Questotrentino - Laboratorio Storia Rovereto

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Questotrentino – 1 giugno 1990 ABBIAMO LETTO “Una città tra due imperi” di Fabrizio Rasera «Na contrada da pissacio», «del loc fezza e mismas», scriveva della Valbusa il poeta del '700 roveretano, l'amabile Giovanni, chiosando in nota: «Questa contrada è tutta abitata da gente ordinaria. Le abitazioni piene, osterie molte, o genio piuttosto insolente». Cuore della città vecchia e povera la Valbusa è rimasta fino ad anni recenti, quando il progressivo degrado l'aveva ridotta all'inabitabilità. L'intervento di restauro condotto dall'Itea e recentemente ultimato ha restituito a Rovereto un pezzo di centro storico già ripopolato da vecchi e nuovi abitanti. La collocazione della mostra «Una città fra due imperi. Rovereto anni Trenta» negli spazi così recuperati consente un itinerario inedito per gli stessi roveretani. Che poi la deliziosa piazzetta su cui confluiscono i percorsi della mostra si chiami Macallè è una divertente conferma toponomastica dell'idoneità del luogo ad ospitare questa rivisitazione iconografica e documentaria della storia della città tra le due guerre. L'iniziativa è frutto di un corso di storia dell'Università della Terza Età, che aveva lo stesso titolo e lo stesso ambito cronologico, coordinato da Diego Leoni, Camillo Zadra e Fabrizio Rasera. In un ampio ciclo di incontri, i curatori avevano affrontato da più parti il tema avendo come interlocutori non un pubblico di giovani studenti, ma delle persone che di quelle vicende sono state, attivamente o meno, protagoniste. Non era possibile raccontare quella storia calando su di essa disinvoltamente categorie generali, gabbie concettuali rigide, giudizi etico-politici a buon mercato. Questo controllo dei testimoni, questa dialettica obbligata tra l'ottica dello studioso e la complessità dell'esperienza di vita dei partecipanti al corso imponeva un metodo particolarmente attento alle diverse facce della realtà, alla molteplicità dei punti di vista possibili; richiedeva un rigoroso rispetto delle esperienze soggettive che hanno attraversato quella storia. Il sottotitolo della mostra fa capire bene metodo e risultati: frammenti di un'autobiografia in bianco e nero. Dove si allude, ovviamente, al fatto che si tratta innanzitutto di un percorso attraverso vecchie foto, cioè immagini, rappresentazioni, «messe in posa». Si allude al carattere non organico e non compiuto della documentazione affiorata, e soprattutto alla sua parzialità soggettiva, anteriore e preliminare rispetto ad una sintesi storiografica vera e propria. Con la partecipazione attiva dei corsisti la cosa ha funzionato: rebaltando archivi pubblici e cassettini privati, questi frammenti di vite sono emersi in quantità e qualità sorprendente da una censura che rimane ancora forte, se si pensa che tra tante storie locali nella nostra 1

<strong>Questotrentino</strong> – 1 giugno 1990<br />

ABBIAMO LETTO<br />

“Una città tra due imperi”<br />

di Fabrizio Rasera<br />

«Na contrada da pissacio», «del loc fezza e mismas», scriveva della Valbusa il poeta del<br />

'700 roveretano, l'amabile Giovanni, chiosando in nota: «Questa contrada è tutta abitata<br />

da gente ordinaria. Le abitazioni piene, osterie molte, o genio piuttosto insolente». Cuore<br />

della città vecchia e povera la Valbusa è rimasta fino ad anni recenti, quando il progressivo<br />

degrado l'aveva ridotta all'inabitabilità. L'intervento di restauro condotto dall'Itea e<br />

recentemente ultimato ha restituito a <strong>Rovereto</strong> un pezzo di centro storico già ripopolato da<br />

vecchi e nuovi abitanti. La collocazione della mostra «Una città fra due imperi. <strong>Rovereto</strong><br />

anni Trenta» negli spazi così recuperati consente un itinerario inedito per gli stessi<br />

roveretani. Che poi la deliziosa piazzetta su cui confluiscono i percorsi della mostra si<br />

chiami Macallè è una divertente conferma toponomastica dell'idoneità del luogo ad<br />

ospitare questa rivisitazione iconografica e documentaria della storia della città tra le due<br />

guerre.<br />

L'iniziativa è frutto di un corso di storia dell'Università della Terza Età, che aveva lo stesso<br />

titolo e lo stesso ambito cronologico, coordinato da Diego Leoni, Camillo Zadra e Fabrizio<br />

Rasera. In un ampio ciclo di incontri, i curatori avevano affrontato da più parti il tema<br />

avendo come interlocutori non un pubblico di giovani studenti, ma delle persone che di<br />

quelle vicende sono state, attivamente o meno, protagoniste.<br />

Non era possibile raccontare quella storia calando su di essa disinvoltamente categorie<br />

generali, gabbie concettuali rigide, giudizi etico-politici a buon mercato. Questo controllo<br />

dei testimoni, questa dialettica obbligata tra l'ottica dello studioso e la complessità<br />

dell'esperienza di vita dei partecipanti al corso imponeva un metodo particolarmente<br />

attento alle diverse facce della realtà, alla molteplicità dei punti di vista possibili;<br />

richiedeva un rigoroso rispetto delle esperienze soggettive che hanno attraversato quella<br />

storia. Il sottotitolo della mostra fa capire bene metodo e risultati: frammenti di<br />

un'autobiografia in bianco e nero. Dove si allude, ovviamente, al fatto che si tratta<br />

innanzitutto di un percorso attraverso vecchie foto, cioè immagini, rappresentazioni,<br />

«messe in posa». Si allude al carattere non organico e non compiuto della<br />

documentazione affiorata, e soprattutto alla sua parzialità soggettiva, anteriore e<br />

preliminare rispetto ad una sintesi storiografica vera e propria.<br />

Con la partecipazione attiva dei corsisti la cosa ha funzionato: rebaltando archivi pubblici<br />

e cassettini privati, questi frammenti di vite sono emersi in quantità e qualità sorprendente<br />

da una censura che rimane ancora forte, se si pensa che tra tante storie locali nella nostra<br />

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provincia, nessuna si è cimentata con gli anni del fascismo (se facciamo eccezione per la<br />

<strong>Storia</strong> del Trentino contemporaneo edita nel '78 da Verifiche, che allora criticammo ma di<br />

cui a distanza risaltano il coraggio e l'impegno). Tante foto, certo, spesso bellissime e<br />

comunque di grande forza documentaria, ma poi registri di maestri, diari scolastici e<br />

quaderni dei temi, taccuini autobiografici e lettere, poesie, teatro dialettale e non, canzoni<br />

ed inni, discorsi ufficiali, carte di polizia, visite pastorali, epigrafi e monumenti...<br />

La mostra allestita in Valbusa rende conto solo parzialmente di questa emersione di<br />

documenti, privilegiando giustamente quelli che possono essere apprezzati con l'occhio del<br />

visitatore: accanto alle foto le locandine, i manifesti murali, qualche oggetto simbolo come<br />

le radio del collezionista Angeli, i pugnali della milizia e l'elmetto delle «Me ne frego», la<br />

Cilera o il gagliardetto del Dopolavoro del Comune.<br />

L'esposizione è articolata in sei locali non grandissimi e dislocati in modo irregolare,<br />

rendendo visibile (contro la volontà degli organizzatori, ma con un'obiettiva coerenza) la<br />

parzialità e la disarmonia dell'immagine della città che viene proposta. Proponiamo un<br />

percorso e qualche suggestione di lettura. La sezione più vasta e più organica è quella su<br />

economia e società. Dalle rovine della Grande Guerra alla ricostruzione e all'ambiziosa<br />

reindustrializzazione impostata sotto la guida amministrativa di Defrancesco, ai diversi<br />

tornanti di una crisi che gettò la città in una miseria che a cinquant'anni di distanza<br />

fatichiamo a pensare, fino alla retorica degli ultimi anni '30 sui «seimila soldati del lavoro»<br />

che affollavano le fabbriche e le botteghe artigiane della città: la vita economica di<br />

<strong>Rovereto</strong> tra le due guerre è seguita con particolare attenzione al rapporto con il<br />

«contado» agricolo e con una montagna che si va spopolando. Segnalo le foto di una<br />

manifestazione fascista in fabbrica nell'impresa di legnami Komarek.<br />

Su un palco nel cortile un gruppo di gerarchi e il padrone tengono concione e cantano<br />

inni in pose particolarmente soddisfatte, braccio sul fianco e divisa fiammante. Gli operai<br />

sono ripresi da dietro, ne vediamo solo le nuche rasate, volti ed espressioni ci rimangono<br />

sconosciuti. In una saletta di fronte è ricostruita un'aula scolastica, più o meno sul modello<br />

di una delle foto esposte, dove la visitatrice sanitaria controlla lo stato di salute dei<br />

bambini esaminandone le bocche spalancate. Un piccolo atrio ospita la sezione sulla<br />

Chiesa: ci sono i gruppi dell'oratorio e della Beata Giovanna, momenti di vita associativa<br />

autonoma possibile solo alla Chiesa, ci sono le foto dell'irruzione del '31 all'oratorio di S.<br />

Maria, nel momento di maggiore conflitto, i manifesti con le ossessive invettive contro la<br />

moda procace e immorale, le processioni trionfali dei convegni eucaristici.<br />

Uno splendido corridoio luminoso ospita la sezione su architettura e urbanistica, con i<br />

progetti originali di Giovanni Tiella, la personalità più significativa in un panorama<br />

complessivamente asfittico, e un'analisi delle singole realizzazioni a cura di Giorgio Leoni; e<br />

una originale apertura di discorso sulla città vissuta e/o sognata dagli artisti che se ne<br />

sono andati per operare su più vasti scenari (la grande generazione di Melotti, Pollini, Belli,<br />

Libera).<br />

Tra le scoperte della mostra, è presentata qui da Giovanni Marzari un'opera d'arte<br />

sconosciuta e di notevole fascino, il medaglione con profilo della madre scolpito da Fausto<br />

Melotti per la sua tomba, al Cimitero di S. Marco, accostata ad un altro suo lavoro<br />

figurativo roveretano, il monumento alla Venerabile Giovanna Maria della Croce nella<br />

chiesa di S. Marco. La sezione dedicata a sport e spettacoli fa riaffiorare nella memoria i<br />

nomi e i volti delle leggende calcistiche e ciclistiche locali, e indica a cura di Quinto<br />

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Antonelli le modalità di organizzazione della ricca attività di teatro filodrammatico<br />

affermatasi proprio in quegli anni, nel dopolavoro e nel mondo cattolico.<br />

Vediamo le tappe di costruzione del Rifugio Lancia, accanto alla citazione delle lettere di<br />

Remo Costa, comunista, confinato a Ponza e poi a Ventotene, che scrive al fratello come<br />

secondo lui dovrebbe essere costruito il rifugio: «Io sono estromesso. Per questo nessun<br />

sterile lamento, anzi il mio spirito, sempre giovanile, si tiene ancora legato a distanza a<br />

quello che fu la mia più grande passione» (Ponza, 27/3/38). «Intanto un vecchio pozzardo<br />

si rigira delle fotografie per le mani, studia sasso per sasso e rivive l'ambiente della<br />

vecchia malga...» (Ventotene, 29/11/39).<br />

Gli antifascisti hanno una loro sezione, con le carte dell'Archivio di Stato sui sovversivi:<br />

comunisti, austriacanti, coraggiosi testimoni di Geova contadini. La città ufficiale e fascista<br />

esibisce le sue parate in divisa. Ma voglio chiudere questa proposta di itinerario con i<br />

luoghi e i riti della memoria della guerra. Ci sono bellissime foto sulla costruzione<br />

dell'Ossario a Castel Dante, tratte dalle lastre originali del Museo della Guerra. I muratori<br />

piccolini di fronte al «casone di pietra», una gigantesca armatura di legno, una gru<br />

altrettanto gigantesca che sovrasta il monumento destinato ad essere «ordinato archivio di<br />

teschi».<br />

Luciano Miori, prestigioso insegnante del liceo, raffinato grecista e latinista, allora<br />

intellettuale militante delle organizzazioni di regime, annota sul suo diario, nella pagina del<br />

marzo '34, che nella mostra commenta queste foto: «Vedo dalla mia finestra i lavori sul<br />

Colle di Castel Dante per la costruzione dell'Ossario. Quei soldati sono morti in gran parte<br />

senza sapere perché una forza terribile li inchiodava a quel posto. Per onorare la loro<br />

morte ora una generazione di scettici e di egoisti crea un edificio che probabilmente i<br />

posteri d'un migliaio d'anni dopo si divertiranno a demolire per creare qualche loro<br />

casupola. Vale la pena il costruire? Ma non la vale nemmeno il non costruire. Tutto è<br />

indifferente. E forse è preferibile questa nostra attività inconscia e cieca che ci illude e fa sì<br />

che non ci accorgiamo della nostra tragica sorte: quella di dissolverci disperatamente in un<br />

mondo che disperatamente si dissolve».<br />

* * *<br />

La mostra «Una città tra due imperi» è aperta tutti i giorni fino al 10 giugno. Non è un<br />

libro, ma lo sarà.<br />

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