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36 Rubrica FARNESE VINO D’ABRUZZO di Marco Moreschini La vocazione internazionale dei vini abruzzesi Nel quadro delle iniziative di accompagnamento al corso di qualificazione per sommeliers si è tenuto a Villa Adriana il 25 febbraio 2005, presso la Tenuta di Rocca Bruna, un incontro con l’enologo e co-proprietario dell’Azienda vinicola Farnese di Ortona, curato da Adua Villa, docente AIS, nonché sommelieuse nota al pubblico televisivo. Durante l’incontro abbiamo avuto modo di degustare tre vini che stanno ottenendo di anno in anno sempre più riconoscimenti. Curioso è stato apprendere la matrice storica comune che lega Castel Madama a Ortona: Ottavio Farnese, infatti, fu il secondo marito di Madama Margherita d’Austria, e Ortona acquistata dai Farnese nel 1582, fu residenza estiva della figlia naturale dell’imperatore Carlo V fino alla morte sopraggiunta nel 1586. L’enologo di questa azienda che esporta in 49 paesi, Filippo Baccalaro, piemontese, ma abruzzese d’adozione da ormai 10 anni, ha tessuto le lodi dei terreni abruzzesi, che permettono alla provincia di Chieti di essere la seconda in Italia per quantità prodotta dopo quella di Trapani, quella del Marsala. Definendo l’Abruzzo quale Terra ricca e generosa che produce oltre 10 milioni di bottiglie l’anno, lo ha diviso in due aree dal punto di vista enologico: la prima è quella del Nord, delle colline Teramane della DOCG Montepulciano, dove il terreno è collinare, calcareo e concentrato, più adatto per creare vini da invecchiamento e di una certa robustezza tannica. La seconda è quella del Sud, la terra di Ortona e Vasto per intenderci, dove il terreno argilloso e profondo e l’influenza del mare danno vita a vini di una certa freschezza e sapidità, soprattutto bianchi di qualità e ne fanno terra adatta anche a sperimentare vitigni internazionali lasciando spazio anche alla creatività degli enologi. Baccalaro ha poi detto che un vino si deve sì lavorare in cantina (senza lasciarlo troppo nel legno), ma che l’attenzione deve essere riposta sopratutto nella cura della vite: fondamentale in tal senso è stato l’aiuto di enologi provenienti dalle nuove terre del vino, Cile ed Australia, innovativi e anche a buon mercato. Ed ancora ha detto di preferire il rispetto della tipicità del vino e dei terreni, non amando, come i francesi, sovraccaricare la produzione per ettaro. La Farnese è per un’utilizzazione moderata della solforosa (il bisolfito), “unico modo per conservare, stabilizzare e non far ossidare il vino: aggiungere azoto e prodotti organici nel terreno creando prodotti biodinamici non garantisce ancora gli stessi risultati”. Passando alla degustazione dei tre vini richiamati, quelli selezionati sono stati lo Chardonnay Bianco OPIS Terre di Chieti, Il Montepulciano Opis 100% e l’Edizione 5 Autoctoni. Tralasciando i primi due vini, che Luca Maroni, per l’Annuario dei vini Italiani, ha valutato fra gli eccellenti, passiamo al pezzo forte della produzione Farnese, Un momento di una lezione del corso AIS di Tivoli quell’Edizione 5 autoctoni 2002 che l’Annuario 2005 dell’AIS fregia del massimo della valutazione (5 grappoli). Sorto da una scommessa dell’enologo con il “Veronelli” inglese Hughes Johnson, il quale asseriva che non era possibile avere un decoroso blend con una miscela di vini autoctoni, ma solo con quelli internazionali, questo vino ha pienamente smentito il britannico. Si è ottenuto un taglio internazionale, rispettando l’autenticità di cinque vitigni meridionali. La miscela di vini è così composta: il Montepulciano 33%, il Primitivo 30%, il Sangiovese 25%, il Negroamaro 7%, e la Malvasia 5%, tutti vinificati separatamente, poi uniti. Contenuto in una sontuosa bottiglia bordolese da 1 Kg e 200 gr, questo innovativo Vino da Tavola, giunto alla 4° edizione, ha un colore molto concentrato granato, una gradazione di 14, 5%, una consistenza visibile, e si presenta con profumi di frutta rossa matura (amarena e ribes su tutti) e con una nota balsamica fresca, mista ad un sentore di tostato che ricorda il cacao ed il caffè, provenienti dall’invecchiamento almeno di un anno in roveri francesi. Al gusto lo stesso vino si rivela morbido, dotato di tannini eleganti e raffinati, quasi avvolgenti, che non lasciano sensazioni di durezza sull’arco gengivale, è dotato di una buona spalla acida, che si manifesta ai lati posteriori della lingua, comportando una insistente salivazione. Lo stesso vino si accosta perfettamente a piatti di selvaggina, molto saporiti, o assieme a formaggi freschi o speziati. L’armonia di questo vino deriva in gran parte dalle caratteristiche dei vitigni autoctoni pugliesi e lo stesso non perde affatto la competizione con i blend e i tagli internazionali. L’Abruzzo, quindi, ha una vocazione internazionale per i vini e le aziende sono sempre più consapevoli delle risorse che offre: buono a sapersi per me, che oramai da un anno e mezzo vago per lavoro fra le affascinanti terre dei nostri vicini di Regione.

Cinema 37 MILLION DOLLAR BABY di Gualtiero Todini La trama non è originale; la suggerisce a Eastwood un racconto dello scrittore F. X. Toole; ma il film che ne nasce è davvero bello, talmente bello da essere premiato con l’Oscar alla regìa e alla migliore pellicola statunitense. Un film duro, amaro, scarno, che affibbia ripetuti colpi bassi all’osannato “Sogno Americano”. Sì, ho detto “colpi bassi”, perché è un film sul mondo della boxe, che si svolge in una sordida palestra, priva di luce naturale, gestita da un vecchio allenatore, Frankie-Eastwood, aiutato da un fedele amico di giovanili scorribande, il bravo attore di colore Morgan Freeman (anche a lui l’Oscar 2005, come migliore attore maschile non-protagonista), che ha sempre una buona parola per tutti, anche per il più incapace degli aspiranti boxeurs. I frequentatori della palestra sono personaggi mediocri in cerca di un’affermazione, che risulta quasi sempre chimerica: siamo ben lontani dai fasti dell’uomo americano “che si fa da sé”. Oltre a Freeman, guadagna l’Oscar anche Hilary Swamp, quale migliore attrice protagonista, nella parte di Maggie, una ragazza povera ma ostinata, che si presenta al burbero Frankie, per essere allenata a vincere. Sorretta da Morgan (il nome nel film non lo ricordo), Maggie a poco a poco entra nel cuore di Frankie, al quale si lega anche come ad un padre-vicario, avendo perso il suo, di cui conserva un ammirato ricordo. Frankie gradualmente cede all’ostinazione della ragazza: anche lui trova in Maggie una figlia-vicaria, dal momento che da anni scrive lettere ad una figlia “offesa” (nel film non si dice come e perché), puntualmente respinte al mittente. Nasce, nello sviluppo degli eventi una famiglia atipica, in cui l’affetto, scarno e poco loquace, ma sincero, lega i personaggi sempre più profondamente. Affetto vero, anzi amore, ma non nel senso volgare che immagina la madre di Maggie. A proposito della madre, quando Maggie, avendo fatto un po’ di soldi, le regala una casa spaziosa che la faccia uscire dal tugurio in cui vive con il resto della famiglia (una sorella con figlio, un fratello inetto e “coatto”), costei la rimbrotta perché la proprietà di una casa la priverà del sussidio governativo. Maggie impara presto a boxare con intelligenza e a menare colpi micidiali; tanto che in un anno e mezzo arriva a combattere per il titolo Clint Eastwood e Hilary Swamp in una scena del film mondiale (in palio un milione di dollari). Gli spettatori sono certi che vincerebbe il titolo, se la rivale non le sferrasse un illecito “colpo basso”, che le fracassa la schiena e il collo. Qui si spezza il sogno di Maggie (riscattarsi dalla miseria di un destino crudele verso i poveri) e si spezza la sua vita. La “dolce morte” implorata e ottenuta da Frankie, suo nuovo padre, è la logica conclusione del film. Frankie, che si è accollato il destino di questa nuova figlia fatta a pezzi davanti a lui impotente, dopo averle procurato la morte vera, sparisce non sappiamo dove. Un film amaro, lo ribadisco, perché è un film in cui il tentativo di sfuggire alla solitudine si frantuma, cozzando contro la durezza del destino. Naturalmente l’assegnazione dell’Oscar alla migliore regìa è assolutamente meritata: l’autore riesce a trattenere la tentazione di occupare troppo il campo. La sua recitazione è, perciò, misurata e scarna; poche le parole e solo quelle strettamente necessarie; per il resto soltanto gesti e sguardi; ma anche questi essenziali, rapidi. Dunque, un bel film; senza dubbio da vedere.

Cinema<br />

37<br />

MILLION DOLLAR BABY<br />

di Gualtiero Todini<br />

<strong>La</strong> trama non è originale; la suggerisce a<br />

Eastwood un racconto dello scrittore F. X. Toole;<br />

ma il film che ne nasce è davvero bello, talmente<br />

bello da essere premiato con l’Oscar alla regìa e<br />

alla migliore pellicola statunitense. Un film duro,<br />

amaro, scarno, che affibbia ripetuti colpi bassi<br />

all’osannato “Sogno Americano”. Sì, ho detto<br />

“colpi bassi”, perché è un film sul mondo della<br />

boxe, che si svolge in una sordida palestra, priva<br />

di luce naturale, gestita da un vecchio allenatore,<br />

Frankie-Eastwood, aiutato da un fedele amico di<br />

giovanili scorribande, il bravo attore di colore<br />

Morgan Freeman (anche a lui l’Oscar 2005, come<br />

migliore attore maschile non-protagonista), che ha<br />

sempre una buona parola per tutti, anche per il più<br />

incapace degli aspiranti boxeurs.<br />

I frequentatori della palestra sono personaggi<br />

mediocri in cerca di un’affermazione, che risulta<br />

quasi sempre chimerica: siamo ben lontani dai<br />

fasti dell’uomo americano “che si fa da sé”. Oltre<br />

a Freeman, guadagna l’Oscar anche Hilary<br />

Swamp, quale migliore attrice protagonista, nella<br />

parte di Maggie, una ragazza povera ma ostinata,<br />

che si presenta al burbero Frankie, per essere allenata<br />

a vincere. Sorretta da Morgan (il nome nel<br />

film non lo ricordo), Maggie a poco a poco entra<br />

nel cuore di Frankie, al quale si lega anche come<br />

ad un padre-vicario, avendo perso il suo, di cui<br />

conserva un ammirato ricordo. Frankie gradualmente<br />

cede all’ostinazione della ragazza: anche<br />

lui trova in Maggie una figlia-vicaria, dal momento<br />

che da anni scrive lettere ad una figlia “offesa”<br />

(nel film non si dice come e perché), puntualmente<br />

respinte al mittente.<br />

Nasce, nello sviluppo degli eventi una famiglia<br />

atipica, in cui l’affetto, scarno e poco loquace,<br />

ma sincero, lega i personaggi sempre più profondamente.<br />

Affetto vero, anzi amore, ma non nel<br />

senso volgare che immagina la madre di Maggie.<br />

A proposito della madre, quando Maggie, avendo<br />

fatto un po’ di soldi, le regala una casa spaziosa<br />

che la faccia uscire dal tugurio in cui vive con il<br />

resto della famiglia (una sorella con figlio, un fratello<br />

inetto e “coatto”), costei la rimbrotta perché<br />

la proprietà di una casa la priverà del sussidio<br />

governativo.<br />

Maggie impara presto a boxare con intelligenza<br />

e a menare colpi micidiali; tanto che in un<br />

anno e mezzo arriva a combattere per il titolo<br />

Clint Eastwood e Hilary Swamp in una scena del film<br />

mondiale (in palio un milione di dollari). Gli<br />

spettatori sono certi che vincerebbe il titolo, se la<br />

rivale non le sferrasse un illecito “colpo basso”,<br />

che le fracassa la schiena e il collo. Qui si spezza<br />

il sogno di Maggie (riscattarsi dalla miseria di<br />

un destino crudele verso i poveri) e si spezza la<br />

sua vita. <strong>La</strong> “dolce morte” implorata e ottenuta<br />

da Frankie, suo nuovo padre, è la logica conclusione<br />

del film. Frankie, che si è accollato il destino<br />

di questa nuova figlia fatta a pezzi davanti a<br />

lui impotente, dopo averle procurato la morte<br />

vera, sparisce non sappiamo dove. Un film<br />

amaro, lo ribadisco, perché è un film in cui il tentativo<br />

di sfuggire alla solitudine si frantuma, cozzando<br />

contro la durezza del destino.<br />

Naturalmente l’assegnazione dell’Oscar alla<br />

migliore regìa è assolutamente meritata: l’autore<br />

riesce a trattenere la tentazione di occupare troppo<br />

il campo. <strong>La</strong> sua recitazione è, perciò, misurata e<br />

scarna; poche le parole e solo quelle strettamente<br />

necessarie; per il resto soltanto gesti e sguardi; ma<br />

anche questi essenziali, rapidi. Dunque, un bel<br />

film; senza dubbio da vedere.

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