta di produrre un qualche «bene comune».<br />

In realtà, è al livello del reticolo dei gruppi e della loro iniziativa che gli adolescenti<br />

possono percepire cosa sia uscire da una logica privatistica per entrare in una logica<br />

di produzione di beni comuni, di beni pubblici, in quanto sono di tutti e di nessuno in<br />

particolare e in quanto sono costruiti da un organismo di ordine superiore al singolo,<br />

alla coppia e allo stesso gruppo omogeneo, per dare spazio alla partnership fra<br />

diversi. Si incomincia ad afferrare come la vita umana possa mettere in gioco delle<br />

passioni non più individualistiche e neppure soltanto tribali, e dunque di parte, ma<br />

passioni sociali, tese a generare e rigenerare tessuto sociale e tese a far sì che il nuovo<br />

organismo — formato dall’interazione tra gruppi perlopiù in connessione con altri<br />

gruppi sociali — sia generativo.<br />

Non si deve tuttavia avere un’idea troppo forte dei beni comuni e della loro<br />

produzione. Al centro del bene comune non c’è un’attività piuttosto che un’altra. Se è<br />

bene comune dar vita a un volontariato giovanile con i portatori di handicap, lo è<br />

anche organizzare una festa dei giovani in cui i diversi gruppi accettano di sedersi<br />

attorno a un tavolo, ragionano sul senso dell’iniziativa, accettano la sfida del produrla<br />

insieme, senza delegarla ai professionisti o allo stesso animatore. La produzione di un<br />

bene comune è legata al processo — all’intrapresa sociale — più che all’attività o<br />

anche al «successo» dell’attività.<br />

Il sostegno alle iniziative periferiche<br />

La ritrovata progettualità in una logica di animazione, mentre stimola iniziative che<br />

portano i singoli e i gruppi a una sorta di centro, sostiene il moltiplicarsi e il successo<br />

di iniziative autonome, a volte periferiche, in cui possa esprimersi il protagonismo di<br />

tutti i gruppi, da quelli con una lunga storia alle spalle a quelli allo stato nascente e<br />

forse periferici anche rispetto al movimento creato dall’animazione. Se le iniziative<br />

portate avanti dai gruppi che più da vicino si ritrovano nel percorso di animazione<br />

hanno un forte impatto simbolico come rottura dei vecchi schemi di indifferenza<br />

giovanile, di accentuato e geloso tribalismo, di passività di fronte a iniziative decise e<br />

organizzate dall’alto, il sostegno trasparente e critico a iniziative autonome — e forse<br />

discordanti — ribadisce che non ci si vuole sostituire ai gruppi esistenti, in particolare<br />

alle associazioni, ma si intende potenziare tutti i gruppi, permettendo loro di sentirsi<br />

partecipi di un movimento articolato che pone al centro il protagonismo degli<br />

adolescenti nella comunità e l’attivazione, anche a livello di singoli gruppi, di<br />

31


iniziative che mirano a produrre un qualche bene comune aperto a tutti i giovani e<br />

all’intera comunità. In fondo la comunità giovanile cresce se da più parti cresce la<br />

cultura del produrre beni comuni, capaci non solo di offrire a tutti i giovani un<br />

servizio o una prestazione, ma di tessere legami sociali o consolidarli, accrescendo il<br />

senso di appartenenza, di avventura comune, proprio mentre ogni gruppo difende la<br />

propria autonomia.<br />

L’esercizio democratico del potere<br />

L’incremento delle iniziative porta a una diversa percezione del potere in gioco<br />

dentro i gruppi e dentro la comunità, dove per potere si intende la forza che è in grado<br />

di imprimere una svolta agli eventi, quelle decisioni che canalizzano le energie, per lo<br />

più impegnando individui e gruppi a perseguire insieme l’azione prescelta.<br />

Fare i conti con il potere è possibile solo dove si siano sviluppate interazioni<br />

autentiche a livello di intergruppo. Il potere nasce nel momento in cui i legami<br />

affettivi nel gruppo e nell’intergruppo producono quel bene sociale che è il «senso del<br />

noi», un senso che è capace di dare significato alla vita dei singoli e a cui, pertanto,<br />

non è facile rinunciare. Al punto che si è disposti a pagare un prezzo affinché quel<br />

bene non vada perduto. Lo stesso può dirsi del bene sociale che il gruppo sperimenta<br />

nel momento in cui mette in atto un’impresa collettiva in cui tutti sono partecipi. A<br />

quel punto essa diventa un bene irrinunciabile.<br />

In questa direzione l’animazione porta a far nascere il potere e a esercitarlo in modo<br />

democratico per produrre insieme dei beni pubblici e per produrre insieme delle<br />

istituzioni, cioè delle regole che permettano a un insieme di persone di coalizzarsi per<br />

produrre tali beni.<br />

Il potere, d’altra parte — proprio in quanto tende a generare istituzioni —, chiede<br />

istituzioni in cui potersi esercitare. Fuori dal gioco di parole, l’animazione tende a<br />

generare istituzioni locali in cui gli adolescenti possano esercitare del potere, tanto<br />

più che è solo esercitando del potere democraticamente che i gruppi sono disponibili<br />

non solo a spendersi, ma anche ad apprendere e cambiare. In altre parole, il gestire<br />

del potere genera disponibilità ad apprendere e a cambiare. Ovviamente il processo di<br />

entrata nel potere può avvenire non solo generando ex novo istituzioni, ma anche<br />

inserendosi da protagonisti dentro istituzioni, a condizione che siano in parte<br />

plasmabili dagli adolescenti proprio mentre offrono la naturale resistenza al<br />

cambiamento tipica di ogni istituzione. In ogni caso l’animazione tende a far sì che<br />

persone e gruppi apprendano a costruirsi animando istituzioni.<br />

QUARTA FASE: DAL PROTAGONISMO GIOVANILE<br />

A UNA <strong>DI</strong>VERSA CULTURA <strong>DI</strong> COMUNITÀ<br />

La fase successiva dell’animazione è quella in cui la comunità apprende dal percorso<br />

degli adolescenti, attraverso una rielaborazione culturale delle esperienze e del loro<br />

potenziale innovativo — in modo da dare dignità culturale al percorso — e in vista di<br />

una ripresa di discussione pubblica intorno ai temi cruciali della cittadinanza, dei<br />

diritti e della qualità di vita, delle politiche che devono orientare il futuro della<br />

comunità.<br />

32


Così facendo, il percorso si connette al suo punto di partenza: la progettualità sociale,<br />

la quale ora può alimentarsi a quel percorso che ha generato. In questa fase la<br />

funzione di animazione ritrova una delle sue «anime», quella del far cultura e del<br />

produrre cambiamento nella comunità facendo cultura, a partire dalle iniziative e, più<br />

in generale, dal protagonismo delle nuove generazioni. Fino, come vedremo, a fare<br />

del percorso di animazione lo stimolo che permette alle nuove generazioni di attivare<br />

al loro interno una discussione profonda, sempre più competente e appassionata, sulla<br />

qualità della cittadinanza, e di attivare uno o più laboratori di cittadinanza per la<br />

comunità locale, in cui i giovani possano inserirsi da protagonisti.<br />

A sua volta l’animatore può esprimere la sua competenza sostenendo la comunità<br />

nell’attivare un processo di apprendimento in cui le intuizioni generatrici della<br />

comunità possano incontrarsi con quel che l’esperienza dei giovani ha fatto toccare<br />

con mano, fino al punto in cui i diversi attori sociali riescono a ritrovare una passione<br />

di comunità e dunque di appartenenza, discussione critica, scelta di produrre beni di<br />

comunità, cura appassionata delle istituzioni locali come beni irrinunciabili e non<br />

strumentalizzabili da nessuno.<br />

Come si intuisce, non si tratta per l’animatore di saper vendere, ricorrendo alle<br />

migliori tecniche di marketing, il proprio operato con i giovani, ma di attivare un<br />

percorso che porta gli adulti a rielaborare il senso del «fare paese» o del fare<br />

comunità e a narrarsi in modo diverso, dando spazio a quel desiderio collettivo che<br />

era emerso nella scelta preliminare di investire sulle nuove generazioni come modo<br />

originale di diventare o rinascere comunità.<br />

La produzione di una cultura della cittadinanza<br />

Sono i giovani a essere chiamati a fare cultura a partire dalle loro esperienze. Fare<br />

cultura vuol dire anzitutto generare miti e racconti mitici collettivi — in cui l’intera<br />

comunità sia coinvolta in modo che possa farli diventare suoi — in cui viene<br />

ripensata l’esperienza maturata non tanto attraverso resoconti freddi, linguaggi<br />

amministrativi burocratici o anche giornalistici, ma in forma di racconti che scaldano<br />

il cuore e generano passione, in quanto svolti a quei crocevia dove possono<br />

incontrarsi i temi generatori (intorno ai quali si dibatte l’«essere cercanti» degli<br />

adolescenti) e le scoperte fatte nelle diverse iniziative di animazione. L’esperienza<br />

fatta la si vuole comunicare in modo seduttivo alla comunità, perché la rigeneri. Quel<br />

che spesso rimane del percorso è un insieme di racconti mitizzati, comprensibilmente<br />

centrati più sull’esaltazione che non sul resoconto delle difficoltà. In questo modo<br />

l’animazione alimenta i miti intorno a cui ogni comunità è costituita (miti che la<br />

portano a essere «questa comunità» e non un’altra), consapevole anche del fatto che<br />

essi hanno la capacità di scatenare una loro forza generatrice di scoperte e passioni<br />

ogni volta che qualcuno nel tempo vi entra in contatto.<br />

A partire dalle iniziative e dal loro intreccio come dal ritrovarsi fra giri giovanili<br />

diversi, stimolati dal confronto con i messaggi provocatori provenienti da fuori della<br />

comunità, i gruppi giovanili fanno cultura se hanno il coraggio di fermarsi,<br />

rielaborare, rilanciare domande intrise di esperienza, intrecciare significati, mettere a<br />

nudo contraddizioni, discutere senza paura di allargarsi a un ridisegno della società,<br />

33


aprirsi a testi significativi non meno che a testimoni viventi. Le modalità<br />

organizzative possono essere variegate, ma in comune hanno la percezione che tale<br />

rielaborazione è un passo decisivo rispetto al proprio insopprimibile bisogno di esseri<br />

cercanti.<br />

Particolare importanza viene ad avere la capacità di alternare chiusure autopoietiche,<br />

in cui possono accadere invenzioni e scoperte inedite, e apertura all’ambiente<br />

circostante dove circolano messaggi. In altre parole, l’orientamento sociale, culturale<br />

e politico degli adolescenti in questa fase del percorso tende a esplorare i mondi<br />

culturali vicini e lontani, per aprirsi a nuove culture e nuovi modelli di sviluppo<br />

capaci di offrire ulteriori punti di vista — in sintonia o anche in dissonanza rispetto a<br />

quelli scoperti e condivisi nell’animazione. In questo ambito, la capacità di<br />

connettersi ai diversi «santuari della cittadinanza» è essenziale: tocca quindi<br />

all’animatore, collegandosi con intelligenza alla leadership culturale della comunità,<br />

mettere in contatto con mondi altri che offrano provocazioni che rilanciano una<br />

ricerca già iniziata.<br />

È a questo livello che l’animazione svela quel processo ermeneutico che la porta a<br />

valorizzare le intuizioni degli adolescenti, ma le ritiene non sufficienti per dar vita a<br />

un discorso sociale e culturale di forte respiro, se queste non vengono a incontrarsi,<br />

contaminarsi, fecondarsi, riformularsi, provocate e alimentate da stimoli culturali<br />

provenienti dal pensiero dell’umanità.<br />

L’appropriazione da parte della comunità<br />

Le rielaborazioni degli adolescenti — a loro volta — vanno assunte e riformulate<br />

all’interno della comunità locale. È un passaggio a cui l’animazione attribuisce<br />

cruciale importanza: il «successo» dell’animazione va valorizzato e visto come<br />

successo della comunità. Da parte sua la comunità deve trovare spazi e tempi in cui<br />

attribuire significato alle esperienze degli adolescenti, in modo che esse entrino nel<br />

suo patrimonio culturale.<br />

Ma una comunità è disposta ad apprendere se il percorso di animazione, fin dal suo<br />

inizio, si è presentato come espressione se non di tutta, almeno di una parte<br />

significativa della comunità. Se l’animazione è stata fin dall’inizio — o è diventata<br />

— espressione di un’iniziativa privatistica, gestita gelosamente da un certo giro<br />

culturale e sociale contro altri giri, è certamente difficile per la comunità trovarvi uno<br />

stimolo per ripensarsi lasciandosi provocare dagli esperimenti delle nuove<br />

generazioni.<br />

Una comunità è disposta ad apprendere, in secondo luogo, se i racconti<br />

dell’animazione non si limitano a confermare la cultura già esistente e le sue pratiche<br />

e dunque i modi di vivere della comunità, perché in questo caso non ci sarebbe nulla<br />

da apprendere. Forse la comunità potrebbe sentire i racconti dell’animazione come<br />

suoi, ma questo non è foriero di nuovi mondi possibili. In fondo la comunità<br />

continuerebbe a muoversi secondo le regole già elaborate e un cambiamento entro le<br />

regole è solo un cambiamento apparente. Allo stesso modo la comunità non apprende<br />

se i racconti dell’animazione sono portatori di una sorta di controcultura, estranea alla<br />

sua storia e alla sua avventura nel tempo. Quando infatti l’animazione si pone come<br />

34


controcultura, dopo qualche probabile successo dovuto alla novità dell’iniziativa,<br />

viene emarginata. Al massimo rimane un angolo di controcultura chiuso in se stesso.<br />

Invece una comunità trova terreno fecondo per apprendere se nei racconti<br />

dell’animazione trova elementi che da una parte confermano la sua cultura distintiva<br />

di comunità, ma dall’altra la sollecitano a contaminare i suoi valori profondi con i<br />

nuovi valori messi in gioco dall’animazione, in modo che la nuova sintesi alimenti<br />

nuovi grappoli di idee, nuovi progetti, nuova imprenditorialità sociale e culturale.<br />

Più da vicino, la comunità è disposta ad apprendere se ha al suo interno dei<br />

«laboratori di cittadinanza», ovvero luoghi di ricomposizione di elementi che si<br />

radicano nella sua storia — e che oggi vengono a riformularsi a contatto con nuove<br />

sfide —, di elementi esterni alla comunità capaci di provocarla e metterla in<br />

discussione, di riflessioni offerte dal mondo dei giovani. Di conseguenza, la comunità<br />

apprende se al suo interno è viva la curiosità, la ricerca, il dibattito, l’imprenditività<br />

sociale.<br />

L’animazione sollecita i diversi laboratori di cittadinanza alla discussione pubblica di<br />

quel che è una comunità locale in una logica di dono e di cura, di quel che è una<br />

cittadinanza che pone al centro la fatica delle fasce più deboli, di quel che è un<br />

modello di sviluppo sociale in cui al centro rischia di stare il solo criterio<br />

economicistico, di quel che è una qualità di vita in cui i singoli e i gruppi possono<br />

alimentare il loro essere alla ricerca e quindi capaci di immaginare nuovi mondi<br />

possibili.<br />

L’innesco di un nuovo circolo virtuoso<br />

C’è una fase successiva del percorso ed è quella che — nel volgere di pochi anni —<br />

porta l’animazione ad avere il fiato corto, e non per sterilità di idee o intuizioni, ma<br />

perché mentre chi fa l’animazione tende a ripetere i suoi percorsi — all’interno di un<br />

circolo virtuoso in cui si incrementa ciò che ha avuto fino a quel momento successo<br />

—, facilmente una nuova generazione di adolescenti si è dislocata diversamente in<br />

termini culturali rispetto a quella precedente, assestandosi su nuovi territori, nuove<br />

pratiche, nuovi temi generatori. A questo punto il circolo da virtuoso diventa vizioso,<br />

marginale rispetto al corso degli eventi.<br />

Di conseguenza, l’animazione, senza perdere il patrimonio che ha accumulato, è<br />

chiamata a uscire dal circolo vizioso che la porta a reiterare il passato per inoltrarsi<br />

virtuosamente in quei terreni inesplorati dove, a partire da un ascolto di nuovi temi e<br />

da una profonda empatia con le «nuove» generazioni, si cerca di arrivare a un patto di<br />

animazione, arricchito dal di dentro per i significati che cerca di intrecciare. È questa<br />

un’operazione indubbiamente complessa, difficile, a cui però l’animazione non può<br />

sottrarsi se vuole garantire una continuità progettuale tra generazioni, senza vedere<br />

nuovamente vuoti i «luoghi» dell’animazione, in attesa di riprendere da capo il<br />

cammino con nuovi adolescenti. Inizia un nuovo ciclo, un nuovo percorso.<br />

Ancora una volta, la nuova avventura non potrà essere solo l’avventura di uno o più<br />

animatori, ma di una comunità che si rigenera investendo sui giovani.<br />

Tocca all’animatore però ripensare il suo viaggio da esploratore culturale<br />

muovendosi tra la cultura o le culture dei nuovi giovani, la cultura dei decisori<br />

35


pubblici, quella espressa dalla leadership sociale e culturale della comunità, sapendo<br />

di avere un patrimonio capace di alimentare un nuovo patto che sappia lasciarsi<br />

contaminare da nuovi stimoli, lasciando nella penombra un passato forte e glorioso.<br />

Con la speranza che si riesca ad arrivare a un nuovo contratto di animazione con i<br />

giovani, frutto ancora una volta di un clima di fiducia reciproca e di alcuni significati<br />

che si intersecano, disponibili a rispettare la libertà di ognuno e a decidere passo dopo<br />

passo il verso dove andare.<br />

L’augurio è che il percorso di animazione abbia generato degli animatori, in<br />

particolare dei giovani animatori volontari, che sappiano a loro volta accettare con<br />

passione, ricchi dell’esperienza maturata, di fare un pezzo di strada con i nuovi<br />

adolescenti. Da sempre infatti l’animazione ha scommesso sui giovani come<br />

animatori degli adolescenti.<br />

IL LAVORO IN RETE di Michele Gagliardo<br />

Parlare di lavoro di rete è parziale e riduttivo, in quanto non si tratta solamente di una<br />

modalità operativa, di un modo di lavorare; fondamentalmente la rete è una mentalità,<br />

un modo di pensare per meglio comprendere la pratica del lavoro sociale, la realtà<br />

con cui si viene in contatto.<br />

È un modo di pensare che nasce dalla continua riflessione sulla sofferenza e sul<br />

disagio che la quotidianità operativa ci impone, è quindi un intreccio che consente di<br />

far interagire pensiero e azione in un continuo costruirsi reciproco.<br />

Riflettere sulla realtà che quotidianamente incontriamo assumendo una mentalità di<br />

rete significa utilizzare approcci sostanzialmente di tipo qualitativo, che ci<br />

permettono di:<br />

. assumere una pluralità di punti di vista;<br />

. cogliere quanto di unico e originale vivono i soggetti.<br />

È’ una mentalità attraverso la quale siamo chiamati a connettere, a collegare,<br />

superando, così, alcune contrapposizioni che hanno caratterizzato lo scenario del<br />

lavoro sociale, ad esempio tra pubblico e privato, tra formale e informale, tra<br />

professionisti e volontariato, tra operatori e utenti.<br />

Ma in modo particolare sono due le separazioni che, sulla base di quanto detto in<br />

precedenza, connotano il lavoro di rete come esperienza di connessione.<br />

Il superamento della ripartizione presente nel lavoro, tra lavoro individuale, di<br />

gruppo, di comunità. Essendo un approccio integrato si posiziona simultaneamente su<br />

tutti e tre i livelli, superando la spaccatura tra «parte e tutto». Non si considerano gli<br />

individui da un lato e la comunità dall’altro come oggetti da modificare, ma come<br />

elementi interdipendenti del sistema sociale, in una relazione nella quale il<br />

modificarsi dell’uno consente il modificarsi dell’altro.<br />

Il superamento di una troppo netta differenza tra cura (assistenza, riabilitazione) e<br />

sviluppo (prevenzione, promozione).<br />

Si può fare prevenzione anche attraverso la cura (effetti indiretti).<br />

Utilizzando l’approccio di rete, il disagio attraverso cui si esprime la fatica di vivere<br />

delle persone, viene letto come sintomo, come indicatore di quanto avviene nella<br />

36


società più allargata; per cui queste manifestazioni non vengono considerate come<br />

entità a sé stanti, espressione di problemi personali, disadattamento individuale,<br />

disfunzione esclusivamente familiare, ma come segno di una crisi più ampia che<br />

riguarda l’adattamento delle persone nei confronti degli altri, dell’ambiente, crisi di<br />

senso e di rapporti.<br />

Utilizzando un approccio di rete e quindi considerando l’individuo nel suo ambiente e<br />

considerando l’ambiente stesso, si possono cogliere altri modelli di comportamento,<br />

altre soluzioni, ricche di significato per persone e contesti. Disporsi in una<br />

«dimensione mentale a rete» permette di:<br />

descrivere e far descrivere;<br />

leggere e far leggere;<br />

agire e far agire una parte della realtà relazionale.<br />

I servizi divengono capaci di nuove letture dei problemi e delle possibilità di<br />

intervento; superano quella tensione all’autoconservazione che spesso connota le<br />

«grandi istituzioni» rendendole statiche e ripetitive, capaci solo di ratificare il<br />

cambiamento già avvenuto, trasformandosi in promotrici, capaci di favorire e<br />

accompagnare lo slancio verso l’innovazione dinamica e il cambiamento.<br />

Diviene allora fondamentale ricercare «ciò che un individuo indica e vive come<br />

significativo, rispetto alle persone che incontra oggi e nella sua storia, che hanno dato<br />

un senso a una lettura di sé nel tempo e nello spazio».<br />

Introducendo elementi quali il tempo, lo spazio, i significati, comprendiamo<br />

immediatamente quanto, nel lavoro di rete, sia alto il grado di soggettività<br />

(rappresentazione) e come la rete non sia una struttura statica, immutabile, definita<br />

una volta per sempre, ma un organismo vivente che muta nel tempo.<br />

Quindi è indispensabile cogliere gli individui nella dinamicità della relazione con gli<br />

altri e con il contesto; in quanto è proprio all’interno di questa relazione che si<br />

costruiscono le rappresentazioni e le immagini di sé, degli altri e del contesto.<br />

Azzardando, sulla base di questi presupposti, una definizione di rete potremmo<br />

affermare che: «La rete è un modo per definire il dare significato (alle relazioni, alle<br />

persone, ai contesti) e il ricevere significato (dalle relazioni, dalle persone, dai<br />

contesti) di un individuo, di un gruppo e del loro ambiente».<br />

Relazioni, persone, contesti non possono essere dimenticati; non sono semplici clienti<br />

da soddisfare nei servizi e con servizi sempre nuovi, ma protagonisti fondamentali<br />

dell’intervento sociale, in mancanza dei quali non è possibile immaginare letture o<br />

progettualità reali e realizzabili: quindi utilizzare un approccio a rete significa anche<br />

arginare la proliferazione dei servizi a cui da anni stiamo assistendo per sostituirla<br />

gradualmente, dove è possibile, con strategie di pensiero e di azione che prevedano<br />

una maggiore partecipazione dei soggetti che vivono i territori sui quali si svolge la<br />

nostra azione.<br />

In questa prospettiva è facile intuire come due elementi fondamentali del nostro<br />

lavoro debbano cambiare radicalmente: progettazione e valutazione devono assumere<br />

una dimensione dialogica, contestualizzata e maggiormente attenta alla dinamicità<br />

delle relazioni e dei contesti.<br />

37


Le pratiche del lavoro di rete<br />

Nella nostra realtà italiana sono presenti alcune pratiche relative al lavoro sociale di<br />

rete: qui di seguito faremo una ricognizione di questi orientamenti metodologici,<br />

configurando quattro modelli di lavoro.<br />

Lavoro di rete a indirizzo terapeutico<br />

Conosciuto anche come «terapia di rete», considera la rete di un individuo come una<br />

realtà «curabile» e «curante»; la rete non è quindi l’oggetto di lavoro dell’operatore,<br />

ma il soggetto capace di generare risposte adeguate alle fatiche dei suoi componenti.<br />

La terapia di rete pone la sua attenzione al livello delle interazioni e delle relazioni:<br />

grazie agli scambi di tipo informativo, materiale, affettivo, che avvengono all’interno<br />

della rete tra i diversi componenti, si producono nuovi scambi che danno vita<br />

all’esperienza del senso di affiliazione e di appartenenza empatica, attenta ai vissuti,<br />

alle rappresentazioni, ai significati, agli affetti, a tutto quanto costruisce la «cultura<br />

della rete» che incide sia sul pensiero, sia sul parlare, sia sull’agire collettivo.<br />

L’operatore con il suo intervento produce e fa accadere eventi significativi per far<br />

vivere la rete, per farle recuperare i legami iniziali, rendendola struttura visibile e<br />

vitale (ripristinando le sue funzioni), capace di assumere collettivamente il sintomo,<br />

accrescendo la sua consapevolezza rispetto alla possibilità di risolvere con energie<br />

proprie nuovi problemi.<br />

Lavoro di rete come disegno organizzativo<br />

Conosciuto anche come «lavoro di territorio». Le realtà presenti sul territorio si<br />

configurano, quando organizzate, come risorse per il contesto e l’ambiente nel quale<br />

sono collocate. Per realtà sono da intendersi sia i servizi istituzionali pubblici e<br />

privati, che la rete di rapporti, i gruppi e le aggregazioni naturali. Ovviamente<br />

l’attività dell’operatore è focalizzata sulla dimensione organizzativa, attraverso una<br />

funzione di ordinatore: egli orienta e connette i soggetti della rete.<br />

Lavoro di rete come intervento di comunità<br />

Conosciuto anche come community care o social networking. L’ambiente biologico è<br />

correlato a quello fisico, mettendo in relazione il benessere fisico (persone) con<br />

quello biologico (ambiente). Il soggetto del lavoro di rete diviene evidentemente la<br />

comunità locale che si fa carico, a partire da una situazione individuale o di gruppo,<br />

di attivare strategie e risorse interne di soluzione.<br />

Oltre al singolo individuo e al suo problema esiste anche la comunità, intesa come<br />

rete significativa di relazioni. Con l’allentamento dei legami comunitari e il<br />

depotenziamento della solidarietà naturale siamo in presenza di una società sempre<br />

meno attraversata da sentimento comune: ma se non esiste la comunità, esistono<br />

sicuramente «le comunità», come luoghi e aggregati di empatia più circoscritti;<br />

quindi come operatori siamo chiamati a individuare quelle che sono le comunità con<br />

cui costruire percorsi di lavoro.<br />

38


L’operatore è un costruttore di reti, che rende possibile l’instaurarsi di legami<br />

significativi che modificano le reti, producono relazioni dotate di senso, hanno effetto<br />

sulla funzione che la rete ha sul singolo.<br />

Lavoro di rete come rapporto tra reti primarie e secondarie<br />

Conosciuto anche come «intervento di rete». Si pone attenzione al cambiamento tra<br />

reti primarie e reti secondarie, privilegiando i rapporti «faccia a faccia» significativi<br />

nelle storie delle persone o che possono divenire tali. Si tratta quindi di lavorare<br />

affinché si possano aprire degli spazi di relazione e connessione tra i soggetti che<br />

compongono la rete primaria di un individuo o di un gruppo e i soggetti che fanno<br />

parte della rete secondaria o rete dei servizi pubblici e privati.<br />

Il livello al quale si colloca l’intervento è quello delle relazioni e della cultura della<br />

rete.<br />

L’operatore orienta e guida le relazioni, scoprendo la cultura (linguaggi) e le<br />

dinamiche della rete, aprendo spazi significativi di interazione con soggetti della rete<br />

secondaria, con la quale si attiveranno processi di messa in comune dei problemi, la<br />

loro riformulazione, facendo prendere corpo all’idea di appartenere a un sistema<br />

complesso in grado di prendersi cura delle differenti situazioni di fatica.<br />

Le strategie nel lavoro di rete<br />

Oltre alle questioni che riguardano i modelli attraverso i quali si traduce l’approccio<br />

al lavoro di rete, è fondamentale acquisire consapevolezza relativamente alle possibili<br />

metodologie che permettono di rendere operativo il lavoro di rete e di valorizzare,<br />

nella pratica quotidiana, tutte le prassi che già applichiamo che si collocano in una<br />

prospettiva di lavoro di rete.<br />

Le strategie applicabili sono tre, vediamole brevemente.<br />

Strategie di supporto a reti esistenti<br />

Si tratta di intervenire sostenendo quelle situazioni nelle quali esistono già dei legami,<br />

delle obbligazioni affettive stabili, per rendere possibile o più probabile la continuità<br />

di queste relazioni. In questa prospettiva l’intervento è caratterizzato<br />

dall’introduzione di elementi esterni di supporto o dall’attivazione di agiti che<br />

consentano il miglioramento della qualità dei rapporti.<br />

Ritroviamo tre categorie di intervento:<br />

servizi per offrire periodi di «tregua» (ad esempio garantendo momenti di riposo alle<br />

famiglie che hanno al loro interno figli portatori di handicap);<br />

inserimento di volontari (per sostenere in alcune funzioni gruppi o nuclei familiari);<br />

offerta di momenti di incontro (è una modalità operativa più avanzata, che si basa<br />

sull’offerta di opportunità di incontro, scambio e formazione per le persone che si<br />

occupano delle situazioni di difficoltà).<br />

Attivazione e coordinamento di reti a «breve periodo» per la soluzione di problemi<br />

Gran parte delle azioni degli operatori sono rivolte alla soluzione di problemi<br />

specifici: situazioni di crisi o situazioni straordinarie che investono temporaneamente<br />

una parte della vita delle persone.<br />

39


In queste occasioni è utile un lavoro di «regia» finalizzato alla messa in moto di<br />

risorse, in una rete pensata per la situazione specifica con figure e tecniche collegate e<br />

attivate esclusivamente per quel problema.<br />

Si tratta quindi di «tessere» attorno a un problema un reticolo di connessioni,<br />

circoscritte e provvisorie, che attivino soluzioni specifiche per quel momento e per<br />

quelle persone: quando la situazione è stata superata la rete si scioglie e ciascuno<br />

torna al proprio posto.<br />

Attivazione di reti stabili a lungo periodo<br />

Ci sono altri problemi sociali che necessitano di reti più complesse, più stabili e<br />

ampie nel tempo. Sono reti che si strutturano tra formale e informale, come ad<br />

esempio i gruppi di auto-aiuto; i gruppi composti da utenti e loro familiari; come reti<br />

istituzionali più complesse quali i coordinamenti territoriali.<br />

Sono strutture necessarie quando il problema è contemporaneamente quello di<br />

cogliere i propri comportamenti, il bisogno di rielaborazione di se stessi, o di<br />

ricostruire un proprio stile di vita.<br />

Queste reti sono allo stesso momento, da un lato, «indifferenziate», cioè generalizzate<br />

e adatte a una classe di problemi omogenei (tossicodipendenza, alcolismo, ecc.);<br />

dall’altro devono essere in grado di attivare risposte a livello personale, entrando in<br />

sintonia con i bisogni individuali.<br />

SCUOLA E TERRITORIO: L’INTEGRAZIONE DEI PERCORSI<br />

EDUCATIVI di Guido Tallone<br />

La progettazione condivisa<br />

Queste riflessioni nascono da un ricco confronto all’interno di vari laboratori<br />

esperienziali tenutisi nel 2000-2001 fra operatori scolastici ed extrascolastici che a<br />

vario titolo si occupano di ragazze e ragazzi. I laboratori si prefiggevano di cogliere<br />

quali azioni siano oggi necessarie ed efficaci al fine di aiutare chi cresce ad assumere<br />

il proprio territorio come punto di riferimento essenziale per la propria crescita e<br />

formazione.<br />

Non è sicuramente questo un obiettivo semplice perché richiede, da parte di<br />

quanti si occupano di accompagnare i ragazzi ed i giovani nei loro percorsi formativi,<br />

la capacità di saper leggere ed accogliere i loro bisogni con la flessibilità e la<br />

creatività di autentici ricercatori, appassionati del “nuovo” che da sempre le giovani<br />

generazioni portano con sé e disposti anche alla fatica che il cercare e l’aprire nuovi<br />

sentieri comporta.<br />

Il lavoro comune è stato ricco e significativo, frutto della variegata esperienza<br />

dei partecipanti, provenienti dai più diversi ambiti (istituzioni, servizi sociali, scuole,<br />

privato sociale) e portatori delle più diverse competenze e professionalità. Sempre<br />

più siamo consapevoli della necessità di “procedere in rete”, al di là di sterili<br />

settorializzazioni, per far sì che le comunità locali si riapproprino della capacità di<br />

accompagnare tutti i cittadini in ogni fase della loro crescita.<br />

40


Strategie per una coerenza progettuale<br />

Fare in modo che gli indicatori direzionali del proprio progettare si rendano vere e<br />

proprie proposte (realizzate e realizzabili) chiede strategie capaci di dare concretezza<br />

ed operatività ad ogni possibile percorso. Chiede – soprattutto - alle strategie di<br />

essere coerenti ed in continuità tanto rispetto ai principi che hanno dato il via alla<br />

progettazione, quanto rispetto ai bisogni ed alle esigenze di riposizionamento che via<br />

via emergono nel corso della progettazione e realizzazione del percorso.<br />

1. Non chiudersi nello specifico di un’agenzia, non irrigidirsi nel mandato<br />

istituzionale del proprio ente di appartenenza. La progettazione sociale è frutto<br />

di un lavoro di rete, capace di moltiplicare punti di vista, prospettive ed<br />

opportunità tanto per chi propone gli interventi quanto per i destinatari. Non può<br />

essere il singolo soggetto o gruppo a costruire il cambiamento. Può solo essere<br />

un punto della rete sociale, al cui interno si muove – come co-protagonista -<br />

inventando nuove opportunità con il contesto. Rispettoso della storia di quella<br />

rete sociale, tentando di riconoscerne gli aspetti più sani. Educare e progettare<br />

dentro la complessità significa impegnarsi innanzitutto a non ridurre il sociale ad<br />

una sola prospettiva, abituandosi in prima persona a gestire l’incertezza che la<br />

rinuncia a punti di vista assoluti comporta e tenendo presente che le rigidità<br />

dovute al mandato dell’istituzione di cui si è parte non sono solo vincoli che<br />

agiscono come ostacolo ma rappresentano anche opportunità, punti fermi su cui<br />

far leva, pur nella consapevolezza della loro parzialità. Significa stare dentro le<br />

alleanze educative con la fantasia e la creatività che la rete permette e con<br />

l’obiettivo di facilitare l’emergere di nuove opportunità, possibilità, prospettive ed<br />

occasioni.<br />

2. Nessuna agenzia è più qualificata di altre nella regia-progettazione degli<br />

interventi, ma si tratta di educarsi nel condividere la progettazione. Tenendo<br />

presente che il lavoro di rete non può strutturarsi nei termini di<br />

un’organizzazione rigida, in cui gli obiettivi, gli scambi, il flusso di<br />

informazioni, le interdipendenze ed i ruoli sono controllati in modo forte ed a<br />

priori, ma siamo in presenza di una “organizzazione” caratterizzata da legami che,<br />

per quanto coinvolgano in modo significativo dimensioni personali dei<br />

partecipanti all’azione, sono “deboli”. Ciò permette a ciascuno di mantenere<br />

una propria identità ed autonomia di azione ma richiede una costante<br />

interazione per negoziare e costruire insieme le decisioni ed il significato che si<br />

attribuisce alla propria azione. E’ importante quindi - da una parte - che sia<br />

valorizzata e rispettata la capacità decisionale dei singoli, e – dall’altra – che sia<br />

garantita una costante e fitta circolarità dell’informazione, per cui nessuna<br />

comunicazione deve mai essere data per scontata. Per quanto riguarda, inoltre, la<br />

responsabilità dei singoli progetti ed interventi, è importante ed essenziale che ne<br />

venga decisa di volta in volta una titolarità specifica, a partire dalla sempre<br />

ridiscutibile valutazione su chi ne possa risultare il “tutor” più adeguato.<br />

41


3. La progettazione sociale è sempre esposta alle difficoltà di inter-azione fra un<br />

certo numero di persone. Non è semplice non confondere ruoli e competenze,<br />

non delegare né invadere il lavoro di altri, evitare giudizi sui modelli educativi<br />

altrui, superare atteggiamenti di critica e di difesa, non nascondere né vergognarsi<br />

di errori, difficoltà, ecc…. Tutti gli attori realmente coinvolti nel progetto sono<br />

implicati personalmente sia da un punto di vista emotivo sia da un punto di vista<br />

cognitivo. Ottimizzare le risorse – in questa situazione - significa soprattutto saper<br />

prendere in considerazione, contenere ed incanalare in modo costruttivo le<br />

stesse dimensioni personali degli operatori protagonisti della progettazione.<br />

Attivare percorsi di cambiamento mobilita spesso infatti, negli stessi operatori,<br />

dimensioni affettive profonde, che a volte sono i primi ostacoli alla progettazione<br />

sociale. Fare in modo che in ogni fase della progettazione vi sia una condivisione<br />

- per quanto riguarda l’individuazione dei problemi e delle possibili soluzioni - fa<br />

sì che sia possibile una progettazione in cui tutti gli operatori si identificano e si<br />

riconoscono negli obiettivi e nelle azioni. E’ questa la prima condizione per<br />

assicurare l’efficacia ed efficienza della progettazione, perché è la effettiva ed<br />

affettiva partecipazione delle persone coinvolte nel progetto a farsi<br />

automaticamente garante della pertinenza delle azioni che si intraprendono<br />

rispetto alle caratteristiche reali dei contesti in cui si opera.<br />

4. Centralità dei bisogni e delle potenzialità dei ragazzi. Sono loro, con i<br />

particolari bisogni di cui sono portatori, da rileggere come ben precisi diritti, i<br />

principali protagonisti del nostro lavorare insieme. Oggi non è facile - vista la<br />

frammentazione e la complessità esistenti - ascoltare ed analizzare tanto la realtà<br />

quanto i reali bisogni delle persone. Ciò è particolarmente evidente per quanto<br />

riguarda il disagio delle giovani generazioni. Pur essendo spesso profondamente<br />

colpiti dalle esplosioni più drammatiche, siamo spesso sordi ai segnali che<br />

quotidianamente ci arrivano dall'arcipelago giovanile ed è forte la tendenza a non<br />

riconoscere od a leggere in modo errato le effettive richieste ed esigenze dei nostri<br />

ragazzi e giovani. E' invece essenziale "incontrare" effettivamente le domande<br />

ed i bisogni dei destinatari di ogni progettazione favorendo la creazione o<br />

l'utilizzo di luoghi di scambio, di dibattito e di confronto. Ciò eviterebbe - fra<br />

l'altro - il frequente rischio dell'imposizione "dall'alto" di progetti a volte anche<br />

molto interessanti ma non congruenti con le caratteristiche e le esigenze presenti.<br />

Solo un ascolto ed un dialogo sofisticato ed acuto fanno sì che la progettazione<br />

non perda mai di vista il particolare contesto e le particolari persone portatori di<br />

ben precise caratteristiche e risorse.<br />

5. Obiettivi graduali e raggiungibili. E’ necessario che la progettazione sia<br />

preceduta da un’attenta analisi della domanda, delle caratteristiche e delle<br />

competenze degli operatori e dalla consapevolezza delle risorse disponibili<br />

perché l’azione non rischi di arenarsi sulle secche di una sterile ideazione incapace<br />

di prendere realtà e di far fronte agli elementi non previsti. Tale fase di analisi e<br />

valutazione tuttavia non può diventare un eterno posticipare e rinviare decisioni<br />

42


incapace di farsi proposta ed azione. In un contesto complesso come è il<br />

“sociale”, l’impossibilità di eliminare le ambiguità e le ambivalenze per pervenire<br />

ad una pianificazione certa e sicura richiede la capacità di progettare ed<br />

intervenire anche con margini di dubbio e di incertezza, nella consapevolezza<br />

della possibilità di correggere in ogni momento eventuali “scarti” nell’azione a<br />

partire da una maggiore consapevolezza della realtà.<br />

6. Non fare progetti standardizzati ed astratti. Spesso la nostra progettazione<br />

rischia di avere le caratteristiche di una pianificazione astratta, convinta di poter<br />

prevedere e controllare situazioni ed azioni mediante forti investimenti<br />

standardizzati e razionali, anche di tipo scientifico. La pianificazione razionale è<br />

tuttavia molto distante dalla realtà, proprio per la sua tendenza a prestare<br />

attenzione a generalizzazioni ed uniformità, lasciando in secondo piano - se non<br />

scartando a priori - le particolarità, le forme molteplici della realtà e le episodicità<br />

del quotidiano. Questo tipo di progettazione spesso è - più o meno - inefficace,<br />

proprio per la sua poca capacità di connessione con la realtà concreta di un<br />

territorio. In realtà il cambiamento non è qualcosa di deducibile e/o<br />

controllabile in modo logico a partire da premesse, ma è un lento processo<br />

intessuto di fattori anche emotivi e simbolici, che si radicano su ben precise<br />

particolarità umane e territoriali, a partire da una rete di interazioni non sempre<br />

prevedibili ed all'interno di condizioni di ambiguità non eliminabili. Progettare a<br />

partire da un territorio e radicati su di un territorio ci richiede dunque la capacità<br />

di coglierne la specifica identità - formale ed informale - nella consapevolezza che<br />

solo calandosi nella concretezza della realtà e facendosi parte della situazione<br />

si è in grado di conoscerne gli elementi, su cui poter poi fare leva per attivare<br />

percorsi di innovazione e cambiamento.<br />

7. Rinnovare e rilanciare nel tempo la progettualità, prestando particolare<br />

attenzione a costruire narrazioni condivise degli avvenimenti verbalizzando<br />

molto. Valutazione e narrazione condivisa degli avvenimenti sono fondamentali<br />

in ogni percorso di progettazione sociale, da non considerare come elementi<br />

separati dalla progettazione stessa. Ne sono infatti un elemento interno e<br />

necessario, perchè permettono quella conoscenza relativa a ciò che sta succedendo<br />

che garantisce il contatto con la realtà. E’ però importante che siano condivisi e<br />

concordati insieme sia i criteri sia i tempi ed i modi della valutazione e della<br />

verbalizzazione-narrazione, perché già la scelta di questi elementi rappresenta ben<br />

precisi indirizzi di progettazione sociale. Per quanto riguarda i tempi della<br />

progettazione e valutazione è necessario saper ben distinguere - per poi poter ben<br />

conciliare - breve, medio e lungo termine. La complessità ci richiede infatti –<br />

oggi – di saper tenere insieme la necessità di prendere a volte decisioni – anche<br />

non irrilevanti - in tempi quasi immediati con l’altrettanto fondamentale necessità<br />

di dare alla progettazione sociale i tempi lunghi che i percorsi del cambiamento,<br />

spesso imprevedibili e tortuosi, richiedono. L’emergenza che spesso pervade il<br />

lavoro sociale ci richiede infatti – da una parte – la flessibilità di saper prendere<br />

43


decisioni rischiose anche in assenza di tutte le informazioni necessarie. Dall’altra,<br />

la progettazione sociale è un processo graduale che richiede cure, investimenti,<br />

pazienza e fermezza.<br />

8. Non fare troppe iniziative e poco mirate ma costruire micro - progetti<br />

all’interno di orizzonti ampi e trasversali. Spesso, a fronte delle difficoltà che si<br />

incontrano in progettazioni ampie, di portata macro-sociale, per forza di cose<br />

deboli rispetto alla coniugazione fra idealità e realtà, fragili sul piano dell'analisi,<br />

dell'elaborazione concettuale e della capacità di definire degli obiettivi, si è reagito<br />

con il rifugiarsi nei micro-progetti. La micro-progettazione, o progettazione sui<br />

singoli casi - più rassicurante - limita fortemente il campo di intervento, ponendo<br />

in grande rilievo le dimensioni tecnico - specialistiche e lasciando in modo<br />

assoluto sullo sfondo ogni riferimento a scelte progettuali più ampie. E' necessario<br />

acquisire invece la capacità di procedere secondo logiche congiuntive e non<br />

disgiuntive (per “e” e non per “o”), costruendo cerchi concentrici all'interno di una<br />

progettazione capace tanto di esplicitare l'ampio orizzonte rispetto a cui ci si<br />

intende muovere - con precise scelte anche politico-culturali - quanto di<br />

individuare specifici ambiti di intervento significativi, rispetto a cui porsi obiettivi<br />

mirati e precisi capaci di attivare effettivi e verificabili processi di cambiamento.<br />

E’ inoltre importante essere attenti alle conseguenze che le nostre azioni hanno<br />

sui tempi brevi e sui tempi lunghi: alcuni interventi validi nel tempo breve<br />

possono nascondere controindicazioni per i tempi lunghi o viceversa. Valutare<br />

insieme questa tensione è responsabilità dell’intero gruppo.<br />

9. Lavorare sui propri linguaggi, che spesso costruiscono inconsapevolmente<br />

separazioni. Cercare nuove strade per le nostre pratiche educative e di intervento<br />

conduce inevitabilmente a ridefinire i propri linguaggi, che spesso - ed in modo<br />

purtroppo per noi inconsapevole e poco controllabile - sono categoriali,<br />

giudicativi o direttivi. I concetti e la sintassi che tendenzialmente noi tutti<br />

utilizziamo evidenziano quanto le nostre abitudini linguistiche vadano nella<br />

direzione di "bloccare" ed incatenare la realtà attraverso pregiudizi e stereotipi<br />

(anche i più usuali concetti rappresentano comunque sempre semplificazioni e<br />

riduzioni spesso inevitabili), e di creare distanze nelle nostre relazioni attraverso le<br />

più svariate modalità comunicative (dirigere, giudicare, valutare, biasimare,<br />

definire, generalizzare, analizzare, diagnosticare, rassicurare, eludere, indagare,<br />

interrogare, dubitare, sminuire, ecc…). In verità la realtà umana e sociale non può<br />

mai essere trattata come un "dato di fatto" da fotografare e categorizzare: anche il<br />

nostro linguaggio ha bisogno di flessibilizzarsi per riuscire a cogliere le<br />

sfumature e il dinamismo di una realtà che è un processo fluido e mutevole<br />

frutto dell'agire intenzionale delle persone. E' importante imparare l'arte di una<br />

narrazione che si faccia capace di comunicare sé agli altri e di cogliere - delle altre<br />

persone, del mondo che ci circonda e degli avvenimenti - i simboli e soprattutto i<br />

significati. Non si tratta tanto di inventare parole o sintassi nuove, quanto di<br />

imparare a decentrare lo sguardo, a non eliminare dal campo di osservazione<br />

44


ciò che è meno famigliare e soprattutto a situarsi al confine tra i fenomeni<br />

collettivi e quell'esperienza personale ed unica di cui il proprio linguaggio<br />

costruisce la memoria.<br />

10. Coinvolgere le famiglie nella progettazione. Oggi - venuti meno sulla scena<br />

sociale i soggetti ed i grandi movimenti collettivi che hanno in passato promosso<br />

grandi orientamenti ideali - la progettazione sociale può e deve agganciarsi alle<br />

nuove istanze che stanno emergendo dalla riflessione su problemi che sono<br />

avvertiti, in qualche modo, da persone e famiglie. A partire da una<br />

condivisione a volte anche parziale intorno ad alcuni problemi, è possibile un<br />

impegno comune che poco alla volta individui e proponga alcuni orientamenti<br />

valoriali o linee di azione che possono venire a rappresentare, a poco a poco, agli<br />

occhi di tutti, aperture innovative significative capaci di incontrare un grande<br />

consenso. Lavorare in chiave educativa con gli adolescenti significa quindi - oggi<br />

- costruire piattaforme di confronto capaci di aggregare in un percorso<br />

comune soggetti, individui e gruppi diversi - con diverse collocazioni e diverse<br />

competenze - per sviluppare processi generatori di nuove progettualità per<br />

ora apparentemente silenti o bloccate nella realtà sociale. La prima ed<br />

essenziale condizione per ogni forma di progettazione - condizione da verificare e<br />

potenziare continuamente - è la "fiducia", che viene ad essere gradatamente<br />

riconsegnata al contesto sociale lavorando sul campo, favorendo nelle persone<br />

una maggior padronanza rispetto ai problemi - pur senza ridurne la complessità -<br />

ed una maggior competenza nel ricercare soluzioni possibili.<br />

LEZIONE 2<br />

GLI ORIENTAMENTI CULTURALI E METODOLOGICI SULLA<br />

PREVENZIONE ALLE <strong>DI</strong>PENDENZE di Michele Gagliardo<br />

(riflessioni prodotte e condivise in un percorso di ricerca-formazione coordinato<br />

dall’Università della Strada del Gruppo Abele a cui hanno partecipato una trentina di<br />

operatori sociali)<br />

Il lavoro di ricerca, che ha coinvolto gli operatori del Pubblico e del privato sociale<br />

delle province piemontesi aventi un ruolo di responsabilità nei progetti di<br />

prevenzione, è stato caratterizzato da una duplice attenzione: da un lato, si è cercato<br />

di fare il punto della situazione sui progetti attivati dagli enti rappresentati; dall’altro,<br />

si è tentato di costruire una mappa concettuale dei principali elementi (rispetto a<br />

contenuti, metodi, strumenti, attori) dell’intervento preventivo.<br />

Per ciò che concerne la prima dimensione, i diversi progetti presentati sono stati<br />

riletti attraverso sei categorie di analisi costruite con i corsisti.<br />

Categorie di analisi dei progetti di prevenzione<br />

Gli oggetti dell’attività preventiva. Gli oggetti che stimolano l’attivazione dei<br />

progetti sono sempre connessi a fenomeni o a eventi di carattere straordinario, al<br />

tempo stesso lontani sia dalla vita quotidiana dei cittadini sia dalla prassi operativa<br />

45


dei servizi. I progetti, quindi, assumono anch’essi questa caratteristica di<br />

«straordinarietà», appaiono scollegati dalla progettualità complessiva delle<br />

organizzazioni e pensati in relazione a un evento speciale che sovente appare essere il<br />

finanziamento ministeriale.<br />

I destinatari. I progetti si rivolgono a tipologie di destinatari assai eterogenee: alcuni<br />

interventi coinvolgono tutta la popolazione, altri solo la fascia degli adulti, altri<br />

interessano categorie particolari (insegnanti, giovani a rischio), altri infine<br />

definiscono con estrema precisione un target specifico (ad esempio, la fascia da zero<br />

a dodici anni). Questa alta differenziazione si pensa possa essere rappresentativa di<br />

una situazione caratterizzata da una forte diversità nel concepire l’approccio culturale<br />

e, di conseguenza, operativo alla prevenzione.<br />

Gli interventi attivati. Anche gli interventi sono estremamente variegati, a conferma<br />

della differenziazione nelle filosofie preventive dei servizi. Si possono individuare:<br />

borse lavoro, interventi nella scuola, formazione genitori, laboratori, centri giovani,<br />

Cic (Centri di Informazione e Consulenza), lavoro/animazione di strada, teatro,<br />

Informa Giovani, ludoteca, scambi internazionali, alternanza scuola/lavoro,<br />

mediazione dei conflitti, consultorio adolescenti, formazione formatori di genitori,<br />

produzione di materiale informativo.<br />

L’organizzazione nei servizi promotori. Il modello organizzativo prevalente risente<br />

ancora di un’impostazione fondata sull’autoconservazione dell’istituzione e sul ruolo<br />

determinante degli operatori: non si sono rilevate sostanziali differenze tra le<br />

organizzazioni appartenenti al privato sociale o all’Ente pubblico. L’assetto<br />

organizzativo è apparso di estrema importanza in quanto da esso traspare quella che<br />

si pensa debba essere la modalità e la qualità delle relazioni su un territorio; chi si<br />

deve occupare di che cosa; chi è competente; quali sono i soggetti che si ritengono<br />

possibili interlocutori per attivare processi atti a modificare e migliorare la qualità<br />

della vita nei contesti abitativi.<br />

La valutazione. Quando è presente, la valutazione appare orientata a evidenziare<br />

elementi di tipo quantitativo, attraverso l’utilizzo di strumenti tipicamente logicorazionali,<br />

numerici, anche quando i soggetti coinvolti e gli oggetti trattati rimandano<br />

a dimensioni più qualitative, come la ricerca del senso e del significato dei progetti. È<br />

quindi emersa la difficoltà connessa al costruire accordi con i soggetti politici che<br />

paiono, dalla narrazione dei partecipanti, portatori di esigenze legate alla visibilità e<br />

alla entità numerica degli interventi messi in atto.<br />

La rete attivata dal progetto. L’intervento di rete è presente in modo fondamentale<br />

nelle dichiarazioni di intenti e negli obiettivi di tutti i progetti; è una caratteristica<br />

imprescindibile in tutti gli interventi che si sono analizzati. Dal punto di vista<br />

prettamente operativo, si è rilevato che tale modalità operativa è presente<br />

esclusivamente nella forma del «lavoro organizzativo a rete» tra i servizi del pubblico<br />

e del privato coinvolti negli interventi. La rete risulta essere ricondotta a una<br />

questione che concerne il livello strutturale, tecnico del rapporto tra le organizzazioni,<br />

lasciando assolutamente non considerata tutta la dimensione del lavoro di rete come<br />

«modalità di pensiero integrato» nel lavorare nella prevenzione. Ciò che viene<br />

escluso è invece elemento fondamentale nei progetti, caratteristica che consente ai<br />

46


soggetti istituzionali e organizzati di prefigurarsi una gamma amplissima di clienti, di<br />

soggetti, di approcci alla lettura e all’intervento da attuare.<br />

Da queste prime considerazioni, appare visibile come la ricerca condotta abbia<br />

permesso di dare il via a una vastità di piste di riflessione e di delineare interessanti<br />

prospettive operative trattate concretamente nei moduli successivi. Tra queste, prima<br />

fra tutte, l’importanza di elaborare una strategia preventiva maggiormente attenta al<br />

lavoro con la comunità locale e finalizzata a costruire letture e descrizioni di problemi<br />

e desideri, a vedere soluzioni possibili, a offrire competenze.<br />

Elementi dell’intervento preventivo<br />

Entrando poi nel merito dei contenuti relativi alla prevenzione sono emersi alcuni<br />

elementi che possono essere di aiuto per reinterpretare una ipotesi di approccio<br />

culturale e metodologico, attenta alle caratteristiche del mondo di oggi. In primo<br />

luogo appare necessaria una attività di confronto attorno a ciò che i diversi soggetti<br />

coinvolti nel progetto pensano dei giovani: solo avendo ben chiaro da quale<br />

presupposto si parte, si riesce a definire dove e come arrivare in termini di risultati<br />

possibili.<br />

Oggi sembra essere cruciale pensare ai giovani come a una generazione di<br />

«ricercatori», di persone che si muovono, quindi, internamente a una tensione tra la<br />

ricerca e la sperimentazione, svolte attraverso l’utilizzo di molteplici linguaggi. È una<br />

ricerca che procede in un contesto caratterizzato da mancanza, contraddizioni, fatica,<br />

ma anche da possibilità e competenza. Questa prospettiva di pensiero ci permette di<br />

credere che oltre le difficoltà vissute dai giovani, è possibile e vale la pena lavorare<br />

interagendo con loro. Per fare questo è necessario attivare ampi spazi di ascolto e di<br />

confronto: incontrare i loro punti di vista, le loro rappresentazioni della realtà, quelli<br />

che loro definiscono problemi, quelle che sono le risorse da loro riconosciute.<br />

Fare prevenzione significa, quindi, attivare un lavoro che in prima istanza è orientato<br />

a costruire le condizioni affinché sia possibile partecipare ed essere rappresentati nei<br />

luoghi della progettazione, essere riconosciuti come competenti nei contenuti della<br />

progettazione e della lettura dei contesti e dei problemi. Una competenza che poi<br />

deve essere accompagnata fuori dalla dimensione individuale, dall’occuparsi di ciò<br />

che è specificatamente personale, per incontrare gli altri e aprirsi alla realtà esterna, al<br />

territorio, alla città più allargata, per creare piccole e grandi azioni collettive, capaci<br />

di idee e significati riconoscibili e condivisi, capaci di acquisire potere<br />

nell’interazione con gli altri interlocutori istituzionali.<br />

Solo a queste condizioni si può attivare un percorso attraverso il quale definire che<br />

cosa realmente interviene per migliorare la qualità della vita e dei rapporti nei<br />

differenti contesti territoriali; attivando percorsi di operatività possibili, condivisi e<br />

significativi per quel dato contesto; altre procedure non partecipative rischiano di<br />

sancire una forte distanza tra chi progetta, chi attua e chi è destinatario, ponendo le<br />

basi per dei risultati di scarso rilievo.<br />

47


La progettazione degli interventi preventivi<br />

Come prima fase del lavoro di ricerca e formazione si è cercato di identificare le<br />

caratteristiche, rintracciate dai partecipanti, della progettazione degli interventi nei<br />

quali loro stessi erano direttamente coinvolti: a questo proposito è parsa evidente una<br />

fondamentale connotazione, la «separazione» che intercorre a diversi livelli tra: chi<br />

progetta e chi esegue; chi progetta e i destinatari; il pensiero, l’ideazione e l’azione.<br />

Tutto ciò porta con sé, come conseguenza, una bassissima identificazione nei progetti<br />

da parte sia degli operatori sia dei destinatari, indebolendo notevolmente gli<br />

interventi preventivi.<br />

Questa caratteristica è strettamente legata al pensare alla progettazione come a<br />

un’attività lavorativa dotata di «assolutizzazione», cioè di un’attività nella quale il<br />

progettista può dire con sicurezza qual è il problema, quali obiettivi, quali strategie<br />

mettere in atto. È il modello progettuale della razionalità assoluta, sequenziale e<br />

rigido, caratterizzato da:<br />

− una separazione forte tra le parti del lavoro (ricerca, progettazione, azione e<br />

valutazione);<br />

− una separazione forte tra chi progetta, chi attua e chi è destinatario;<br />

− un’idea di contesto chiuso, separato dal resto dell’ambiente, non passibile di<br />

interferenze, imprevisti e modificazioni; un unico ed esatto modo di fare le cose.<br />

È comprensibile quanto questo modello progettuale molto utilizzato sia assai debole<br />

se applicato nei contesti del lavoro sociale, fortemente caratterizzato da continue<br />

modificazioni, da incertezza e frammentarietà, dalla necessità di coinvolgimento e<br />

identificazione dei soggetti nei progetti; un modello possibile solo in contesti in cui<br />

sia necessaria una alta ripetitività delle procedure per l’esigenza di rendere perfetti e<br />

sempre uguali alcuni agiti tecnico-specialistici.<br />

In questa direzione è emerso come alcune realtà si siano organizzate per avvicinare<br />

l’attività progettuale alle caratteristiche del contesto sociale, per assumerne la<br />

complessità e l’articolazione.<br />

Da qui sono emersi due modelli di progettazione.<br />

Un primo modello definibile «della razionalità limitata» o del «problem solving» ha<br />

assunto la complessità muovendosi nel tentativo di semplificarla, procedendo in una<br />

attività di frammentazione del problema in tanti piccoli sotto-obiettivi tra loro in<br />

sequenza. È una metodologia che riduce la complessità ma senza affrontarla: separare<br />

i problemi disarticolandoli non permette di trovare letture e soluzioni capaci di<br />

cogliere il significato complessivo che certi eventi hanno per l’interezza delle persone<br />

e dei contesti. Si ha solamente l’idea di lavorare nella complessità, ma ne affrontiamo<br />

solo alcune sue parti, operando poi un comportamento che si ritiene scorretto di non<br />

attenzione alla dimensione complessiva dei fenomeni, delle storie, delle persone.<br />

Il secondo modello progettuale attorno al quale si è ragionato fa riferimento a una<br />

dimensione dialogica, di costruzione comune: il contesto non è separabile dalle<br />

modificazioni e dalle interconnessioni con l’esterno ed è descrivibile solo attraverso<br />

un lavoro di continua costruzione tra i soggetti, singoli o organizzati, che «abitano»<br />

quel territorio.<br />

48


Il problema, gli obiettivi, le strategie di lavoro, gli elementi connessi alla valutazione,<br />

non vengono decisi dal solo progettista, ma sono il frutto di una costruzione comune.<br />

Solo in questo modo è possibile ottenere una maggiore identificazione dei soggetti e<br />

la definizione attenta e realistica dei problemi e delle strade risolutive. La dimensione<br />

partecipativa permette di individuare realisticamente le modificazioni capaci di<br />

migliorare significativamente la vita dei soggetti che vivono il territorio.<br />

Gli operatori esercitano una loro competenza che è orientata alla dimensione tecnicometodologica,<br />

mentre gli altri soggetti interagiscono esercitando una competenza sui<br />

contenuti e sulle strategie.<br />

In questa direzione il gruppo ha poi lavorato tentando di identificare una serie di<br />

indicatori attraverso cui distinguere la «qualità» degli interventi di prevenzione;<br />

questi in sintesi sono:<br />

− la capacità di attivare domande tra i soggetti;<br />

− l’attivazione e la tutela di spazi di negoziazione e contrattazione tra i diversi attori<br />

coinvolti nelle attività;<br />

− l’attenzione a favorire spazi di visibilità, attorno ai dati, alle domande, alle<br />

caratteristiche, ecc.;<br />

− la capacità di immaginare e vedere più soluzioni possibili;<br />

− l’apertura dei progetti con spazi attenti ad accogliere l’imprevisto;<br />

− il lavorare affinché l’organizzazione nella quale si opera modifichi la sua struttura<br />

in relazione ai soggetti e ai problemi che incontra;<br />

− il far interagire pensiero e azione;<br />

− l’attenzione ai processi attivati e attivabili e non solo ai risultati.<br />

Dopo la discussione attorno alle questioni sopra riportate, il gruppo ha sostenuto, in<br />

totale accordo, la necessità e l’attuale importanza di acquisire competenze nella<br />

progettazione di tipo partecipativo o dialogico, apparse come le uniche in grado di<br />

abilitare alla gestione della complessità del contesto e di favorire la crescita delle<br />

persone e l’identificazione delle stesse negli interventi.<br />

La valutazione degli interventi preventivi<br />

Il tema della valutazione degli interventi è un tema di fondamentale importanza,<br />

riportato dagli operatori come indispensabile all’interno di ogni percorso di<br />

formazione simile al nostro. C’è una questione problematica alla base di tutta questa<br />

enfasi, ed è l’estrema genericità delle richieste dei formandi in ordine a tale parte del<br />

lavoro. Da ciò emerge che attorno alla valutazione, non solo si riscontra una bassa<br />

attenzione operativa, ma si evidenzia come questa sia accompagnata e forse originata<br />

da uno scarso investimento in termini di pensiero: sulla progettazione si fa un gran<br />

parlare, ma in effetti si riflette pochissimo.<br />

Quello che si è cercato di avviare, in queste due giornate di lavoro, è proprio uno<br />

spazio nel quale riflettere sul valutare, rintracciando le domande e i nodi che<br />

caratterizzano l’esperienza lavorativa quotidiana, oltre che individuare alcuni<br />

elementi distintivi di base della valutazione.<br />

49


In primo luogo il gruppo di lavoro ha evidenziato come la valutazione non può essere<br />

scollegata dalla progettazione, ma come la prima sia intrecciata alla seconda e da essa<br />

resa significativa: il modello di progettazione individuato e agito definisce il modello,<br />

gli strumenti e gli indicatori della valutazione. Non è pensabile utilizzare, ad esempio,<br />

un approccio alla progettazione di tipo direttivo e poi pensare di valutare il lavoro<br />

ricercando i parametri della partecipazione; tutto ciò è un sogno, è realisticamente<br />

impossibile. Se si utilizza un approccio dialogico, allora anche la valutazione potrà<br />

cercare di rendere evidenti questioni che hanno a che fare con la partecipazione in<br />

relazione alle sue differenti forme, strategie, contenuti e livelli.<br />

Come secondo contenuto si è affermato quanto la valutazione debba essere<br />

considerata come occasione di apprendimento dall’esperienza; la valutazione è uno<br />

strumento che deve permettere agli attori coinvolti nell’intervento di imparare dagli<br />

eventi trascorsi e attivati per muoversi nel contesto e partire da nuove<br />

consapevolezze. Valutare per apprendere, per imparare dalle cose fatte, dai vissuti<br />

provati e scambiati, permette di superare, da un lato, l’ansia e il timore spesso<br />

presenti attorno alla valutazione, legati alla rappresentazione del dover verificare se si<br />

è «fatto bene», se il progetto ha funzionato; dall’altro lato permette di pensare alla<br />

quotidianità, al proprio lavoro, alle relazioni come strumenti di conoscenza, che ci<br />

aiutano a crescere e a capire, in relazione agli obiettivi pensati, dove si è arrivati e<br />

come muoversi per avvicinarsi maggiormente a essi.<br />

Il problema non è quindi se si è raggiunto o meno l’obiettivo, ma cosa fare, rispetto a<br />

dove si è arrivati, per avvicinarsi maggiormente. Questo è ulteriormente avvalorato<br />

partendo dal presupposto che tra il pensiero e l’azione si riscontrano sempre delle<br />

differenze; la valutazione non deve «sanzionare» il non raggiungimento degli<br />

obiettivi (questo nella realtà non è possibile per il motivo detto prima), ma di dirci<br />

dove siamo e come possiamo muoverci per avvicinarci al risultato ipotizzato.<br />

Come terza questione si è tentato di comprendere come trattare l’oggetto<br />

dell’apprendimento valutativo. È emerso che esso non può essere<br />

«decontestualizzato», ma va riferito a una specifica realtà e avere un’utilità per le<br />

esperienze e le persone che in essa sono coinvolte.<br />

Diviene allora fondamentale definire con modalità dialogica anche gli oggetti della<br />

valutazione, ciò che dovrà essere elemento di apprendimento. A tal fine, è possibile<br />

identificare alcune «variabili-guida«, attraverso le quali operare la identificazione<br />

degli oggetti della valutazione:<br />

− i clienti;<br />

− la filosofia di intervento del servizio;<br />

− gli spazi di valutazione;<br />

− i luoghi di valutazione;<br />

− la struttura organizzativa del servizio.<br />

Non va dimenticato inoltre che, come in fase di progettazione, anche nella<br />

valutazione è fondamentale salvaguardare la dimensione contrattuale, ovvero la<br />

possibilità di negoziazione tra gli attori dell’intervento: la valutazione sarà così il<br />

frutto di una negoziazione tra diversi interlocutori, che porteranno descrizioni<br />

differenti della realtà e della situazione del lavoro in fase di attuazione.<br />

50


LA PREVENZIONE: DALL’ANSIA DEL DOVER TENTARE<br />

COMUNQUE QUALCOSA ALL’INCONTRO I UNA <strong>DI</strong>MENSIONE<br />

SIMBOLICA di Michele Gagliardo<br />

L’evento preventivo diviene spesso espressione delle inquietudini degli adulti circa i<br />

rischi che possono essere vissuti dai giovani, una preoccupazione che non si apre a<br />

una ricerca di senso, ma che si fonda su punti di vista già definiti e ben radicati, precostituiti,<br />

frutto di un pensiero che assume valenze giudicanti. In questo contesto,<br />

tutto è già conosciuto come parte di un quadro statico e immutabile, rispondente a<br />

esigenze di controllo e di conservazione dei sistemi di cambiamento e di relazione<br />

sociale. Ecco allora che, nella concretizzazione di tali pensieri, si progettano alcune<br />

tipologie di interventi preventivi: incontri esclusivamente a carattere informativo, nei<br />

quali il benessere è dato dalla conoscenza e dal possesso di informazioni e la<br />

relazione è connotata dal trasferimento delle stesse, percorsi che tematizzano varie<br />

espressioni di malessere, quali le dipendenze, il bullismo o altro, proposte destinate a<br />

gruppi o classi che vengono descritte dagli adulti come ‘particolari’ o ‘difficili’.<br />

Sono progetti che si immaginano riproponibili in differenti contesti, perché frutto<br />

della descrizione di una realtà che si pensa oggettiva e, come tali, esportabili in<br />

situazioni diverse. Spesso vengono dati in gestione a un esperto o a un leader<br />

carismatico; a figure di questo tipo vengono sovente affidate le speranze di<br />

risoluzione della situazione o del problema, in una rappresentazione quasi ‘magica’<br />

della prevenzione. La relazione che si costruisce, in contesti preventivi come quelli<br />

appena citati, è una , come la definisce C. Bucciarelli,<br />

insostenibile in quanto presenta l’adulto nel ruolo di personaggio e non di persona, di<br />

‘testimone privilegiato’, che ripropone esperienze, contenuti e interpretazioni valide<br />

per lui ma, proprio per questo, non riconducibili e accettabili dalla soggettività di<br />

ciascun giovane che incontra. L’adulto che diviene personaggio rende visibile un sé<br />

frutto di una costruzione innaturale, artificiale, non si presenta per ciò che è nella<br />

realtà, ma per come vuole essere o per come dovrebbe essere. Sempre C. Bucciarelli,<br />

approfondendo la sua riflessione, sostiene che : tutto è stabilito, in modo tecnico e razionale, attraverso percorsi<br />

definiti, strutture già organizzate, alle quali non resta che adattarsi o identificarsi.<br />

La quotidianità si svuota del suo valore creativo, per assumere la connotazione di<br />

luogo della riproduzione, dell’assimilazione e dell’omologazione, di spazio nel quale<br />

le persone non si ritrovano, ma si perdono, perché private dell’esperienza<br />

fondamentale del partecipare in maniera attiva e creativa al progetto del proprio<br />

futuro.<br />

51


Albert Einstein sosteneva che . Un’indicazione geniale che permette di<br />

dare corpo all’idea di un incontro intergenerazionale che abbia la possibilità di<br />

realizzarsi prima di tutto sul piano della dimensione rappresentativa e simbolica, in<br />

un contesto in cui sperimentare la potenza generatrice del pensiero creativo, della<br />

fantasia, dell’immaginazione. Assumendo tale prospettiva, l’azione dell’interpretare<br />

lascia spazio al gesto creativo del ricercare per portare alla luce, far emergere<br />

significati, fatiche e visioni soggettive che, in una situazione dialogica, permettono di<br />

costruire proiezioni complesse del rapporto che ciascuno ha con la realtà per lui<br />

significativa e significante. Nulla è già determinato, anche se gli eventi sembrano<br />

riproporsi con strutture e organizzazioni conosciute. Si possono rintracciare, in ogni<br />

situazione, dimensioni nuove, a tutti inesplorate.<br />

E’ l’azione del ricercare, e in particolare del ricercare in luoghi e attorno a oggetti<br />

inesplorati, che favorisce l’incontro tra persone accomunate dalla passione, dalla<br />

competenza relativa a una situazione che le lega nella vita. Proprio perché in<br />

relazione alle attuali culture giovanili è difficile pensare di poter possedere chiavi di<br />

lettura e interventi definitori, la cosa che pare essere più saggia da fare è dialogare<br />

con esse; lasciare da parte l’impazienza di passare subito all’azione, del fare perché<br />

, ritrovandosi poi attraversati da vissuti<br />

di impotenza, incompetenza o insoddisfazione. Può essere utile concentrare<br />

l’attenzione sui processi di costruzione del modo in cui ci si rappresenta un<br />

avvenimento, per delineare nuove e possibili visioni degli eventi sociali.<br />

La non conoscenza, o meglio, il desiderio di comprendere e la consapevolezza che il<br />

progresso della conoscenza è il risultato di una concatenazione di eventi creativi<br />

relazionali, divengono coordinate fondamentali per muoversi in contesti preventivi.<br />

L’attenzione si sposta, quindi, dai risultati, dai semplici contenuti, dalla<br />

preoccupazione del raggiungimento dell’obiettivo a un continuo lavoro di<br />

elaborazione attorno ai processi attivati, ai significati scambiati, alla progettualità<br />

generata all’interno dell’agire esplorativo.<br />

MOLTIPLICARE E’ MEGLIO CHE CURARE: PROMUOVERE<br />

OPPORTUNITA’ IN UNA SCUOLA CHE CAMBIA di Guido Tallone<br />

Riflettere sul significato dell’educare scolastico è essenziale per una scuola che, pur<br />

costituendo un obbligo nella vita formativa dei ragazzi, possa rappresentare ed essere<br />

effettivamente per loro una sostanziale risposta al personale diritto<br />

all’apprendimento, alla formazione ed all’esercizio di cittadinanza.<br />

La scuola è chiamata ad accompagnare i ragazzi in un processo di crescita,<br />

attraverso la costruzione di percorsi che, intrecciando la dimensione formativo-<br />

52


educativa con quella propria dell’istruzione e dell’acquisizione degli alfabeti<br />

disciplinari, siano capaci di:<br />

_ favorire la formazione di persone capaci di “cittadinanza adulta, responsabile e<br />

solidale”: la scuola è innanzitutto luogo di socializzazione degli alunni e di<br />

esercizio di cittadinanza, attraverso un consolidamento dell’autonomia e della<br />

capacità di gestire i propri spazi ed i propri tempi ed una riflessione ed esercizio<br />

delle possibilità di azione condivise;<br />

- facilitare l’apprendimento delle discipline, riviste e ripensate attraverso una<br />

riflessione approfondita sui saperi che permetta di acquisire le competenze<br />

necessarie per muoversi agilmente nella realtà circostante in costante<br />

trasformazione con adeguate capacità di lettura e senso di responsabilità;<br />

_ favorire la costituzione di un contesto relazionale ed educativo per costruire<br />

insieme strategie coordinate e condivise all’interno di precise alleanze: l’opera<br />

educativa della scuola non si definisce nella sola trasmissione di valori, saperi,<br />

strumenti, ma si sostanzia nella testimonianza, come stile di comportamento che<br />

ogni persona che si relaziona agli alunni assume e che rende fortemente<br />

significativo il percorso istruttivo-educativo.<br />

1. OLTRE LA SOLA “PREVENZIONE”: RECUPERARE LA CENTRALITA’<br />

EDUCATIVA PER “PROMUOVERE” CULTURA E CAMBIAMENTO<br />

− Cosa indica l’eccessiva enfasi sulla “prevenzione<br />

Oggi l’eccessiva enfasi sulla “prevenzione” è “parola” che denuncia la scarsa<br />

attenzione per più efficaci investimenti educativi. Tale enfasi può tradire infatti<br />

l’indifferenza, il timore, a volte la paura od il giudizio di condanna che caratterizzano<br />

spesso alcuni inconsapevoli modi di avvicinarsi e confrontarsi con chi – con i suoi<br />

comportamenti – sfida le nostre convinzioni e certezze.<br />

Non si tratta - con questo - di screditare le pratiche di “prevenzione” tout-court, né<br />

tantomeno di sminuire l’importanza di tanti percorsi educativi e preventivi attuati in<br />

questi anni a partire dall’attenzione ad intervenire “a monte” rispetto al costituirsi e<br />

cronicizzarsi di tante forme di disagio. Sicuramente il grosso guadagno sociale che la<br />

cultura della prevenzione ha in modo molto forte affermato e reso tensione comune è<br />

proprio questo.<br />

Non possiamo tuttavia esimerci dal sottolineare la fragilità delle pratiche di<br />

prevenzione allorquando questa è stata identificata – da una parte – come intervento<br />

semplicemente informativo al riparo da posizioni educative chiare, o - dall’altra –<br />

come presenza occasionale a partire da approcci allarmistici e saltuari.<br />

Perché è questo il nodo: spostare le pratiche di prevenzione dall’emergenza che le<br />

costringe in percorsi provvisori, precari ed estemporanei ai processi che costituiscono<br />

l’accompagnamento educativo e l’agire quotidiano in cui la scuola è solitamente<br />

impegnata. Significa inserire il “fare prevenzione” all’interno delle normali azioni<br />

53


scolastiche e non “oltre”, in una zona franca ed incomunicante; vuol dire che il tema<br />

prevenzione deve diventare parte integrante di un più vasto piano educativo<br />

scolastico capace di promuovere le competenze che già esistono.<br />

Solo così è possibile superare il carattere essenzialmente “sanitario” di un fare<br />

prevenzione che rischia – a volte - di ridurre i nostri interventi ad un semplicistico e<br />

spesso poco utile “informare”.<br />

− Recuperiamo la centralità dell’educare<br />

in un’ottica promozionale<br />

Si tratta cioè di considerare prima e fondamentale tappa del vero prevenire la<br />

restituzione della centralità culturale e sociale all’”educare”, riconoscendo e<br />

restituendo ai diversi protagonisti delle relazioni scolastiche quelle competenze<br />

formative di cui sono i primi depositari.<br />

Riconoscere e recuperare la dimensione educativa del prevenire significa inoltre<br />

lavorare sempre più in un’ottica promozionale, facilitando cioè cambiamento,<br />

crescita, apertura a sempre nuove possibilità, apprendimento, trasformazione.<br />

Non si può non cambiare. E’ questo uno dei presupposti di ogni educare, di ogni<br />

insegnare-apprendere, di ogni crescita e sviluppo, anche in contesto scolastico.<br />

Nessuna staticità è concessa al vivere perchè ciò che si ferma non vive più. Crescere<br />

significa quindi innanzitutto sottrarsi ad ogni illusione di staticità e scegliere di<br />

diventare protagonisti e “registi” del proprio cambiamento, accompagnando ciò che si<br />

trasforma con l’intelligenza di chi sa riposizionarsi in termini dinamici.<br />

Fare “vera prevenzione” - nella scuola - significa anche e soprattutto questo:<br />

“promuovere” (mettere in movimento) le capacità riflessive, critiche e creative di<br />

ognuno perché tutti possano essere protagonisti del cambiamento proprio e della<br />

comunità, del gruppo, della classe, del quartiere o della città di cui sono parte.<br />

− Promozione e partecipazione<br />

La partecipazione al vissuto comune ed alla vita della comunità ne sono il<br />

corollario: la “promozione” è sempre polifonica, frutto di più voci. Solo nel contatto<br />

con la realtà fuori di noi, nel riconoscimento reciproco e nella comune partecipazione<br />

alla costruzione di realtà condivise si costituisce quell’intreccio di esperienze e di<br />

relazioni che dà forma alla crescita ed alla trasformazione di ognuno. L’uomo non si<br />

auto-produce, ma cresce nel condividere con altri la fatica del costruire.<br />

E’ sempre più viva oggi la necessità di compiere – anche nella scuola - scelte<br />

educative e culturali a favore di ampi piani promozionali che vedano quanti più<br />

soggetti del territorio in cui la scuola è inserita impegnati in azioni condivise tese alla<br />

costituzione e tutela dei beni comuni, alla promozione della giustizia sociale, delle<br />

libertà chiamate a convivere e della tutela dell’ambiente, all’interno di percorsi di<br />

partecipazione.<br />

Sono soprattutto coordinamento, partecipazione, sforzo comune per individuare<br />

strategie condivise, progettazioni volte a costruire il futuro ciò che riconosce alle<br />

persone – allievi compresi - un ruolo vitale e da protagonisti e che restituisce loro<br />

quello spazio “politico” che appartiene ad ogni cittadino, adulto o in formazione.<br />

54


Si tratta quindi, innanzitutto, di promuovere protagonismo all’interno della scuola,<br />

dal momento che è in essa che l’allievo può sperimentare se stesso ed incontrare la<br />

propria capacità di rapportarsi attivamente con le diverse forme di organizzazione<br />

sociale e civile.<br />

Se l’obiettivo di ogni progetto educativo verso bambini e ragazzi è promuovere la<br />

loro cittadinanza attraverso il diritto-dovere alla socializzazione, è necessario mettere<br />

loro a disposizione alcune opportunità fondamentali che costituiscono le condizioni<br />

necessarie per rendere possibile questo processo. La mancanza di queste opportunità<br />

rappresenta, di conseguenza, una negazione del diritto del bambino e dell’adolescente<br />

non solo a crescere, ma anche a diventare cittadino.<br />

La scuola è chiamata a sentirsi responsabile nel creare queste condizioni.<br />

2. OLTRE LA SEPARAZIONE “AGIO-<strong>DI</strong>SAGIO”: “ACCOMPAGNARE” CHI<br />

CRESCE RICONOSCENDONE I BISOGNI COME PRECISI <strong>DI</strong>RITTI<br />

Recuperare la centralità educativa nei percorsi preventivi ci pungola inoltre a non<br />

intendere più i nostri interventi come un rispondere e reagire rispetto a dei problemi<br />

ma a riconoscere al periodo della crescita, con le sue possibili tortuosità, una priorità<br />

legata ai diritti.<br />

− Ripensiamo il senso di “agio” e “disagio”<br />

Ciò significa, innanzitutto, promuovere l’agio (occupandosene) e non solo<br />

preoccuparsi del disagio. E' necessario iniziare a pensare l’“agio” ed il “disagio” non<br />

tanto come diritto di alcuni il primo (l’agio) e condizione (superabile) di altri il<br />

secondo (il disagio), rischiando così di inavvertitamente ed ulteriormente<br />

approfondire separazioni e pregiudizi.<br />

“Disagio” – secondo gli esperti del linguaggio – significa “lontananza”.<br />

Lontananza da Sé, dai propri desideri più profondi, lontananza dalle persone con cui<br />

si sono costruite relazioni significative, lontananza da condizioni di vita buona,<br />

lontananza rispetto ad un orizzonte di senso in cui sia possibile riconoscersi ed essere<br />

riconosciuti.<br />

Lontananza-vicinanza, disagio-agio, malessere-benessere, malattia-salute sono le<br />

polarità estreme di una serie di dimensioni rispetto alle quali, in differenti momenti<br />

della vita, ogni persona si colloca, in posizioni sempre differenti. Non è possibile<br />

ritenere appannaggio di alcuni l’agio, il benessere, la salute, l’educazione e di altri il<br />

disagio, il malessere, la malattia e la cura.<br />

Riconoscere l’unitarietà della persona significa rompere con linguaggi e schemi<br />

interpretativi che, più o meno indirettamente, tendono a scindere in due il nostro<br />

essere persone unitarie, quali che siano le “luci” e le “ombre” di ognuno. “Disagio” e<br />

“agio” sono i due poli fra i quali si muove il percorso di vita di tutti. E’ compito di<br />

ognuno, ma è dovere anche della scuola, costruire le condizioni perché – da una parte<br />

– l’agio e la salute diventino sempre più situazione esistenziale di un sempre maggior<br />

numero di persone e – dall’altra – il disagio e la malattia siano, per tutti, momento di<br />

55


passaggio, condizioni particolari di specifici momenti di crisi e di cambiamento,<br />

risorse anche per il proprio benessere, mai destinate a cristallizzarsi in modo<br />

irrimediabile e stabilizzato.<br />

− Costruire “vicinanza” sempre, anche nel cambiamento<br />

Riscoprire la bellezza di percorsi che costruiscano “vicinanza” – anche nel<br />

“disagio” - significa essere “presenti accanto” all’”altro” perché non si senta solo nel<br />

“normale” momento del cambiamento, nel superare ostacoli e nella fatica<br />

dell’affrontare le “trasformazioni” del vivere.<br />

Si tratta quindi – anche nel contesto scolastico - di imparare a rileggere e pensare i<br />

bisogni dei bambini e dei ragazzi come loro precisi diritti che, più vengono non<br />

riconosciuti e negati, più viene aumentato il loro malessere.<br />

Solo a partire da una comune riflessione su quanto genera malessere è possibile<br />

costruire le premesse perché si superino le difficoltà e perché sempre di più sia<br />

accessibile per tutti una qualità della vita migliore perchè più a misura d’uomo. Si<br />

rischia spesso di lavorare “per” bambini, ragazzi e giovani e raramente ci si confronta<br />

per lavorare “con” persone portatori del diritto di cittadinanza da promuovere e da<br />

dilatare a prescindere dall’età.<br />

− Riconoscere ed “accompagnare” il diritto di crescita<br />

Rileggere i bisogni di crescita come precisi diritti vuol dire non solo riconoscere i<br />

bambini ed i ragazzi come destinatari di attenzioni ma anche come capaci di quel<br />

protagonismo che chiede ascolto e rispetto.<br />

E’ questo itinerario la prima (e più vera) educazione ai doveri, ed è questa prassi<br />

ciò che sa fermare le logiche del favore o del privilegio barattate in cambio del<br />

consenso e del controllo.<br />

Ricostruire il protagonismo dei piccoli e dei giovani significa inoltre differenziare<br />

le proposte offerte loro e moltiplicarne le opportunità di sperimentare sé stessi,<br />

accompagnandoli ad orientarsi in un orizzonte che spesso li disorienta e li spaventa.<br />

L’eccessiva insistenza sulla prevenzione, intesa come momento solo informativo o<br />

come istanza eccessivamente repressiva, fa correre il rischio - da una parte - di<br />

risultare assolutamente inefficaci rispetto al forte bisogno di accompagnamento<br />

affettivo che proviene sotto svariate forme dalle giovani generazioni; dall’altra parte<br />

il risultato reale è quello di risultare addirittura assenti e negativi nel momento in cui,<br />

spinti dalla paura, si interviene esclusivamente per condannare, punire e rifiutare.<br />

− Non “controllare”, non “portare” ma “accompagnare”<br />

L’educazione – anche in contesto scolastico - ha oggi invece il difficile ma<br />

affascinante compito di sostenere chi cresce nel compito di ricondurre una forte<br />

molteplicità e frantumazione di comportamenti, parole e discorsi ad una narrazione<br />

capace di riconsegnare alla persona il senso della sua storia.<br />

Educare non può consistere dunque in funzioni di controllo, nè nell’indirizzare<br />

verso approdi necessariamente certi e sicuri ma significa “accompagnare” ogni<br />

persona, al di là di ogni molteplicità e rischio di frammentazione, in quel percorso per<br />

56


cui diventa “protagonista” rispetto a sé, al proprio processo di apprendimento e<br />

crescita ed al proprio contesto di vita.<br />

Un “accompagnare” ben diverso da ogni intervento volto a trasmettere verità a chi<br />

ancora non le possiede e teso a “guidare” l’altro, ad impedirgli di fare degli errori, o<br />

semplicemente a proteggerlo nel fare esperienza o nell’affrontare situazioni troppo<br />

rischiose o faticose. Ciò che non può andare dimenticato è quanto la fatica e l’errore<br />

siano l’inevitabile ma irrobustente chiave d’accesso all’esperienza condivisa da tutti.<br />

Sostituirsi all’altro, cercare di evitargli disorientamenti, incertezze, inquietudini,<br />

fatiche ed errori rischia di essere un potente boomerang che quanto più allontana<br />

rischi e difficoltà, tanto più ritorna indietro con violenza come privazione di<br />

esperienze e di opportunità di crescita, formazione e rafforzamento.<br />

Il confine che separa l’“accompagnare” dal “portare” non è dato da un semplice<br />

comportamento o da una tecnica alternativa all’altra. E’ distinzione più profonda che<br />

coinvolge tutte le libertà in gioco, le disponibilità a stare nella relazione senza usare<br />

l’altro ed il coraggio di una vigilanza schietta e trasparente con se stessi.<br />

Proviamo a farci illuminare da una semplice sinossi che metta a confronto i diversi<br />

e possibili orientamenti. Come tutti gli schemi può semplificare e perdere di<br />

profondità; allo stesso tempo però può rendere più chiaro un concetto e facilitare<br />

autoanalisi e riflessioni personali.<br />

PORTARE<br />

Avventura solitaria<br />

di un io onnipotente<br />

che, in una sfida quasi personale<br />

con gli altri,<br />

cerca di “salvarli” e di<br />

“cambiarli”<br />

L’altro non è riconosciuto come<br />

una persona libera<br />

ed autonoma,<br />

ma ci si sostituisce<br />

alla sua libertà,<br />

negandone il bisogno di crescita<br />

L’altro è “malato”<br />

e se ne vedono/sottolineano<br />

gli aspetti carenti, disagiati,<br />

su cui si cerca di “incidere” per<br />

asportarli<br />

ACCOMPAGNARE<br />

Tensione corale e politica<br />

di alleanze educative<br />

che cercano di offrire possibilità<br />

ed opportunità di crescita<br />

a chi liberamente le accoglie<br />

L’altro<br />

è rispettato nella sua libertà<br />

(anche se limitata),<br />

nel suo bisogno/diritto<br />

di essere e/o diventare<br />

adulto responsabile<br />

Si cercano e si riconoscono<br />

nell’altro –<br />

le parti “sane”<br />

e si dialoga, “ci si allea” con<br />

queste<br />

Si cerca di “afferrare” l’altro,<br />

57


di “agganciarlo”<br />

(confondendosi, con<br />

l’inganno,…) per “portarlo via”,<br />

“estirpargli il male”, “salvarlo”<br />

Rispetto alla domanda<br />

si risponde<br />

(in modo negativo o affermativo),<br />

sostituendosi così all’altro<br />

Chi “porta”<br />

(colui che cura)<br />

decide meta ed obiettivi del<br />

viaggio, “sa cosa è bene”<br />

per sé e per gli altri<br />

“Chi porta”<br />

è competente nel risolvere<br />

problemi<br />

ed si sostituisce agli altri<br />

(paternalisticamente),<br />

che restano così in qualche modo<br />

dipendenti da lui<br />

L’ottica è direttiva-manipolativa:<br />

si intuiscono gli obiettivi,<br />

si propongono/impongono<br />

e se ne verifica il raggiungimento<br />

L’errore non è ammesso:<br />

è un grave incidente<br />

che può rovinare del tutto<br />

la realizzazione – prosecuzione<br />

del percorso<br />

Il metodo prevale sul singolo<br />

e si chiede all’individuo<br />

di rientrare nel modello proposto,<br />

nel progetto (pensato a priori).<br />

Si condivide un cammino,<br />

si è presenti<br />

per accompagnare l’altro,<br />

con quella disponibilità al dialogo<br />

capace di farne nascere<br />

il protagonismo<br />

Rispetto alla domanda<br />

“si sta nella domanda”,<br />

la si accoglie<br />

senza necessariamente esaudirla,<br />

cercando di leggerne il senso<br />

Chi “accompagna”<br />

(colui che sa prendersi cura)<br />

concorda la meta del tragitto<br />

con l’altro,<br />

nella prospettiva che il primo<br />

obiettivo è lo stesso<br />

accompagnare,<br />

la costruzione della relazione<br />

“Chi accompagna”<br />

è competente nel costruire<br />

relazioni, nell’essere presente<br />

accanto all’altro per promuoverne<br />

l’autonomia<br />

ed il protagonismo<br />

L’ottica è relazionale-dialogica:<br />

gli elementi fondamentali<br />

sono l’ascolto e l’attenzione<br />

alla qualità della relazione<br />

L’eventuale “errore”<br />

è parte costitutiva del percorso,<br />

momento necessario<br />

per migliorare le proprie scelte,<br />

la propria consapevolezza della<br />

realtà<br />

58


Rigidità<br />

(rassicurante)<br />

Tendenza al controllo<br />

Personale e sociale<br />

Ogni “caso” è una storia a sé,<br />

un itinerario nuovo<br />

rispetto a cui ripensare i progetti,<br />

le proprie ipotesi e se stessi.<br />

Elasticità e flessibilità<br />

(apertura all’esperienza)<br />

Apertura al cambiamento<br />

proprio e della propria realtà<br />

Questo schema ci aiuta anche a comprendere meglio quanto all’interno della<br />

progettazione educativa scolastica – dal momento che l’obiettivo finale consiste nel<br />

potenziare la capacità di far fronte ai problemi propria degli allievi - non sia<br />

accettabile interpretare ruoli autoritari.<br />

La competenza dell’insegnante consiste nel sapere adeguatamente distinguere fra<br />

“accompagnare / facilitare” e “dirigere / imporre”, per sapersi posizionare non tanto<br />

nella posizione autoritaria di chi dirige quanto nella posizione autorevole di chi<br />

“accompagna e facilita”.<br />

Il massimo dell’efficacia educativa è infatti possibile a patto di esercitare con<br />

competenza il ruolo di facilitare ed accompagnare l’attivazione delle capacità<br />

dell’allievo o del gruppo-classe. Quanto più gli insegnanti sanno porsi<br />

nell’atteggiamento di chi “accompagna” e “facilita” il cambiamento, senza interventi<br />

direttivi, tanto più è probabile che i cambiamenti attivati siano sostanziali e duraturi.<br />

3. OLTRE LA LOGICA DEL “NAVIGATORE SOLITARIO”: PROGETTARE<br />

ALL’INTERNO <strong>DI</strong> ALLEANZE PER EDUCARSI AD ABITARE IL<br />

TERRITORIO<br />

Riconoscere e sostenere – anche nel contesto scolastico - la dimensione educativa<br />

del prevenire sta ad indicare la necessità che ogni soggetto (insegnanti, allievi,<br />

personale amministrativo, genitori, ecc...) assuma con responsabilità il proprio ruolo<br />

evitando deleghe, sia verso altre istituzioni sia all’interno delle stesse, in<br />

collaborazione con gli altri soggetti e con il protagonismo di chi è consapevole di<br />

contribuire in modo significativo alla costruzione di un contesto scolastico che faciliti<br />

il crescere di ognuno.<br />

− Attori responsabili all’interno di “alleanze educative” in cui il vissuto di<br />

ognuno sia ascoltato ed incanalato<br />

Educare e “progettare apprendimenti” dentro la complessità del contesto sociale in<br />

cui viviamo - e di cui la scuola è parte - richiede anche di progettare insieme, ossia di<br />

59


costituire tavoli di lavoro e di confronto permanenti per costruire alleanze educative<br />

concertate e condivise a monte.<br />

Impegnarsi a lavorare con altri, per non ridurre il sociale ad una sola prospettiva,<br />

abituandosi in prima persona a gestire l’incertezza che la rinuncia a punti di vista<br />

assoluti comporta, è infatti il presupposto essenziale per essere attori di una<br />

progettazione capace di moltiplicare prospettive, opportunità ed occasioni, grazie alla<br />

fantasia e alla creatività che solo una rete di alleanze permette.<br />

Il cambiamento e l’apprendimento sono sempre il frutto di un lavoro condiviso,<br />

anche quando si tratta di apprendimenti individuali.<br />

Consapevoli della realtà che la maggiore difficoltà sta nel fatto che tutti gli attori<br />

realmente coinvolti nel lavoro comune sono implicati personalmente sia da un punto<br />

di vista emotivo sia da un punto di vista cognitivo, e che ciò rende necessario<br />

prendere in considerazione, contenere ed incanalare in modo costruttivo le<br />

dimensioni personali di ognuno.<br />

Anche se il lavoro scolastico è caratterizzato – per lo più - da legami “deboli”, che<br />

permettono cioè a ciascuno di mantenere una propria identità ed autonomia di azione,<br />

ciononostante attivare percorsi di cambiamento mobilita spesso negli stessi operatori<br />

dimensioni affettive profonde, che a volte sono i primi ostacoli alla realizzazione<br />

dell’azione. Fare in modo che in ogni fase della progettazione vi sia una reale<br />

condivisione - per quanto riguarda l’individuazione dei problemi, degli obiettivi e<br />

delle azioni da mettere in atto - fa sì che sia possibile una progettazione in cui tutti i<br />

soggetti si identificano e si riconoscono.<br />

E’ questa la prima condizione perché sia la effettiva ed affettiva partecipazione<br />

delle persone coinvolte a farsi automaticamente garante del fatto che le azioni che si<br />

intraprendono siano realmente significative.<br />

− Riconoscere e promuovere il protagonismo di tutti<br />

Senza dimenticare che la progettazione è un percorso da condividere e costruire<br />

insieme, anche con gli allievi. Molte volte il momento di raccordo e di condivisione<br />

della progettazione avviene a valle, a cose fatte, ma non a monte, prima di impostare<br />

il lavoro.<br />

Riscoprire la ricchezza e la bellezza del condividere – a monte! - la fatica del<br />

progettare vuol dire restituire protagonismo ad ognuno e considerare ogni altra<br />

persona interlocutore effettivo del proprio lavorare. Solo se si attivano percorsi in<br />

cui le persone scoprano e costruiscano obiettivi condivisi è possibile immaginare<br />

soluzioni da tutti riconosciute come valide, vere e coerenti con le premesse. Il<br />

progettare insieme così formulato non è più solo “metodo”, ma anche preciso<br />

contenuto dell’intervento sociale. Ciò consente di sensibilizzare fin dall’inizio i vari<br />

soggetti coinvolti nel progetto a cogliere i bisogni realmente esistenti. Invitare i<br />

giovani a collaborare alla stesura dei progetti ed a non subirli è il presupposto che<br />

permetterà il successo dei progetti stessi.<br />

− Imparare a progettare senza rinunciare ai “grandi orizzonti”<br />

60


E’ inoltre importante abituarsi a pensare progettazioni precise, mirate e capaci di<br />

costruire micro-progetti all’interno di orizzonti ampi e trasversali.<br />

Spesso, a fronte della difficoltà che si sono incontrate in passato in progettazioni<br />

ampie, per forza di cose deboli rispetto alla coniugazione fra idealità e realtà, fragili<br />

sul piano dell'analisi, dell'elaborazione concettuale e della capacità di definire degli<br />

obiettivi, si è reagito con il rifugiarsi nei micro-progetti.<br />

La micro-progettazione, o progettazione sui singoli casi - più rassicurante - limita<br />

fortemente il campo di intervento, ponendone inoltre in grande rilievo le dimensioni<br />

tecnico - specialistiche e lasciando in modo assoluto sullo sfondo ogni riferimento a<br />

scelte progettuali più ampie. E’ quanto è capitato in parecchi percorsi di<br />

“prevenzione”.<br />

E' necessario acquisire invece la capacità di procedere secondo logiche congiuntive<br />

e non disgiuntive (per “e” e non per “o”), costruendo cerchi concentrici all'interno di<br />

una progettazione capace tanto di esplicitare l'ampio orizzonte rispetto a cui ci si<br />

intende muovere - con precise scelte anche politico-culturali - quanto di individuare<br />

specifici ambiti di intervento significativi, rispetto a cui porsi obiettivi mirati e precisi<br />

capaci di attivare effettivi e verificabili processi di cambiamento.<br />

Questo – nonostante siano venuti meno sulla scena sociale i soggetti ed i grandi<br />

movimenti collettivi che hanno in passato promosso grandi orientamenti ideali – è<br />

oggi possibile a patto che la progettazione si agganci alle nuove istanze che stanno<br />

emergendo dalla riflessione su problemi che sono avvertiti, in qualche modo, da<br />

molte persone.<br />

Anche nella scuola, a partire da una condivisione a volte anche parziale intorno ad<br />

alcuni problemi, è possibile un impegno comune che poco alla volta individui e<br />

proponga alcune linee di azione che possono venire a rappresentare, a poco a poco,<br />

agli occhi di tutti, aperture innovative significative capaci di incontrare un grande<br />

consenso. Da questo punto di vista la scuola può essere un buon laboratorio sociale<br />

per sviluppare processi generatori di nuove progettualità per ora apparentemente<br />

silenti o bloccate nella realtà sociale.<br />

− Cogliere i bisogni “reali” ed essere attenti alla “valutazione”<br />

Infine è importante analizzare con serietà e serenità le “presunte” esigenze dei<br />

destinatari del progetto. Oggi non è facile - vista la frammentazione e la complessità<br />

esistenti - ascoltare ed analizzare tanto la realtà quanto i reali bisogni delle persone.<br />

Ciò è particolarmente evidente per quanto riguarda il disagio delle giovani<br />

generazioni. Pur essendo spesso profondamente colpiti dalle esplosioni più<br />

drammatiche, siamo spesso sordi ai segnali che quotidianamente ci arrivano<br />

dall'arcipelago giovanile ed è forte la tendenza a non riconoscere od a leggere in<br />

modo errato le effettive richieste ed esigenze dei nostri ragazzi e giovani.<br />

E' invece essenziale "incontrare" effettivamente le domande ed i bisogni dei<br />

bambini e dei ragazzi favorendo la creazione o l'utilizzo di luoghi di scambio e di<br />

reale confronto.<br />

Ciò eviterebbe - fra l'altro - il frequente rischio dell'imposizione "dall'alto" di<br />

interventi - a volte anche molto interessanti - ma non congruenti con le caratteristiche<br />

61


e le esigenze presenti. Solo un ascolto ed un dialogo sofisticato ed acuto fanno sì che<br />

la progettazione non perda mai di vista il particolare contesto scolastico individuato<br />

da ben precise caratteristiche.<br />

Infine è importante accordare una grande attenzione ai momenti di valutazione e<br />

verifica (in itinere) della progettazione.<br />

Valutazione e verifica sono fondamentali - un elemento interno e necessario - in<br />

ogni percorso di progettazione, perchè permettono quella conoscenza relativa a ciò<br />

che sta succedendo che garantisce il contatto con la realtà.<br />

E’ però importante che siano condivisi e concordati insieme sia i criteri di<br />

valutazione sia i tempi ed i modi, perché già la scelta di questi elementi rappresenta<br />

ben precisi indirizzi di progettazione.<br />

− Le coordinate spazio-temporali dell’educare: “abitare il territorio”<br />

Infine riconoscere e ricostruire la dimensione “educativa” del progettare nel<br />

contesto scolastico significa ricondurre il proprio agire a ben precise coordinate<br />

spazio-temporali, tanto ricollocando la progettazione nel suo contesto territoriale di<br />

riferimento, quanto recuperando la capacità di “vivere il tempo”.<br />

Territorialità innanzitutto.<br />

“Fedeltà al contesto” significa conoscere e valorizzare il contesto in cui si vive,<br />

ascoltare le esigenze del territorio ed interagire con esso in modo flessibile. E'<br />

importante aiutare i bambini ed i ragazzi ad abitare il loro territorio. Vuol dire fare<br />

in modo che ciascuno possa vivere nello spazio fisico che riesce ad abbracciare.<br />

Educare al territorio è tensione educativa che rispetta bambini e ragazzi e che pone<br />

precisi vincoli - geografici e politici - a quanti vivono responsabilità educative.<br />

Territorialità intesa non solo come conoscenza del territorio, ma anche come<br />

progettualità legata alla valorizzazione delle risorse presenti. Intesa come comune<br />

abilitazione ad “abitare i nostri territori” con la lucidità di chi incontra l’altro non in<br />

modo astratto, ma dentro le sue coordinate rispettandone tempi e spazi. Troppi<br />

progetti impongono a giovani e meno giovani politiche dentro luoghi e tempi predefiniti.<br />

Dare al territorio la sua centralità, soprattutto in contesti educativi con<br />

bambini e ragazzi, significa fare del ragazzo – con tutti i suoi limiti di spostamento –<br />

un criterio vincolante per il nostro agire.<br />

− Le coordinate spazio-temporali dell’educare: “vivere il tempo”<br />

I percorsi della formazione e del cambiamento necessitano infine dei tempi della<br />

vita quotidiana, con le sue accellerazioni ed i suoi apparenti blocchi, le sue parvenze<br />

di insignificanza ed i suoi momenti densi di vitalità.<br />

Un progettare che si sappia far carico del significato sociale ma anche personale<br />

del proprio agire non può lasciarsi intrappolare da una logica del tempo intesa come<br />

visibilità e controllo immediato dei risultati.<br />

Per costruire una nuova realtà a partire da un autentico coinvolgimento dei<br />

partecipanti è importante innanzitutto sapere “abitare il tempo”, accogliendone i ritmi<br />

e gli apparenti vuoti, senza restare schiavi dell’infruttuoso tentativo di esserne<br />

padroni. Tutto ciò nel pieno rispetto di quel tempo che non sempre è misurabile nelle<br />

62


evi distanze, ma senza con ciò costruirsi comodi ed inattaccabili alibi per non fare o<br />

fare male.<br />

Occorre - infine - la capacità di reggere lo scarto di tempo che intercorre tra<br />

l’invio della progettualità e l’esecutività dei progetti. A tal fine la progettazione<br />

deve assumere una sempre maggiore flessibilità operativa, a partire dalla<br />

consapevolezza del fatto che il tempo significativo da considerare al fine di una<br />

giusta valutazione del percorso non è tanto il tempo esterno, pianificato e misurabile,<br />

quanto la qualità del tempo vissuto, la processualità del percorso.<br />

LEZIONE 3<br />

LA RELAZIONE EDUCATIVA di Michele Gagliardo<br />

Nella maggior parte dei progetti e degli interventi che hanno i giovani come<br />

interlocutori, la relazione occupa una posizione centrale, uno spazio determinante.<br />

L’aumento dei fattori di complessità, le difficoltà di lettura e comprensione da parte<br />

del mondo adulto, la percezione di perdita di contatto tra le generazioni hanno<br />

contribuito a individuare nella relazione uno degli aspetti fondamentali e peculiari<br />

degli eventi educativi e preventivi. Non in ultimo, va ricordato il graduale<br />

impoverimento dei contesti naturali di riferimento, come la famiglia o tutti quegli<br />

ambienti che contribuivano alla crescita individuale e sociale offrendo orientamenti<br />

culturali e valoriali. Il venir meno di tali condizioni ha spostato l’investimento<br />

dall’esperienza della ricerca di eventi dotati di senso evolutivo interni a luoghi<br />

altamente significativi, alla enfatizzazione della relazione. Come se si fosse perso di<br />

vista ciò che l’esperienza relazionale dovrebbe incarnare: essa è passata da strumento<br />

dell’educare a inconsapevole fine ultimo della storia degli incontri intergenerazionali.<br />

Si investe molto sul modo in cui entrare in relazione con le nuove generazioni, sulla<br />

costruzione della relazione, rischiando di lasciare in secondo piano i motivi per i<br />

quali ha senso costruire quella storie e quell’incontro.<br />

Provando a riflettere su alcuni dei progetti con adolescenti e giovani messi in opera in<br />

questi ultimi anni, si può desumere come una parte preponderante di essi venga<br />

dedicata all’osservazione, o a quella parte del lavoro che assume la denominazione di<br />

mappatura, utili alla costruzione della relazione, esprimendo poi non poche difficoltà<br />

nel governare il passaggio, che rappresenta la parte determinante dell’intervento, da<br />

queste pre-condizioni a eventi che conducano al raggiungimento delle finalità<br />

individuate. Gli educatori adulti appaiono in molte circostanze poco consapevoli di<br />

quanto la trasformazione da parte a tutto della relazione comporti una serie di<br />

complicazioni e conseguenze connesse al cosiddetto coinvolgimento, cioè alle<br />

implicazioni sul piano personale ed emotivo che una forte esposizione alla relazione<br />

porta con sé. A tal proposito si possono riscontrare alcuni atteggiamenti frequenti,<br />

risultato dei processi di difesa messi in atto dagli educatori. Da un lato, il timore di<br />

farsi prendere dagli sviluppi emotivi dell’incontro può spingere a collocarsi in una<br />

posizione di lontananza dall’oggetto della preoccupazione. Si individuano confini<br />

molto netti che, facendo particolarmente leva sul ruolo, sulla professionalità e sulla<br />

63


dimensione tecnica a questi ultimi collegata, creano uno spazio fisico e psichico di<br />

distacco. Un atteggiamento che implica una esplicita negazione della dimensione<br />

emotiva quale aspetto del proprio lavoro: ; questa può essere una tra le più frequenti affermazioni<br />

che si fanno e che rischiano di attivare vissuti di onnipotenza, accompagnati<br />

dall’illusione che i sentimenti possano non essere una parte del lavoro di un<br />

educatore.<br />

Dall’altro lato, si può riscontrare una profonda immersione nella dimensione emotivo<br />

- affettiva, al punto di costruire situazioni relazionali connotate da una sensibile<br />

vicinanza, a volte quasi di sovrapposizione, al punto che il rischio ipotizzabile è<br />

rappresentato dalla difficoltà di percepire l’altro come identità a sé stante, finendo per<br />

sostituirsi a lui o lei nello sviluppo dei propri compiti evolutivi: i confini si fanno<br />

sempre più labili e incerti, fino a percepire un vissuto di impotenza che blocca le<br />

funzioni creative e attive.<br />

Nell’incontro educativo tra adulti e giovani, le emozioni dovrebbero essere pensate<br />

come veri e propri oggetti di lavoro e, come tali, elementi da osservare e trattare con<br />

strumenti adeguati, al fine di progettare una relazione capace di condurre al<br />

raggiungimento di una nuova condizione, segno di una differenza e quindi<br />

generatrice di apprendimento e sviluppo evolutivo. L’attenzione a considerare le<br />

implicazioni di tutte le dimensioni appena citate, può aiutare l’adulto a superare<br />

l’illusione e la preoccupazione di dover e poter superare ogni cosa: una chimera che<br />

appartiene all’uomo esperto del mondo della tecnologia, uomo che non riconosce il<br />

senso dei suoi limiti e delle sue debolezze, rischiando di ridurre l’evento educativo<br />

relazionale a un puro fatto tecnico, caratterizzato dalla separazione tra la relazione e<br />

gli altri aspetti del processo.<br />

E’ accaduto che, nel corso di una riunione tra insegnanti del biennio di una scuola<br />

superione di una grande città dell’Italia settentrionale, una docente descrivesse una<br />

situazione per lei particolarmente difficile vissuta in classe. Raccontò la sua difficoltà<br />

di riportare il gruppo degli allievi a una condizione di disciplina accettabile e il fatto<br />

che, a seguito di questa incapacità, fosse scoppiata a piangere. La scelta, quella di<br />

parlare dell’accaduto con i colleghi, si rivelò errata perché questi la criticarono con<br />

durezza, sostenendo che ritenevano impossibile pensare a un’insegnante che ‘cede’<br />

scoppiando in lacrime di fronte alla classe: la situazione non può mai sfuggire di<br />

mano a un professionista esperto, bisogna conoscere strumenti e tecniche per uscire<br />

da ogni situazione critica. Ma la tecnica non può essere superiore alle persone e ai<br />

fini in questione: se quanto accaduto a quell’insegnante si fosse trasformato in<br />

oggetto di confronto propositivo tra educatori e tra educatori e insegnanti, con<br />

l’obiettivo di capire qualche cosa in più di sé e del modo in cui vivere e progredire<br />

insieme, sarebbe stato possibile fare un passo verso la comprensione reciproca e la<br />

definizione di una ipotesi rinnovata di percorso, attento ai soggetti e alle loro più<br />

svariate sfaccettature.<br />

Se la relazione non viene pensata quale mezzo per permettere il verificarsi di altri<br />

eventi significativi, si viene privati della possibilità di riflettere sulle peculiarità di<br />

64


detto strumento. Si rischia, ad esempio, di non percepire in maniera adeguata il<br />

valore insito nel definire il modo in cui collocarsi all’interno dell’incontro, della<br />

distanza da assumere, cosa che permette di utilizzare il posizionarsi più o meno<br />

‘vicino’ o più o meno ‘lontano’, in funzione di ciò che si sta vivendo, del momento in<br />

cui ci si trova, della situazione dei soggetti coinvolti e del dove si vuole arrivare. I<br />

criteri assunti per decidere appaiono spesso non confrontati con i vincoli che<br />

caratterizzano il contesto e le persone che lo vivono; è come se si trattasse di scelte<br />

alle quali si giunge operando una valutazione sulla relazione in generale e non su<br />

quelle precise, specifiche relazioni, sulla loro funzione e sullo spazio nel quale esse<br />

avvengono.<br />

In seguito a queste considerazioni può essere interessante, pensando all’incontro tra<br />

giovani e adulti in contesti educativi, tentare di elencare e descrivere, seppur<br />

brevemente, le funzioni della relazione che, all’interno del mutato contesto sociale e<br />

culturale, aprano a spazi ed eventi significativi per le persone e gli ambienti di vita.<br />

Uno dei rischi descritti in apertura di questo capitolo, connesso all’impegno<br />

pedagogico, è che se si è privi di una tensione precisa, tutto può apparire educativo. E<br />

se tutto è educativo, allo stesso modo, nulla lo è veramente. Ricercare quelli che<br />

sono stati denominati ‘compiti della relazione educativa’, aggiornando l’elenco<br />

essenziale qui di seguito descritto, permette di cogliere quando e cosa dota la<br />

relazione di una tensione di tipo educativo, potenziando enormemente l’incontro<br />

intergenerazionale.<br />

La relazione come mezzo per riportare al reale<br />

Si è potuto ampiamente osservare come una delle caratteristiche dominanti<br />

dell’attuale ambito sociale e culturale sia la continua proposta e ricerca di contesti e<br />

situazioni definibili virtuali. Quel rifugiarsi o proiettarsi in un mondo alternativo,<br />

raggiungibile a volte attraverso l’uso di sostanze chimiche, a volte transitando in<br />

spazi e luoghi particolari, in altre circostanze spingendosi con la mente in confini<br />

altri. Ma si è visto anche come parte degli atteggiamenti del mondo adulto - in<br />

particolare nei momenti in cui pensa di potersi relazionare con un giovane generico,<br />

quello descritto oggettivamente dalle ricerche, o nelle situazioni in cui rappresenta<br />

un’immagine di adulto impossibile da realizzare -, contribuiscano a generare<br />

situazioni irreali, non appartenenti al quotidiano e alla sfera delle cose possibili.<br />

Appare allora importante che, grazie a uno degli strumenti fondamentali dell’evento<br />

pedagogico, la relazione, si possano costruire e ricostruire situazioni reali, attente al<br />

ricondurre alla realtà, in tutte le sue forme e componenti.<br />

Nella progettazione di nuovi servizi, nelle scelte metodologiche e degli strumenti,<br />

nell’individuazione degli atteggiamenti da assumere nell’incontro, occorre<br />

domandarsi se quanto sta accadendo tra i soggetti in gioco aiuti o meno ad avvicinarsi<br />

alla realtà, a comprenderla, nei suoi aspetti buoni e in quelli più complicati.<br />

L’esperienza del crescere in una società complessa implica un rapporto con<br />

l’esperienza dell’incertezza e della frammentazione. Non sono molte le cose che<br />

possono essere date per acquisite, le continue trasformazioni fanno sperimentare un<br />

senso di precarietà e di instabilità. L’uomo, stimolato e attratto da una moltitudine di<br />

fattori, vive di sé un’esperienza frammentata, non identità uniche, ma multiple. Una<br />

65


elazione attenta alla dimensione reale fa i conti con questi aspetti e apre i soggetti ad<br />

acquisire le competenze necessarie a vivere e progettare considerando e partendo da<br />

situazioni incerte e frammentate.<br />

Solo se la realtà è fermamente presente nel lavoro pedagogico, si possono individuare<br />

le condizioni e gli spazi del possibile che permettono alle persone di trovare un<br />

proprio modo per sostare nel mondo reale, pensandosi in un futuro, quali adulti del<br />

mondo degli uomini che come tali faticano e gioiscono, ma sempre confrontandosi<br />

nella complessa dinamica tra potenzialità e vincoli.<br />

La relazione quale spazio di ricerca<br />

Mantenere viva la tensione a ricercare permette alle persone di percepirsi in continua<br />

evoluzione e all’interno di un processo di crescita che non finisce mai di offrire<br />

apprendimenti e occasioni di appassionanti avventure.<br />

Ricercare significa potersi sperimentare in contesti continuamente differenti e, per<br />

questo, già occasione di sviluppo, di ridefinizione di regole, norme, rapporti tra le<br />

persone e con gli oggetti. L’abito mentale, la predisposizione alla ricerca consente di<br />

non dare mai per scontato il proprio sapere. Ricercare è quindi espressione alta della<br />

propria vitalità e del proprio potenziale creativo.<br />

La relazione che vuole assumere una propensione educativa non può esimersi<br />

dall’investire nel tenere sempre aperto uno spazio di ricerca, dal lasciarsi attraversare<br />

dalla scintilla della curiosità e del dubbio. Tale atteggiamento spinge a interrogarsi,<br />

attraverso la relazione, sul senso e sul significato di ciò che le persone vivono e<br />

provano nella loro vita di individui, professionisti e soggetti collettivi. Un oggetto di<br />

ricerca, questo, che dovrebbe contraddistinguere l’uomo e in particolare l’uomo del<br />

nostro nuovo secolo che, trovandosi in una situazione di (23), come sottolinea Elisabeth Lukas, è nella necessità di darsi<br />

continuamente un orientamento. La questione cruciale del nostro tempo, per chi<br />

vuole accompagnare i giovani ad affrontare la complessità del vivere, non è tanto e<br />

non solo quella di ricercare il modo in cui eludere le fatiche; piuttosto, si tratta di<br />

sostenerli nel difficile compito dell’attribuire un significato alle situazioni<br />

difficilmente comprensibili e accettabili.<br />

La relazione come apertura alla dimensione progettuale<br />

Il tempo è, nella cultura contemporanea, un nodo determinante. L’impressione che si<br />

ha è quella della difficoltà di viverne gli aspetti tridimensionali: si vive spesso solo<br />

una delle tre dimensioni del tempo, il presente. La logica del ‘tutto e subito’, che non<br />

appartiene solo ai giovani o ai consumatori di sostanze stupefacenti ma è un tratto<br />

distintivo della nostra cultura, spinge gli individui a una vita schiacciata sul ‘qui e<br />

ora’, privandolo del contatto con le altre dimensioni del tempo. Un uomo privato del<br />

suo passato, delle suo radici, della sua storia, dei suoi legami culturali e naturali è una<br />

persona che può vivere la fatica di dare senso alle vicende quotidiane; il ‘tutto e<br />

subito’ rischia quindi di essere fine a sé stesso, disancorato da un qualsiasi barlume di<br />

processo di attribuzione di significato. A ciò si aggiunge il fatto che non ci si<br />

percepisce in una dinamica futura, bisognosa di essere orientata da una prospettiva<br />

progettuale.<br />

66


La relazione educativa può essere tale se riesce a costruire uno sguardo prospettico e<br />

progettuale sul futuro. Ma per fare questo è indispensabile una attenzione a tutte tre<br />

le dimensioni del tempo: passato, presente e futuro. Oggi si è in relazione a ciò che si<br />

è stati nel passato; queste sono anche le condizioni attraverso le quali si può costruire<br />

il proprio futuro. Pensarsi in una prospettiva progettuale significa sentirsi<br />

protagonisti delle proprie scelte vitali, competenti per il proprio futuro, desiderosi del<br />

proprio futuro. Si è parte di una traiettoria, di un progetto, nel quale si desidera con<br />

forza il raggiungimento degli obiettivi e delle mete definite. Quando si costruisce un<br />

progetto per un qualche cosa che si desidera, si possono scorgere difficoltà e ricercare<br />

gli strumenti per superare i problemi: la vita assume una tensione futura, nella quale<br />

l’oggi acquisisce senso dal passato ed entrambi aiutano a costruire un domani che,<br />

per quanto appena delineato, diviene possibile.<br />

La relazione generatrice di uno spazio etico<br />

Appare evidente in molte situazioni educative tra giovani e adulti, quanto la relazione<br />

si sia sempre più connotata con una prospettiva di tipo affettivo, in una sorta di new<br />

age dell’educazione. I tempi ridotti di convivenza, insieme al timore di rompere quel<br />

gratificante equilibrio relazionale, hanno spinto gli adulti ad allentare<br />

quell’atteggiamento ‘etico’ tipico dei contesti educativi delle passate generazioni. I<br />

divieti, le posizioni differenti si riducono sensibilmente; i giovani non si trovano di<br />

fronte una linea precisa su ciò che si può o non si può fare, su alcuni irrinunciabili<br />

punti di vista. Tutto è possibile e tutto rischia di essere permesso o passare come tale.<br />

Ciò che conta è la relazione e la dimensione affettiva. Passano in secondo piano<br />

norme, valori, principi.<br />

Si corre così il rischio di una significativa diminuzione dell’esperienza del ‘dolore<br />

mentale’, vivendo una specie di esperienza anestetizzata. Gli adulti che educano<br />

considerano, per il proprio lavoro, le potenzialità e gli aspetti positivi dei giovani<br />

tralasciando, invece, le parti complicate, problematiche. In questo senso, da un lato,<br />

si opera una separazione o meglio un non riconoscimento delle parti oscure, difficili<br />

e, dall’altro, non si accompagnano i giovani a sperimentarsi con le situazioni<br />

conflittuali, oppositive; si amplifica la sofferenza del conflitto, che non si è quasi mai<br />

vissuto, non li si aiuta a percepirsi quali soggetti indipendenti alla ricerca di un<br />

proprio spazio e di un proprio tempo di vita autonoma. A questo proposito è<br />

auspicabile che la connotazione educativa di una relazione derivi anche dalla<br />

possibilità di vivere l’esperienza del conflitto, della gestione di situazioni nelle quali<br />

si sperimenta anche la normatività dell’adulto, dell’accompagnamento verso il<br />

sentimento di un sé effettivamente unico e altro.<br />

Una relazione che apre verso il collettivo<br />

Nel modo in cui comunemente si intende l’educazione e, quindi, anche in molte delle<br />

situazioni educative, si pensa all’evento relazionale come a una esperienza<br />

specificatamente duale, chiusa nella dinamica uno a uno: tutto si gioca nella relazione<br />

tra l’adulto e il giovane, in una visione pedagogica che esclude i soggetti da una parte<br />

essenziale della loro vita, ovvero il rapporto con il contesto di vita e con le persone<br />

che lo abitano. Oltre a ciò, intendere la relazione da un ottica duale significa<br />

immaginare che tutto ciò che può succedere, succede o meno in funzione di ciò che<br />

67


quell’adulto riesce a fare nella relazione. E’ una rappresentazione assai discutibile. Il<br />

cambiamento, la trasformazione delle situazioni può avvenire per moltissimi fattori<br />

che non sono riconducibili in modo esclusivo all’impegno dell’educatore. In<br />

secondo luogo, perdere il contatto con le persone e il contesto che risultano<br />

significativi per il giovane, significa privare la persona di ciò a cui attribuisce<br />

significato e da cui acquisisce senso vitale. La relazione educativa è quindi strumento<br />

attento a muoversi con i singoli e con i gruppi all’interno dei quali le persone<br />

sviluppano appartenenze e legami significativi: parte da loro, ha loro come<br />

riferimento, tenta di produrre sviluppi concreti che possano ritornare su essi.<br />

Affinché questo sia possibile gli educatori devono sviluppare una competenza oggi<br />

indispensabile: la comprensione e l’uso di linguaggi espressivi differenti. Il<br />

linguaggio è l’espressione più alta della cultura; le nuove culture giovanili si<br />

esprimono con forme, modi e in luoghi assai particolari che richiedono molto<br />

investimento per gli adulti. Si studiano e si utilizzano linguaggi nuovi per cogliere e<br />

far cogliere significati, per capire e farsi capire, per comunicare, per cambiare. La<br />

relazione educativa, allora, diviene tale se, attraverso l’uso di linguaggi differenti<br />

semplici o evoluti, aiuta i giovani a comprendere la cultura e il contesto di<br />

appartenenza e a pensarsi come parte di una vicenda collettiva per la quale vale la<br />

pena investire delle energie proprie.<br />

LEZIONE 4<br />

LE FATICHE DEL VIVERE IN SOCIETA’ COMPLESSE<br />

di Michele Gagliardo<br />

.<br />

(da D. Cravero, Il piacere di vivere, Associazione Solidarietà Giovanile, Torino<br />

1993)<br />

Leggendo queste parole si rimane colpiti dalla lucidità con cui l’autore descrive la<br />

fatica di vivere in una realtà che genera sofferenza. E’ un vissuto che si accompagna<br />

a molte esperienze in un contesto sociale e culturale come quello che caratterizza le<br />

civiltà occidentali: una realtà difficile, spesso inaccettabile, che produce problemi,<br />

sofferenze, disorientamento. Ed è un rapporto con il mondo che comunque non si<br />

può perdere, non si vuole perdere perché stare fuori sarebbe insostenibile: meglio<br />

fare parte della categoria degli inclusi, di quelli che stanno dentro, accettando<br />

condizioni, percorsi o esperienze, anche molto dolorose.<br />

O dentro o fuori, un confronto tra due poli che non ammette alternative: in una<br />

società come la nostra, che ha consacrato il primato della tecnica, del pensiero<br />

68


azionale e lineare, e in cui tutto si fonda sulla ripetizione di procedure<br />

standardizzate, prescritte, non ci sono possibilità di percorrere strade ‘altre’, non c’è<br />

spazio per ciò che non è prevedibile o addirittura già previsto. C’è, in sostanza, un<br />

solo modo per pensare, descrivere e fare le cose, il modo giusto, quello prescritto:<br />

fare e pensare come si dovrebbe fare e pensare. Sono queste le vie privilegiate<br />

dell’integrazione: la subordinazione del sé a un tutto prescrittivo e omologante.<br />

Negare sé stessi nell’espressione della propria individualità, nell’atto creativo e<br />

speciale del pensare e dell’agire soggettivo. Integrazione, oggi, come esperienza<br />

dell’essere estranei a sé stessi; dentro il contesto, ma fuori da sé. Un’esperienza che<br />

produce lacerazioni e separazioni difficilmente sopportabili e nel corso della quale<br />

per molti l’unica possibilità è agire un’ulteriore scissione: quella tra vita pubblica e<br />

vita privata. Accanto a una realtà inaccettabile trova spazio un mondo virtuale, quello<br />

che potenzialmente si desidera, ma che non è praticabile e nel quale, da un lato,<br />

ricercare risposte al dolore della separazione e dall’altro, sperimentare in modo spinto<br />

l’espressione creativa, comunicativa di sé: in tempi e spazi difficilmente percorribili<br />

dai rappresentanti del mondo alienante, con linguaggi e codici comunicativi<br />

estremamente particolari.<br />

U. Galimberti, a tale proposito, riflette sull’attuale sviluppo dell’uso di droghe di<br />

sintesi tra i giovani, sostenendo che (da U. Galimberti, Se la<br />

soggettività non può dirsi, in Animazione sociale, n. 4, 1997) .<br />

In questa ricerca e sperimentazione, le sostanze chimiche possono giocare un ruolo<br />

importante: l’incontro con il piacere, la possibilità di risposte immediate al bisogno di<br />

contatto con sé e con gli altri, esperienze mentali insolite, lo stimolo alla curiosità<br />

dello sperimentare, alternativa potente all’appiattimento e all’omologazione. L’uso<br />

di risposte chimiche spesso rende complesso ogni percorso di ricerca differente,<br />

accrescendo, a volte, l’insopportabilità della sofferenza. Ma non solo l’assunzione di<br />

prodotti sintetici rappresenta un’esperienza artificiale per le persone; innaturali sono<br />

considerabili anche alcuni dei processi d’integrazione che l’attuale contesto sociale<br />

offre, come pure lo sono quegli interventi preventivi mediati dagli stessi dispositivi<br />

sociali decisivi nel generare le condizioni che, invece, si vorrebbero contrastare. Ad<br />

esempio, quei progetti poco attenti alle differenze e alla soggettività di giovani e<br />

adulti, le proposte che non facilitano la sperimentazione di una produzione creativa<br />

collettiva e l’elaborazione dei significati a essa collegati, tutte le circostanze<br />

caratterizzate da una spinta verso l’omologazione attraverso la ricerca o la<br />

prescrizione della soluzione o del comportamento ritenuto, comunemente, perfetto, i<br />

progetti che fondano la loro certezza di riuscita nella ripetizione continua di<br />

procedure prestabilite, connotandosi più come eventi tecnici, ingegneristici, che<br />

preventivi.<br />

A questo punto si è di fronte al secondo paradosso: se, da un lato, il contesto sociale<br />

offre percorsi di integrazione che, per la loro forma, spingono alcune persone<br />

all’esperienza drammatica e schizoide della disintegrazione interna e della<br />

separazione dal contesto, dall’altro, la prevenzione, focalizzando la sua attenzione<br />

69


sulle sostanze e sulla liberazione dall’uso delle stesse con percorsi uniformati ai<br />

codici sociali appena descritti rischia di inasprire la frattura tra mondo interno ed<br />

esterno. Se si investe per accompagnare i giovani a emanciparsi da alcuni<br />

comportamenti ritenuti problematici, senza mutare le forme della relazione tra<br />

giovani e adulti, tra i giovani e il mondo, si generano situazioni preventive incapaci di<br />

modificare i contesti di esperienza, gli spazi vitali nei quali gli adolescenti possono<br />

sperimentare e sperimentarsi. Viene amplificato il sentimento di sofferenza, in<br />

quanto non si investe nella ricerca creativa di percorsi insoliti, atti a concretizzare<br />

stimolanti e appassionanti eventi, nei quali quel virtuale non praticabile, assume la<br />

connotazione di possibile e per questo desiderabile. Ciò che prima era un’illusione<br />

può diventare un progetto: spazio e tempo del reale che permette alla dimensione<br />

pubblica e a quella privata di incontrarsi in modo costruttivo.<br />

Se la prevenzione lavora per demolire quegli atteggiamenti che permettono ad alcuni<br />

giovani di perseguire il bisogno di integrazione, senza investire, parallelamente, nella<br />

sperimentazione e progettazione di situazioni che rendano maggiormente vivibile la<br />

realtà quotidiana, si corre il rischio che l’insostenibilità della situazione si esasperi,<br />

portando al raggiungimento di obiettivi opposti a quelli desiderati, cioè a un aumento<br />

del valore del virtuale e delle vie chimiche e anestetizzanti. In gioco non c’è il cosa è<br />

necessario fare -un obiettivo prefigurato a cui tendere -, ma il come, ovvero la forma<br />

dell’incontro tra generazioni e le regole che la governano.<br />


come i nodi che, tra le altre cose, legano gli individui alla loro realtà, definendone<br />

significativamente il rapporto.<br />

A queste condizioni si può presupporre di dare vita a situazioni preventive nelle quali<br />

contenuti e prospettive si discutono e si immaginano in considerazione di tutti i<br />

molteplici fattori che connettono gli individui alla realtà, determinandone la<br />

descrizione, fornendo in tal modo un contributo sostanziale al riempire di senso il<br />

quotidiano. In esso si possono così rintracciare strumenti e risorse (personali,<br />

collettive e istituzionali) per accompagnare nel difficile compito di vivere in un<br />

contesto sociale e culturale che sempre di più smarrisce la sua dimensione umana.<br />

ALLEGATI:<br />

L’ascolto e l’osservazione<br />

nella progettualità dialogica<br />

Francesco d’Angella, Franca Olivetti Manoukian<br />

La progettazione sociale<br />

è una specifica forma di<br />

produzione culturale,<br />

in quanto facendo interagire mondi culturali diversi apre<br />

a inedite possibilità. Centrali<br />

diventano la percezione<br />

delle diversità e la messa<br />

in discussione delle proprie<br />

rappresentazioni, ma<br />

soprattutto la scoperta<br />

di intersezioni fra significati<br />

come luogo in cui si rigenera<br />

la progettualità. Un lavoro che chiede a chi esercita il potere<br />

l’ascolto e l’osservazione<br />

delle progettualità<br />

quotidianamente in gioco.<br />

Nei procedimenti di progettazione, in particolare in quelli che riguardano<br />

situazioni organizzative e sociali, sono spesso previste e raccomandate fasi di<br />

analisi e di rilevazione preliminari. Esse dovrebbero permettere (secondo<br />

alcuni, garantire) un’adeguata formulazione di una «diagnosi», di un quadro<br />

chiaro e definitivo dei problemi in gioco da affrontare e risolvere con una<br />

ristrutturazione organizzativa o con interventi formativi.<br />

Per poter raggiungere descrizioni ben individuate, evidenti, razionalmente<br />

fondate, si ricorre in genere a parametri numerici, sottovalutando il fatto che<br />

le cifre, comunque, esprimono aspetti molto limitati della realtà e soprattutto<br />

danno indicazioni generiche e sommarie, non così attendibili da guidare scelte<br />

strategiche o operative.<br />

Le cifre piacciono perché sembrano portatrici di una razionalità forte che<br />

necessariamente e indiscutibilmente ottiene consensi massimi, anche se non<br />

entusiasti. È come se veicolassero rappresentazioni dei problemi piuttosto<br />

semplici, tuttavia chiare ed efficaci su cui può essere facile convogliare<br />

adesioni per la riprogettazione, per gli esiti finali auspicati e per i modi di<br />

ottenerli.<br />

Le ipotesi che orientano verso una «progettualità dialogica» o interattiva<br />

tendono a prendere distanza da questo approccio. Come è stato sottolineato, la<br />

realtà organizzativa non può essere totalmente e compiutamente compresa, ma al<br />

tempo stesso è cruciale che le rappresentazioni dei problemi non siano troppo<br />

semplificate, che si riconosca l’esistenza di diverse rappresentazioni e si<br />

riescano anche a vedere i problemi irrisolvibili.<br />

71


È importante arrivare a rappresentazioni convergenti dei problemi, ma non è<br />

detto che ci si riesca e la condivisione non può essere totale e non è mai data<br />

una volta per tutte. Nelle situazioni coesistono diverse razionalità e non è<br />

immediato cogliere quella che offre maggiori aperture e valorizzazioni. La<br />

progettazione e riprogettazione diventa pertanto un percorso che non ha tappe<br />

certe e precostituite, ma che si snoda con flessibilità e leggerezza tra molte<br />

sollecitazioni e altrettante contraddizioni.<br />

Operare nelle organizzazioni dei servizi con questa prospettiva richiede<br />

appunto interazioni intense e continue con una realtà che non si piega<br />

puntualmente e immediatamente a ciò che viene definito per legge, delibera o<br />

regolamento, ma che va decifrata e scoperta: per questo diventano cruciali<br />

l’osservazione e l’ascolto.<br />

Osservazione e ascolto sono due parole generiche e polisemiche la cui<br />

comprensione può apparire immediata perché sono termini frequentemente usati nel<br />

linguaggio quotidiano. È importante allora precisare a che cosa si fa<br />

riferimento e in quale quadro teorico ci si colloca per evitare fraintendimenti<br />

e banalizzazioni.<br />

Una prima notazione semantica può aprire la via: ascolto e osservazione sono<br />

espressioni collegate all’uso di organi di senso da parte di un soggetto che è<br />

in relazione con altri e con altro e che è in qualche modo implicato in processi<br />

di conoscenza o, meglio, di apprendimento (1) .<br />

L’orecchio e l’occhio nella nostra cultura sono organi che non danno solo<br />

sensazioni, ma mettono anche in contatto con dimensioni emotive:<br />

tradizionalmente i messaggi artistici ci arrivano attraverso ciò che ascoltiamo<br />

e vediamo.<br />

Ricorrere a parole come ascolto e osservazione rispetto alla progettazione<br />

immette immediatamente entro un quadro di riferimento teorico che sottolinea che<br />

la conoscenza nel sociale avviene nella relazione, che il soggetto conoscente è<br />

parte viva della realtà da conoscere e si accosta ad essa avendo e suscitando<br />

emozioni. È questa collocazione — sempre mischiata, sempre intrisa di<br />

ambivalenze e di definizioni che tentano di eliminarle — che rende così ardui i<br />

processi di ascolto e osservazione. In questo articolo ci si propone di indicare<br />

e di approfondire difficoltà e opportunità che possiamo incontrare in<br />

particolare nei servizi.<br />

Le culture negli ascolti e nelle osservazioni<br />

L’ascolto e l’osservazione dei fatti e degli eventi sono processi necessari<br />

per costruire le rappresentazioni dei problemi. Attraverso l’ascolto e<br />

l’osservazione i diversi attori organizzativi possono raccogliere una serie di<br />

informazioni necessarie per costruire una lettura dei problemi relativi a un<br />

servizio e riprogettarne gli obiettivi possibili.<br />

È possibile sostenere che gli uomini costruiscono il mondo a seconda delle<br />

loro modalità di «vederlo» e «sentirlo». Tale costruzione è un processo di<br />

scomposizione, composizione, segmentazione e aggregazione dei mondi costruiti.<br />

Composizione e scomposizione. Fabbricare mondi consiste in gran parte, anche se<br />

certo non esclusivamente, in uno smontare e rimettere insieme, spesso combinati tra loro: per un<br />

verso, nel dividere interi in parti e operare partizioni di generi in sottospecie, nell’analizzare<br />

complessi in componenti, nel tracciare distinzioni. Queste composizioni o scomposizioni vengono<br />

normalmente effettuate o facilitate o consolidate applicando etichette: nomi, predicati, gesti,<br />

immagini, e via dicendo. Così, ad esempio, eventi temporalmente distinti vengono messi insieme sotto<br />

un nome proprio o identificati con ciò che costituisce «un oggetto» o «una persona».<br />

Peso e importanza. Alcuni dei contrasti più impressionanti di accento si<br />

verificano nelle arti. Molte differenze tra ritratti di Daumier, Ingres, Michelangelo, Rouault,<br />

dipendono dall’accentuazione di certi aspetti. Ciò che vale come messa in rilievo è, naturalmente,<br />

un allontanamento dall’importanza relativa accordata ai singoli aspetti nel modo usuale del nostro<br />

vedere quotidiano. Con il mutare degli interessi e nuovi punti di vista, varia il peso visivo di<br />

aspetti quali il volume, il tratto, la postura o la luce, e il mondo regolato di poco tempo prima<br />

appare stranamente perverso — un paesaggio realista di un calendario di poco tempo fa diventa<br />

un’orribile caricatura.<br />

Eliminazione e integrazione. Ancora, la costruzione di un mondo a partire da un<br />

altro comporta di solito eliminazioni e integrazioni anche notevoli — vere e proprie soppressioni di<br />

vecchi materiali e immissioni di nuovi. La capacità che possediamo di «tralasciare» elementi è<br />

praticamente illimitata, e quel che accogliamo consiste, di solito, in frammenti e indizi<br />

significanti che richiedono una massiccia integrazione (2) .<br />

Le modalità degli attori di «vedere» e «sentire» i fenomeni organizzativi<br />

attivano dunque le composizioni, le scomposizioni, le segmentazioni e le<br />

72


aggregazioni dei molteplici indizi presenti nella quotidianità dei processi<br />

lavorativi.<br />

Nelle comunicazioni tra gli educatori, i dirigenti e i consulenti si<br />

propongono versioni e visioni dei diversi funzionamenti organizzativi a cui<br />

ciascun attore è ben affezionato; i «vecchi mondi», di cui parla Goodman,<br />

possono essere esposti e giustapposti per rimanere fermi sulle proprie<br />

posizioni, ma possono essere anche l’avvio per «fabbricare nuovi mondi». Per<br />

comprendere come sia possibile «fabbricare nuovi mondi» è importante esplorare i<br />

processi, spesso inconsapevoli e impliciti, dell’ascolto e dell’osservazione dei<br />

contesti lavorativi.<br />

Si è detto come spesso si sia soliti pensare che l’ascolto e l’osservazione<br />

siano atteggiamenti semplici e spontanei. Il fatto stesso che si usino<br />

espressioni legate agli organi di senso (l’occhio e l’orecchio) ce li fa<br />

immaginare come processi naturali, quando in realtà si tratta di processi<br />

culturali.<br />

Gli operatori sociali di un servizio osservano e ascoltano i funzionamenti<br />

organizzativi attraverso quadri culturali di riferimento. Sono questi quadri<br />

culturali introiettati, che strutturano le mappe cognitive ed emotive, che<br />

consentono di orientarsi nella molteplicità degli indizi e delle tracce presenti<br />

nella quotidianità dei contesti lavorativi. Sono le culture organizzative,<br />

quelle professionali e individuali dell’educatore, dello psicologo, del medico,<br />

che costruiscono le mappe per rintracciare, selezionare, classificare i fenomeni<br />

che condizionano l’andamento di un consultorio, di un SERT o di un ospedale (le<br />

stesse categorie di utente, bisognoso, svantaggiato sono modalità di<br />

classificazione dei soggetti che si rivolgono ai servizi). Le mappe sono come<br />

delle cornici che «mettono le persone in grado di localizzare, percepire,<br />

identificare ed etichettare gli avvenimenti nella loro vita e nel mondo» (3) .<br />

È importante tenere presente ed essere consapevoli che «ogni sistema di<br />

classificazione è in un certo senso arbitrario: includiamo degli oggetti sotto<br />

la stessa classe non perché sono intrinsecamente simili, ma li consideriamo<br />

simili perché guardiamo il mondo attraverso un certo sistema classificatorio.<br />

Non stupisce dunque che i sistemi di classificazione variino nel tempo e nello<br />

spazio, da società a società» (4) .<br />

Le arbitrarietà dipendono dalle culture delle istituzioni e delle<br />

organizzazioni. Queste «orientano in modo sistematico la memoria degli individui<br />

e incanalano le nostre percezioni entro forme compatibili con le relazioni da<br />

esse stesse autorizzate. Fissano processi che sono essenzialmente dinamici,<br />

celano la loro influenza e suscitano le nostre emozioni ad un livello prefissato<br />

su temi stabiliti» (5) .<br />

Ad esempio, le mappe usate dagli educatori di un centro di aggregazione per<br />

osservare e ascoltare sono costruite dalle culture apprese lungo il corso della<br />

vita; queste culture sono un reticolo ricco di connessioni emotive e cognitive,<br />

di operazioni logiche, di figure retoriche, osservazioni fattuali, giudizi<br />

etici, seduzioni estetiche, situazioni contestuali, decisioni economiche. Sono<br />

le mappe che selezionano gli indizi utili, indispensabili per riprogettare i<br />

servizi, e che scartano, omettono gli aspetti non ritenuti significativi.<br />

In questo senso, ogni mappa è un punto di vista, una prospettiva di ascolto e<br />

di osservazione su una molteplicità di segnali e indizi coesistenti. La<br />

questione cruciale è relativa al fatto che le mappe possono ostacolare o<br />

promuovere, aprire o chiudere la costruzione di progettualità condivise e<br />

innovative a seconda della loro possibilità di facilitare l’incontro di altri<br />

«sguardi».<br />

Le mappe per ascoltare e osservare<br />

Nella progettazione per comprendere e interpretare i fenomeni organizzativi è<br />

possibile individuare diversi modi di ascoltare e osservare i contesti<br />

lavorativi. Questi modi, a seconda delle culture organizzative, professionali e<br />

personali di riferimento, sono orientati a descrivere, classificare, spiegare o<br />

a scomporre, circoscrivere e risolvere, oppure, ancora, a rilevare, riflettere e<br />

riconoscere. In questa parte dell’articolo si cercherà di analizzare le mappe<br />

attivate dagli operatori nella ricognizione dei problemi organizzativi di un<br />

SERT, di un consultorio, di un ospedale, per poter ri-progettare il Servizio.<br />

73


Descrivere, classificare, spiegare. Le culture tradizionali-classiche (6) del<br />

pensiero organizzativo affermano che le organizzazioni sono costruzioni<br />

razionali-ingegneristiche per raggiungere determinati scopi e finalità. Le<br />

culture tayloristiche e fordiste della progettazione orientano e influenzano le<br />

rilevazioni dei contesti lavorativi; le ricognizioni sono finalizzate a<br />

individuare gli scarti, a descrivere esaustivamente, a spiegare razionalmente e<br />

«oggettivamente» i fenomeni e i processi osservati e ascoltati.<br />

La rilevazione dei fattori che impediscono la riuscita ottimale delle<br />

prestazioni del Servizio è affidata al consulente esterno, agli esperti della<br />

progettazione. Attraverso la descrizione e la spiegazione dei fenomeni, dovranno<br />

progettare le procedure ottimali per raggiungere gli obiettivi prestabiliti. Ad<br />

esempio, l’indagine sui fattori che determinano una diminuzione dei giovani nei<br />

centri di aggregazione giovanile deve essere supportata da una metodologia<br />

capace di garantirne l’oggettività e la scientificità; prima di iniziare la<br />

«discesa sul campo» è necessario quindi costruire «a priori» griglie e<br />

protocolli di osservazione, a garanzia della neutralità dell’indagine e quindi<br />

della sua correttezza. In questo modo l’ascolto e l’osservazione sono<br />

prescrittivi; indipendentemente dal tipo di organizzazione, di prestazione, di<br />

contesto lavorativo, le griglie pre-scrivono i tempi, i modi, gli oggetti da<br />

«vedere» e «sentire». Consentono di classificare, identificare, misurare i<br />

fenomeni che possono ostacolare l’efficacia e l’efficienza di un SERT, di un<br />

intervento chirurgico, di una catena di montaggio.<br />

Le culture organizzative classiche sono condizionate dai saperi delle scienze<br />

esatte, come la matematica e la fisica. Attraverso questi saperi si costruiscono<br />

protocolli di osservazione capaci di descrivere e inquadrare razionalmente i<br />

fenomeni organizzativi.<br />

All’interno di un reparto ospedaliero un’azione può considerarsi spiegata<br />

quando è possibile rintracciare le ragioni, le cause, le connessioni dei<br />

fenomeni. In questa ricerca si tratta di eliminare ogni «piega» capace di<br />

interrompere la linearità dei processi, delle comprensioni, delle connessioni<br />

causali. La spiegazione dei fenomeni osservati e ascoltati consente di<br />

raggiungere una definizione delle procedure corrette del lavoro e quindi<br />

progettare-pianificare i diversi funzionamenti organizzativi. Per spiegare è<br />

necessario descrivere dettagliatamente le parti che compongono un processo. Una<br />

metafora degli ascolti e dell’osservazione prescrittivi centrati sulla<br />

descrizione analitica e consequenziale è possibile rintracciarla nel testo di<br />

Pirsig:<br />

Ai fini dell’analisi razionale classica una motocicletta si può scomporre in base alle sue parti<br />

o in base alle sue funzioni.<br />

Se la si scompone in base alle sue parti, la distinzione fondamentale è quella tra apparato<br />

propulsore e apparato di marcia.<br />

A sua volta l’apparato propulsore si suddivide in motore e sistema di trasmissione.<br />

Il motore è una struttura chiusa che contiene una macchina termica, un sistema di alimentazione<br />

aria-carburante, un sistema di accensione, un sistema retroattivo di distribuzione e un sistema di<br />

lubrificazione.<br />

La macchina termica è composta di cilindri, pistoni, bielle, albero a gomito e volano.<br />

Le componenti del sistema di alimentazione, che fanno parte del motore, consistono in serbatoio<br />

del carburante e filtro, filtro dell’aria, carburatore, valvole e tubi di scappamento.<br />

Il sistema di accensione consiste in alternatore, raddrizzatore, batteria, bobina e candele.<br />

Il sistema di distribuzione è composto da: catena della distribuzione, albero a camme, punterie e spinterogeno.<br />

Il sistema di lubrificazione consiste in: pompa dell’olio e canali di distribuzione dell’olio nel<br />

corpo motore.<br />

Il secondo, il sistema di trasmissione, consiste in una frizione, un cambio e una catena.<br />

L’apparato strutturale che accompagna l’apparato propulsore consiste in un telaio che include i<br />

pedalini, il sedile e i parafanghi; lo sterzo, gli ammortizzatori anteriori e posteriori; le ruote;<br />

le leve e i cavi di controllo; le luci e il clacson; il tachimetro e il contachilometri.<br />

E così abbiamo una motocicletta scomposta secondo le sue parti. Per sapere a cosa servono le<br />

parti è necessaria una suddivisione in base alle funzioni tra cui si distinguono le funzioni di<br />

marcia normali e le funzioni speciali controllate dal guidatore.<br />

L’analisi di quasi tutte le parti che ho citato potrebbe essere ampliata all’infinito (7) .<br />

La metafora mette bene in evidenza come la descrizione sia finalizzata a<br />

collocare ogni parte osservata all’interno di un sistema complessivo che ne<br />

definisca la funzione e il rapporto con gli altri «pezzi». La descrizione,<br />

quindi, deve fornire una spiegazione razionale ed esaustiva dell’azione.<br />

Attraverso l’esplorazione si tratta di rintracciare se vi siano delle<br />

congruenze tra i mezzi e i fini, tra i risultati e le risorse impiegate, tra i<br />

piani di lavoro e le azioni. Nella ricerca delle congruenze vi è la necessità di<br />

74


individuare «lo scarto» tra le prestazioni e gli standard predefiniti, tra le<br />

azioni e le procedure. Lo scarto è l’errore da ricondurre all’interno del<br />

«piano» di lavoro.<br />

Un altro assunto dell’ascolto-osservazione costruito dalle culture<br />

organizzative tayloristiche è la convinzione che per comprendere, poniamo, le<br />

difficoltà di integrazione tra la cooperativa che gestisce il servizio di<br />

assistenza domiciliare e i servizi socio-assistenziali sia necessario attivare<br />

un check-up completo del servizio perché solo in questo modo è possibile riprogettare<br />

l’organizzazione del lavoro. In questi processi esplorativi si<br />

approntano sofisticati strumenti di osservazione e di ascolto — alla base c’è<br />

infatti la convinzione che se si costruisce una fotografia esaustiva, una<br />

«mappatura» di tutte le parti che compongono il servizio, sia possibile<br />

individuare i problemi che ostacolano l’integrazione e quindi ri-progettare le<br />

modalità di erogare l’assistenza domiciliare. Si raccoglie così una quantità<br />

enorme di informazioni, si utilizzano molteplici metodologie qualitative e<br />

quantitative. L’esaustività della descrizione è la garanzia per poter costruire<br />

progettazioni di successo. È necessario conoscere tutto prima di agire. Nella<br />

pratica quotidiana questo atteggiamento lo si trova nelle espressioni: «è<br />

necessario fare una fotografia dei servizi», «dobbiamo fare un’indagine a<br />

tappeto» oppure «non ci deve scappare nessun dettaglio».<br />

I protocolli, le griglie, proprio perché prescrivono cosa osservare e come<br />

osservare, consentono di dare visibilità a oggetti di lavoro invisibiliintangibili<br />

(8) , quindi di difficile definizione. La prescrizione degli ascolti<br />

e delle osservazioni consente agli operatori di poter intervenire nella realtà<br />

in modo da cogliere, all’interno di situazioni lavorative spesso confusive,<br />

degli aspetti che li aiutino a ridefinire e a controllare il proprio lavoro. È<br />

come se si sentisse l’esigenza, per poter individuare i contenuti del proprio<br />

lavoro, di essere «sistemati», di essere situati in una posizione da cui sia<br />

facilitata la visione e, anche, di essere parte di un sistema che offra forme e<br />

percorsi di esplorazione ordinati e collegati tra loro, indicazioni (simboli)<br />

facilmente traducibili, al limite automatismi. Il contatto degli operatori con<br />

le multiformità e la densità delle situazioni lavorative in un SERT o in<br />

consultorio è mediato da una struttura esplorativa protettiva, che fornisce<br />

saperi già interpretati, solidi e razionali, ed è capace di sostenere<br />

costruzioni chiare e precise degli oggetti di lavoro. Le griglie per osservare e<br />

ascoltare sono predisposte dagli esperti che possono essere i consulenti esterni<br />

o chi ha un ruolo apicale nell’organizzazione; sono questi i garanti di una<br />

certa procedura, ma anche coloro che dovranno trattare i materiali «visti» e<br />

«sentiti» per poter ridefinire una efficiente ed efficace pianificazione.<br />

Scomporre, circoscrivere e risolvere. La cultura organizzativa che considera le<br />

organizzazioni come sistemi aperti alle turbolenze dell’ambiente e attraversati<br />

da livelli elevati di incertezza (9) abbandona l’idea della possibilità di<br />

giungere a spiegazioni logico-deduttive esaustive e totali dei fenomeni<br />

lavorativi. Le organizzazioni sono rappresentate come sistemi complessi nei<br />

quali gli operatori, i consulenti, i dirigenti possono attivare solo<br />

ricognizioni limitate e parziali sui funzionamenti organizzativi. Infatti, «se<br />

il progettista dovesse vagliare continuamente tutti i dati per poter definire la<br />

soluzione ottimale ai problemi, si troverebbe costantemente in una situazione di<br />

stallo e di impasse totale» (10) e quindi non potrebbe attivare alcun processo<br />

di progettazione.<br />

La parzialità, la limitazione, la riduzione, la specializzazione, la<br />

scomposizione sono alcuni dei modi con cui rilevare e affrontare le questioni<br />

che impediscono il buon funzionamento di un servizio. Ecco una metafora efficace<br />

per comprendere questa prospettiva esplorativa:<br />

Guardiamo una formica che avanza faticosamente su una spiaggia solcata dal vento e dalle onde. Va<br />

dritto, poi gira a destra per scalare agevolmente una ripida duna, aggira un ciottolo, si ferma un<br />

momento per scambiare informazioni con una consorella. Così, tra interruzioni e deviazioni, trova la<br />

strada di casa. Per non dare ai suoi scopi carattere umano, traccio su un foglio l’itinerario da lei<br />

seguito. È una sequenza di segmenti irregolari, ad angolo — non una passeggiata casuale, perché la<br />

sequenza rileva un senso di direzione sottinteso, un tendere ad uno scopo.<br />

Mostro il tracciato, senza nessuna spiegazione, ad un amico. Di che percorso si tratta Di un<br />

bravo sciatore, forse, che facendo lo slalom scende per un pendio ripido e roccioso. Oppure di una<br />

barca che, andando controvento, cerca la rotta in un canale pieno di scogli o secche. Forse si<br />

tratta di un percorso in uno spazio più astratto: la ricerca di uno studente che vuol dimostrare un<br />

teorema di geometria. (...) Perché la linea non è retta Perché non va direttamente dal punto di<br />

75


partenza alla destinazione voluta Nel caso della formica (e questa volta anche negli altri esempi)<br />

conosciamo già la risposta. Il soggetto ha un’idea generica del luogo in cui si trova la sua meta,<br />

ma non può prevedere tutti gli ostacoli che lo dividono da essa. Deve quindi adattare più volte il<br />

suo comportamento alle difficoltà che incontra e spesso aggirare ostacoli altrimenti insuperabili. I<br />

suoi orizzonti sono molto limitati, quindi egli affronta ogni ostacolo nel momento in cui vi si<br />

imbatte; tenta diverse vie per attraversarlo o aggirarlo, senza preoccuparsi troppo degli ostacoli<br />

futuri. È facile intrappolarlo in una serie di giri inutili (11) .<br />

La formica deve fare i conti con un contesto di azione incerto e<br />

imprevedibile, non è possibile per lei fissare una visione «totale»<br />

dell’ambiente. Volta per volta, a seconda degli ostacoli che incontrerà, potrà<br />

rilevare, considerare e circoscrivere i dati per definire le strategie e le<br />

decisioni utili a raggiungere soluzioni soddisfacenti ai suoi problemi. Il suo<br />

punto di vista è sempre limitato e parziale.<br />

Le culture organizzative che considerano le situazioni lavorative come<br />

complesse, turbolente e incerte sostengono l’idea che — per osservare e<br />

ascoltare il cattivo funzionamento di un consultorio, il fallimento di un<br />

progetto riabilitativo, ecc. — sia necessario suddividere le questioni<br />

problematiche in parti e sezioni ben precise in modo da individuare i saperi<br />

professionali adeguati per trattarle.<br />

La diagnosi è quindi possibile se si scompongono i diversi sintomi; per ogni<br />

sintomo vi sono dei saperi specialistici capaci di trattarlo efficacemente.<br />

Questo approccio tende a porre in prima linea l’idea che per comprendere i<br />

problemi e quindi ri-progettare un servizio siano necessarie delle competenze<br />

tecniche specifiche; per questo insiste molto ed enfatizza le dimensioni della<br />

specializzazione delle conoscenze. Ascolti e osservazioni sofisticati e<br />

specialistici consentono a educatori, dirigenti, medici di arrivare a diagnosi<br />

che permettono nel più breve tempo possibile l’individuazione dei problemi che<br />

rendono inefficienti e inefficaci i funzionamenti organizzativi. Gli ascolti e<br />

le osservazioni sono finalizzati a ripristinare l’equilibrio dell’organismo.<br />

Le conoscenze, le norme e i valori socialmente accettati e riconosciuti delle<br />

professioni consentono di individuare in modo più specifico che cosa e come<br />

osservare e ascoltare. Quanto più la professione è socialmente forte e<br />

costituita, tanto più l’insieme di conoscenze e di azioni è scientificamente<br />

provato e tradotto in istruzioni e procedure operative che devono essere<br />

trasmesse e interiorizzate adeguatamente. Attraverso le competenze professionali<br />

si può contare su rappresentazioni ben solide degli oggetti di lavoro che non<br />

solo orientano e sostengono l’azione con il supporto di regole codificate, ma<br />

assicurano anche collocazioni sociali e credibilità: questo vale in particolare<br />

se le competenze vengono derivate dall’appartenenza a una comunità scientifica<br />

che garantisce strumentazioni e pratiche operative, ma soprattutto<br />

identificazioni con modelli culturali e posizioni ben visibili nel contesto<br />

sociale.<br />

Rilevare, riflettere e riconoscere. Le culture organizzative orientate a<br />

sostenere dei processi organizzativi reticolari a legame debole (12) promuovono<br />

e attivano dei processi esplorativi capaci di connettere, articolare e variare<br />

le modalità di ascolto e osservazione dei contesti lavorativi. L’estrema<br />

complessità e dinamicità dei contesti lavorativi implica rilevazioni dei<br />

contesti lavorativi continue e costanti. Inoltre nel processo di esplorazione<br />

per attivare la progettazione di un servizio tutti gli attori organizzativi sono<br />

dei «ricercatori esperti».<br />

L’articolazione delle diverse modalità esplorative consente a educatori,<br />

psicologi, assistenti sociali di cogliere nella complessità, incertezza e<br />

ambiguità dei fenomeni organizzativi degli indizi e delle tracce utili e<br />

interessanti per attivare la progettazione di un servizio.<br />

La quotidianità, l’inter-azione, l’imprevedibilità, il riconoscimento, la<br />

riflessione, lo scambio sono alcuni dei modi con cui esplorare i diversi<br />

contesti lavorativi. Un noto studioso dei processi organizzativi afferma:<br />

L’ascolto, l’attenzione al quotidiano, costituiscono una priorità assoluta in qualsiasi tentativo<br />

di mobilitazione delle risorse umane o di modernizzazione dell’impresa. Se non si accetta l’idea<br />

semplice che i rapporti umani possono essere cambiati solo con ordini o regole, o con una spinta di<br />

entusiasmo persuasivo, la conoscenza concreta delle realtà vissute dagli attori operativi diventa<br />

allora indispensabile. (...) Questa conoscenza non ha nulla a che vedere con quella che emerge dai<br />

sondaggi d’opinione, sempre più vere e proprie caricature di un ascolto vero. Separate dal contesto,<br />

le risposte a domande astratte sono necessariamente superficiali e a volte retoriche. La vera<br />

conoscenza è diversa anche da quella che possono far emergere gli studi di motivazione, in quanto<br />

76


questi ci informano più sui problemi personali degli individui che su quelli posti loro dalla<br />

cooperazione con gli altri, dal funzionamento dell’impresa e dai giochi di potere a cui l’individuo<br />

si trova confrontato. Il vero ascolto è quello della vita di relazione di tutti i giorni. Le<br />

ricerche qualitative, che descrivono il modo in cui questa vita è vissuta, ce ne rivelano<br />

l’importanza e ce ne danno le chiavi di lettura. (...) La conoscenza che viene dall’ascolto non si<br />

limita a registrare risposte, emerge invece dal confronto di ognuna delle parti, dotata di una<br />

razionalità diversa, a volte contraddittoria (13) .<br />

Secondo Crozier per comprendere i fenomeni organizzativi è importante<br />

ascoltare e osservare la quotidianità dei processi lavorativi, aprendo i propri<br />

costrutti di conoscenza e di azione all’incontro con questioni riconosciute come<br />

tali, ossia come qualcosa di «grave, intralciato, spinoso, del quale non si è<br />

ancora trovata una soluzione» e che non è possibile far rientrare negli schemi<br />

abituali.<br />

In questo senso non si tratta di utilizzare delle griglie di osservazione<br />

predefinite e prescritte dai responsabili del servizio per valutare e<br />

individuare lo scarto tra il modello ideale di una buona e corretta relazione<br />

educativa e il progetto realizzato, tanto meno di catalogare i problemi in modo<br />

da individuare i saperi professionali adeguati al loro trattamento. Ricorrere ai<br />

saperi forti delle professioni o rimanere legati ai protocolli e alle griglie di<br />

osservazione non consente di attivare una rilevazione capace di cogliere la<br />

specificità, la contingenza locale dei funzionamenti di un servizio. Entrare in<br />

contatto diretto con i differenti funzionamenti dell’organizzazione determina la<br />

complessità dell’ascolto e dell’osservazione; complessità prodotta dal reciproco<br />

influenzarsi e contaminarsi tra le «mappe» attivate dai diversi operatori per<br />

esplorare, rilevare e i fenomeni incontrati durante l’analisi dei processi<br />

lavorativi.<br />

Una metafora efficace per comprendere i processi di ascolto e osservazione è<br />

un racconto di Weick in cui riporta una parte del resoconto di una spedizione<br />

del 1941 del biologo Steinbeck. Questi nel corso del viaggio rimase affascinato<br />

da una specie di pesce chiamata «mexican sierra». Il pesce è fatto come una<br />

trota, ha macchie blu brillante, misura dai 40 ai 60 centimetri, è sottile, è un<br />

nuotatore molto rapido, è classificato in modo simile allo sgombro anche se la<br />

sua carne è bianca, dolce e delicata, pesa fino a sei chili e si trova nella<br />

parte settentrionale del Mare di Corz.<br />

Il mexican sierra ha 17 + 15 + 9 spine nella pinna dorsale. Possono essere contate facilmente. Ma<br />

se strappa forte la lenza tanto da far scottare le mani, se si tuffa verso il fondo e quasi scappa e<br />

alla fine viene su oltre la battagliola, con i colori che pulsano e la coda che percuote l’aria,<br />

ecco che si viene ad avere un modo di esternare i rapporti completamente nuovo: un’entità che è più<br />

della somma del pesce e del pescatore.<br />

L’unico modo per contare le spine del sierra senza essere toccati da questa seconda realtà<br />

relazionale è sedere in laboratorio, aprire un vaso tremendamente puzzolente, togliere un rigido<br />

pesce incolore dalla soluzione di formalina, contare gli aculei e scrivere la verità (...). Abbiamo<br />

così registrato una realtà inattaccabile — probabilmente la realtà meno importante a riguardo sia<br />

nostro sia del pesce.<br />

È bene sapere ciò che si sta facendo. L’uomo con il suo pesce in salamoia ha fissato una verità e<br />

registrato molte bugie. Il pesce non è di quel colore, non è così smorto e non ha quell’odore (14) .<br />

L’unico momento in cui è possibile conoscere l’identità del pesce è<br />

l’interazione tra il pesce e il pescatore, l’analisi in laboratorio non consente<br />

di conoscere l’animale acquatico.<br />

La volontà di osservare il pesce in laboratorio esprime bene l’esigenza di<br />

voler utilizzare degli strumenti di osservazione e valutazione capaci di<br />

garantire «l’oggettività» delle conoscenze. La questione cruciale che Weick<br />

mette in luce è relativa al rapporto tra i quadri concettuali sottesi nelle<br />

mappe dell’ascolto e dell’osservazione e «l’oggetto» analizzato. La metafora<br />

sembra indicare che se l’osservatore rimane ancorato alla necessità di osservare<br />

e ascoltare seguendo il copione del questionario rischia di allontanarsi troppo<br />

dalla realtà e di cogliere gli elementi accettabili e comprensibili solo dalle<br />

proprie mappe esplorative. Attrezzarsi di griglie può essere in alcuni casi una<br />

corazzatura che impedisce al ricercatore di capire dati essenziali del sistema<br />

studiato, di percepirne l’intensità, di cogliere indizi e tracce che possono<br />

aiutarci a comprendere i processi lavorativi.<br />

Le rilevazioni dei fenomeni che impediscono il buon funzionamento di un<br />

InformaGiovani, ad esempio, implicano un ascolto e un’osservazione capaci di<br />

«far parlare i fatti», di lasciarsi suggestionare, influenzare, orientare dai<br />

molteplici indizi ambigui, confusi, contraddittori che un contesto lavorativo<br />

produce, senza dover immediatamente applicare le griglie concettuali, i<br />

77


protocolli di osservazioni, i saperi specialistici (che consentono di<br />

semplificare, ridurre, controllare e classificare i fenomeni analizzati).<br />

Inoltre è importante accettare i movimenti perturbanti, destabilizzanti,<br />

confusivi prodotti dai fenomeni organizzativi alle proprie «mappe» usate per<br />

ascoltare e osservare i processi lavorativi. Una metafora efficace per<br />

comprendere questi processi la si ritrova in Alice nel paese delle meraviglie:<br />

Alice era sicura di non aver mai visto un campo di croquet così strano, tutto pieno di solchi e<br />

zolle: le palle erano dei porcospini vivi, le mazze dei fenicotteri vivi e i soldati dovevano<br />

piegarsi in due e fare leva sulle mani e sui piedi per formare gli archetti.<br />

All’inizio la cosa più difficile per Alice fu maneggiare il suo fenicottero: le riuscì di tenerne<br />

serrato abbastanza agevolmente il corpo sotto il braccio, lasciando le zampe penzoloni, ma in<br />

generale, quando gli aveva fatto tendere bene il collo ed era sul punto di colpire con la testa il<br />

porcospino, quello si girava a guardarla in faccia con un’espressione talmente stupita che lei non<br />

poteva fare a meno di scoppiare a ridere. Quando poi arrivava a fargli abbassare la testa e stava<br />

per eseguire il tiro, si accorgeva con disappunto che il porcospino si era srotolato e se ne filava<br />

via. Oltre a ciò, c’era sempre un solco o una zolla che sbarrava la strada da qualsiasi parte<br />

volesse indirizzare il porcospino e, poiché i soldati piegati in due si raddrizzavano continuamente<br />

e si mettevano in marcia verso altre zone del terreno, Alice venne ben presto alla conclusione che<br />

si trattava proprio di un gioco molto difficile.<br />

(Lewis Carroll, 1865)<br />

Uno dei significati centrali della metafora è relativo al gioco di<br />

influenzamento e condizionamento tra i diversi attori: nel momento in cui Alice<br />

tenta di colpire il porcospino, il fenicottero si gira per guardarla in faccia<br />

con un’espressione talmente stupita che lei non può fare a meno di scoppiare a<br />

ridere. La protagonista, pur osservando attentamente il campo e la posizione del<br />

fenicottero, incontra tutta una serie di ostacoli imprevisti e imprevedibili che<br />

la condizionano fortemente nella possibilità di «colpire il bersaglio» (15) .<br />

È il gioco di reciproco influenzamento e contaminazione tra l’osservatore e<br />

l’osservato, tra l’ascoltatore e l’ascoltato a rendere complesso il processo di<br />

ascolto e osservazione. L’educatore, il consulente raccolgono e fissano lo<br />

sguardo su dati che li coinvolgono. Ci si sente co-implicati perché si osserva e<br />

si ascolta un contesto in cui l’operatore è emotivamente e affettivamente<br />

compromesso nei processi lavorativi. Gli influenzamenti e le contaminazioni<br />

reciproche tra i quadri concettuali dell’educatore che analizza la modalità<br />

delle persone di essere accolte nel SERT e i fenomeni osservati e ascoltati<br />

mettono definitivamente in crisi la possibilità di giungere a conoscenze «certe»<br />

e «oggettive» dei problemi del servizio. Evidenziano però anche un’altra<br />

questione cruciale dei processi di rilevazione: la possibilità di individuare<br />

nelle situazioni confuse, ambigue, contraddittorie, ingarbugliate, un «bandolo»<br />

della matassa, un filo che consenta di costruire delle rappresentazioni dei<br />

problemi capaci di attivare delle progettualità condivisibili.<br />

Per trovare un bandolo della matassa in contesti lavorativi complessi,<br />

incerti e ambigui è importante saper attivare delle osservazioni poliedriche e<br />

degli ascolti polifonici capaci di riconoscere come nelle rilevazioni dei<br />

fattori che producono, ad esempio, un alto turnover degli operatori siano<br />

possibili diversi «fili» di analisi. Ogni filo produrrà delle conoscenze, aprirà<br />

degli sguardi che consentiranno di cogliere e intrecciare indizi, tracce diverse<br />

dei contesti lavorativi.<br />

In questo senso si potranno ascoltare e osservare i molteplici aspetti in<br />

gioco nei processi lavorativi: le culture organizzative che istituiscono valori,<br />

norme, codici linguistici, mitologie e simboli; le culture professionali che<br />

definiscono i saperi praticati e agiti nelle azioni quotidiane; le storie delle<br />

persone che si rivolgono ai servizi e che condizionano le aspettative, i<br />

desideri; le condizioni socio-economiche del territorio in cui c’è il servizio.<br />

Gli ascolti polifonici e le osservazioni poliedriche consentiranno di<br />

cogliere nelle rilevazioni dei contesti lavorativi aspetti e indizi utili per<br />

costruire una versione e una visione dei «fatti» capaci di attivare dei processi<br />

di progettazione. Gli ascolti polifonici e le osservazioni poliedriche<br />

valorizzano (16) e sono interessati a sperimentare più chiavi di accesso, più<br />

vertici di osservazione e ascolto. In questo modo si costruiscono delle<br />

comprensioni più articolate dei fenomeni quotidiani. Una metafora efficace<br />

per comprendere questo processo la si ritrova in un racconto di Calvino:<br />

Quando c’è una bella notte stellata, il signor Palomar dice: – Devo andare a guardare le stelle. (...) La prima difficoltà è<br />

quella di trovare un posto dal quale il suo sguardo possa spaziare per tutta la cupola del cielo senza ostacoli e senza<br />

78


l’invadenza dell’illuminazione elettrica: per esempio una spiaggia marina solitaria su una costa molto bassa. Altra<br />

condizione necessaria è il portarsi dietro una mappa astronomica, senza la quale non saprebbe cosa sta guardando (...).<br />

Per decifrare la mappa al buio deve portarsi anche una lampadina tascabile. I frequenti confronti tra il cielo e la mappa<br />

lo obbligano ad accendere e spegnere la lampadina, e in questi passaggi dalla luce al buio egli resta quasi accecato e<br />

deve riaggiustare la vista ogni volta. (...) l’esperienza del cielo che interessa a lui è quella a occhio nudo (...). Occhio<br />

nudo per lui che è miope significa occhiali; e siccome per leggere la mappa gli occhiali deve toglierseli, le operazioni si<br />

complicano con questo alzare e abbassare (...). Quando si alza lo sguardo al cielo lo si vede nero, cosparso di vaghi<br />

chiarori; solo a poco a poco le stelle si fissano e dispongono in disegni precisi, e più si guarda e più se ne vedono<br />

affiorare. (...) Insomma il localizzare una stella comporta il confronto delle varie mappe e della volta celeste, con tutti<br />

gli atti relativi: levare e mettere gli occhiali, accendere e spegnere la lampadina, dispiegare e ripiegare la mappa grande,<br />

perdere e ritrovare i punti di riferimento (17).<br />

Calvino afferma che per localizzare le stelle è necessario il confronto delle<br />

varie mappe e della volta celeste.<br />

È importante avere delle mappe per non smarrirsi nella molteplicità degli<br />

indizi, delle tracce, ma nello stesso tempo è necessario soffermarsi sui<br />

segnali, sulle suggestioni e indicazioni degli oggetti osservati e ascoltati.<br />

Gli ascolti polifonici e l’osservazione poliedrica della realtà organizzativa si<br />

fondano su una rilevazione paziente e accurata degli elementi concreti resi<br />

visibili e ascoltabili dai discorsi degli operatori, dalle azioni quotidiane.<br />

L’esplorazione non ha lo scopo di raggiungere una classificazione dell’azienda, del<br />

territorio e dei suoi «mali» entro un quadro sistematico ed esaustivo. Deve avere<br />

l’intento di mettere in luce degli indizi, dei sintomi a partire dai quali è<br />

possibile costruire ipotesi interpretative articolate e dinamiche della realtà<br />

organizzativa — ipotesi che potrebbero consentire di attivare una progettualità<br />

maggiormente congruente con i contesti lavorativi e soprattutto condivisibile dagli<br />

operatori. Le osservazioni poliedriche e gli ascolti polifonici consentono di<br />

costruire delle rilevazioni che siano congruenti con le organizzazioni a legame<br />

debole attraversate da un’estrema incertezza, ambiguità, dinamicità dei processi<br />

lavorativi. Le rilevazioni sono finalizzate a costruire<br />

(...) «costrutti transitori» (oggetti concreti, relazioni, significati, schemi, storie, perfino<br />

identità), che incorporano e «fissano» provvisoriamente alcune caratteristiche della situazione<br />

percepite come rilevanti. Tali costrutti mediano tra attori e mondo ed esprimono ciò che gli attori<br />

conoscono fino a quel momento. Essi sono dunque delle «entità di riferimento», dotate di una<br />

provvisoria coerenza interna, che aiutano gli attori a imprimere un ordine effimero, a fissare un<br />

significato destinato ad essere trasceso, ma tuttavia indispensabile agli attori per agire, per<br />

orientarsi nella situazione e per andare oltre la situazione. Spesso tali costrutti hanno<br />

caratteristiche di espedienti e di improvvisazioni, messi insieme con materiali di seconda mano o<br />

pezzi di scarto, con un’attività continua di bricolage: ciò avviene perché in situazioni incerte,<br />

instabili, e perpetuamente mutanti questa è l’unica cosa che è possibile fare, non si ha tempo per<br />

fare altro. E tuttavia questi artefatti o assetti intermedi sono veicoli dinamici di cognizione e<br />

«portatori» di senso (18) .<br />

La costruzione di ascolti polifonici e osservazioni poliedriche<br />

La possibilità di cogliere i molteplici indizi presenti nei processi<br />

organizzativi attraverso ascolti polifonici e osservazioni poliedriche<br />

implicherà, in primo luogo, fare i conti con quanto siamo «affezionati» e<br />

«identificati» ai quadri di riferimento culturali sottesi alle nostre «mappe»<br />

esplorative e con la necessità di non ricorrere immediatamente ai saperi<br />

protettivi e difensivi. Ogni mappa permette di cogliere alcuni aspetti dei<br />

fenomeni organizzativi tralasciandone altri. Esse selezionano, escludono,<br />

includono i dati, gli indizi per poter riprogettare un servizio. Ogni mappa<br />

costruisce un mono-ascolto e una mono-visione dei fenomeni organizzativi.<br />

Spesso è il ricorso a quadri di riferimento collaudati e familiari, che appaiono<br />

come più solidi e stabili, più sostenuti dalle dimensioni istituzionali (delle<br />

organizzazioni o delle professioni), che impedisce di mettere in evidenza i nodi<br />

critici e porta a dividere quello che è giusto e quello che è sbagliato, quello<br />

che è conforme e quello che non lo è. «Critico» viene allora interpretato come<br />

cattivo piuttosto che come «né buono né cattivo, ma suscettibile di<br />

cambiamento». In quest’ultima accezione i nodi critici diventano invece aperture<br />

a riflessioni ulteriori che possono essere sviluppate introducendo altri quadri<br />

di riferimento concettuali. In questo processo di ascolto e osservazione non si<br />

tratta di valutare quanto è stato rilevato in rapporto a un modello prescritto<br />

(ideale) di operatività, ma piuttosto di cogliere dissonanze (19) che possono<br />

essere esplorate ricollegandosi a saperi, esperienze e culture presenti<br />

79


nell’équipe di lavoro, nelle organizzazioni. Nell’individuare le criticità<br />

emergono negli operatori differenziazioni e dissimmetrie, posizioni e linguaggi<br />

differenti, da qui fraintendimenti, scontri e dibattiti per affermare la<br />

validità dei propri punti di vista. Tuttavia è proprio questo «dibattito» a<br />

generare processi di progettazione dialogica.<br />

Il confronto-scontro sulle mappe dei diversi attori è possibile se essi<br />

accettano di non rimanere ingabbiati e rigidamente identificati nei propri<br />

quadri culturali, se ci si distanzia dalle appartenenze e identificazioni alle<br />

culture organizzative e professionali. In questo processo si riconoscono, per<br />

quanto possibile, le culture organizzative, professionali e personali che<br />

strutturano le proprie prospettive di osservazione e ascolto. Ciò offre<br />

l’opportunità di entrare in contatto con le culture organizzative, professionali<br />

e personali che hanno strutturato il proprio modo di sentire e vedere.<br />

È proprio il riconoscimento delle culture introiettate e apprese lungo il<br />

corso della vita che ci consente di entrare in contatto con la presenza in noi,<br />

anche, di una pluralità di riferimenti culturali, di saperi, di esperienze — il<br />

che facilita la possibilità di riconoscere e accettare l’esistenza e la<br />

legittimità delle «altre» mappe esplorative. In questo processo di<br />

riconoscimento e legittimazione è possibile integrare le diverse mappe attivate<br />

dagli attori organizzativi nel servizio. Nelle organizzazioni il problema<br />

dell’integrazione<br />

(...) diviene quello di rendere possibile per persone che abitano mondi diversi un incontro<br />

genuino e reciproco. Se è vero che, nella misura in cui vi è una consapevolezza generale, essa<br />

consiste nell’inter-azione di una massa disordinata di visioni non interamente commensurabili,<br />

allora la vitalità di quella consapevolezza dipende dalla creazione delle condizioni in cui avrà<br />

luogo questa interazione. E per questo il primo passo è sicuramente l’accettare la profondità delle<br />

differenze, il secondo il comprendere che cosa siano tali differenze e il terzo il costruire un tipo<br />

di vocabolario in cui esse possano essere formulate pubblicamente: in cui gli specialisti di<br />

econometria, gli epigrafisti, i citochimici e gli esperti di icone possano scambiarsi reciproci<br />

resoconti plausibili (20) .<br />

Attraverso le integrazioni si co-costruiranno delle nuove mappe; i diversi<br />

operatori, consulenti, responsabili si riconosceranno nelle mappe perché cocostruite<br />

attraverso il confronto-scontro. La co-costruzione non è però un<br />

processo volto a sommare e a giustapporre i diversi quadri concettuali, bensì è<br />

un processo creativo in cui si intrecciano, si mescolano e si producono nuovi<br />

modi di osservare e ascoltare i fenomeni organizzativi. La co-costruzione di<br />

nuove mappe consentirà di ridefinire rappresentazioni condivisibili dei problemi<br />

e quindi di attuare progettualità dialogiche.<br />

Per attivare ascolti polifonici e osservazioni poliedriche è importante<br />

riflettere anche sui movimenti che l’ascolto e l’osservazione dei fenomeni<br />

attivano dentro di noi.<br />

Ciò che permette di sopportare un’esperienza dolorosa sono l’interesse e la capacità di<br />

riflettere sui sentimenti che essa evoca in noi. Può succedere che ci sia bisogno di tempo e di<br />

spazio perché si possa considerare nella giusta misura la natura della sofferenza e se ne apprezzino<br />

adeguatamente i motivi. Questa riflessione sui sentimenti che proviamo ci consente sia di avere<br />

un’autentica esperienza che di afferrarne il significato, il che non può non portare ad una migliore<br />

comprensione di noi stessi e degli altri e, quindi, ad una crescita personale, oltre che ad una<br />

maggiore capacità di tollerare il disagio emotivo altrui (21) .<br />

Riflettere sui processi emotivi vuol dire tollerare il disagio emotivo prodotto<br />

dagli eventi e dalle situazioni osservate e ascoltate senza dover applicare<br />

immediatamente i quadri di riferimento culturali sottesi nelle mappe (22) . La<br />

riflessione consente di tollerare e attivare la destabilizzazione delle visioni e<br />

versioni del mondo costruite sulla definizione del vero e del falso, del giusto e<br />

dell’ingiusto; dicotomie che non consentono di attivare progettualità dialogiche.<br />

L’autorità e il potere<br />

L’ascolto polifonico e l’osservazione poliedrica partono dal presupposto che<br />

per esplorare un fenomeno è necessario mettersi in contatto con le altre<br />

possibilità di comprensione e conoscenza degli oggetti osservati e ascoltati e<br />

con le questioni legate all’autorità e al potere di proporre e imporre le<br />

«visioni» e le «versioni» dei fenomeni organizzativi. Ma per mobilitare altre<br />

mappe è importante fare i conti con le routine dell’ascolto e dell’osservazione.<br />

Le routine costituiscono, sia per i singoli individui che per le organizzazioni, risorse preziose<br />

per conseguire elevati livelli di efficienza ed efficacia. Esse permettono di realizzare delle<br />

economie cognitive. In situazioni che si ripetono in modo simile, fanno risparmiare tempo e sforzo<br />

80


mentale. Non sarebbe, infatti, possibile per un attore affrontare ogni situazione come se la<br />

incontrasse per la prima volta. Anche se i comportamenti routinari sono a volte fonte di stress,<br />

tuttavia non possiamo vivere senza routine (23) .<br />

Le routine dell’ascolto e dell’osservazione sono dei pre-giudizi che usiamo<br />

più o meno consapevolmente; esse attivano una selezione a partire dalle cose che<br />

ci sono famigliari.<br />

Se da un lato rendono possibile gli ascolti e le osservazioni (24) ,<br />

dall’altro però l’utilizzo continuo e ripetitivo delle stesse prospettive di<br />

ascolto e osservazione delle dinamiche delle riunioni con i colleghi, dei<br />

colloqui con le famiglie degli utenti, ecc., produce conoscenze sempre uguali.<br />

In questo modo si diventa sordi ai segnali che ci provengono dalla quotidianità,<br />

incapaci di cogliere e valorizzare gli indizi che emergono dai diversi casi<br />

facendoli diventare indicazioni che orientino la progettazione di attività<br />

innovative. La metafora del sentiero-routine utilizzata da Lanzara esprime bene<br />

l’ambivalenza delle mappe:<br />

Se da un lato il sentiero, in quanto espressione materializzata di ripetuti cammini che hanno<br />

avuto successo, è per noi una preziosa risorsa cognitiva che ci fa fare economie di ricerca e di<br />

tempo, dall’altro esso ci tiene quasi in ostaggio: ci offre sì la certezza, la tranquillità della<br />

sua traccia, ma ci vincola ad essa, ci fa pagare il prezzo di una perdita o riduzione di<br />

flessibilità cognitive. Infatti il sentiero ci connette alla meta finale e ci dà in ogni istante la<br />

certezza di essa, riducendo però la nostra capacità di orientamento locale. Se da un lato ci<br />

sconnette e ci protegge dalle contingenze locali, dall’altro, togliendoci sensibilità, ci disabitua<br />

ad un certo lavoro cognitivo (25) .<br />

Le routine degli ascolti e delle osservazioni possibili pongono alcune<br />

questioni cruciali sulla possibilità di attivare processi di progettazione<br />

dialogica. Se l’operatore rimane saldamente ancorato alle proprie cornici-mappe<br />

di ascolto e osservazione attraverso le quali seleziona, classifica, identifica<br />

i problemi che attraversano l’organizzazione, come può entrare effettivamente in<br />

contatto con altre costruzioni di problemi Se ciascun operatore di un SERT<br />

rimane saldamente legato ai propri quadri culturali, come può attivare un<br />

processo di progettazione dialogica centrato sulla condivisione dei significati<br />

Se rimaniamo ancorati alle routine dell’ascolto e dell’osservazione, come<br />

possiamo cogliere elementi, indizi non contemplati nelle nostre mappe E quindi<br />

come possiamo attivare delle progettualità di cambiamento<br />

Uscire dalle proprie routine degli ascolti<br />

e delle osservazioni implica la possibilità di trasgredire i propri punti di<br />

vista, riconoscere gli sguardi dei colleghi, legittimare i punti di vista anche<br />

delle persone che non sono collocate ai vertici dell’organizzazione, costituire<br />

delle micro-organizzazioni capaci di sostenere l’ansia prodotta dall’inoltrarsi<br />

in territori sconosciuti, avere fiducia nel senso di rischiare interpretazioni<br />

inconsuete. La trasgressione, il riconoscere, il legittimare, la fiducia, il<br />

rischio sono tutte dimensioni che rimandano alle dinamiche dell’autorità e del<br />

potere nei servizi. Attraverso i dati ascoltati e osservati si argomentano, si<br />

raccontano e si legittimano le scelte progettuali come, ad esempio, una<br />

riformulazione dei livelli gerarchici. A seconda di come aggreghiamo,<br />

componiamo, selezioniamo e rileviamo, costruiamo una «visione» e una «versione»<br />

dei fenomeni organizzativi. Ogni «versione» e «visione» evidenzia e legittima<br />

alcuni aspetti del funzionamento organizzativo e ne tralascia altri,<br />

influenzando quindi più o meno consapevolmente i processi di progettazione. In<br />

questo senso quanto più ci assumeremo il potere di contaminare l’ascolto e<br />

l’osservazione dei fenomeni organizzativi, tanto più saremo in grado di<br />

partecipare ai processi di progettazione dei nostri contesti lavorativi.<br />

(1) Nel verbo greco «vedere» ha la stessa radice di «sapere».<br />

(2) Goodman N., Vedere e costruire il mondo, Laterza, Bari 1988. In questo testo l’autore per<br />

costruzione di mondi possibili intende mondi di significati e di senso che strutturano le nostre<br />

rappresentazioni della realtà. Per Goodman la «fabbricazione dei mondi» è intesa come processo<br />

attraverso il quale gli attori sociali si costruiscono una «visione del mondo», visione che serve<br />

per costruire e attribuire i significati alle inter-azioni.<br />

(3) Weick K., Senso e significato nelle organizzazioni, Cortina Editore, Milano 1995, p. 118.<br />

(4) Douglas M., Come pensano le istituzioni, Il Mulino, Bologna 1990, p. 15.<br />

(5) Ibidem, p. 142.<br />

81


(6) Per i diversi riferimenti alla storia del pensiero organizzativo è possibile consultare Scott<br />

R. W., Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna 1985; Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo,<br />

Franco Angeli, Milano 1989. Nell’ambito delle culture classiche del pensiero organizzativo in<br />

particolar modo Taylor F. W., Principi di organizzazione scientifica del lavoro (1911).<br />

(7) Pirsig R. M., Lo Zen e l’arte della manutenzione della bicicletta, Adelphi, Milano 1990, pp.<br />

79-80.<br />

(8) Cfr. Brunod M., Il trattamento dei dati nella progettazione dei servizi, in «Animazione<br />

Sociale», 4, 1998.<br />

(9) Uno dei maggiori rappresentanti di questo orientamento culturale è H.A. Simon.<br />

(10) Cfr. d’Angella F., Orsenigo A., Tre apprecci alla progettazione, in «Animazione Sociale»,<br />

12, 1997, p. 58.<br />

(11) Simon H.A., Le scienze artificiali, ISE<strong>DI</strong>, Milano 1973, pp. 41-42.<br />

(12) Crozier, con Weick, è uno dei rappresentanti del pensiero organizzativo che ipotizza la<br />

presenza nelle organizzazioni di «logiche» d’azione organizzativa caratterizzate da una pluralità di<br />

significati e connessi debolmente.<br />

(13) Crozier M., L’impresa in ascolto, Il Sole 24 ore Libri, Milano 1990, pp. 150-151.<br />

(14) Weick K., Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi, ISE<strong>DI</strong>,<br />

Milano 1988, pp. 46-47.<br />

(15) Cfr. Bateson G. e M. C., Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano 1989, pp. 63-81.<br />

(16) La polifonicità è data anche dall’ascoltare e connettere i diversi racconti possibili sui<br />

funzionamenti organizzativi; ogni racconto indica un modo di rappresentarsi la realtà, una versione<br />

dei fatti. Attivare ascolti polifonici vuol dire poter considerare le diverse narrazioni per poterne<br />

costruire una «versione» che soddisfi tutti gli attori coinvolti perché attiva ulteriori<br />

progettualità. Gli sguardi poliedrici non indicano solo che è possibile osservare diversi oggetti ma<br />

che questi sono anche osservabili a partire dai diversi posizionamenti organizzativi. A partire<br />

dalle diverse collocazioni istituzionali e professionali si definiscono anche i vertici di<br />

osservazione.<br />

(17) Calvino I., La contemplazione delle stelle, in Palomar, Mondadori, Milano 1994, pp. 45-46.<br />

(18) Lanzara G. F., Capacità negativa, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 95-96.<br />

(19) L’importanza di cogliere elementi dissonanti è sottolineata da Freud nel testo Il Mosè di<br />

Michelangelo: «Ivan Lermolief (...) aveva provocato una rivoluzione nelle gallerie d’Europa<br />

rimettendo in discussione l’attribuzione di molti quadri ai singoli pittori, insegnando a<br />

distinguere con sicurezza le imitazioni dagli originali e costruendo nuove individualità artistiche<br />

a partire da quelle opere che erano state liberate dalle loro precedenti attribuzioni. Egli era<br />

giunto a questo risultato distogliendo lo sguardo dall’impressione d’insieme e dai tratti<br />

fondamentali di un dipinto, sottolineando invece l’importanza caratteristica di dettagli secondari,<br />

di particolari insignificanti come la conformazione delle unghie, dei lobi auricolari, dell’aureola<br />

e di altri elementi che passano di solito inosservati e che il copista trascura di imitare, mentre<br />

invece ogni artista li esegue in maniera che lo contraddistingue» (Freud S., Il Mosè di<br />

Michelangelo, in ID., Opere, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino, p. 311).<br />

(20) Geertz C., Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 205-206.<br />

(21) Salzberger-Wittenberg, Williams Polacco G., Osborne E., L’esperienza emotiva nel processo di<br />

insegnamento e di apprendimento, Liguori, Napoli 1983, pp. 105-106.<br />

(22) In alcune situazioni è difficile accettare di fare delle scoperte. Per chi ha molti anni di<br />

lavoro, di formazione professionale e di pratica lavorativa svolta con scrupolo in mezzo a tanti<br />

ostacoli, può esser faticoso ritornare sui propri passi. Inoltre può essere faticoso accorgersi di<br />

non avere visto qualcosa che era a portata di vista, ma che è sfuggito.<br />

(23) Lanzara G., op. cit., p. 60.<br />

(24) Spesso la necessità di rimanere ancorati alle routine dei quadri culturali usati per<br />

ascoltare e osservare i processi lavorativi quotidiani è dovuta al fatto che le cornici, le mappe<br />

sono fonte di riduzione dell’ansia prodotta dalle situazioni lavorative. Gli operatori sono spesso<br />

coinvolti, invischiati, incastrati in dinamiche relazionali generatrici spesso di confusione,<br />

smarrimento, lacerazioni, distruttività, impotenza. L’apprendimento di nuove mappe, per ascoltare e<br />

osservare i diversi funzionamenti organizzativi, implica un processo emotivo e cognitivo capace di<br />

sopportare situazioni conoscitive-esplorative dove non si è protetti e rassicurati dalle routine<br />

(cfr. Shein E. H., Verso una nuova consapevolezza della cultura organizzativa, in Gagliardi P., a<br />

cura di, Le imprese come cultura, ISE<strong>DI</strong>, Torino 1986, p. 404).<br />

(25) Lanzara G., op. cit., p. 67.<br />

ANIMAZIONE<br />

COME PROCESSO<br />

CHE DÀ SIGNIFICATO<br />

ALL’ESPERIENZA<br />

di Franca Olivetti Manoukian<br />

Pur essendo partita da istanze molto legate al progettare e all’intervenire, le<br />

circostanze della vita e la riflessione su essa mi hanno portato ad essere<br />

attenta a tutti gli aspetti teorici connessi allo svolgimento di attività.<br />

82


Ho cercato allora di portare avanti, in questi anni, una forte connessione tra<br />

teoria e pratica. Non è facile riuscire a concettualizzare su ciò che si fa;<br />

eppure, questa mi sembra debba essere una caratteristica fondamentale del lavoro<br />

sociale, affinché progredisca, non sia ripetitivo, sia aperto a rivoluzioni, nel<br />

senso anche di generazione e di crescita.<br />

Mi sono sempre interrogata su ciò che si fa e sugli esiti di ciò che si fa. In<br />

particolare, due sono gli interrogativi che, a parer mio, incombono e a cui è<br />

molto difficile trovare indicazioni di risposta.<br />

Il primo è il seguente: come mai più crescono le risorse di tipo tecnologico e<br />

scientifico, anche nello specifico campo delle scienze sociali, meno sembra<br />

possibile sviluppare una vita sociale soddisfacente<br />

In effetti, rispetto alle risorse e alle conoscenze scientifiche disponibili<br />

anche soltanto vent’anni fa, oggi sappiamo molto di più, eppure sempre meno<br />

riusciamo a costruire qualcosa che sia avvertito e riconosciuto come valido.<br />

Questo ci interroga sul senso di ciò che si fa.<br />

Rispetto a tale questione si danno spesso risposte di tipo descrittivo, che<br />

tengono conto dei vari elementi in gioco, o risposte di tipo giustificativo, che<br />

non entrano nel cuore dell’interrogativo. Esso emerge a livello di sistemi e<br />

microsistemi sociali e verte su quanto effettivamente si riesca a valorizzare le<br />

risorse esistenti. Parlo di risorse in termini scientifici, tecnologici; risorse<br />

in quanto saperi e conoscenze. Una vita associata spiacevole è difficile che sia<br />

una vita produttiva, che sviluppi le potenzialità, la ricchezza di un gruppo<br />

sociale.<br />

È un interrogativo, questo, che tocca i problemi della prevenzione,<br />

dell’animazione, dell’intervento sul sociale.<br />

Il secondo interrogativo nasce dal constatare, quasi con una sorta di impotenza,<br />

il perpetuarsi di una scissione netta tra quel che si sa e quel che si fa. Una<br />

separazione tra il sapere disponibile e l’azione che in quello stesso contesto<br />

si sviluppa.<br />

Ad esempio, soprattutto a livello di enti, si prendono spesso decisioni<br />

operative senza tener conto di una serie di conoscenze esistenti. È così nel<br />

caso della programmazione: esistono riflessioni, libri, articoli che hanno<br />

mostrato e dimostrato come una programmazione che parta con la pretesa che i<br />

destinatari la mettano in pratica sia destinata a fallire, eppure si continua in<br />

questa linea.<br />

È così anche rispetto al funzionamento delle Unità Sanitarie Locali, per le<br />

quali si ripropone l’individuazione di figure di manager che finalmente le<br />

prendano in mano, quando sono ormai più di cinquant’anni che sappiamo che le<br />

organizzazioni non sono fatte da leader, a meno che non siano organizzazioni di<br />

tipo molto autoritario, dove esista una sottomissione ai capi.<br />

Scindere il sapere dall’agire può anche essere frutto di una decisione, di<br />

un’operazione in cui è presente un’elaborazione della conoscenza, come quando si<br />

afferma: «So che fumare mi fa male, ma fumo lo stesso». So e in base a quello<br />

che so decido. Non è però il caso dei contesti citati, nei quali si riscontra<br />

una separazione tra sapere e agire assai difficile da ricomporre, sia a livello<br />

macro che a livello micro.<br />

Rispetto a questi interrogativi sono possibili molte risposte giustificative,<br />

che non aprono però a nuovi sbocchi o non suggeriscono che cosa si sarebbe<br />

potuto e si potrebbe fare di diverso. Sono interrogativi che pesano.<br />

RICORRENZE NEGLI INTERVENTI <strong>DI</strong> ANIMAZIONE<br />

È bene partire da ciò che è già stato fatto e riflettere sulle caratteristiche<br />

ricorrenti negli interventi di animazione in senso lato.<br />

La centratura sul fare<br />

Un elemento spesso presente e condizionante è la centratura sul fare.<br />

Quando si immagina o si realizza un intervento di questa natura, si produce<br />

molto a livello di azione, mettendo in atto una serie di decisioni: si<br />

costituiscono gruppi, si fanno leggi, si trovano sedi e fondi, si assumono<br />

persone. Come se fossero questi gli elementi essenziali.<br />

La mobilitazione delle persone si traduce nel farsi venire in mente le cose da<br />

fare e progettare: commissioni, consultori, campi sportivi, centri giovani, ecc.<br />

Pur essendo comprensibile la preoccupazione di «fare qualcosa» per contrastare<br />

fenomeni negativi (vandalismo, morti per droga, ecc.), si tratta comunque di<br />

interventi suscitati da eventi.<br />

83


Fare permette di reagire in maniera rapida ai drammi che possono accadere. Fare<br />

significa mobilitarsi subito. Fare rende visibile agli altri che ci si è<br />

mobilitati. Un assessore può così dire di aver aperto un centro, di aver speso<br />

milioni, di aver assunto personale.<br />

La centratura sul fare presenta, però, due elementi limitativi.<br />

Si fa senza prevedere le conseguenze, senza anticipare, in termini articolati,<br />

quel che potrebbe succedere se...<br />

Ad esempio, si apre un centro in una periferia milanese degradata, in cui tutti<br />

girano armati, e vi si mandano tre giovani animatori allo sbaraglio. Non si può<br />

non pensare a che cosa succederà a quelle stanze, a quegli animatori, a quei<br />

soldi spesi. Ma, nel momento in cui ci si mette a fare, è come se fosse<br />

giustificato il non prevedere le conseguenze dell’azione. Perché fare è quel che<br />

conta.<br />

La centratura sul fare porta inoltre a utilizzare, in interventi di animazione<br />

e prevenzione, quadri di riferimento propri di altri contesti e a trasporli<br />

automaticamente. Così, ad esempio, si fanno trasposizioni indebite da un<br />

contesto individuale a uno collettivo, da un contesto sanitario a uno sociale.<br />

Si ha l’idea di poter intervenire sul sociale con modalità analoghe alla<br />

prevenzione che si fa in campo sanitario, individuando il disagio e<br />

combattendolo come la tubercolosi o la carie dentaria.<br />

Il trasporre paradigmi da un contesto a un altro è utile e rappresenta un<br />

arricchimento, purché lo si faccia sapendo di fare una trasposizione,<br />

consapevoli di tutto ciò che questa comporta. Spesso, invece, si applicano tout<br />

court paradigmi psicologici a grandi gruppi, a situazioni sociali molto<br />

complicate, in cui le stesse dimensioni psicologiche possono senz’altro essere<br />

utili, ma occorre ricollocarle e risituarle.<br />

La centratura su quello che non c’è<br />

Il secondo elemento ricorrente è rappresentato dalla centratura su quello che<br />

non c’è piuttosto che su quello che c’è. Quando ci si pone nell’ottica di<br />

sviluppare un intervento, si presta maggiore attenzione a ciò che si deve fare<br />

che a ciò che è già stato fatto e che, comunque, già esiste in una situazione,<br />

coinvolgendo in questo meccanismo una serie di aspetti che cercheremo di<br />

analizzare.<br />

In particolare, si tende a rimuovere gli insuccessi. Esistono situazioni,<br />

difficili e complicate, nelle quali si fanno interventi da ormai vent’anni<br />

(certi quartieri, certe periferie, certe aree o categorie sociali). Come si può<br />

pensare di dar vita a un ennesimo intervento prescindendo dalle persone che già<br />

vi hanno operato e senza esaminare a fondo i motivi dei loro eventuali<br />

insuccessi e fallimenti<br />

Un altro aspetto della centratura su quello che non c’è è la delega. In genere<br />

nuovi interventi introducono nuovi gruppi e nuovi individui. Questo rivolgersi a<br />

qualcun altro avviene sulla base di una fiducia acritica: si chiama qualcuno che<br />

fa lo psicologo, qualcuno che ha fatto l’esperienza in un altro quartiere...<br />

La centratura su quello che non c’è presenta un ulteriore aspetto: il<br />

riferimento a valori ideali molto alti e, quindi, spesso ipostatizzati.<br />

Nell’area del sociale non ci si può muovere in una situazione di neutralità<br />

valoriale. Rispetto ai valori io posso pormi pensando che siano princìpi fissi e<br />

inamovibili, che chiamo ideali perché sono ciò su cui si fonda la nostra<br />

identità e a cui non possiamo rinunciare. Dall’altra parte, invece, i valori<br />

possono essere quello a cui io cerco di dare importanza in ciò che faccio. Sono<br />

collegati agli ideali, ma anche molto più mobili: sono i valori di cui mi servo<br />

tutti i giorni. Io vorrei una società giusta, questo è un ideale; però il mio<br />

valore di giustizia sta nel cercare, nel mio lavoro, di non raggirare gli altri.<br />

Sono due cose molto diverse. Rispetto a interventi, a progetti di animazione e<br />

prevenzione sociale ci si pone chiamando in causa valori ideali di tipo<br />

religioso, politico, civile, educativo, ecc.<br />

Quello che li caratterizza è il fatto che devono essere tenuti molto in alto,<br />

ben visibili, per dare valore a quello che facciamo. In nome di questi ideali si<br />

raggruppano persone, si trovano consensi e finanziamenti, ma l’azione rimane<br />

così troppo legata al vano tentativo di calare nella realtà gli ideali<br />

proclamati. E non può essere altrimenti, perché essendo ideali sono appunto<br />

nell’ordine delle idee. L’irraggiungibilità di tali ideali fa sì che si creino<br />

84


spaccature tra le persone o i gruppi che lavorano intorno agli stessi problemi<br />

reali. E poi, siccome si hanno ideali diversi, non si può lavorare insieme.<br />

Ricapitolando: si rimuove l’esistente, si delega ad altri, si chiamano in causa<br />

valori ideali e, infine, anche interessi particolaristici.<br />

La centratura sul fare e la centratura su quello che non c’è rischiano di<br />

ridurre notevolmente il peso e l’efficacia degli interventi. Emerge l’esigenza<br />

di una ricerca di significati, di una centratura sul fare che sia perlomeno<br />

compensata da una centratura altrettanto importante sul «pensare a ciò che si è<br />

fatto».<br />

ANIMAZIONE E PENSIERO<br />

Che cosa vuol dire, allora, «animazione»<br />

«Animare» significa dare vita. Si usa questo termine quando si intende influire<br />

su una vita associata che sembra minacciata di morte. Non è un caso che con esso<br />

ci si rivolga ai giovani, come se si dovesse proteggerli dal futuro, o a una<br />

compagine sociale che sembra non essere quella che abbiamo cercato di costruire<br />

o sembra essere fortemente minacciata.<br />

Collego l’animazione allo sviluppo di interventi sociali di tipo riparativo, non<br />

tanto come rimedio, ma nel senso (di matrice psicoanalitica) di costruire una<br />

compagine sociale che abbia caratteristiche in cui ci si possa identificare,<br />

rispondenti alle aspirazioni sulla società in cui vorremmo vivere. Un intervento<br />

sociale che permetta di contrapporsi a sintomi e fenomeni di disgregazione.<br />

Da decenni ci si pone il problema, ma gli esiti di questa attività sono poco<br />

evoluti. Un intervento sociale riparativo, volto a costruire una società che sia<br />

più rispondente ai nostri desideri, ha esiti incerti.<br />

La parola «animazione» penso che sia abbastanza usata come sinonimo di<br />

«prevenzione», con il vantaggio che è un termine più ampio e meno legato a una<br />

matrice sanitaria. Per certi versi credo anche che usare il termine «animazione»<br />

metta maggiormente a fuoco che si tratta di interventi sul sociale.<br />

Mi sembra cruciale sottolineare, in questi interventi, il rapporto tra pensiero<br />

ed azione. Come Innanzitutto riconoscendo che l’azione è sempre guidata dal<br />

pensiero: è errato ritenere che se noi facciamo senza pensare, il pensiero non<br />

c’entri. Infatti, in questi casi è come se ci fosse un pensiero non pensato, un<br />

pensiero somatico, che rischia di farci fare cose finalizzate a noi che facciamo<br />

piuttosto che al destinatario della nostra azione.<br />

Mi sembra inoltre importante collegare l’azione al pensiero nel duplice senso di<br />

riconoscere che il pensiero guida l’azione e che l’azione è produttrice e<br />

generatrice di pensiero.<br />

TAPPE PER UN PROCESSO <strong>DI</strong> SIGNIFICAZIONE<br />

L’animazione, come processo di attribuzione di significati, riesce a collegare<br />

l’azione col pensiero e il pensiero con l’azione, nel senso non solo di<br />

riunificare teoria e prassi, ma anche di prefigurarsi l’inscindibilità di<br />

pensiero e azione.<br />

Costruire quadri di riferimento<br />

Prima di tutto occorre costruire quadri di riferimento molto articolati e<br />

sofisticati. Quadri di riferimento conoscitivi, al fine di avere riflessioni<br />

agganciate a teorie di riferimento.<br />

In questo periodo, ad esempio, si usa spesso il termine «solidarietà». Dovremmo<br />

però disporre di un quadro di riferimento articolato, chiaro, operando tutti i<br />

distinguo del caso, sapendo quali sono le matrici storico-sociologiche di questo<br />

termine, andando a verificare a che cosa corrispondono le scelte istituzionali<br />

che vengono fatte in questa direzione. Non possiamo infatti prendere il termine<br />

solidarietà come la nuova parola d’ordine da attaccare sulla bandiera.<br />

Un altro termine che, a mio parere, ha a che fare con l’animazione sociale è<br />

«democrazia». Termine, anche questo, oggi in abuso e in disuso, che non piace<br />

più, che non è più di moda. Ma che cosa intendiamo per «democrazia»<br />

Prima di intervenire sul sociale dovremmo saperne di più delle idee e dei<br />

fenomeni che stanno alla base della nostra convivenza sociale.<br />

Mi sembra importante che ognuno si costruisca quadri di riferimento sia intorno<br />

ai contenuti cardine del lavoro nel sociale, sia intorno alla problematica tra<br />

idealità e pragmatismo. Nel sociale si ha costantemente a che fare con ambiguità<br />

e contraddizioni irrisolvibili. Proprio per questo occorre sapere come muoversi,<br />

avere in testa quadri di riferimento, mappe. Quanto più ci si muove in un<br />

terreno difficile, disseminato di trappole, di continui imprevisti, tanto più ci<br />

85


si deve sforzare di costruirsi una mappa personale sulla base delle informazioni<br />

che via via si riesce a mettere insieme.<br />

Se non ci costruiamo quadri di riferimento che ci consentano di vedere i<br />

problemi come tali, continueremo a vederli come questioni di parte, dei<br />

progressisti o dei conservatori.<br />

Nell’area degli interventi di animazione e di prevenzione nei confronti dei<br />

giovani e degli adolescenti, di certe situazioni a rischio, dobbiamo invece<br />

arrivare a ottenere che qualunque governo ci sia si faccia carico di questi<br />

problemi per preservare la convivenza sociale e la qualità della vita.<br />

Individuare soggetti e separazioni<br />

In seconda istanza occorre individuare i soggetti e le separazioni tra loro<br />

esistenti perché, anche se emergono soggetti nuovi che si legittimano e prendono<br />

l’iniziativa di fare interventi di animazione, vi sono comunque soggetti da cui<br />

non si può prescindere, e uno di questi è la scuola. Nei confronti della scuola,<br />

come ci collochiamo Si può far finta che non ci sia Possiamo assumere queste<br />

separazioni come separazioni date<br />

Questo condiziona il rapporto tra azione e pensiero, perché ogni istituzione,<br />

ogni soggetto, ha già un suo pensiero tradotto in azioni. È come se fosse<br />

portatore, comunque, di un pre-pensato che viene immesso nella situazione e con<br />

cui noi siamo in qualche modo a contatto, nel momento in cui interveniamo con<br />

proposte, ipotesi, linee di lavoro, progetti.<br />

Chiarificare ideali e interessi<br />

Un terzo elemento consiste nel riuscire a trovare congiunzioni o saldature tra<br />

ideali e interessi. Cercare di ridurre la divaricazione tra la centratura<br />

sull’ideale e la centratura sull’interesse. È come se l’ideale rappresentasse il<br />

pensiero e l’interesse l’azione. Ciò significa chiarificare i rapporti che le<br />

persone e i gruppi hanno con i loro ideali al proprio interno.<br />

Circoscrivere problemi e obiettivi<br />

È inoltre necessario circoscrivere i problemi e gli obiettivi, perché sono<br />

convinta che ci siano gruppi che nei confronti degli ideali hanno rapporti<br />

rigidi, non riformulabili.<br />

Gruppi che non vanno al di là di una continua ripetizione e proclamazione di<br />

quella che è la loro idea. In quelle situazioni non c’è possibilità di<br />

riformulazione del rapporto con l’ideale. L’ideale è molto legato<br />

all’appartenenza e l’appartenenza è ciò che dà identità e sostegno rispetto allo<br />

stabilire rapporti con gli altri. In questi casi una riformulazione di problemi<br />

ed obiettivi può essere percepita come un’operazione molto brutale e violenta<br />

rispetto agli equilibri che le persone si sono trovate.<br />

Ma circoscrivere vuol dire ritrovare, ridefinire l’ambito, non vuol dire<br />

chiudere. Circoscrivere vuol dire delimitare di più il campo entro cui può<br />

essere possibile sviluppare azioni collegate ad altre.<br />

Darsi un’organizzazione<br />

Tenere insieme pensiero e azione è tanto più possibile quanto più ci si danno<br />

modi e mezzi per farlo in tanti e in modo continuativo: quanto più ci si dà,<br />

cioè, un’organizzazione. Per organizzazione non intendo l’organigramma, la<br />

definizione del «chi fa che cosa»; intendo tutto ciò che può essere di sostegno<br />

a processi di lavoro intorno a obiettivi.<br />

Occorre distinguere tra prestazione e processo. Prestazione significa eseguire<br />

qualche cosa sulla base di un copione già dato, in genere da metodologie<br />

professionali, e tradurre in pratica qualche cosa che ha già una sua<br />

formulazione; l’azione è dunque questo. Nel processo, invece, si parte da<br />

ipotesi sul raggiungimento dell’obiettivo e sul risultato atteso. Per arrivare<br />

al risultato atteso si compiono una serie di azioni di cui gli attori si<br />

assumono la scelta e la responsabilità della scelta.<br />

È un modo di lavorare molto diverso. Il processo mi costringe ad anticipare: per<br />

arrivare al risultato, che cosa debbo fare Bisogna che cerchi di prefigurarmi<br />

nella mente la strada attraverso la quale posso arrivare al risultato. Se<br />

ragiono in termini di azioni e prestazioni, no.<br />

Mentre il lavoro o l’attività per azioni è di tipo lineare, in sequenza, la<br />

caratteristica del lavorare per processi è che questi sono di tipo circolare.<br />

Continuo a ritornare su quello che ho fatto per verificare se ho effettivamente<br />

raggiunto quello che mi ero proposta. E siccome un obiettivo non è mai raggiunto<br />

86


del tutto, ma ci si avvicina sempre approssimativamente, occorre ritornarci su<br />

per capire come migliorare il passo successivo.<br />

PENSARE IN TERMINI COMPLESSIVI<br />

Non è sufficiente fare un progetto e dare occupazione a qualcuno, per porsi sul<br />

piano dell’animazione sociale. Dare lavoro, anche a ragazzi che altrimenti<br />

sarebbero disoccupati, è una cosa rispettabile, fare un progetto può essere<br />

utile, ma non automaticamente si tratta di animazione sociale.<br />

Come nel secolo scorso si sono diffuse certe nozioni di igiene e ad un certo<br />

punto la gente ha cominciato a capire che bisognava disinfettarsi le mani prima<br />

di toccare una ferita, così oggi dovremmo diffondere, a livello culturale,<br />

l’idea che un progetto di animazione è una cosa profondamente diversa dal<br />

trovare quattro ragazzi che facciano giocare altri quattro ragazzi.<br />

È ormai sempre più importante pensare in termini complessivi, anche se poi si<br />

lavora nel micro. Anche se si lavora con un solo gruppo di ragazzi in un piccolo<br />

Comune, non si può non ragionare sul significato che le iniziative intraprese<br />

possono avere in relazione agli amministratori, ai responsabili dei servizi,<br />

agli opinion leader...<br />

Come si può contemporaneamente costruire un quartiere ghetto e aprire uno<br />

sportello Informagiovani In termini complessivi c’è qui una contraddizione<br />

enorme. Com’è possibile che, in uno stesso contesto territoriale, la scuola<br />

possa vantarsi di espellere un numero sempre più grande di ragazzi e il Comune<br />

pensi a iniziative di prevenzione<br />

L’intervento sociale non è solo un’opera dei servizi o del volontariato. Chi ci<br />

amministra tutti i giorni fa degli interventi sul sociale rilevantissimi, e così<br />

anche i responsabili scolastici. Non possiamo legittimarci e sentirci tranquilli<br />

perché, avendo un finanziamento, lavoriamo e facciamo attività meravigliose,<br />

quando tutt’intorno le cose vanno in senso inverso. Occorre almeno esserne<br />

consapevoli, anche se può darsi che non sia possibile fare niente. È necessario<br />

pensare in termini complessivi, in senso spaziale e temporale, perché i processi<br />

sono lunghi e se si vuol lavorare in termini di ricostruzione di rapporti con le<br />

nuove generazioni possono non bastare otto, dieci, quindici, vent’anni. I<br />

finanziamenti sono difficoltosi, ma non si affrontano i problemi in un anno. C’è<br />

bisogno di inventare modi e mezzi per poter realmente «lavorare» intorno ad aree<br />

di problemi in un contesto sociale circoscritto.<br />

Occorre pensare, all’interno di quadri di riferimento, a ipotesi specifiche.<br />

Sono i ragazzi, in genere, ad essere individuati come i più a rischio; le<br />

ragazze ne sono invece tenute un po’ fuori. Ma le donne, nella società, hanno<br />

un’importanza decisiva, contribuiscono a definire i modelli di socializzazione.<br />

Mi sembrerebbe interessante lavorare con le ragazze più di quanto non si faccia.<br />

Costruire ipotesi articolate e modalità organizzative. In quest’ambito il sapere<br />

organizzativo è in effetti molto ridotto. Purtroppo l’animazione è sempre stata<br />

un’attività svolta in un’ottica movimentista, puntando più su aspetti di<br />

spontaneità che su aspetti di definizione e di controllo.<br />

(Testo tratto da «Animazione Sociale», nr. 12, 1994)<br />

SETTE PENSIERI SULL’EDUCARE di Andrea Canevaro<br />

Educare non è certo una delle parole chiave del nostro tempo. E certo, se con<br />

essa intendiamo un plasmare la persona, un fabbricarla come nel famoso mito<br />

di Frankestein, allora vada pure in soffitta. Se invece la interpretiamo in modo<br />

più mite, lasciando che nel rapporto con l’altro ognuno divenga se stesso,<br />

in una relazione generatrice di sempre nuovi significati, capace di mobilitare<br />

il desiderio e provocare continue riprogettazioni di sé, allora è una<br />

scommessa che merita di essere giocata. Anche, se non soprattutto, oggi.<br />

Ci sono alcune parole da usare con sospetto: una di queste è «educare». Troppo<br />

spesso, quando si parla di educazione, si intende un’azione volta a trasmettere<br />

verità a chi ancora non conosce questa verità o non la possiede. Ma prendiamola<br />

in un’altra derivazione, che è «educarci». Educarci vuol dire essere tutti<br />

coinvolti, avere tutti un percorso da fare. E in questo percorso dare un senso<br />

alla fatica, che inevitabilmente si fa, è importante.<br />

La fatica<br />

87


Il primo punto della mia riflessione sull’educazione riguarda allora il trovare<br />

senso. Lo illustro con un riferimento a Matteo, un ragazzo down (quattordicenne<br />

al momento dell’episodio). Suo fratello Nicola lo intervista e gli domanda cosa<br />

sia la sindrome di Down. La risposta è molto bella: «La sindrome di Down è<br />

essere intelligenti, ma è fatica a stare al mondo». Ci abbiamo ragionato con<br />

altre persone. La prima reazione è stata quella di soffermarsi sull’elemento<br />

«fatica» e sulla necessità che come educatori abbiamo di togliere la fatica. Poi<br />

la riflessione è stata più precisa ed è sorto il dubbio che la frase non fosse<br />

scomponibile: e se la fatica fosse il picciolo della pera, per cui la vita di<br />

Matteo fosse un unico con quella fatica Staccandogli la fatica, gli toglieremmo<br />

la vita.<br />

Fare la strada insieme a chi ha impedimenti talvolta è più semplice se lo prendo<br />

in braccio; certo vado più spedito, però la fatica la faccio io, me l’assumo<br />

altruisticamente. Ma cosa vuol dire impedire all’altro di fare fatica Vuol dire<br />

togliergli una possibilità di contare sulle sue forze, di essere qualcuno che in<br />

rapporto alla realtà ha una forza, limitata magari, ma sua. È venuta così l’idea<br />

che fosse compito nostro insieme a Matteo trovare senso alla fatica. Questo è<br />

uno degli elementi forti della sfida dell’educazione: l’educazione deve aiutare<br />

a trovare senso.<br />

Come educatori noi abbiamo la responsabilità di aiutare a fare una fatica di cui<br />

ancora il senso non è tutto completo. Facilmente l’operazione incontra la<br />

resistenza dell’altro: di chi dovrebbe, secondo le nostre idee ingenue, essere<br />

solo contento di liberarsi dalla schiavitù dello stereotipo («barbone», «bullo»,<br />

«tossico», «handicappato», ecc.) in cui è imprigionata la sua individualità; in<br />

realtà vive lo stereotipo stesso come rifugio, e quindi non è immediatamente<br />

contento di esserne liberato. Neanche in un secondo momento potrebbe essere<br />

contento di liberarsene. L’incontro con la sofferenza è l’incontro di chi nella<br />

sofferenza vive una condizione che, in qualche maniera, lo protegge. Forse se ne<br />

lamenta — la sofferenza non piace a nessuno — ma vi è una condizione paradossale<br />

per cui chi vi è dentro, chi la abita, e ne abita lo stereotipo e l’immagine<br />

sociale, fatica a liberarsene; e quando incontra chi gli propone questa<br />

liberazione oppone una resistenza.<br />

Un pedagogista di Lione, Philippe Meirieu, sostiene che il momento chiave di un<br />

rapporto educativo è proprio l’incontro, anzi lo scontro, con la resistenza<br />

dell’altro. Evitarlo, fare marcia indietro, risparmiargli questa fatica vuol<br />

dire non parlare di educazione. Naturalmente questo vale anche per gli<br />

educatori, vale per tutti: non esiste una parte del mondo che ha già fatto<br />

questa fatica e una parte che la deve ancora fare. In questo senso si è in un<br />

rapporto di parità. Tornando a Matteo, persona down, ho sempre il dubbio che si<br />

tenda a misurare la bontà di molte proposte educative sul fatto che non<br />

incontrino resistenza. E invece proprio qui sta la forza di un’operazione in cui<br />

il contatto personale, la conoscenza reciproca permettono di fare fatica e di<br />

scoprirne il senso.<br />

La comprensione<br />

La seconda questione ha a che fare con la ricerca di una prospettiva strutturata<br />

complessa (Gestalt). Prendo spunto da Rogers, il quale in due libri diversi<br />

ribadisce una stessa idea. Rogers critica chi si affida al sentito dire: le<br />

fonti vanno accertate, è sbagliato dare per scontato invece di fare la<br />

necessaria verifica. Però aggiunge: le fonti vanno anche rispettate. Non posso<br />

mettere in dubbio l’esistenza dell’Australia solo perché non ci sono mai stato.<br />

Sarebbe insensato. Bisogna che io accetti una strutturazione del mondo che<br />

comprenda l’Australia. Ecco, questa disponibilità a cogliere fonti diverse, ad<br />

ascoltare chi è lontano da me, per stile di vita, interessi, opinioni, questa<br />

capacità di superare quell’infantilismo ormai pervasivo per cui una fonte che mi<br />

è antipatica, se anche dice la verità, è già a priori bollata come falsa (e<br />

viceversa, quelli che mi sono simpatici hanno comunque ragione) mi sembrano<br />

qualità necessarie in educazione. La logica che pervade tutti è invece quella<br />

del telecomando, chi cresce ce l’ha incorporata: faccio quello che mi piace,<br />

ascolto chi mi piace, e se una cosa non mi piace cambio canale. Mi sottraggo<br />

così alla fatica del conoscere, chiuso nella mia immediatezza, senza riuscire a<br />

prendere le distanze necessarie per comprendere la realtà.<br />

Negli incontri di formazione in passato abbiamo spesso usato la griglia «mi<br />

piace/non mi piace». Ora non la uso più perché mi pare induca a pensare che si<br />

88


fa solo ciò che piace. Così come certa enfasi che ha attraversato il mondo<br />

dell’educazione sulla «motivazione» — peraltro giusta — mi sembra che alla fin<br />

fine porti a fare solo ciò per cui si è motivati. Bisogna spiegarsi bene, perché<br />

la motivazione può rattrappirsi in un individualismo esasperato, per il quale<br />

ognuno fa quello che vuole, impara quello che gli pare giusto e che gli va bene<br />

imparare, non diventa punto di resistenza. Ma così si fa poca strada (e non si<br />

sviluppa l’individuo sociale, che incrocia invece i suoi motivi con quelli di<br />

tanti altri), la prospettiva si struttura su uno spazio stretto. Arrivare invece<br />

a trovare una strutturazione su più piani, una comprensione di contesti diversi<br />

dal proprio, questo in educazione mi pare molto importante.<br />

I contesti sono anche i contesti gergali; il «dialetto» degli educatori fa sì<br />

che ci siano delle espressioni che hanno un significato piuttosto che un altro.<br />

Prendiamo la parola maternage: nel lavoro di strada assume talvolta la<br />

connotazione di un rapporto di accoglienza incondizionata, riproduzione di un<br />

rapporto in cui rischia di prevalere il ripiegamento narcisistico a scapito<br />

della progettualità. Noi invece usiamo la parola maternage senza queste<br />

connotazioni riduttive, il tipo di rapporto che intendiamo è ben raffigurato<br />

dall’immagine della madre che tiene un bimbo in braccio: in questo rapporto gli<br />

elementi di rassicurazione e allentamento sono molto ben collegati tra loro. Non<br />

c’è rigidità: la donna tiene in braccio questo bambino e fa altro — parla con<br />

altre persone, si sposta, ecc. Non lo guarda, ma ha un contatto di corpo a corpo<br />

che le permette di tenere il braccio rilassato e di irrigidirlo non appena il<br />

bambino compie movimenti che potrebbero risultare pericolosi. Mi sono anche<br />

abituato a figurarlo come il rapporto che esiste tra istruttore e persona che<br />

impara a guidare: bisogna avere codici molto istantanei per capire se<br />

l’iniziativa che deve avere chi impara a guidare porta a errori fatali, e allora<br />

intervenire e togliergli l’iniziativa, altrimenti lasciargliela, così che la<br />

persona sperimenti l’assunzione di responsabilità e impari dagli eventuali<br />

errori.<br />

Questo per dire che nei diversi contesti le parole cambiano anche di<br />

significato. Ci sono però contesti ampiamente riconosciuti che possono indurre a<br />

dare per scontato la fonte invece di svolgere la necessaria ricerca per<br />

approfondire. Bisogna perciò stare attenti a capire se anche quello che dicono<br />

coloro che ci sono simpatici ha un senso.<br />

La libertà<br />

C’è una parola, appartenenza, di cui l’educazione deve oggi parlare ponendosi<br />

dei problemi più ampi. Perché anche qui torna l’insidia della logica del<br />

telecomando: faccio solo quello che mi piace, che mi convince, che ha un senso<br />

per me, il mio essere parte di un tutto non mi interessa. Questa è frantumazione<br />

sia dei singoli sia del loro tempo — sono cose note — in una società fatta a<br />

tessere di mosaico dove ogni tessera ha una sua autoreferenzialità, per cui ci<br />

sono certe logiche che sono proprie di un’ora del giorno o di un determinato<br />

contesto, e poi altre logiche contrapposte, con coerenze inesistenti tra queste<br />

diverse logiche. Così ci sono persone che sono chierichetti la mattina e diavoli<br />

la sera: hanno cambiato canale, vivono in un’altra trasmissione e va bene così.<br />

L’appartenenza è qualcosa di più, che supera questa autoreferenzialità a mosaico<br />

e ha bisogno di una comprensione del mio «stare nel mondo», nel contesto più<br />

immediato, ma anche nel mondo più vasto. Ricordo un educatore, si chiamava<br />

Giovenale, morto l’anno scorso. Operava in colonia e aveva, come sempre succede,<br />

il problema di qualcuno che la sera aveva molta vivacità da esprimere. La sua<br />

capacità di educatore era quella di far sì che ci fosse spazio per le iniziative<br />

di costui o costei, ma nello stesso tempo si tenesse anche conto che si passava<br />

dal giorno alla notte.<br />

Ecco, questa è un’immagine che mi è piaciuto riprendere, pensando che la parola,<br />

non sempre facile, «appartenenza» voglia dire capire che per tutti c’è il giorno<br />

e la notte e bisogna mettersi d’accordo. Il giorno e la notte sono il tempo<br />

dell’attività e il tempo del riposo, anche se ci sono tutte le eccezioni, ma le<br />

eccezioni devono tener conto del contesto. Se escludo il pensiero degli altri e<br />

dico: «La notte sarà quella che dico io!», ecco che l’appartenenza viene meno.<br />

Sentire la propria appartenenza a qualcosa che è fatto di elementi comuni e di<br />

elementi particolari non vuol dire uniformità, ma comprensione degli elementi<br />

che sono una forza più grande della mia sola forza. Vuol dire comprendere i<br />

margini entro cui la singolarità e l’originalità di ognuno possono esprimersi,<br />

89


mantenendo però una curiosità forte per quello che succede altrove, per come<br />

succede, per l’identità di chi fa certe cose altrove. Non basta prendere atto<br />

dell’appartenenza, dei vincoli e delle regole che questa implica, per essere<br />

liberi e rispettare la libertà altrui. La libertà è anche liberarsi e liberare<br />

dagli stereotipi. È uscire dal proprio campicello e andare a vedere cosa fanno<br />

gli altri, vuol dire «entrare nelle loro case», ascoltare cose nuove, sentire<br />

che siamo ignoranti e che abbiamo un percorso di conoscenza anche molto faticoso<br />

da fare.<br />

La responsabilità<br />

«Presto o tardi — scrive Bauman ne Le sfide dell’etica — ci rendiamo conto che<br />

seguire le regole, anche scrupolosamente, non ci salverà dalla responsabilità».<br />

Tanto meno guardare le cose con l’occhio della rana ci esime dall’assunzione di<br />

responsabilità. L’occhio della rana è un’immagine efficace per dire come lo<br />

specialismo sia un’abilità ma anche un limite. La rana è capace di percepire il<br />

minimo vibrare di un’ala e per automatismo fa scattare la lingua. Se però è<br />

circondata da mosche morte, che sarebbero per lei un ottimo alimento, e non c’è<br />

neanche un filo di vento, la rana resta digiuna. Lo specialismo in questo caso<br />

può far morire di fame. Così lo specialismo delle idee o delle professioni: se<br />

da un lato si è garantiti e uscirne significa esporsi al rischio, dall’altro è<br />

vero che senza rischi finisce anche un po’ la vita.<br />

Incontro spesso questo problema quando ci sono persone handicappate che crescono<br />

e si vogliono evitare loro le delusioni d’amore. Allora si cerca di<br />

circoscrivere la loro vita in modo tale che non abbiano neanche il desiderio<br />

della vita affettiva e sessuale. Questo è comprensibile, soprattutto ascoltando<br />

i genitori, e non deve far pensare che si tratti di gente bigotta, ignorante o<br />

egoista. Però qui sta anche il grande rischio di non voler correre rischi.<br />

Certamente il percorso è da fare insieme: mai come in questo caso il<br />

coinvolgimento deve esserci, ma serio, non limitarsi al «ti capisco». Partiamo<br />

invece dalla comprensione e poi vediamo come fare sì che ci possano essere oltre<br />

alle delusioni anche delle gioie, perché dolore e gioia sono insieme ed è<br />

impossibile escludere il dolore e nello stesso tempo avere le gioie.<br />

È la stessa logica di chi, avendo un figlio con problemi particolari, vuole<br />

avere — dall’asilo in poi — solo incontri con educatori ed educatrici capaci di<br />

accogliere, sorridere, pazientare, insegnare. L’operazione va accompagnata<br />

comprendendo cosa significhi questo desiderio, ma anche tenendo conto che,<br />

finché sei tu vicino a tuo figlio, è il momento giusto perché tuo figlio<br />

incontri qualcuno che è impaziente, e ringraziarlo di questo, perché nella vita<br />

incontrerà l’impazienza. Ed è anche l’occasione che genitori ed educatori<br />

possono offrire per scoprire che, dietro l’elemento sgradevole, c’è qualcosa,<br />

forse anche una competenza (quante persone sono competenti e sgradevoli...). In<br />

questo caso la responsabilità comporta assumerne i rischi.<br />

A questo proposito mi pare anche molto interessante la continua riflessione<br />

condotta sulla scarsa efficacia dei metodi repressivi. La riduzione del danno,<br />

come logica, assume una responsabilità più efficace rispetto invece a decisioni<br />

(quelle repressive) valide per il consenso immediato, ma non sul lungo periodo.<br />

Credo ci sia la necessità di lavorare per l’educazione come valore fondamentale<br />

e allenare tutti noi — soprattutto chi cresce — all’assunzione di<br />

responsabilità. Le responsabilità sono assunte per delle sciocchezze, e non per<br />

cose serie, come le responsabilità nei confronti di altri. L’educazione su<br />

questo punto è fortemente in ritardo.<br />

La comunicazione<br />

Il quinto punto riguarda la trasmissione delle conoscenze, delle competenze,<br />

della memoria. Uno dei drammi maggiori, anche se meno appariscenti, è proprio la<br />

mancanza di trasmissione delle conoscenze nella nostra società. Abbiamo bisogno<br />

di lavorare a più livelli, non serve prendersela solo con certe categorie:<br />

insegnanti, politici, mass media. Non ragioniamo per stereotipi, perché le<br />

eccezioni sono tante e proprio all’interno delle professioni che sembrano più<br />

bieche ci sono quelli che stanno riflettendo su quanto è bieco ciò che fanno —<br />

ed è con loro che si possono fare passaggi interessanti.<br />

Racconto una storia che potrebbe essere una barzelletta: un ragazzo ventunenne,<br />

interrogato da un docente di storia contemporanea sulla spedizione nelle Due<br />

Sicilie, a un certo punto nomina un certo generale Biperio. Il professore tutto<br />

subito non capisce, poi tornando sull’episodio cruento di Bronte lo studente<br />

90


dice che il generale responsabile fu Biperio. Chi era Biperio Era Bixio, solo<br />

che sugli appunti lo studente aveva letto la «x» come «per». La barzelletta può<br />

farci riflettere sulla difficoltà di trasmettere e di comprendere. La questione<br />

però è molto seria e ci può far capire come la trasmissione, molto<br />

schematicamente, abbia due parti: una «informale» e l’altra «formale». Se la<br />

trasmissione informale salta, allora subentra la trasmissione formale: bisogna<br />

formalizzare tutto l’insegnamento, perlopiù tramite la scuola. Quindi se i<br />

ragazzi hanno delle lacune o non sanno alcune cose, molto spesso si dice che la<br />

colpa è della scuola. Ma non è possibile che la scuola compia questo lavoro,<br />

perché fa parte di quella trasmissione informale che oggi è più difficile perché<br />

la comunicazione di massa è pervasiva e non si può pensare sia restaurata una<br />

competenza familiare. Bisogna piuttosto pensare che forse arriveremo a un uso<br />

improprio della comunicazione di massa; per cui dobbiamo occuparci della<br />

comunicazione di massa, e non lasciarla a Berlusconi o ad altri.<br />

L’operazione, secondo me, è paragonabile a quel che accade a chi usa una protesi<br />

uditiva — la cosiddetta «nocciolina». Se non è tarata bene e se non c’è<br />

l’educazione, dà improvvisamente tutti i rumori in una volta e si finisce per<br />

chiuderla nel cassetto, perché si sta quasi meglio a non sentire che a sentire<br />

la confusione. Accade un po’ la stessa cosa per i grandi mezzi di comunicazione.<br />

Nel giro di qualche generazione abbiamo bisogno di farci un’educazione a questa<br />

«protesi» potentissima che sono i grandi mezzi di comunicazione. È un’educazione<br />

però che non può essere fatta dagli eventi, ma deve essere fatta attivamente<br />

perché la trasmissione delle competenze ha bisogno della memoria e di una<br />

collaborazione molto studiata, attenta ai grandi media e alle tecnologie. Ben<br />

venga aprire Internet ai giovani, ma non aprirlo passivamente, ma per iniziare a<br />

lavorarci.<br />

L’intreccio delle culture<br />

Arriviamo così a un’altra questione decisiva: il superamento delle monoculture.<br />

Nell’educazione dovremmo avere sempre più coscienza che abbiamo bisogno di una<br />

buona metodologia in grado di intrecciare molti metodi. Non può più bastarci la<br />

conoscenza e l’attuazione di una proposta sistemica, ma bisogna «sporcare» le<br />

proposte, metterle insieme (questo vale per l’educazione di persone con limiti<br />

fisici o difficoltà psicologiche). Non si può più ragionare con l’idea che una<br />

riabilitazione basata su una proposta targata psicologia dinamica, psicologia<br />

cognitiva, sia da sola capace e sufficiente. Anche perché questa è una risposta<br />

falsata che gli specialisti ricevono: i «clienti» dicono di aver fatto<br />

esattamente quello che la proposta diceva di fare, ma lo dicono per far felice<br />

lo specialista, perché hanno sicuramente lavorato per adattare la proposta, con<br />

il loro buon senso, con i limiti e le risorse del contesto.<br />

Superamento delle culture può però essere sgangherata diffusione di risorse<br />

(«ognuno si arrangi come può e come vuole»); invece c’è la necessità di una<br />

maggiore integrazione di risorse. Abbiamo bisogno di capire meglio quali sono le<br />

professioni di aiuto e di farne il quadro, e di definire dei profili delle<br />

professioni e organizzare questi profili secondo una logica dei crediti e debiti<br />

formativi. Ognuno di noi ha cose che sa già fare — e questi sono i «crediti» —,<br />

però ci sono anche dei «debiti» rispetto al proprio profilo. Ma questi profili<br />

in che quadro rientrano Questa è una cosa che noi già possiamo fare<br />

comprendendo nel nostro punto di vista tutte le altre professioni al meglio, non<br />

con l’attenzione ai soli punti deboli. Ad esempio, il migliore insegnante che io<br />

conosco professionalmente che caratteristiche ha Come lo profilo<br />

La proposta del «quadro» è anche un elemento di aiuto che noi come vasta<br />

categoria culturale e professionale dobbiamo fornire a chi ha la giusta<br />

preoccupazione dell’economia. Come si può pensare che ci sia un’economia<br />

governabile se non c’è un quadro delle professioni di aiuto Le persone che<br />

escono dalla rete sociale primaria (perché si strappa, perché soffrono) da chi<br />

sono incontrate e perché Da chi vuole, oppure ci sono precise competenze<br />

professionali che entrano in gioco Bisogna capire il quadro delle professioni<br />

di aiuto, altrimenti il superamento del monoculturale rischia di essere<br />

veramente una centrifuga che scaraventa tutti chissà dove e va contro quel<br />

disegno di forte integrazione delle competenze, delle culture che noi vogliamo.<br />

Non possiamo pensare che davvero quel percorso di dignità che evocavo possa<br />

realizzarsi se è fatto di stravaganze, di invenzioni, di doti personali. Queste<br />

contano, ma fanno parte della logica dei debiti e dei crediti.<br />

91


Il qui e ora e i grandi orizzonti<br />

L’ultimo punto riguarda qualcosa che chiamo, forse impropriamente, la dimensione<br />

estetica. Lo esemplifico attraverso un piccolo episodio che mi è accaduto e mi è<br />

sembrato straordinario: in Cambogia ho svolto un lavoro con alcuni colleghi<br />

dell’Università di Pnom Phen. Di questi colleghi alcuni erano anziani ed erano<br />

sfuggiti al genocidio, mentre altri erano molto giovani ed erano stati investiti<br />

quasi per caso del ruolo di docenti universitari. Era difficile ragionare<br />

insieme, data la loro diffidenza e la loro poca abitudine a dialogare. A un<br />

certo punto è stata fatta la proposta di scrivere alla lavagna tante materie:<br />

infatti erano professori, ma nessuno sapeva ancora di quale materia; così ognuno<br />

avrebbe scelto una delle materie elencate e avrebbe detto che cosa si proponeva<br />

di fare. Tra le materie segnate c’era «estetica» e fu scelta da un professore<br />

che, alla domanda «perché l’estetica», rispose in primo luogo: «Perché mi piace<br />

molto il teatro». Poi disse la vera ragione: «Penso che l’estetica sia<br />

importante perché non ritorni un genocidio». Alla nostra richiesta di spiegarsi<br />

meglio, rispose: «Abbiamo bisogno di capire che cosa è la metafora. Dobbiamo<br />

capire — continuò — se la frase: “Bisogna uccidere l’uomo vecchio” è una<br />

metafora o una cosa reale, e per farlo bisogna utilizzare la letteratura, la<br />

poesia, il teatro, l’estetica insomma». Quello che diceva mi sembrò importante,<br />

perché capiva che il sottofondo culturale del genocidio era l’appiattimento, la<br />

perdita di vista dei diversi piani su cui bisogna sempre collocare la nostra<br />

azione, il nostro pensiero, la possibilità di tenere presente il qui e la<br />

dimensione più lontana.<br />

Mi ricordo che Paulo Freire, in un incontro all’Università di Bologna, alla<br />

domanda su quali fossero le virtù degli educatori, rispose «la bellezza», non in<br />

senso fisico, ma come capacità di cogliere il bello, il simpatico, l’«utile»<br />

degli altri.<br />

Concludo citando Korcdzac, uno straordinario educatore ebreo polacco, pediatra<br />

di formazione, che pochi giorni prima della fine aveva due attività in corso:<br />

una era la pubblicazione del giornalino, che usciva nonostante la situazione del<br />

ghetto di Varsavia e le poche risorse a disposizione. In questo giornalino<br />

l’articolo di fondo era dedicato a questo (importantissimo) tema: la necessità<br />

di imparare a sgombrare il tavolo quando si è finito di mangiare togliendo le<br />

briciole e non buttandole per terra. L’altro impegno riguardava l’animazione di<br />

quella che era chiamata la «borsa»: si trattava di un momento in cui alcune<br />

persone — pur in quei difficili e tragici giorni — si ritrovavano a discutere<br />

insieme su temi come il ruolo della donna in Europa, l’importanza di Napoleone<br />

nella storia della Polonia, e temi simili.<br />

Ecco, questa è quella che io chiamo dimensione estetica: la capacità di essere<br />

nello stesso istante presente al «qui e ora» con la massima dignità consentita<br />

dalle proprie forze e contemporaneamente essere attenti ai grandi orizzonti.<br />

Credo che su questo l’educazione — l’educarci — abbia bisogno di lavorare molto.<br />

92


BIBLIOGRAFIA I MODULO<br />

AA.VV. L’animazione socioculturale, Quaderni di animazione e formazione, Ega,<br />

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Scegliere la pace, Educazione al futuro, EGA, 1996<br />

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TALLONE, Dalla parte dei giovani. Politiche giovanili per costruire reali percorsi<br />

di prevenzione, Comunità Edizioni, Capodarco di Fermo, 2000<br />

93

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