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Le origini della chiesa parmense - Itinerari Medievali

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Marcella Patrucco Forlin<br />

<strong>Le</strong> <strong>origini</strong> <strong>della</strong> <strong>chiesa</strong> <strong>parmense</strong><br />

[Edito a stampa in Il governo del vescovo. Chiesa, città, territorio nel<br />

medioevo <strong>parmense</strong>, a cura di Roberto Greci, Parma 2005. © Marcella<br />

Forlin Patrucco. Distribuito in formato digitale da <strong>Itinerari</strong> <strong>Medievali</strong>]<br />

La città e il suo vescovo sono gli elementi forti alla base <strong>della</strong> memoria<br />

storica di Parma medievale. Ricostruirla e riproporla, come si intende fare in<br />

questa sede, significa seguire i tempi lunghi e le vicende complesse di<br />

fatti, luoghi, personaggi, gruppi sociali, istituzioni, forme di cultura e di<br />

religiosità vissuta: una storia non omogenea, né lineare, né unitaria nel suo<br />

andamento, e per di più sorretta su testimonianze modeste e fragili, che si<br />

tratti di fonti scritte o di tracce archeologiche o di resti monumentali. I<br />

frammenti di realtà che via via emergono sono pertanto condizionati da<br />

occasionali fortune dal punto di vista dei materiali documentari<br />

disponibili, e raccontano momenti particolari <strong>della</strong> vicenda di lungo periodo<br />

del Medioevo <strong>parmense</strong>.<br />

Dentro questa varietà di tempi e di condizioni, la città di Parma e<br />

l’insieme dei valori legati alla figura del vescovo (valori di tipo politico,<br />

istituzionale, ideologico-religioso) rappresentano punti di riferimento storico:<br />

in sostanza sono le linee-guida di un percorso capace di seguire e illustrare<br />

le tracce del Medioevo locale attraverso lo spazio urbano e il ruolo<br />

episcopale esercitato al suo interno. Città e vescovo sono due realtà che nel<br />

lungo arco di secoli subiscono grandi trasformazioni – in modi diversi –<br />

sull’onda dei cambiamenti intervenuti nella società, nell’economia, nei<br />

sistemi di potere, nella vita religiosa, nei modelli culturali. Tanto nella<br />

teoria quanto nella prassi, città e vescovo appaiono in ogni caso – già a<br />

partire dai tempi di alto Medioevo – strutture funzionali e organizzate nei<br />

propri ruoli e reciproci rapporti. Sono infatti il risultato di lunghe fasi<br />

storiche nel corso delle quali l’ambiente urbano subisce successive<br />

sistemazioni e si consolidano spazi e forme dell’autorità episcopale.<br />

Uno sguardo all’indietro, al passato remoto di queste realtà, può forse<br />

contribuire a rendere più leggibile il processo che si è compiuto in sede<br />

locale e che ha portato a definirle e a rafforzarle. E dunque parso utile<br />

partire dai tempi in cui si è originaria-mente diffuso il cristianesimo a Parma<br />

e vi si sono costituite le strutture ecclesiastiche. Va ricordato in proposito<br />

come sia necessario considerare due tematiche tra loro nettamente distinte:<br />

quella relativa alla cristianizzazione e quella che attiene alla organizzazione<br />

delle istituzioni <strong>della</strong> <strong>chiesa</strong>. Si tratta infatti di realtà legate tra loro, ma non<br />

necessariamente coincidenti dal punto di vista sia dell’epoca dei fatti sia<br />

<strong>della</strong> storia religiosa.<br />

1


Come per ogni altro luogo in cui la nuova religione mise radici, il<br />

racconto delle <strong>origini</strong> cristiane a Parma è pertanto quello dei tempi in cui<br />

sorse la comunità di fedeli e nacquero istituzioni, figure d’autorità e<br />

strutture del culto. Si tratta però di una ricostruzione impossibile per la sua<br />

fase storica più antica, e cioè per i primi tre secoli dell’era cristiana (la<br />

cosiddetta “età delle persecuzioni”): è infatti del tutto assente la<br />

documentazione di solito utilizzabile in proposito, fatta di fonti letterarie,<br />

liste episcopali, atti di concili (dove le liste dei firmatari fornisco-no i dati <strong>della</strong><br />

contemporanea geografia ecclesiastica nell’area interessata), calendari e<br />

martirologi, vite di santi e di vescovi, iscrizioni, materiali architettonici e<br />

figurativi.<br />

Il caso di Parma è da questo punto di vista tutt’altro che isolato nel panorama<br />

del più antico cristianesimo in Italia e delle <strong>origini</strong> delle chiese locali: solo<br />

per alcune città di particolare rilievo politico o militare o commerciale (prima<br />

fra tutte, ovviamente, Roma), le fonti consentono infatti di collegare la nascita<br />

di comunità di credenti e l’istituzione di vescovadi ai primi per-corsi<br />

dell’evangelizzazione, all’attività cioè di quei predicatori itineranti,<br />

immigrati orientali, letterati e mercanti che propagarono l’annuncio cristiano<br />

lungo le vie di comunicazione del mondo romano. Su queste basi gli studiosi<br />

sono oggi concordi nel ritenere chela diffusione del cristianesimo in Italia fu<br />

in generale molto lenta, e che risale a un’epoca non precedente gli inizi del IV<br />

secolo (quando, con il celebre “editto di Costantino”, cessarono nell’Impero<br />

romano le persecuzioni contro i cristiani), e talvolta anche molto più tarda,<br />

l’organizzazione di strutture ecclesiastiche: l’eccezione è rappresentata –<br />

oltre che da Roma – da poche località del centro e del meridione <strong>della</strong><br />

penisola, dove gruppi di cristiani si formarono assai presto e si stabilirono<br />

vescovi alla guida delle comunità di fedeli. Quanto all’Italia settentrionale,<br />

si possono far risalire a fine II-inizi III secolo soltanto le chiese di grandi<br />

centri urbani come Milano, Aquileia e Ravenna, luoghi dove l’importanza del<br />

ruolo politico e strategico e l’intensità dei traffici e dei transiti avevano<br />

fornito le condizioni privilegiate alla penetrazione del messaggio cristiano.<br />

Diverse tra loro quanto ai tempi dell’evangelizzazione, le regioni<br />

settentrionali e quelle centro-meridionali (rispettivamente Italia annonaria e<br />

Italia suburbicaria, secondo la denominazione di tipo funzionale invalsa in<br />

epoca tardoantica) presentavano differenze di grande rilievo anche nelle<br />

modalità e nelle caratteristiche dell’organizzazione ecclesiastica: oltre che<br />

più antiche, le diocesi suburbicarie erano infatti molto più nume-rose, di<br />

scarsa estensione, e insediate anche in piccoli centri, irrilevanti sotto ogni<br />

aspetto; quelle dell’Italia annonaria erano in generale di origine più recente,<br />

poche di numero anche in tempi di fortissimo incremento <strong>della</strong> creazione<br />

di episcopati (come nel corso del V secolo, quando nell’intera Italia<br />

passarono da una settantina a oltre duecento), e molto estese quanto a<br />

territorio interessato. Si trattava di differenze che avevano ricadute<br />

importanti anche sulle grandi questioni relative ai rapporti tra le sedi<br />

2


episcopali e al ruolo <strong>della</strong> metropoli ecclesiastiche (la “<strong>chiesa</strong> madre”, di<br />

solito quella di più antica fondazione, detentrice di speciali diritti): mentre<br />

nelle diocesi dell’Italia suburbicaria era in vigore uno stretto legame di<br />

dipendenza da Roma, fra gli episcopati dell’Italia annonaria esistevano relazioni<br />

assai meno formali, fondate su ragioni di dottrina e di tradizione, più che di<br />

vera e propria giurisdizione.<br />

Il particolare assetto ecclesiastico nelle regioni dell’Italia settentrionale ha<br />

le proprie radici nelle forme e nei modi in cui si verificò – nel II secolo a.C. –<br />

la più antica romanizzazione del territorio; questi furono a loro volta<br />

all’origine di modelli sociali ed economici caratteristici, destinati a<br />

permanere nel lungo periodo, anche di fronte al cambiamento delle<br />

circostanze storiche e dei contesti culturali e religiosi. Ciò spiega perché le<br />

diocesi fossero in numero ristretto e avessero un’ampia estensione<br />

territoriale: tale sistemazione corrispondeva a quella che era stata propria<br />

dell’area padana nei tempi <strong>della</strong> Roma repubblicana, con pochi centri urbani<br />

funzionali agli scopi di natura sia militare sia produttiva, che avevano<br />

rappresentato le logiche di fondo <strong>della</strong> colonizzazione locale.<br />

Il fatto che qui le sedi vescovili non conoscessero un significativo<br />

aumento di numero in parallelo al consolidarsi del cristianesimo in<br />

istituzioni, come invece avvenne in altri luoghi in Italia, fornisce una<br />

prova in più di come le diocesi nord-italiche nascessero in epoca tarda: esse<br />

sarebbero infatti, salvo i pochissimi casi ricordati, tutte posteriori alle norme<br />

emanate da concili di metà e fine IV secolo, che vietavano la costituzione di<br />

episcopati nei piccoli centri, in villaggi o città poco importanti, allo scopo di<br />

salvaguardare la dignità <strong>della</strong> figura del vescovo; Tutte queste considerazioni<br />

riassumono a grandissime linee quadro <strong>della</strong> più antica cristianizzazione e<br />

organizzazione ecclesiastica nelle città dell’Italia settentrionale, così come<br />

lo stato <strong>della</strong> documentazione disponibile consente di disegnarlo.<br />

E appena il caso di aggiungere che ciò induce a relegare nello spazio –<br />

pur di per sé fascinoso – <strong>della</strong> leggenda i tanti racconti che fiorirono a<br />

partire dai tempi di alto Medioevo, continuando poi a svilupparsi nei secoli a<br />

venire. Erano racconti che elaboravano, per moltissime sedi episcopali, il<br />

mito di prestigiose <strong>origini</strong> in età apostolica, legate alla prima<br />

predicazione cristiana e ai più antichi percorsi <strong>della</strong> missione<br />

evangelizzatrice; oppure che collegavano alla memoria di martiri e santi<br />

venerati – a partire dalla presenza di luoghi di culto a loro dedicati – la<br />

nascita <strong>della</strong> comunità cristiana e la creazione del suo vescovo: un’operazione<br />

che andava a maggior gloria <strong>della</strong> <strong>chiesa</strong> cittadina, e ne rivendicava l’antichità<br />

come fonte di autorità e dignità speciali nei confronti di altre chiese, ogni<br />

volta che tale argomento potesse venire efficacemente invocato a sostegno<br />

degli interessi locali quando sorgevano controversie in materia sociale,<br />

economica o politico-ecclesiastica tra le diverse diocesi. Va in ogni caso notato<br />

come queste tradizioni, pure da respingere in termini di ricostruzione di eventi,<br />

abbiano un loro valore intrinseco e degno di grande attenzione: studiate nelle<br />

3


loro circostanze di nascita e correttamente interrogate, sono capaci infatti di<br />

offrire interessanti spaccati di storia cittadina, e non soltanto di quella<br />

religiosa o in senso lato culturale, come vanno mostrando in tempi recenti le<br />

fortune storiografiche di quel particolare genere letterario che è l’agiografia,<br />

cioè quella abbondantissima produzione di scritti che raccontano le vite dei<br />

santi.<br />

Nel caso <strong>della</strong> <strong>chiesa</strong> di Parma la leggenda delle <strong>origini</strong> attinge <strong>Le</strong><br />

diverse – secondo i meccanismi più consueti – sia al dato letterario (passioni,<br />

cioè racconti del martirio e vite di santi) sia alla memoria di culti locali.<br />

L’evangelizzazione <strong>della</strong> regione viene fatta risalire all’opera di<br />

sant’Apollinare, primo vescovo di Ravenna, vissuto nel II secolo, a proposito<br />

del quale la Passione (da datare a quanto sembra al VII secolo) racconta le<br />

molte conversioni alla fede cristiana compiute in Emilia. Più tardi, tra X e<br />

XI secolo, si diffonde nell’area di influenza <strong>della</strong> diocesi di Milano<br />

un’antica tradizione bizantina che faceva dell’apostolo Barnaba, compagno<br />

di san Paolo, il fondatore <strong>della</strong> <strong>chiesa</strong> milanese, alla quale avrebbe dato<br />

come primo vescovo un suo discepolo e conferito il titolo di metropoli, che<br />

consentiva l’esercizio di una sorta di primato sulle sedi vescovili dell’Italia<br />

del nord. Funzionale alle rivendicazioni milanesi di autorità e di autonomia<br />

dalla <strong>chiesa</strong> di Roma, la diffusione <strong>della</strong> leggenda di san Barnaba estese alle<br />

città emiliane, legate all’episcopato di Milano, la memoria di una comune<br />

paternità apostolica, rafforzando il ruolo di potere <strong>della</strong> sede ambrosiana.<br />

Sembrano più complessi i percorsi e le fortune <strong>della</strong> leggenda che attribuisce<br />

a un san Luciano, secondo il racconto di una Passione del IX secolo, una<br />

missione in Gallia in compagnia di san Dionigi per iniziativa di papa<br />

Clemente I (fine I secolo): il santo, giunto nei pressi <strong>della</strong> città di Parma, in<br />

obbedienza a un ordine ricevuto in sogno, avrebbe evangelizzato quei<br />

luoghi; fatti incarcerare dai pagani parmensi, i due sarebbero stati liberati<br />

dai pochi cristiani locali, dirigendosi poi a Pavia e prendendo infine la via<br />

<strong>della</strong> Gallia del nord, dove – dopo essere divenuti vescovi l’uno di Beauvais<br />

e l’altro di Parigi – avrebbero subito il martirio.<br />

Si tratta peraltro di una tradizione che accosta elementi narrativi e<br />

modelli agiografici di provenienza diversa, e che accomuna Luciano di<br />

Beauvais (il cui culto nella città di Piccardia si sovrappone a quello di un<br />

omonimo martire orientale) e Dionigi nelle stesse modalità del supplizio per<br />

decollazione e fatto ancora più importante – nella stessa tipica esperienza<br />

<strong>della</strong> cosiddetta cefaloforia: entrambi infatti avrebbero raccolto il proprio<br />

capo reciso e lo avrebbero portato per un tratto di strada, allontanandosi dal<br />

luogo del martirio.<br />

E difficile non notare come il racconto presenti stretti legami di parentela<br />

con tradizioni agiografiche di grande fortuna in area sia cisalpina sia<br />

transalpina, in cui alcuni studiosi han-no individuato le tracce di remote<br />

usanze cultuali di matrice celtica. Per l’ambito geografico che interessa qui,<br />

il richiamo immediato è alla celebre leggenda di san Donnino, raffigurata e<br />

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en leggibile ancora oggi nei rilievi antelamici sulla facciata del Duomo di<br />

Fidenza. Nella Passione, la cui versione più antica si data sulla base di seri<br />

argomenti storico-letterari al VI secolo, il santo raccoglie la propria testa<br />

caduta a terra dopo la decapitazione e la porta sulla riva opposta del fiume<br />

Stirone, dove cade e viene sepolto; la tomba, abbandonata e ricoperta dal bosco,<br />

viene più tardi miracolosamente ritrovata, rivelando il corpo del martire<br />

incorrotto con il capo stretto tra le braccia. Va aggiunto inoltre che, nel<br />

riprodursi del modello agiografico e nell’elaborazione delle relative<br />

leggende, le memorie cultuali e i luoghi <strong>della</strong> devozione giocano in generale<br />

un ruolo molto importante: la loro esistenza – a partire dalla reale o<br />

supposta presenza di reliquie – fornisce infatti il fondamento concreto agli<br />

episodi narrati.<br />

Per l’area <strong>parmense</strong>, alla base <strong>della</strong> complessa tradizione i del passaggio<br />

di san Luciano e delle fortune del modello del santo “cefaloforo” è probabile<br />

che si debba porre il culto dedicato a un san Lucio, ritenuto martire locale ma<br />

da identificare con il santo venerato a Noyon in Piccardia: non a caso, si<br />

tratta <strong>della</strong> stessa regione in cui si trova la città di Beauvais, centro <strong>della</strong><br />

devozione a san Luciano. Va aggiunta poi anche l’esistenza di un antico<br />

oratorio su cui sarebbe stata eretta nel IX secolo la basilica di san Donnino a<br />

Fidenza: entrambe le circostanze avrebbero verosimilmente favorito la<br />

collocazione nel Parmense <strong>della</strong> tappa di un leggendario viaggio di<br />

missione, il cui protagonista riproduceva un modello martiriale<br />

singolarmente fortunato.<br />

Come si vede, queste narrazioni non forniscono alcuna informazione utile<br />

sulle <strong>origini</strong> del cristianesimo a Parma, né sulle modalità <strong>della</strong> più antica<br />

evangelizzazione del territorio, né sulla nascita <strong>della</strong> diocesi.<br />

La situazione documentaria non è sostanzialmente dissimile da<br />

quella di altre città dell’Emilia e in generale dell’intera area padana, dove<br />

tuttavia – almeno per alcuni centri urbani – le fonti si infittiscono nei decenni<br />

tra la fine del IV e gli inizi del V secolo. Ciò soprattutto grazie a una<br />

straordinaria produzione di opere di vario genere letterario (omelie, trattati,<br />

epistole), scritte da personalità prestigiose di vescovi: dal “grande”<br />

Ambrogio di Milano a (nell’ordine <strong>della</strong> rispettiva cronologia) Zeno di<br />

Verona, Massimo di Torino, Cromazio di Aquileia, Gaudenzio di Brescia. In<br />

riferimento sia alle singole sedi episcopali sia a vaste aree dell’Italia<br />

settentrionale, negli studi recenti la ricchezza di questa letteratura ha<br />

contribuito a fare delle diocesi “annonarie” un osservatorio privilegiato<br />

<strong>della</strong> vita religiosa e sociale delle comunità locali e dei modi in cui si<br />

esercitava il potere dei vescovi in età tardoantica: nell’epoca cioè in cui forme e<br />

figure dell’autorità ecclesiastica subirono una forte accelerazione in senso<br />

istituzionale, e si definirono, a livello sia di prassi sia di rappresentazione<br />

ideologica, immagine e spazi d’azione del ruolo vescovile.<br />

Fu questo un contesto di grandi trasformazioni, oltre che di fortissime<br />

tensioni e conflitti duri tra fronti dottrinali in opposizione, nei decenni di<br />

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punta dello scontro tra arianesimo e “ortodossia”* (nel senso originario di<br />

“fede retta”, “fede vera”, contrapposta a posizioni ritenute devianti sui temi<br />

del rapporto tra le persone <strong>della</strong> Trinità), con importanti ricadute in<br />

materia sia ecclesiale sia politica. In tale scenario si collocano la figura e<br />

l’opera del vescovo di Milano Ambrogio, protagonista riconosciuto – per<br />

una serie complessa di circostanze – dei cambiamenti che intervennero<br />

allora tanto nell’assetto istituzionale quanto nella stessa geografia<br />

ecclesiastica dell’Italia settentrionale, al punto che la storiografia indica a<br />

buon diritto come “età ambrosiana” nella storia <strong>della</strong> Chiesa i decenni<br />

finali di IV secolo, quando presero forma i risultati di una straordinaria<br />

azione episcopale. L’offensiva antiariana ebbe grande successo: venne<br />

creata una rete di vescovadi “sicuri” dal punto di vista dottrinale; il raggio di<br />

autorità <strong>della</strong> sede di Milano si allargò ben al di là dei confini <strong>della</strong> diocesi,<br />

grazie all’esercizio di un’intensa attività pastorale, missionaria,<br />

evangelizzatrice; si distesero i rapporti dentro e tra le diocesi; venne<br />

costruita e promossa l’immagine forte di un potere episcopale saldamente<br />

ancorato ai modelli politici <strong>della</strong> tradizione civile.<br />

Per quanto contingente e provvisorio, legato com’era al prestigio<br />

personale e alle realizzazioni di Ambrogio e alle necessità <strong>della</strong> lotta contro<br />

l’arianesimo, questo rafforzamento nella teoria e nella prassi delle strutture<br />

ecclesiastiche passò anche attraverso la creazione di nuove diocesi e la<br />

nomina di nuovi vescovi in quelle esistenti, da cui vennero rimossi gli<br />

esponenti del fronte dottrinale avverso: Ambrogio stesso peraltro subentrò<br />

nel 374 a Milano al vescovo ariano Aussenzio, e la successione non avvenne<br />

senza le difficoltà proprie di un ambiente ostile, in una situazione di<br />

conflitto aperto tra comunità cristiane rivali che si era aggravata nel<br />

corso di un ventennio di episcopato a guida ariana.<br />

Tra le voci fortissime che vengono per questi decenni dalle fonti (da<br />

Ambrogio e dai vescovi a lui legati, dai decreti di concili locali, dai<br />

contemporanei scrittori di cose ecclesiastiche, dalle notizie relative alle<br />

comunità di diversi centri urbani dell’area emiliana – da Piacenza a Bologna<br />

a Claterna presso Imola), colpisce il silenzio che avvolge la diocesi di Parma<br />

e i personaggi che furono alla sua guida: un silenzio che diventa, per lo<br />

storico <strong>della</strong> Chiesa, problema assai più grande di quello che copre le <strong>origini</strong><br />

stesse, se lo si mette a confronto con la fitta documentazione che delinea<br />

invece un quadro relativamente soddisfacente <strong>della</strong> vita religiosa e dei<br />

contesti sociali, politici e culturali di età tardoantica in luoghi vicini.<br />

Si tratta peraltro del medesimo silenzio su Parma e sulle sue sorti in<br />

tempi difficili di scontri militari, carestie ricorrenti, deterioramento delle<br />

forme tradizionali <strong>della</strong> vita civile, che si nota in un passo di una celebre e<br />

studiatissima lettera di Ambrogio, indirizzata negli anni intorno al 390<br />

all’amico Faustino per consolarlo <strong>della</strong> morte <strong>della</strong> sorella: qui il vescovo<br />

descrive l’abbandono in cui giacciono lungo la via Emilia centri un tempo<br />

popolosi, la rovina delle colture, la decadenza urbana, i “cadaveri di città<br />

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semidistrutte”, Claterna, Bologna, Modena, Reggio, Brescello, Piacenza<br />

(Ambrogio di Milano, epistola 39, 3). La mancata menzione di Parma certo<br />

stupisce in questo contesto, e non sembra possibile spiegarla con<br />

l’ipotesi che la città e il suo territorio rappresentassero allora un’isola<br />

felice di prosperità in un contesto di generale impoverimento: in ogni caso<br />

va ricordato che il quadro di desolazione che qui Ambrogio disegna va<br />

riconsiderato in rapporto all’occasione e al genere letterario <strong>della</strong> lettera<br />

consolatoria, dove quello del destino di morte, che coinvolge ogni realtà<br />

umana e porta a rovina anche città un tempo floride, è un luogo comune di<br />

grande fortuna e di altissimo potenziale comunicativo.<br />

Nel caso specifico l’imitazione letteraria di un testo di Cicerone ha un<br />

ruolo molto forte, ma l’assenza <strong>della</strong> città di Parma nel novero di quelle<br />

“defunte” al tempo di Ambrogio lascia certo irrisolto un problema<br />

ulteriore, dentro il più generale problema storiografico relativo alla<br />

decadenza delle città dell’area padana in età tardoantica. Una decadenza di<br />

natura civile, economica e demografica attestata da fonti letterarie, come il<br />

citato luogo ambrosiano, ma non di rado contraddetta dai ritrovamenti<br />

archeologici: questi, per alcuni centri urbani, deporrebbero invece in favore<br />

non solo <strong>della</strong> continuità, ma anche <strong>della</strong> ripresa <strong>della</strong> vita cittadina dopo<br />

qualche decennio di una crisi che sarebbe stata non “strutturale”, legata cioè<br />

a difficoltà contingenti come eventi bellici o insufficienze produttive o<br />

aggravamento del regime fiscale. La questione è molto intricata, soprattutto in<br />

ragione di una fenomenologia urbana delle più varie, difficilmente<br />

generalizzabile in termini di andamento complessivo; ciò anche in<br />

considerazione del fatto che la città antica rappresenta una realtà peculiare per<br />

la molteplicità dei valori tradizionali che coinvolge, per i quali è necessario<br />

l’impiego di criteri di interpretazione altrettanto peculiari, diversi da quelli<br />

più comunemente utilizzabili ai fini <strong>della</strong> ricostruzione storica.<br />

A grandissime linee, lo scenario sembra quello di città che<br />

risentivano delle vicende politiche e amministrative generali: l’Emilia era<br />

area di produzione agraria, fondamentale sia per le esigenze di<br />

approvvigionamento sia per le richieste fiscali dello stato, ed era in quanto<br />

tale particolarmente esposta alla varietà dei fenomeni connessi, quelli naturali<br />

(cattivi raccolti, carestie, crisi di colture) e quelli indotti (imboscamento di<br />

derrate, speculazioni sui prezzi, tassazioni eccessive). A ciò vanno aggiunti i<br />

contraccolpi locali <strong>della</strong> politica imperiale in tempi di migrazioni barbariche:<br />

la scelta obbligata era allora quella di stanziare gruppi etnici dentro i<br />

confini dell’Impero, impiegandoli nell’agricoltura o nell’esercito e<br />

provvedendo a fornire sovvenzioni per il loro sostentamento; in cambio<br />

veniva garantito il mantenimento di condizioni pacifiche.<br />

Questa pratica ha una casistica particolamente fitta in luoghi a economia<br />

agricola vitale, come per l’appunto le città dell’area padana e i loro territori;<br />

qui era inoltre necessario insediare e mantenere contingenti di truppe stabili<br />

nei centri urbani di regioni soggette a scorrerie di barbari ostili. In queste<br />

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circostanze risultavano profondamente modificate la funzione delle città e<br />

la qualità stessa <strong>della</strong> vita cittadina, di cui venivano alterate le forme<br />

tradizionali e trasformata l’immagine interna ed esterna.<br />

È molto significativo, in proposito, un passo delle Storie del, scrittore<br />

di Antiochia Ammiano Marcellino, che parla dello stanziamento nel 377<br />

di barbari Taifali negli oppida di Modena Reggio e Parma (XXXI, 9):<br />

oppida dunque, cioè sedi di acquartieramento di truppe, e non civitates,<br />

termine che comunemente indicava i centri urbani e il complesso dei valori<br />

civili, sociali e ideologici connessi al modello cittadino.<br />

Se queste appaiono le condizioni complessive, l’assenza di notizie<br />

sull’organizzazione ecclesiastica e la vita religiosa a Parma nell’età che si è<br />

soliti chiamare “ambrosiana” richiede quanto meno un tentativo di<br />

spiegazione, dal momento che l’esistenza di un vescovo <strong>parmense</strong> sembra<br />

fuori di dubbio nei decenni in questione: un Urbanus Parmensis episcopus è<br />

infatti menzionato nel documento di un concilio tenuto a Roma nel 378, in una<br />

lettera di risposta inviata dagli imperatori d’Occidente Graziano e<br />

Valentiniano dello stesso anno e in due scritti contemporanei di polemica<br />

dottrinale.<br />

Un esame più ravvicinato di questi testi permette forse di formulare<br />

un’ipotesi di soluzione del problema, in ragione <strong>della</strong> qualità del<br />

personaggio e del contesto politico-ecclesiastico di riferimento. Nei tempi in<br />

cui il neo-eletto vescovo di Milano (Ambrogio viene consacrato nel 374) e le<br />

forze ostili all’arianesimo avviano quell’energica azione di riconquista alla<br />

fede ortodossa delle chiese dell’Italia settentrionale destinata a grandi<br />

successi, la situazione generale dei vescovadi appare instabile: esistevano<br />

infatti sedi di recente sottratte a vescovi ariani, diocesi tuttora nelle loro<br />

mani, oltre a casi di difficile convivenza tra comunità di fede diversa,<br />

ciascuna con istituzioni radicate nello stesso spazio urbano, concorrenti sia<br />

nel governo ecclesiastico sia nell’esercizio dell’attività pastorale. Il fronte<br />

ortodosso in fase di rafforzamento era pertanto alle prese con equilibri<br />

locali assai delicati: erano infatti in gioco anche concrete questioni di ordine<br />

pubblico, nel quadro di una politica religiosa imperiale sostanzialmente<br />

neutrale di fronte alle parti in conflitto, ma pronta a pesanti interventi di<br />

repressione ogni volta che da tale conflitto dovessero nascere condizioni tali<br />

da turbare la pace civile.<br />

L’immagine forte di questo clima di tensione è testimoniata dalla ben<br />

documentata situazione di Milano, città capitale dell’Impero dove risiedeva<br />

una corte di tendenze ariane, con le celebri vicende che videro Ambrogio<br />

protagonista di scontri vincenti con gli avversari di fede. Più evanescente, nel<br />

panorama delle chiese locali, quella che illustra per gli stessi anni Settanta<br />

del IV secolo la diocesi di Parma: alla sua guida un piccolo gruppo di fonti<br />

pone il già ricordato vescovo Urbano, ariano, già deposto dall’episcopato,<br />

ma che teneva ancora “impudentemente” la propria carica nel 378, quando<br />

un concilio romano denunciava il fatto agli imperatori Graziano e<br />

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Valentiniano; la loro risposta ne imponeva la cacciata dalla sede <strong>parmense</strong>, e<br />

manifestava preoccupazioni per il pericolo che costituiva per la pace <strong>della</strong><br />

<strong>chiesa</strong> la sua permanenza a capo <strong>della</strong> diocesi, data la vicinanza di questa alla<br />

“illustre città” (da identificare verosimilmente con Milano, sede <strong>della</strong> corte<br />

imperiale).<br />

Di Urbano di Parma fa menzione anche lo scritto di un anonimo autore<br />

ariano, pervenuto con il titolo Dissertazione di Massimino contro<br />

Ambrogio, dove quello del vescovo <strong>parmense</strong> è elencato tra i casi di<br />

espulsione attuati in varie diocesi dal fronte avverso. E sembra si debba<br />

riconoscere nello stesso vescovo il bersaglio di un’invettiva antiariana –<br />

costruita su di un lungo e assai maligno gioco di parole in tema di<br />

“urbanità” (“cortesia”, ma in senso più pieno “civiltà”, caratteristica propria<br />

dell’uomo dotato delle tradizionali virtù di relazione) – nel Commento al<br />

simbolo niceno, scritto composto tra il 350 e il 360 in ambiente norditalico.<br />

Qui, l’autore polemizza contro un personaggio che con le sue ambigue<br />

formulazioni dottrinali avrebbe tentato di adescare i semplici e di farsi gioco<br />

dei fedeli; e si tratta peraltro di un genere di accuse assai diffuso nei<br />

confronti dei leaders ariani, ai quali si rinfacciava l’uso troppo disinvolto di<br />

tecniche di persuasione e la tendenza “demagogica” a mobilitare in proprio<br />

favore i ceti popolari.<br />

Su questa base, potrebbe allora diventare più comprensibile il fatto che le<br />

fonti letterarie facciano solo debolissimi accenni alle vicende <strong>della</strong> <strong>chiesa</strong> di<br />

Parma, o che tacciano del tutto sulle <strong>origini</strong> dell’episcopato locale. E noto<br />

infatti che, a differenza di molte altre città, non esistono per Parma liste<br />

episcopali antiche, e che i nomi conosciuti sono frutto di una tradizione di<br />

studi locali non anteriore alla seconda metà del XVI secolo. Il suo<br />

rappresentante più illustre – il celebre padre Affò, a fine Settecento – non<br />

registra vescovi fino a Gratiosus nel 680. La mancata menzione dell’Urbano<br />

di tardo IV secolo si deve fatto che lo studioso si basava su di una lettura<br />

diversa delle fonti, ritenendo che l’Urbano in questione fosse vescovo Porto<br />

presso Roma, e fornendo pertanto tutt’altra interpretazione <strong>della</strong> diatriba<br />

politico-ecclesiastica relativa ai vescovi ariani nell’età di sant’Ambrogio.<br />

Non mi pare però del tutto da escludere che ci fossero ragioni più<br />

contingenti e meno “filologiche” alla base dell’opinione del padre Affò:<br />

l’esigenza cioè di rimuovere imbarazzanti compromissioni “eretiche” alle<br />

<strong>origini</strong> <strong>della</strong> storia <strong>della</strong> <strong>chiesa</strong> <strong>parmense</strong>, cancellando la memoria ingombrante<br />

di un vescovo ariano quale primo protagonista attestato del cristianesimo<br />

locale.<br />

Tra le durissime controversie che agitavano le chiese dell’Italia<br />

settentrionale tardoantica, nella memoria storica <strong>della</strong> comunità cristiana<br />

di Parma **, si può ritenere che agissero allora le logiche proprie del<br />

discorso dottrinale ed ecclesiale, insieme a quelle che si rifacevano ai valori<br />

consolidati dell’ideologia civica tradizionale: retta da un vescovo ariano<br />

tenacemente radicato e a lungo inamovibile, divisa in comunità rivali ed<br />

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esposta a rischi di disordine, isolata in un contesto di vescovadi riconquistati<br />

all’ortodossia, ma anche luogo di stanziamenti di truppe e di insediamenti di<br />

barbari (si ricordi la definizione di oppidum che ne dava Ammiano<br />

Marcellino), Parma era forse una tipica “non-città” nell’immagine che<br />

presentava di se stessa e nella coscienza di autori contemporanei legati a<br />

valutazioni di ordine essenzialmente religioso e politico, priva – come<br />

appariva loro – di quella dimensione urbana fatta sia dei connotati civici<br />

<strong>della</strong> tradizione, sia dell’adesione alla “vera” fede.<br />

* Tra ortodossia e arianesimo nel secolo IV. L’arianesimo deve il proprio<br />

nome al prete di Alessandria d’Egitto Ario: agli inizi del IV secolo, egli<br />

predicava che il Figlio era di sostanza diversa da quella del Padre, e non<br />

partecipava pertanto <strong>della</strong> sua divinità ed eternità. La predicazione di Ario<br />

suscitò profonde divisioni tra i vescovi delle città dell’Oriente romano, con<br />

gravi rischi per la stessa pace civile: preoccupato che la spaccatura dell’unità<br />

religiosa pregiudicasse la stabilità politica dell’Impero, Costantino convocò<br />

nel 325 un concilio a Nicea, in Bitinia, in seguito al quale si decisero la<br />

condanna di Ario e la definizione dottrinale <strong>della</strong> divinità di Cristo e <strong>della</strong><br />

identità <strong>della</strong> sua sostanza (consustanzialità) con quella del Padre. La<br />

questione non fu tuttavia risolta, e riprese dopo breve tempo coinvolgendo i<br />

vertici del potere civile e i gradi alti delle gerarchie ecclesiastiche: lo stesso<br />

Costantino negli ultimi anni di regno e, dopo la sua morte, il figlio<br />

Costanzo II appoggiarono l’arianesimo, mentre l’imperatore <strong>della</strong> parte<br />

occidentale Costante si schierò dalla parte del papa romano Giulio in favore<br />

dell’ortodossia (“fede retta”, “fede vera”). La controversia proseguì con<br />

alterne vicende per quasi tutto il IV secolo: intorno agli anni Settanta<br />

cominciò a prevalere il credo ortodosso, grazie all’energica attività dottrinale,<br />

politica e pastorale di celebri vescovi sia in Oriente sia in Occidente.<br />

L’arianesimo subì la condanna di tutte le sue forme al concilio di<br />

Costantinopoli del 381: tale dottrina fu tuttavia a lungo in vigore, in quanto<br />

costituì la forma di cristianesimo praticata dalle genti barbariche che si<br />

stanziarono nel mondo romano.<br />

** Parma tra Tardoantico e alto Medioevo. A partire dal III secolo, anche<br />

l’area padana fu coinvolta nella crisi politica, militare ed economica che colpì<br />

l’Impero romano. Poche sono le tracce archeologiche a Parma, a causa <strong>della</strong><br />

continuità di insediamento e di funzione caratteristica <strong>della</strong> città. I resti<br />

testimoniano comunque che anche qui si verificarono i fenomeni tipici di<br />

tempi difficili: restringimento <strong>della</strong> cinta muraria, abbandono di aree urbane<br />

divenute malsicure, reimpiego di materiali antichi in edilizia, messa a coltura di<br />

giardini, espansione del bosco. La situazione locale registrò riprese e<br />

decadenze nei secoli IV-VI, in rapporto alle vicende militari, economiche e<br />

produttive. Documenti scritti e resti archeologici testimoniano per esempio<br />

che nell’età di Teoderico vennero compiuti a Parma lavori di ripristino<br />

dell’acquedotto, e che l’anfiteatro cittadino – il più grande di tutta l’Emilia,<br />

interamente costruito in muratura – rimase a lungo in uso: segnale <strong>della</strong><br />

persistenza di forme di vita civica. Ma nel VI secolo l’area padana tornò a<br />

subire scorrerie di barbari, dure carestie che produssero emigrazioni forzate di<br />

contadini nel Piceno, e danni all’agricoltura causati dalla guerra tra Goti e<br />

Bizantini.<br />

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Bibliografia.<br />

P.L. Dall’Aglio, Il disegno urbano di Parma, in M. Catarsi Dall’Aglio, M.G. Arrigo<br />

Bertini, P.L. Dall’Aglio, Una città e la storia. Parma attraverso i secoli, a cura di F.<br />

Barocelli, Parma 2002, pp. 89-117.<br />

F. Lanzoni, <strong>Le</strong> diocesi d’Italia dalle <strong>origini</strong> al principio del sec. VII, Faenza 1927.<br />

R. Lizzi, Vescovi e strutture ecclesiastiche nella città tardoantica (L’Italia Annonaria<br />

nel IV- V, secolo d.C.), Como 1989.<br />

L. Ruggini, Economia e società nell’Italia Annonaria. Rapporti tra agricoltura e<br />

commercio r IV al VI secolo d. C., ristampa anastatica, Bari 1995.<br />

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