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preme1.chp:Corel VENTURA - TRIESTE Books

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312 Libero Pelaschiar<br />

dopo il crollo dell’impero asburgico e ottomano. Nel costruire il senso dell’appartenenza<br />

nazionale gli storici puntarono di volta in volta sulla storia, la lingua, la religione, il folklore, il<br />

territorio, sugli elementi che meglio mostravano l’antichità delle tradizioni, la continuità della<br />

nazione, la sua autenticità. La storia della nazione venne riletta attraverso filtri teleologici per<br />

dimostrare come il suo destino fosse inesorabilmente nella formazione dello stato nazionale» 3 .<br />

Pur interpretato con diverse sfumature ma non depurato della sua ambiguità, questo concetto<br />

di nazionalità fu accolto spontaneamente e in modo acritico dalla stragrande maggioranza degli<br />

italiani della Venezia Giulia, ed era alla base sia delle rivendicazioni degli irredentisti nazionalisti<br />

che delle aspirazioni unitarie delle comunità italiane animate da spirito democratico,<br />

nonché di coloro che vissero la loro identità nazionale italiana nel contesto di una sostanziale<br />

lealtà istituzionale nei confronti dell’Impero.<br />

Vi era infatti un tratto culturale ed ideologico comune ai cattolici italiani soggetti all’Austria<br />

che consisteva nella consapevole e chiara distinzione tra nazione e Stato, e quindi nella non<br />

accettazione del principio del nazionalismo irredentista che identificava le due realtà. Questa<br />

distinzione venne efficacemente indicata dal sacerdote triestino Ugo Mioni in un volume<br />

pubblicato a Torino nel 1905, Piccoli amici: «Noi […] perché cristiani dobbiamo ubbidire al<br />

nostro sovrano [l’Imperatore Francesco Giuseppe; N.d.R.] […] Noi però, pur rimanendo<br />

sempre sudditi fedeli, dobbiamo tendere tutte le nostre forze, per ottenere dal governo il<br />

rispetto dei nostri diritti nazionali e per fortificare la nostra italianità. Ossequiosi al sovrano,<br />

dobbiamo pur chiedere che lo Stato ci rispetti, e non ci sacrifichi a maggioranze tedesche o<br />

slave, e che ci lasci vivere italianamente nelle nostre terre italiane. Noi dobbiamo adempire i<br />

nostri doveri, ma possiamo chiedere che si riconoscano i nostri diritti» 4 . Santin si mantenne<br />

fedele a queste linee di condotta, lealismo verso l’autorità legittima e strenua difesa dei diritti<br />

civili e dei valori e della libertà religiosa dei fedeli e di tutto il «popolo di Dio», anche di quelli<br />

che non vi appartengono, con costante coerenza in tutta la sua vita. Nell’ambito dell’Impero<br />

asburgico, i cattolici ed il mondo ecclesiastico furono pienamente partecipi alle lotte politiche;<br />

il giovane Santin ritenne quindi naturale l’intervento in prima persona degli ecclesiastici nella<br />

vita politica e sociale. Lo fece a Pola sostenendo prima i cristiano-sociali e poi, dopo il 1919, il<br />

Partito popolare di Sturzo. In seguito, nella sua posizione di vescovo intervenne con decisione,<br />

sia pure con motivazioni legate alla sua responsabilità religiosa e morale, sulle questioni<br />

politiche e nei confronti delle autorità politiche.<br />

Da Pola a Fiume<br />

Antonio Santin, subito dopo l’ordinazione sacerdotale nel 1918, venne nominato cappellano<br />

di Mormorano, un paesino istriano fra Dignano e Barbana che era rimasto senza sacerdote per<br />

molti anni. La popolazione del villaggio parlava il croato che Santin apprese con applicazione<br />

costante per poter predicare in quella lingua. Sulla base di queste prime esperienze pastorali<br />

Santin, in modo troppo perentorio, affermò nella sua autobiografia: «Non conobbi una questione<br />

slava perché ero in cordiali rapporti con tutti gli slavi che avvicinavo» 5 . Dopo alcuni mesi fu<br />

trasferito a Pola dove rimase prima come cappellano e poi come parroco fino al 1933, quando<br />

fu nominato vescovo di Fiume. Durante gli anni del servizio pastorale a Pola, egli dovette<br />

confrontarsi con il socialismo massimalista degli operai del cantiere e subito dopo con il<br />

fascismo, «tempi difficilissimi che riuscimmo a superare rimanendo noi stessi». Così Santin<br />

descrive la sua coerenza: «Non ho fatto mai politica, ma ministero sacerdotale. Un giorno fui<br />

invitato […] a dire qualche parola alle “piccole giovani italiane” Lo feci volentieri […] Vi andai

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