3 PAJER Pluralismo religioso e IRC - Vannini Editrice

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“Agorà. Paesaggi dell’intercultura”, magazine online n. 1/2011, gennaio-aprile (http://www.vanninieditrice.it/agora_home.asp) Il pluralismo religioso e l’Irc. Tante religioni un solo mondo. Pluralismo e convivenza di Flavio Pajer Pluralismo non è sinonimo di pluralità. Questa è un dato empirico, fattuale; il pluralismo invece è una condizione di vita, un sistema culturale, un ambiente valoriale. La pluralità è piuttosto questione di quantità, il pluralismo indica una qualità, uno stile inedito di vita individuale e collettiva, un orizzonte nuovo di significati e di valori. Il pluralismo religioso è fenomeno tipico delle società democratiche: in esse la libertà religiosa – intesa come diritto di avere un religione, di manifestarla, di cambiarla o di non averne alcuna – dà luogo non solo a una diversificazione di appartenenze (pluralità), ma a un regime giuridico (pluralismo), che sancisce il principio dell’uguale trattamento delle religioni, principio basato sul presupposto della loro pari dignità, senza privilegi per le religioni di maggioranza e senza discriminazioni per le minoranze religiose né per le convinzioni non religiose (agnostiche, umaniste, immanenti…). Pluralismo come riconoscimento reciproco nella pari dignità La società pluralista è quella che non solo tollera, ma garantisce la coesistenza di una molteplicità di concezioni del mondo. Garantire la coesistenza sociale di soggetti e gruppi diversi non è affatto semplice: né dal punto di vista pratico (quale modello di convivenza: l’integrazione etnocentrica? il multiculturalismo? il comunitarismo?…), né dal punto di vista giuridico (diritti umani versus “teo-diritti” o viceversa?), né, tanto meno, dal punto di vista teologico o veritativo. Il pluralismo religioso attuale si distingue da precedenti forme di pluralismo storico (cf. imperi dell’antichità), in quanto oggi il pluralismo religioso si sta sviluppando sostanzialmente in società occidentali rette da regimi (liberal)democratici. Se in tali società vige il presupposto dell’uguaglianza di diritti (e di doveri) dei cittadini, fondata sulla pari dignità della persona umana, ne consegue una analoga uguaglianza delle religioni cui appartengono quei medesimi cittadini. Non c’è – o è sempre meno accettata in democrazia – una religione più “uguale” delle altre, tanto meno una religione leader, che funga da punto di riferimento e di valutazione per le altre. È vero che una data tradizione religiosa può aver, all’interno di una determinata nazione, un valore storico nettamente più alto di qualsiasi altra religione, ma ciò non significa poter fungere da metro di giudizio delle altre religioni; significa solo che ogni religione che entri a far parte del campo di confronto e di concorrenza in uno spazio sociale democraticamente organizzato viene riconosciuta come portatrice di una sua verità. È emblematico, a questo proposito, il noto incontro interreligioso di Assisi nel 1986. Un incontro che alcuni considerano come l’atto inaugurale del XXI secolo plurireligioso; una manifestazione che ha tenuto a battesimo il pluralismo religioso, in quanto ogni religione, nell’atto della preghiera, ha goduto di uguale trattamento rispetto alle altre, ma nel contempo si è sentita rspettata nella propria invalicabile identità. Eppure quell’incontro, lo sappiamo, è stato interpretato secondo due prospettive opposte: - secondo alcuni si è trattato di un fatale cedimento della Chiesa cattolica alla deriva relativistica che il pluralismo religioso reca con sé. Se tutte le religioni sono ugualmente 1

“Agorà. Paesaggi dell’intercultura”, magazine online n. 1/2011, gennaio-aprile (http://www.vanninieditrice.it/agora_home.asp)<br />

Il pluralismo <strong>religioso</strong> e l’Irc.<br />

Tante religioni un solo mondo. <strong>Pluralismo</strong> e convivenza<br />

di Flavio Pajer<br />

<strong>Pluralismo</strong> non è sinonimo di pluralità. Questa è un dato empirico, fattuale; il<br />

pluralismo invece è una condizione di vita, un sistema culturale, un ambiente valoriale.<br />

La pluralità è piuttosto questione di quantità, il pluralismo indica una qualità, uno stile<br />

inedito di vita individuale e collettiva, un orizzonte nuovo di significati e di valori. Il<br />

pluralismo <strong>religioso</strong> è fenomeno tipico delle società democratiche: in esse la libertà<br />

religiosa – intesa come diritto di avere un religione, di manifestarla, di cambiarla o di<br />

non averne alcuna – dà luogo non solo a una diversificazione di appartenenze<br />

(pluralità), ma a un regime giuridico (pluralismo), che sancisce il principio dell’uguale<br />

trattamento delle religioni, principio basato sul presupposto della loro pari dignità, senza<br />

privilegi per le religioni di maggioranza e senza discriminazioni per le minoranze<br />

religiose né per le convinzioni non religiose (agnostiche, umaniste, immanenti…).<br />

<strong>Pluralismo</strong> come riconoscimento reciproco nella pari dignità<br />

La società pluralista è quella che non solo tollera, ma garantisce la coesistenza di una<br />

molteplicità di concezioni del mondo. Garantire la coesistenza sociale di soggetti e<br />

gruppi diversi non è affatto semplice: né dal punto di vista pratico (quale modello di<br />

convivenza: l’integrazione etnocentrica? il multiculturalismo? il comunitarismo?…), né<br />

dal punto di vista giuridico (diritti umani versus “teo-diritti” o viceversa?), né, tanto<br />

meno, dal punto di vista teologico o veritativo. Il pluralismo <strong>religioso</strong> attuale si<br />

distingue da precedenti forme di pluralismo storico (cf. imperi dell’antichità), in quanto<br />

oggi il pluralismo <strong>religioso</strong> si sta sviluppando sostanzialmente in società occidentali<br />

rette da regimi (liberal)democratici. Se in tali società vige il presupposto<br />

dell’uguaglianza di diritti (e di doveri) dei cittadini, fondata sulla pari dignità della<br />

persona umana, ne consegue una analoga uguaglianza delle religioni cui appartengono<br />

quei medesimi cittadini. Non c’è – o è sempre meno accettata in democrazia – una<br />

religione più “uguale” delle altre, tanto meno una religione leader, che funga da punto di<br />

riferimento e di valutazione per le altre. È vero che una data tradizione religiosa può<br />

aver, all’interno di una determinata nazione, un valore storico nettamente più alto di<br />

qualsiasi altra religione, ma ciò non significa poter fungere da metro di giudizio delle<br />

altre religioni; significa solo che ogni religione che entri a far parte del campo di<br />

confronto e di concorrenza in uno spazio sociale democraticamente organizzato viene<br />

riconosciuta come portatrice di una sua verità.<br />

È emblematico, a questo proposito, il noto incontro inter<strong>religioso</strong> di Assisi nel 1986. Un<br />

incontro che alcuni considerano come l’atto inaugurale del XXI secolo pluri<strong>religioso</strong>;<br />

una manifestazione che ha tenuto a battesimo il pluralismo <strong>religioso</strong>, in quanto ogni<br />

religione, nell’atto della preghiera, ha goduto di uguale trattamento rispetto alle altre,<br />

ma nel contempo si è sentita rspettata nella propria invalicabile identità. Eppure<br />

quell’incontro, lo sappiamo, è stato interpretato secondo due prospettive opposte:<br />

- secondo alcuni si è trattato di un fatale cedimento della Chiesa cattolica alla deriva<br />

relativistica che il pluralismo <strong>religioso</strong> reca con sé. Se tutte le religioni sono ugualmente<br />

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“Agorà. Paesaggi dell’intercultura”, magazine online n. 1/2011, gennaio-aprile (http://www.vanninieditrice.it/agora_home.asp)<br />

portatrici di verità, allora non esiste più la Verità di cui è portatrice la Chiesa cattolica,<br />

incentrata intorno al valore universale del messaggio salvifico del Cristo. Accettare la<br />

logica del pluralismo, per chi difende questa posizione, è possibile soltanto se la Chiesa<br />

cattolica conserva l’esclusività della propria verità come unica via di salvezza per tutti;<br />

- altri invece hanno visto in questo incontro una concreta realizzazione del principio di<br />

libertà di religione e della pari dignità delle altre religioni, che d’altronde il Vaticano II<br />

aveva già autorevolmente riconosciuto nella dichiarazione Nostra aetate. Secondo<br />

questa prospettiva Dio nel suo piano provvidenziale ha previsto vie diverse di salvezza<br />

per gli uomini, anche se ha privilegiato quella che si richiama all’incarnazione del<br />

Figlio. Mentre cioè la prima interpretazione tende a escludere il valore salvifico delle<br />

altre religioni – e dunque a non riconoscere la legittimità del pluralismo – la seconda è<br />

inclusiva.<br />

Per rendere più credibile tale inclusività, teologi e canonisti parlano di un doppio piano<br />

veritativo: sul piano ontologico rimane indiscussa l’unicità e la universalità di Cristo<br />

salvatore del genere umano (cf. Dominus Jesus), ma sul piano gnoseologico – cioè in<br />

una logica progressiva, diacronica, della economia della salvezza – rimangono aperte e<br />

plurali le vie storiche attraverso cui le culture umane giungono a tale riconoscimento.<br />

Da questo secondo punto di vista, l’attuale pluralismo <strong>religioso</strong>, costringendo credenti<br />

di tradizioni religiose diverse a vivere insieme, crea i presupposti di una situazione<br />

antropologica relativamente nuova. Intanto, tra religioni, non ci si può più ignorare<br />

come succedeva ieri nelle “società chiuse” (società che in molti casi hanno tenute<br />

“chiuse” anche le loro religioni all’interno del loro perimetro culturale oltre che<br />

geografico). Ma oggi sono soprattutto le pratiche quotidiane di coesistenza e la<br />

comunicazione mediatica che ‘forzano’ le barriere dell’ignoranza reciproca e mettono in<br />

atto meccanismi di reciproco riconoscimento, che dovranno trovare prima o poi anche<br />

una definizione sul piano legislativo-normativo.<br />

Che significa qui “ri-conoscere”? Conoscere un altro può ridursi a un contatto<br />

puramente intellettuale, che in genere io compio a partire da quelle caratteristiche che<br />

io, più o meno consapevolmente, ritengo fondamentali per la mia stessa identità: in<br />

qualche modo, io conosco l’altro nella misura in cui lo assimilo a quelli che sono per me<br />

i valori essenziali, ma anche in funzione dei pregiudizi che inevitabilmente mi porto<br />

dietro. Forzando un po’ le cose si potrebbe dire così: conoscere una persona che<br />

appartiene a una cultura e a una religione diverse dalla mia significa ricondurlo al mio<br />

modo abituale di vedere e percepire la realtà; di conseguenza, tutto ciò che non rientra<br />

in questa logica conoscitiva – e che potrebbe invece costituire un aspetto essenziale<br />

della alterità dell’altro – rischia di venire escluso. In questo processo io conosco, sì, ma<br />

senza mai mettermi veramente in gioco; al limite vado a conoscere l’altro per meglio<br />

difendere la mia identità che reputo non scalfibile. Ne risulta che: o l’altro accetta di<br />

entrare in questo mio campo visivo o ne viene escluso.<br />

In un processo cognitivo di questo tipo, se applicato al rapporto tra fedi diverse, non può<br />

non nascere un problema: fino a che punto posso conoscere veramente una religione<br />

nella sua specificità? Quando credenti di fedi diverse sono costretti a convivere insieme,<br />

possono limitarsi a conoscersi in questo modo restrittivo, che alla fine, invece di<br />

permettere una migliore conoscenza reciproca, può persino tradursi in una maggiore<br />

ostilità e separatezza? Ma i credenti possono anche – ed è questo l’aspetto più positivo<br />

della convivenza resa possibile dal pluralismo <strong>religioso</strong> – essere indotti a ri-conoscersi.<br />

Il riconoscimento, infatti, (come indica la particella ri- , che rimanda a una sorta di<br />

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ritorno su se stessi), è un processo più complesso, che presuppone il fatto di essere<br />

disposti a mettersi in gioco, a instaurare un rapporto di reciprocità, a cercare nell’altro<br />

valori positivi che possono radicarsi in una comune humanitas (1) e in un’uguale dignità<br />

religiosa. Tutto ciò nella convinzione che tale dignità si può manifestare in forme,<br />

pratiche, credenze diverse, ma sempre ugualmente degne.<br />

In linea generale, di fronte al fenomeno di una crescente pluralità religiosa, tre sono le<br />

posizioni che possono verificarsi: o trincerarsi nella propria identità senza lasciarsi<br />

interpellare dalle altre identità religiose (esclusività); oppure, all’opposto, cercare un<br />

rapporto con le altre fedi che permetta di includerle nel proprio orizzonte (inclusività);<br />

oppure, terza via, scegliere la via del rispetto reciproco, che presuppone una eguale<br />

dignità di partenza, presuppone un solido e collaudato senso democratico, e presuppone<br />

naturalmente un quadro politico-giuridico di reale libertà religiosa. Posizione difficile e<br />

delicata, questa terza via, ancora troppo assente nel de jure condito e quasi tutta ancora<br />

sotto l’alea del de jure condendo, ma è anche l’unica che, nell’epoca del pluralismo, si<br />

rivela in grado di permettere quel reciproco riconoscimento che costituisce la premessa<br />

imprescindibile per una convivenza pacifica, democratica, non discriminante, non lesiva<br />

delle identità religiose individuali o di gruppo (2).<br />

<strong>Pluralismo</strong> e insegnamento della religione<br />

È sempre più difficile soddisfarsi del singolare quando si parla di “insegnamento-dellareligione”:<br />

di fatto esiste una pluralità di “insegnamenti” di religione (into / from / about<br />

/ out of / Religion), come esiste ovviamente una pluralità di “religioni” o di confessioni<br />

che vengono insegnate. Ecco perché conviene fare almeno un rapido excursus su alcune<br />

posizioni più recenti e mature della Pedagogia della religione. Cosa si fa e come si<br />

ragiona su questi temi nelle scuole del nostro continente e in Italia? Il pluralismo<br />

<strong>religioso</strong> in certi paesi è arrivato con qualche stagione di anticipo rispetto a noi, e anche<br />

con densità più vistosa, e può essere utile informarsi sulle tendenze in atto in questi<br />

anni, ancorché situate in contesti più o meno diversi dal nostro. Citerò solo qualche<br />

esempio di “buone pratiche” supportate da riflessioni della letteratura pedagogicoreligiosa.<br />

Stiamo nell’area europea, ma ricordo en passant che anche il Canada<br />

francofono ha abbandonato appena tre anni fa i suoi due insegnamenti confessionali per<br />

adottare un corso comune obbligatorio di “Etica e cultura religiosa”.<br />

■ Nelle scuole pubbliche tedesche permane valido tuttora il principio tradizionale<br />

della confessionalità dell’insegnamento della religione (Costit. art.7,3), ma viene<br />

messo sempre più spesso in discussione (cf. N. Mette, R. Englert, R. Ebner).<br />

- Di fatto si stanno moltiplicando i casi di insegnamento <strong>religioso</strong> bi-confessionale o<br />

cooperativo, impartito a classi di alunni cattolici ed evangelici non più separate, e con la<br />

compresenza o l’alternanza dell’insegnante cattolico e di quello protestante.<br />

- Si estende anche la consuetudine in certe scuole secondarie di raggruppare insieme<br />

studenti cristiani e musulmani e agnostici, che frequentano l’ora alternativa di etica.<br />

- Si osserva poi che molti studenti sono talmente “apolidi” confessionalmente che l’Ir è<br />

già un successo quando riesce a dischiudere loro un accesso al fatto <strong>religioso</strong> e agli<br />

interrogativi che esso solleva.<br />

- Anche l’esperienza didattica insegna che solo nel confronto con l’altro, proprio perché<br />

diverso per opinione e per orientamento esistenziale, possiamo chiarire meglio la nostra<br />

stessa posizione ed esercitarci alla reciproca comprensione.<br />

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- Inoltre l’Ir, si ripete spesso, perderebbe in plausibilità per gli interessati e nell’opinione<br />

pubblica se destasse ancora l’impressione di esistere solo per fornire alle chiese un<br />

comodo accesso presso gli studenti. È facile infatti per le chiese dichiarare l’intenzione<br />

di mettersi a “servizio disinteressato” dei giovani nella scuola, ma rimane altrettanto<br />

scontato da parte della società secolarizzata nutrire quanto meno il sospetto di<br />

proselitismo.<br />

■ In appoggio a progetti ed esperimenti di insegnamento preconfessionale non mancano<br />

– specie nella bibliografia anglosassone e scandinava ma anche belga – argomenti<br />

provenienti da varie scienze umane. Solo alcuni cenni sintetici a titolo di esempio:<br />

- Ricerche sociologiche recenti rilevano che la religione nella sua forma istituzionale ha<br />

sempre meno influenza sui giovani, e che per molti di loro la religione in versione<br />

confessionale [= la cattolica, o la protestante, o l’anglicana], anche se rimane<br />

mediocremente accessibile dal punto di vista culturale, ha ben poco da dire di<br />

significativo. Oggi, non solo da noi ma in tutto l’Occidente “cristiano”, la religione<br />

come istituzione ecclesiale rimane un valore credibile per una minoranza assoluta di<br />

giovani. Ciò però non significa affatto che si debba trattare i giovani come dei “postreligiosi”:<br />

si farebbe torto alla religione stessa se la si considerasse solo nella sua<br />

formalità istituzionale, ecclesiastica. Bisognerà vedere piuttosto se una religiosità “postecclesiastica”,<br />

senza un legame con un’istituzione particolare, si svilupperà e quali<br />

forme assumerà (Mette). In proposito, studiosi della religiosità contemporanea (specie<br />

di area tedesca e olandese) arrivano ad argomentare che:<br />

• una formazione dell’identità su una base esplicitamente religiosa e specificamente<br />

cristiana (nella sua forma tradizionale) sembra ben poco adeguata alla società postmoderna,<br />

perché conduce, nelle attuali circostanze di vita, a crisi dì identità insolubili<br />

(Schimank);<br />

• una concezione etero-referenziale del mondo, di sé, dei valori, è più appropriata per la<br />

ricerca di una identità stabile: una simile visione del mondo evita almeno all’individuo<br />

di girare a vuoto (Wippermann);<br />

• “non esiste pressoché più in alcun gruppo o organizzazione religiosa quella che si<br />

potrebbe chiamare un’identità confessionale uniforme, e sarebbe allora più realistico<br />

intraprendere un’educazione religiosa intesa come apprendimento inter<strong>religioso</strong> e<br />

dialogico” (Schlueter);<br />

• la stessa psicologia dell’età evolutiva sembra oggi sostenere la preferibilità di un<br />

approccio interattivo perché si sono interrotti ritmi e meccanismi della trasmissione<br />

mono-religiosa tradizionale(Gossmann).<br />

■ Dall’ambito più specifico della didattica disciplinare della religione c’è chi formula<br />

principi fondativi di un insegnamento <strong>religioso</strong> “generale”, o transconfessionale o<br />

multi<strong>religioso</strong> (per es. Robert Ebner che riprende e codifica la teoria di Friedrich<br />

Diesterweg). Tale modello di insegnamento, obbligatorio per tutte le confessioni e i non<br />

credenti si giustificherebbe per varie ragioni:<br />

• per il compito che la scuola ha in ordine alla umanizzazione di tutti gli alunni: l’alunno<br />

deve sapere in generale che cos’è la religione e non essere rinchiuso in una confessione<br />

particolare; ma devono comunque essere insegnati come prioritari quei contenuti<br />

generali che sono condivisi dalla maggioranza dei cittadini dello stato;<br />

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▪ un Ir non confessionale è funzionale all’educazione ai valori della convivenza in una<br />

data società, dove vanno comunque valorizzate quelle risorse umane che uniscono più<br />

di quelle che distinguono;<br />

▪ tale insegnamento è finalizzato alla formazione dell’humanum, della tolleranza, della<br />

uguale dignità delle persone, credenti o meno;<br />

• è educativo se è rispettoso dell’individualità irriducibile dei singoli, se forma in loro<br />

una consapevolezza personale, se predispone a libere scelte di coscienza in fatto di fede<br />

religiosa;<br />

• è il modello più conforme alla natura dell’uomo e alla sua vocazione di cittadino, che<br />

non preclude ma semmai facilita la adesione libera a un particolare credo <strong>religioso</strong>.<br />

■ La pedagogia dell’apprendimento interculturale, su cui poggiano ormai gran parte dei<br />

processi educativi della scuola primaria e secondaria nella generalità dei Paesi, mira a<br />

conseguire essenzialmente alcune finalità formative dove la dimensione religiosa non è<br />

mai assente ma interferisce sempre con il dato antropologico, etnico, storico. Tali<br />

finalità sono di volta in volta: il rafforzamento soggettivo e oggettivo dell’identità e<br />

insieme il riconoscimento della situazione delle minoranze socio-culturali e linguistiche;<br />

la scelta di contenuti formativi che corrispondono a una molteplicità di culture e<br />

promuovono la loro valorizzazione; la formazione e l’esercizio di competenze di ordine<br />

comunicativo, sociale e interculturale; l’assunzione della molteplicità culturale,<br />

linguistica e del pluralismo delle idee e convinzioni come sfida per la democrazia.<br />

La stessa legittimazione tradizionale dell’insegnamento della religione viene<br />

riconsiderata alla luce della pedagogia religiosa, che ridimensiona la validità delle<br />

argomentazioni fino a ieri ritenute inoppugnabili. Le “cinque vie” o argomenti<br />

legittimanti la religione a scuola sono così rivisitati (Englert):<br />

• di fronte al pluralismo <strong>religioso</strong> l’argomento soteriologico sembra valere solo<br />

all’interno della Chiesa;<br />

• l’argomento antropologico (l’uomo per natura religiosus?) quadra bene con le<br />

preoccupazioni formali della formazione (“acquisire delle competenze”), ma astrae da<br />

ogni reale religione e resta sul piano generale del senso;<br />

• l’argomento che fa leva sulla tradizione culturale si riallaccia a una tradizione<br />

cristiana concreta, ma la rilevanza della religione è limitata alla comprensione della<br />

propria eredità culturale;<br />

• l’argomento funzionale, cioè l’importanza della religione per raggiungere scopi civili e<br />

non religiosi, è quello più praticato, anche se mette in luce ciò che della religione in<br />

ogni epoca è giudicato più opportuno e accettabile;<br />

• l’argomento della critica delle ideologie poggia su una religione concreta, che si pone<br />

in alternativa profetica alla cultura dominante della società, ma su questa base<br />

(sostanzialmente evangelica) è ben difficile legittimare un insegnamento <strong>religioso</strong><br />

rispettoso del pluralismo delle convinzioni.<br />

<strong>Pluralismo</strong> e Irc<br />

L’Irc italiano non sembra una soluzione funzionale, e tanto meno ottimale, per entrare<br />

nella stagione del pluralismo <strong>religioso</strong>. Discutibile e discusso fin dalla sua codificazione<br />

nel 1984-85, il profilo della disciplina Irc sta mostrando di anno in anno la sua fragilità<br />

e insufficienza. Non è un azzardo affermare che oggi, nel 2011, un accordo come quello<br />

dell’84 non potrebbe più essere firmato, almeno per quanto riguarda l’istruzione<br />

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religiosa. Le condizioni socio-religiose dell’Italia sono cambiate vistosamente in<br />

quest’ultimo trentennio e cambieranno ancor più. Il che ci convince che abbiamo oggi<br />

tra mano uno strumento giuridico e pedagogico – quell’articolo 9,2 dell’Accordo –<br />

ormai anacronistico e sempre meno adeguato per elaborare cultura religiosa nella scuola<br />

di tutti e a servizio di tutti i reali alunni d’oggi (e di domani).<br />

Non sto certo picconando per demolire il concordato, ma da anni mi chiedo se e come<br />

sarà possibile superarne i limiti ormai intollerabili dell’assetto neo-concordatario dell’Ir.<br />

Ben venga, ovviamente, quell’82% degli studenti secondari presenti nelle nostre aule di<br />

religione, ma da cittadino italiano – e da credente! – vorrei che la scuola pubblica<br />

arrivasse ad onorare il diritto all’informazione religiosa e quindi alla libertà religiosa del<br />

100% degli alunni italiani. Fuori della competenza dell’Irc resta evidente il deprecabile<br />

vulnus della assenza di una materia alternativa, ma anche lo stesso Irc non ha certo tutte<br />

le carte in regola per far fronte alla sfida del pluralismo, se per pluralismo <strong>religioso</strong> nella<br />

scuola intendiamo il rispetto di quelle condizioni – giuridiche istituzionali pedagogiche<br />

organizzative – che permettono agli alunni di apprendere il reciproco riconoscimento<br />

delle proprie diversità religiose. Non basta, appunto, che nella scuola l’alunno noncattolico<br />

ascolti il pur legittimo punto di vista cattolico sul cattolicesimo e sulle altre<br />

fedi. Né può bastare all’alunno cattolico la presentazione che l’Idrc può fare delle altre<br />

religioni. Siamo ancora in una logica pedagogica asimmetrica, gerarchica, dove una<br />

religione dominante si riserva il diritto non solo di dire se stessa, per scrupolo di<br />

ortodossia, ma avanza la pretesa di dire anche la propria visione sulle altre religioni:<br />

pretesa legittima finché si tratta di parlare delle religioni in ambito ecclesiale, teologico,<br />

ecumenico, ma certamente unilaterale, insufficiente, al limite aggressiva, quando si<br />

parla in uno spazio pubblico e democratico e laico come quello della scuola di tutti.<br />

■ Esemplifico, solo elencandoli, alcuni “deficit” strutturali dell’attuale Irc:<br />

- anzitutto il fenomeno <strong>religioso</strong> di cui render conto nelle classi si impone ora nella<br />

cultura generale della scuola ben al di qua (il fatto <strong>religioso</strong> universale) e ben al di là (e<br />

le altre identità confessionali e religiose) di un “insegnamento della religione cattolica”<br />

sia pur aggiornato nei suoi programmi e più attento di ieri all’area del fenomeno<br />

multi<strong>religioso</strong>;<br />

- l’accresciuta sensibilità ai diritti di libertà religiosa nella società intera tollera sempre<br />

meno che la scuola ignori o penalizzi proprio le minoranze religiose;<br />

- persino le ragioni di fondo invocate per legittimare l’Ir confessionale (“i principi del<br />

cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”) risentono oggi, in<br />

clima di globalizzazione, di una visione ‘localistica, etnocentrica e<br />

romantica’(Scoppola) in parte legittima ma anche superata sia dalla realtà socioreligiosa<br />

italiana (3), sia dal processo di europeizzazione dell’educazione pubblica (si<br />

invoca lo studio del cattolicesimo in versione italiana come aiuto a diventar cittadini<br />

italiani: è una ragione pertinente. Ma per diventar cittadini europei – se l’Italia è<br />

diventata Stato membro dell’UE dopo Maastricht – non occorrerà forse allargare lo<br />

studio anche agli altri cristianesimi europei?), come anche dallo stesso processo<br />

ecumenico delle chiese (Charta oecumenica);<br />

- l’approccio interculturale generalizzato richiesto ormai a tutta la didattica scolastica<br />

mal si concilia con una disciplina atipica qual è l’Irc, che non può nemmeno garantire la<br />

copresenza attiva in classe di tutti gli alunni...;<br />

- ma è la stessa logica pattizia-diplomatica che sta alla base dell’impianto Irc che viene<br />

sempre più messa sotto sospetto in una società pluralista e democratica. Non basta più<br />

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essere chiesa di maggioranza per avere diritto a entrare nella scuola (anche certe<br />

affrettate esperienze di alcuni paesi dell’est europeo dopo l’89 insegnano...).<br />

■ Ma più che prendercela ancora e solo con l’insufficienza della legittimazione<br />

concordataria – tutto sommato sono lamentele retoriche che andiamo ripetendo ormai,<br />

purtroppo inoffensivamente, da un bel paio di decenni! – citerei qui altri deficit del<br />

sistema Italia, che non sono meno gravi, ma che purtroppo emergono raramente dai<br />

nostri dibattiti pubblici:<br />

1) la carenza di una vera libertà di educazione. Là dove in gran parte dei sistemi<br />

educativi europei la domanda di formazione religiosa può venir soddisfatta dalla scelta<br />

di scuole libere, in Italia tale domanda è costretta a riversarsi su un esile ora di religione<br />

nella scuola pubblica…;<br />

2) il permanente e diffuso pregiudizio secondo cui “di religione se ne interessa la<br />

chiesa” ci ha portato a perpetuare un divorzio mortifero tra saperi profani e saperi<br />

religiosi, mentre invece il rispetto del pluralismo <strong>religioso</strong> dovrebbe oggi portare anche<br />

a un sano reciproco riconosci-mento (non concordismo!) tra tra saperi religiosi e le altre<br />

discipline in genere (cf . il caso francese che privilegia l’approccio intradisciplinare del<br />

fatto <strong>religioso</strong>);<br />

3) imputabile di tale divorzio è, tra l’altro, l’ultrasecolare assenza della teologia nelle<br />

università statali: quale plausibilità di “valore culturale” può esibire un Irc<br />

somministrato nelle scuole se a livello accademico le scienze teologiche non vengono<br />

nemmeno riconosciute degne della comune e pubblica “universitas studiorum”?;<br />

4) a differenza di altre nazioni europee, “allenate” in epoca moderna a gestire nella<br />

società e anche nella scuola, la diversità confessionale, l’Italia è arrivata<br />

all’appuntamento con la diversità multireligiosa d’oggi senza aver sperimentato<br />

nemmeno il pluralismo intracristiano e quindi pressoché inabituata culturalmente al<br />

dialogo con chi è diverso per fede e per scelte etiche;<br />

5) una lacuna macroscopica resta poi in Italia la mancanza di una legge parlamentare<br />

complessiva sulla libertà religiosa.<br />

L’Irc è ancora nella logica della pluralità, non del pluralismo<br />

L’Irc può – deve, per suo statuto – prendere la parola anche sulle altre religioni: sia per<br />

naturale storica contiguità come nel caso dell’ebraismo, sia per affinità “monoteistica”<br />

nel caso dell’islam, senza dimenticare la sostanziale connaturalità teologica e<br />

cristologica che il cattolicesmo contrae con le altre tradizioni confessionali cristiane.<br />

L’approccio culturale che dovrebbe qualificare l’Irc è l’approccio che permette e anzi e<br />

impegna a correlare il discorso sui contenuti del cattolicesimo sia con le figure<br />

intracristiane dei “cristianesimi europei”, sia con le figure extracristiane dei<br />

“monoteismi mediterranei”, senza escludere altri universi religiosi e soprattutto senza<br />

dimenticare l’intrigante e problematico rapporto genetico del cristianesmo con l’area<br />

crescente delle credenze non religiose o della non-credenza.<br />

Tutto questo, e altro ancora, è discorso fatto o fattibile nell’Irc. Ma con una clausola<br />

legale di primaria importanza: ciò che viene chiesto e offerto nell’ora di religione è,<br />

legalmente parlando, il punto di vista autorizzato della chiesa cattolica su se stessa e su<br />

altri universi religiosi. È appunto questa clausola che consente all’Irc di rispettare e<br />

onorare una certa elaborazione didattica di cultura religiosa sul piano della pluralità<br />

religiosa – e lo può fare a volte con encomiabile esemplarità – ma ciò non significa<br />

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“Agorà. Paesaggi dell’intercultura”, magazine online n. 1/2011, gennaio-aprile (http://www.vanninieditrice.it/agora_home.asp)<br />

ancora essere nelle condizioni istituzionali di promuovere quel processo democratico,<br />

non discriminante, di “reciproco riconoscimento tra fedi diverse con pari dignità e<br />

diritti”, che mettiamo sotto il nome di regime di pluralismo <strong>religioso</strong> (4).<br />

Flavio Pajer è docente di Pedagogia delle religioni, UPS di Roma e FTIM di Napoli.<br />

Note<br />

(1) Uno studioso delle religioni come A.N. Terrin, al seguito di riflessioni fenomenologiche confortate<br />

anche dalle neuroscienze, osa emettere l’ipotesi che, al di qua delle categorizzazioni dottrinali ed etiche<br />

introdotte dalle diverse religioni, esista “un denominatore comune che fa capo alla stessa natura umana.<br />

Lo stesso concetto di ‘empatia’ e l’idea della ‘teoria della mente degli altri’ sembrano veri fenomeni<br />

dell’umanità che hanno dato origine sia al senso <strong>religioso</strong> e sia al nostro senso morale” (in “Credere<br />

oggi”, 2010, 6, p. 40; e più ampiamente in Tracce di convergenza nel sacro della cultura multi-religiosa,<br />

in “Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione”, 14 (2010) 2, pp. 33-55.<br />

(2) Per ampliare queste riflessioni cf. F. Pajer, G. Filoramo, Tante religioni un solo mondo, Sei, Torino<br />

2010, pp. 55-70.<br />

(3) Cf. per es. F. Garelli, G. Guizzardi, E. Pace (a cura di), Il singolare pluralismo morale e <strong>religioso</strong><br />

degli italiani, il Mulino, Bologna 2003; F. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, il Mulino,<br />

Bologna, 2006; L. Mentasti, C. Ottaviano Cento cieli in classe – Pratiche, segni e simboli religiosi nella<br />

scuola multiculturale, Unicopli, Milano, 2008.<br />

(4) A scanso di equivoci, lo strumento didattico che ho pubblicato con il prof. G. Filoramo (Tante<br />

religioni un solo mondo. <strong>Pluralismo</strong> e convivenza, Sei, Torino, 2010, Testo per l’alunno, pp.216 +<br />

Materiali per il docente, pp. 116), è stato pensato unicamente ed espressamente come sussidio per l’”ora<br />

alternativa” per quelle scuole secondarie (poche sinora) che sono in grado di attivare una seria attività<br />

alternativa.<br />

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