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360 Daniele Andreozzi tramite i finanziamenti erogati alle compagnie di navigazione in base alle linee gestite e alle miglia percorse – garantì la redditività dell’intero sistema. Così, da un lato la cantieristica assunse la sua specifica fisionomia – integrata a valle con le compagnie di navigazione –, dall’altro, pure se tecnologicamente molto avanzata e in grado di fornire prodotti di eccelsa qualità, fu industria protetta; un’industria che sovente lavorava in perdita, spesso a costi più alti della concorrenza, ma in grado di garantire profitti grazie ai trasferimenti statali. Gli accordi di cartello tra le compagnie di navigazione volti alla limitazione della concorrenza completarono tale quadro. In tal modo, l’economia triestina assunse molte delle caratteristiche del sistema economico imperiale e grazie ai flussi di denaro provenienti dal centro si poté ovviare alla ridotta capacità di capitalizzazione delle élites locali e ai possibili svantaggi derivanti dalle politiche protezionistiche attuate dal centro, dalla scarsa ampiezza del mercato interno e dalla relativa povertà dell’immediato retroterra della città – sia italiano che asburgico – e del suo hinterland storico danubiano-balcanico. Hinterland che, inoltre, Trieste non riusciva a gerarchizzare a sé se non attraverso la mediazione del centro. Tali svantaggi erano avvertiti in Trieste, come erano avvertite le difficoltà insite nel competere con porti dotati di un più forte apparato industriale e circondati da aree più ricche. Per questo si cercò di creare un vicino retroterra industriale direttamente controllato dal capitale triestino – Monfalcone – e di espandere l’influenza delle élites cittadine in altre zone dell’Impero. In effetti, i processi di convergenza strutturale in atto nell’Impero asburgico si accompagnavano a un forte processo di integrazione tra le aree economiche che in esso erano comprese. Processo che, lungi dall’essere indolore, significava pure concentrazione e gerarchizzazione e quindi era caratterizzato da una forte concorrenza tra i poli di sviluppo presenti: Vienna, Praga e Trieste. Fu uno scontro, questo, da cui il capitalismo triestino uscì sconfitto, come provano il sostanziale fallimento dei suoi tentativi di espansione – con la parziale eccezione di quanto avvenuto a Monfalcone – e la sua incapacità di difendere la piazza cittadina dall’espansionismo altrui. Una sconfitta i cui esiti si fecero per altro evidenti a cavallo tra XIX e XX secolo. In quel periodo, mentre Trieste perdeva importanza quale centro finanziario, il sistema bancario locale mutò il proprio assetto in seguito all’uscita di scena degli istituti di credito controllati dal capitale cittadino, sostituiti dalle banche viennesi e praghesi. Sempre le banche d’affari viennesi svolsero un ruolo centrale nell’attuazione delle politiche governative volte all’ammodernamento delle infrastrutture della città e nel contempo sostennero la nuova fase di espansione del settore secondario. Il processo di sviluppo tecnologico, l’aumento delle unità produttive e la crescita dimensionale che interessò alcuni dei comparti principali del tessuto produttivo – come il chimico, il metallurgico, il meccanico e l’alimentare – fu in gran parte sostenuto dagli incentivi statali ed ebbe come protagonisti le banche e i capitali non triestini. Questo, naturalmente, anche nelle costruzioni navali. I flussi di denaro erogati dallo stato continuarono a svolgere una funzione essenziale, ma se in precedenza il ceto dirigente locale era riuscito a far fronte alle crescenti necessità con soluzioni interne alla città, ora dovette farsi da parte e il suo posto fu preso dalle banche viennesi che, oltre a finanziare i cantieri, divennero arbitre dei meccanismi di concentrazione e cartellizzazione. Importanti centri di direzione economica furono spostati da Trieste in altre aree e il capitale triestino fu spinto, in campo industriale, nei settori marginali e là dove la soglia di entrata era più bassa. Tutto ciò, unitamente alla parallela profonda concentrazione avvenuta in campo assicurativo, restrinse ulteriormente le possibilità disponibili per le carriere personali dei membri dell’élite triestina. Così, la perdita di autonomia e di potere decisionale si sommava al pericolo di declassamento per molti. Per molti, ma non per tutti allo stesso modo e in misura uguale. Alcuni dotati di maggiori ricchezze o maggiori capacità di capitalizzazione, o con elevate qualità

Fonti, contesto e congiunture. Una riflessione sulla storia economica di Trieste 361 professionali o personali, oppure perché in quei frangenti si trovarono a ricoprire posizioni chiave, poterono elaborare strategie di carriera incentrate sull’inserimento nei circuiti imprenditoriali e finanziari dell’Impero, riuscendo pure a giocarvi un ruolo rilevante. Tale strada, però, non fu praticabile per il ceto dirigente triestino nel suo complesso. Questo semmai si rinserrò nell’agone locale, incentrando le proprie strategie – talvolta in maniera non limpida – sulle risorse che si rendevano disponibili nella gestione del centro urbano, nella fornitura dei servizi alla città e nella crescita urbanistica. Così, interessi e destini economici divennero ancora più numerosi e si divaricarono ulteriormente sia all’interno della città, sia tra le fila del suo ceto dirigente. L’evolversi di tale situazione fu bruscamente determinato dalla Prima guerra mondiale e dai suoi verdetti inappellabili: la dissoluzione dell’Impero asburgico e il frammentarsi dell’hinterland danubiano-balcanico di Trieste in molti piccoli Stati dalle economie scarsamente sviluppate. Invece, una volta in Italia, la città si trovò immersa in un sistema economico non troppo dissimile da quello in cui si era sviluppata nei decenni precedenti: predominio dell’industria pesante, limitato sviluppo del mercato interno e della concorrenza, forte ruolo dello stato nell’economia, rilevante presenza della banche. Così, mentre si tentavano di ridefinire e rilanciare le funzioni del porto, le élites triestine cercarono di sfruttare il nuovo scenario per riacquistare la centralità che avevano perso in area imperiale. Il rilancio della Banca commerciale triestina, della cantieristica e del comparto tessile ad opera dei Cosulich e dei Brunner – rilancio ancora una volta sostenuto da consistenti flussi di denaro provenienti dallo stato – esemplifica tale tentativo, fallito, come nel passato, sempre per i limiti di capitalizzazione esistenti nella piazza. L’irizzazione della città, verso gli anni Trenta, sancì una nuova subordinazione del capitale triestino, questa volta a quello italiano. Una subordinazione che, come nel secolo precedente, era anche per certi aspetti un compromesso e un amalgama e che colpiva il ceto dirigente triestino in modo diseguale differenziando gli interessi sia all’interno del ceto stesso, sia tra questo e la città nel suo complesso. Il tentativo di immaginare una ricomposizione, incentrata su un ruolo di Trieste quale trampolino di lancio dell’imperialismo fascista verso i Balcani, si infranse contro le leggi razziali che provocarono un profondo mutamento dell’equilibrio raggiunto. Ancora una volta, però, l’inappellabile verdetto della guerra, sancendo la sconfitta del nazifascismo e cassando la proposta politica ed economica della città quale porto a servizio dell’espansionismo hitleriano e/o di Mussolini, rimise tutto in discussione. Trieste, la sua economia e il suoi ceti dirigenti dovevano riposizionarsi nel nuovo contesto creatosi. Siamo così tornati agli anni oggetto di questo convegno. Già ho indicato i vuoti di conoscenza che ancora rimangono per tale periodo ed è compito dei ricercatori impegnati nello studio delle fonti concernenti questo arco temporale il colmarli. Da parte mia ho cercato di proporre una ricostruzione dei tempi lunghi della storia economica di Trieste con l’obiettivo di fornire una chiave di lettura utile per inserire le vicende congiunturali nelle più ampie dinamiche strutturali, per valutare continuità e rotture e per comprendere i meccanismi di funzionamento dell’economia cittadina e i modi delle relazioni tra questa e le forze e le economie ad essa esterne. Come è logico sarà il lavoro di ricerca negli archivi e il dibattito tra gli storici a valutarne l’attendibilità. Qua ci preme aggiungere un’ultima cosa. I processi di globalizzazione fanno sì che le vicende economiche vissute da Trieste – spesso, come abbiamo visto, lette come «periferiche» – assumano oggi una particolare rilevanza per l’analisi delle tendenze in atto: basti pensare ai problemi posti dai processi di deindustrializzazione, dalla definizione dei capitalismi nazionali, dal mutare dei rapporti tra territorio, élites locali e imprese e tra proprietà delle aziende e loro direzione. E questo proprio quando Trieste si trova nelle immediate vicinanze di una delle aree più ricche d’Europa e il suo hinterland danubiano-balcanico sta trovando una nuova unità.

Fonti, contesto e congiunture. Una riflessione sulla storia economica di Trieste 361<br />

professionali o personali, oppure perché in quei frangenti si trovarono a ricoprire posizioni chiave,<br />

poterono elaborare strategie di carriera incentrate sull’inserimento nei circuiti imprenditoriali e<br />

finanziari dell’Impero, riuscendo pure a giocarvi un ruolo rilevante. Tale strada, però, non fu<br />

praticabile per il ceto dirigente triestino nel suo complesso. Questo semmai si rinserrò nell’agone<br />

locale, incentrando le proprie strategie – talvolta in maniera non limpida – sulle risorse che si<br />

rendevano disponibili nella gestione del centro urbano, nella fornitura dei servizi alla città e nella<br />

crescita urbanistica. Così, interessi e destini economici divennero ancora più numerosi e si divaricarono<br />

ulteriormente sia all’interno della città, sia tra le fila del suo ceto dirigente.<br />

L’evolversi di tale situazione fu bruscamente determinato dalla Prima guerra mondiale e dai<br />

suoi verdetti inappellabili: la dissoluzione dell’Impero asburgico e il frammentarsi dell’hinterland<br />

danubiano-balcanico di Trieste in molti piccoli Stati dalle economie scarsamente sviluppate.<br />

Invece, una volta in Italia, la città si trovò immersa in un sistema economico non troppo<br />

dissimile da quello in cui si era sviluppata nei decenni precedenti: predominio dell’industria<br />

pesante, limitato sviluppo del mercato interno e della concorrenza, forte ruolo dello stato<br />

nell’economia, rilevante presenza della banche. Così, mentre si tentavano di ridefinire e<br />

rilanciare le funzioni del porto, le élites triestine cercarono di sfruttare il nuovo scenario per<br />

riacquistare la centralità che avevano perso in area imperiale. Il rilancio della Banca commerciale<br />

triestina, della cantieristica e del comparto tessile ad opera dei Cosulich e dei Brunner –<br />

rilancio ancora una volta sostenuto da consistenti flussi di denaro provenienti dallo stato –<br />

esemplifica tale tentativo, fallito, come nel passato, sempre per i limiti di capitalizzazione<br />

esistenti nella piazza. L’irizzazione della città, verso gli anni Trenta, sancì una nuova subordinazione<br />

del capitale triestino, questa volta a quello italiano. Una subordinazione che, come nel<br />

secolo precedente, era anche per certi aspetti un compromesso e un amalgama e che colpiva il<br />

ceto dirigente triestino in modo diseguale differenziando gli interessi sia all’interno del ceto<br />

stesso, sia tra questo e la città nel suo complesso. Il tentativo di immaginare una ricomposizione,<br />

incentrata su un ruolo di Trieste quale trampolino di lancio dell’imperialismo fascista verso i<br />

Balcani, si infranse contro le leggi razziali che provocarono un profondo mutamento dell’equilibrio<br />

raggiunto. Ancora una volta, però, l’inappellabile verdetto della guerra, sancendo la<br />

sconfitta del nazifascismo e cassando la proposta politica ed economica della città quale porto<br />

a servizio dell’espansionismo hitleriano e/o di Mussolini, rimise tutto in discussione. Trieste, la<br />

sua economia e il suoi ceti dirigenti dovevano riposizionarsi nel nuovo contesto creatosi.<br />

Siamo così tornati agli anni oggetto di questo convegno. Già ho indicato i vuoti di conoscenza<br />

che ancora rimangono per tale periodo ed è compito dei ricercatori impegnati nello studio delle<br />

fonti concernenti questo arco temporale il colmarli. Da parte mia ho cercato di proporre una<br />

ricostruzione dei tempi lunghi della storia economica di Trieste con l’obiettivo di fornire una<br />

chiave di lettura utile per inserire le vicende congiunturali nelle più ampie dinamiche strutturali,<br />

per valutare continuità e rotture e per comprendere i meccanismi di funzionamento<br />

dell’economia cittadina e i modi delle relazioni tra questa e le forze e le economie ad essa<br />

esterne. Come è logico sarà il lavoro di ricerca negli archivi e il dibattito tra gli storici a valutarne<br />

l’attendibilità. Qua ci preme aggiungere un’ultima cosa. I processi di globalizzazione fanno sì<br />

che le vicende economiche vissute da Trieste – spesso, come abbiamo visto, lette come<br />

«periferiche» – assumano oggi una particolare rilevanza per l’analisi delle tendenze in atto:<br />

basti pensare ai problemi posti dai processi di deindustrializzazione, dalla definizione dei<br />

capitalismi nazionali, dal mutare dei rapporti tra territorio, élites locali e imprese e tra proprietà<br />

delle aziende e loro direzione. E questo proprio quando Trieste si trova nelle immediate<br />

vicinanze di una delle aree più ricche d’Europa e il suo hinterland danubiano-balcanico sta<br />

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