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I had the touch. Canzoni rock che parlano dell'invecchiamento

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I <strong>had</strong> <strong>the</strong> <strong>touch</strong>. <strong>Canzoni</strong> <strong>rock</strong> <strong>che</strong> <strong>parlano</strong> dell’invecchiamento<br />

Jacopo Conti<br />

Quattro canzoni incise da “vecchie glorie” del <strong>rock</strong> (Beatles, Joni Mit<strong>che</strong>ll, Rolling Stones e<br />

George Harrison) in anni recenti condividono l’uso di una piccola frase riguardante una non<br />

precisata “perdita di contatto”. Questo saggio analizza queste canzoni e le interpreta in un<br />

contesto musicale in cui questi artisti si considerano “vecchi”, non più “in contatto” con il<br />

pubblico, e come la musica veicoli questo messaggio.<br />

A mio padre e mia zia,<br />

<strong>che</strong> non sono potuti invecchiare<br />

Grow old along with me<br />

The best is yet to be<br />

John Lennon, Grow Old With Me (Milk and Honey, 1982)<br />

Stupisce non poco un elemento comune a quattro canzoni degli ultimi quindici anni di tre o quattro<br />

“vecchie glorie” del <strong>rock</strong> cosiddetto d’autore: i Beatles, Joni Mit<strong>che</strong>ll, George Harrison e i Rolling<br />

Stones. I brani a cui si fa qui riferimento specifico sono Free As A Bird (The Beatles Anthology vol.<br />

1, 1995), Stay In Touch (Taming The Tiger, 1998), Stuck Inside A Cloud (Brainwashed, 2002) e<br />

Losing My Touch (Forty Licks, 2002) 1 , mentre l’elemento in comune è la “perdita del contatto” o,<br />

cambiando la traduzione, del “tocco”. Non è strano <strong>che</strong> dei grandi nomi dell’industria della popular<br />

music riflettano nei loro lavori sulle proprie vicende personali, ma l’utilizzo degli stessi termini è<br />

quantomeno singolare e denota forse, come vedremo, un’ulteriore presa di posizione nei confronti<br />

mondo discografico moderno. Non va dimenticato, a premessa della lettura di questo articolo, <strong>che</strong> il<br />

<strong>rock</strong> è un genere musicale prepotentemente associato all’adolescenza e alla prima età adulta, mai<br />

alla maturità o alla vecchiaia. Si prenderanno in considerazione gli stessi elementi per quanto<br />

riguarda ogni singola canzone: qual<strong>che</strong> cenno riguardo il momento della carriera<br />

dell’esecutore/autore (in tutti e quattro i casi esecutore e autore coincidono), in un secondo<br />

momento se ne analizzeranno i testi (per ragioni di copyright, non sono stati trascritti i testi<br />

integralmente: si sono inserite solo le parti contenenti la frase presa in esame e si è cercato di<br />

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descrivere il resto), e nel terzo paragrafo si presenteranno brevemente aspetti musicali di base quali<br />

velocità, tonalità, qual<strong>che</strong> elemento armonico e soprattutto i profili melodici delle frasi riguardanti il<br />

«tocco/contatto», per valutare se, e in <strong>che</strong> modo, queste vengono messe in risalto (le trascrizioni<br />

sono di chi scrive). Il paragrafo conclusivo riguarderà tutti e quattro i pezzi, mettendo insieme gli<br />

elementi in comune e trattando un ultimo aspetto musicale – la strumentazione – <strong>che</strong> proporrà<br />

l’interpretazione dei brani suggerita dal titolo.<br />

LEGENDA DELLE ANNOTAZIONI MUSICALI<br />

Per l’annotazione degli elementi musicali all’interno del presente articolo si utilizzeranno i seguenti<br />

caratteri:<br />

• Nomi delle note singole in minuscolo senza le grazie («Sulle strofe viene tenuto un pedale di<br />

do dal contrabbasso»).<br />

• I nomi delle tonalità e delle aree armoni<strong>che</strong> vengono segnalati con la sola prima lettera<br />

maiuscola («Fa lidio e Do ionico»).<br />

• I nomi degli accordi vengono scritti interamente in maiuscolo; se non viene specificato nulla,<br />

l’accordo è maggiore, come nel normale uso delle sigle («DO» indica l’accordo di do<br />

maggiore, do-mi-sol; «DOm» sta per do minore, ossia do-mi♭-sol) 2 .<br />

• Gli accordi costruiti su gradi della scala sono scritti in rilievo,<br />

quelli<br />

maggiori e i minori (« ♭ » per indicare un accordo maggiore sul primo<br />

grado, uno minore sul sesto, uno maggiore sul sesto abbassato e sul quinto: le frecce indicano il<br />

movimento discendente del basso).<br />

FREE AS A BIRD<br />

1. NOTE DI PRODUZIONE<br />

La vicenda del pezzo pubblicato per primo (1995) è la più affascinante, nonché la più carica di<br />

significati nostalgici. Tra il 1994 e il 1995 i tre Beatles ancora in vita pubblicarono la Beatles<br />

Anthology, un’ampia raccolta 3 contenente nuovo materiale dei Fab Four – essenzialmente<br />

versioni demo, prime incisioni, esecuzioni dal vivo di lavori più o meno noti. Di tanto in tanto vi<br />

sarebbero stati – e questo era l’elemento <strong>che</strong> ebbe maggiore risonanza presso i media – pezzi<br />

inediti, i primi dallo scioglimento del 1970 (non solo out-takes degli anni Sessanta ma an<strong>che</strong><br />

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canzoni registrate ex novo).<br />

Naturalmente il problema, se<br />

così lo si può definire, era<br />

l’assenza di John Lennon; l’idea<br />

fu quindi quella di lavorare a<br />

una canzone lasciata incompiuta<br />

dall’autore prima di essere<br />

ucciso nel 1980. La scelta<br />

ricadde su Free As A Bird; i tre<br />

musicisti e il produttore Jeff Lynne lavorarono a partire da una registrazione su cassetta risalente,<br />

stando al booklet del cd 4 , al 1977, provvista di una traccia singola (fatta con un normale<br />

registratore portatile, insomma) contenente voce e pianoforte <strong>che</strong> comprendeva solo il chorus,<br />

cui aggiunsero le voci di tutti e quattro, batteria, basso, chitarre acusti<strong>che</strong>, chitarra elettrica e<br />

slide, una traccia di pianoforte aggiuntiva e una nuova sezione, il bridge, scritta appositamente<br />

da McCartney, Harrison e Starr. La canzone <strong>che</strong> ne risultò è in forma chorus-bridge –<br />

particolarmente cara ai Beatles 5 – e presentava, per la terza volta da sempre, tutti e quattro i<br />

musicisti come autori 6 . Che sia per le difficoltà tecni<strong>che</strong> incontrate all’inizio, dovute alla scarsa<br />

qualità della registrazione originale (e alla non separazione delle tracce), per il trasporto emotivo<br />

nel lavorare nuovamente a un pezzo incompleto dell’amico perso tragicamente, per l’essere<br />

tornati di nuovo insieme dopo tanti anni in qualità di Beatles, o forse per tutte queste ragioni<br />

sommate, tutti si dissero assolutamente soddisfatti del risultato finale; per constatare <strong>che</strong> le<br />

interviste in cui McCartney, Harrison, Starr e Lynne non fossero così entusiasti<strong>che</strong> solo per<br />

ragioni promozionali, si considerino le dichiarazioni dell’anno successivo riguardanti Real Love<br />

(The Beatles Anthology Vol. 2, 1996), la seconda e ultima canzone con cui si confrontarono i<br />

musicisti, in cui si afferma <strong>che</strong> la prima registrazione li coinvolse sia musicalmente <strong>che</strong><br />

personalmente molto di più, probabilmente perché Free As A Bird era un abbozzo su cui tutti<br />

lavorarono, mentre Real Love era una canzone fatta e finita, cui furono aggiunti solo gli<br />

strumenti. Se i loro entusiasmi fossero stati generati solo da motivi “commerciali”, avrebbero<br />

decantato le lodi an<strong>che</strong> di Real Love.<br />

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2. TESTO<br />

Whatever happened to<br />

The life that we once knew?<br />

Can we really live without each o<strong>the</strong>r?<br />

When did we lose <strong>the</strong> <strong>touch</strong>?<br />

It seemed to mean so much<br />

It always made me feel so free<br />

I testi del chorus e del bridge sono stati scritti se non in momenti o da persone diversi, almeno con<br />

intenzioni differenti. La prima parte è ricca di ripetizioni e molto vaga, nonché piuttosto ingenua (il<br />

volo e le ali sono tra gli elementi più utilizzati nella retorica del pop-<strong>rock</strong>), per quanto breve;<br />

probabilmente era solo una bozza <strong>che</strong> Lennon non sviluppò. La seconda (qui riportata), al contrario,<br />

è molto precisa e si tinge nettamente di riflessi nostalgici, riferendosi molto chiaramente ad un solo<br />

argomento, i tempi andati («The life that we once knew»). Si consideri inoltre <strong>che</strong> entrambe le<br />

sezioni sono costituite da sei versi, ma mentre la prima contiene solo due verbi (secondo e quinto<br />

verso), uno declinato al presente e l’altro al futuro, la seconda ha al suo interno sette verbi 7 (più di<br />

uno per verso), cinque dei quali declinati al passato e uno al presente.<br />

In questo caso sembra più opportuno tradurre <strong>touch</strong> con «contatto» piuttosto <strong>che</strong> «tocco» a causa<br />

del verso precedente – «Possiamo davvero vivere l’uno senza l’altro?» – e di conseguenza la frase<br />

risulterebbe, parafrasata, «Quand’è <strong>che</strong> abbiamo interrotto i contatti?», alludendo forse alle vicende<br />

personali dei quattro dopo la separazione. In questa ottica, è particolarmente significativo <strong>che</strong> sia<br />

McCartney a cantare questo verso (nel bridge cantato da Harrison non è presente), colui in quale<br />

fece causa agli altri componenti del gruppo nel 1970 ponendo ufficialmente fine alla vicenda<br />

discografica della band 8 . Ma non va an<strong>che</strong> dimenticato <strong>che</strong> nel 1995 erano passato venticinque anni<br />

dallo scioglimento del gruppo più famoso del mondo, durante i quali la popular music anglosassone<br />

era passata attraverso momenti di cambiamento – il progressive <strong>rock</strong>, il punk, la disco, il reggae, la<br />

world music, il rap, l’heavy metal, le nuove “beatlemanie” figlie di MTV verso artisti come Michael<br />

Jackson, Madonna, Prince, U2, Duran Duran o Take That, e ancora l’irruzione del grunge nei primi<br />

anni Novanta – <strong>che</strong> avevano al massimo coinvolto solo di striscio gli ex Beatles. Nel 1995 l’unico<br />

nome <strong>che</strong> ancora garantiva vendite certe tra i tre ex sodali era quello di Paul McCartney, <strong>che</strong> però<br />

aveva consolidato la sua fortunatissima carriera come songwriter di successo, mettendo da parte la<br />

vena sperimentale e avanguardista <strong>che</strong> aveva caratterizzato la produzione dei Fab Four. Quel verso<br />

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si può quindi tingere di una malinconia nei confronti di un periodo, ormai lontano, in cui quasi ogni<br />

loro nuovo disco era letteralmente in grado di cambiare le tecni<strong>che</strong><br />

discografico.<br />

produttive del mercato<br />

3. Annotazioni di carattere musicale<br />

Il pezzo è piuttosto lento, a 72 bpm, una velocità <strong>che</strong> un manuale di solfeggio da conservatorio<br />

tradurrebbe con l’indicazione agogica Adagio. Il metro è di .<br />

Il primo grado ( ) cui si fa riferimento è un La maggiore. La linea di basso su cui è costruita<br />

l’impalcatura armonica dei chorus è discendente: |LA FA#m|FA MI| ( ♭ ). Utilizzando la<br />

terminologia di Philip Tagg 9 , questo è un loop di accordi <strong>che</strong> viene ripetuto tre volte; la quarta volta<br />

intervengono i cambi turnaround, <strong>che</strong> hanno la funzione di innescare la ripetizione successiva,<br />

anch’essi comunque discendenti, con tanto di “ritardo” (il la all’interno del MI sus4 <strong>che</strong> risolve solo<br />

nella seconda metà della battuta): |DO – LAm|MI sus4 MI| (♭ sus4 ). Il bridge è, al contrario,<br />

costruito su una sequenza ascendente, quasi ripercorrendo gli accordi del chorus all’inverso, ed è<br />

diviso in due parti uguali, con l’eccezione dell’ultimo accordo: ||: FA | RE 7 /fa# |SOL || 1. LA :|| 2. MI||<br />

(♭ 7 / ♭ ( )). Allo stesso modo, la linea melodica corrispondente sale; la frase presa in<br />

considerazione, «When did we lose <strong>the</strong> <strong>touch</strong>», è il verso iniziale della seconda metà, collocato sul<br />

secondo ♭ : non è in una situazione di particolare rilievo, arrivando dopo una frase <strong>che</strong> si impenna<br />

molto verso l’acuto, ma ha comunque un profilo ascendente molto evidente, con sei note in tutto. La<br />

parola «<strong>touch</strong>», in quanto conclusiva del verso, è resa da McCartney come momento di distensione<br />

(e fa rima con il successivo «much»; Esempio 1).<br />

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Esempio 1<br />

Il bridge si contraddistingue inoltre per il fatto <strong>che</strong> è cantato da una voce solista (nel primo, intero,<br />

da McCartney, nel secondo, solo le prime quattro battute, da Harrison), mentre nei chorus vi è la<br />

presenza massiccia dei cori, sebbene la voce di Lennon sia in evidenza, soprattutto all’inizio. Non<br />

dimentichiamoci <strong>che</strong> Lennon aveva scritto e suonato solo i chorus, ragion per cui si resero<br />

necessarie le sovraincisioni dei cori per mas<strong>che</strong>rare la scarsa qualità della registrazione originale,<br />

mentre i bridge sono stati scritti nel 1995.<br />

STAY IN TOUCH<br />

1. NOTE DI PRODUZIONE<br />

Con Turbulent Indigo Joni Mit<strong>che</strong>ll ottenne due Grammy Awards (migliore disco pop vocale e<br />

migliore copertina) e ottime recensioni. Ad esso seguì una raccolta di successi (il classico Best Of<br />

<strong>che</strong> la casa discografica lancia per ridare luce ad “una stella in declino”) e, nel 1998, Taming The<br />

Tiger. Gli intenti della cantautrice e degli editori sono palesi: mantenere la linea del precedente<br />

successo. Oltre all’eti<strong>che</strong>tta sul jewel box del cd <strong>che</strong> non lascia spazio ad alcun dubbio («The<br />

anticipated follow-up to her double Grammy® Award-winning release, Turbulent Indigo…»), il<br />

disco ha le medesime sonorità e lo stesso formato: autoritratto incorniciato dell’autrice in copertina,<br />

colonna a sinistra di esso per nome di lei e titolo dell’album <strong>che</strong> parzialmente vanno a sovrapporsi<br />

alla cornice (la cura dei particolari è inquietante) e, sul retro, un altro quadro, questa volta<br />

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raffigurante un paesaggio 10 . Come spesso accade, essendo un “seguito” di Turbulent Indigo, non fu<br />

considerato all’altezza del predecessore. In realtà si sarebbero potuti stampare come un disco<br />

doppio, tale è la somiglianza delle atmosfere dei due.<br />

Taming The Tiger, però, aveva una caratteristica <strong>che</strong> lo<br />

differenziava: era stato annunciato come l’ultimo disco di<br />

inediti <strong>che</strong> Joni Mit<strong>che</strong>ll avrebbe mai prodotto. Durante gli<br />

ultimi anni della sua attività la cantautrice si era scagliata con<br />

rabbia crescente contro le politi<strong>che</strong> delle case discografi<strong>che</strong>,<br />

dicendosi ormai disinteressata a proseguire una carriera nella<br />

quale non veniva più presa in considerazione, preferendo ad<br />

essa la pittura; la realtà dei fatti fa quindi apparire un po’<br />

bizzarre queste affermazioni, dal momento <strong>che</strong> nel giro di<br />

pochissimo tempo Mit<strong>che</strong>ll pubblicò altri due dischi prima di ritirarsi come annunciato. Al di là<br />

delle considerazioni <strong>che</strong> si possono sviluppare riguardo la sua coerenza, è utile considerare questa<br />

situazione per “leggere” Taming The Tiger nella sua interezza, e in particolare Stay In Touch (lett.<br />

Rimaniamo in contatto).<br />

2. TESTO<br />

La canzone è composta semplicemente da due chorus, un bridge e immediatamente dopo un altro<br />

chorus finale, come i più celebri standard jazz, cioè il cuore del songbook americano. Ogni chorus<br />

termina con la ripetizione del titolo per tre volte, più un laconico «in <strong>touch</strong>» finale. (Si riproduce qui<br />

solo il primo chorus).<br />

This is really something<br />

People will be envious<br />

But our roles aren’t clear<br />

So we mustn’t rush<br />

Still<br />

We are burning brightly<br />

Clinging like fire to fuel<br />

I’m grinning like a fool<br />

Stay in <strong>touch</strong><br />

We should stay in <strong>touch</strong><br />

Oh, stay in <strong>touch</strong><br />

In <strong>touch</strong><br />

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In tutto il brano ci sono solo due frasi in prima persona singolare, una verso la fine del primo chorus<br />

e l’altra alla fine del bridge. Sin dall’inizio è netta una distinzione tra «noi» e «loro» – coloro i quali<br />

saranno «invidiosi» – ma di fatto tutto ruota intorno a «noi».<br />

La prima strofa da sola potrebbe descrivere la relazione di due amanti di lunga data, in una<br />

situazione <strong>che</strong> non è chiara nemmeno a loro, mentre la fine della seconda strofa («Till we build a<br />

firm foundation») e soprattutto il bridge sembrano andare in un’altra direzione; in quest’altro caso<br />

potrebbe allora trattarsi della relazione burrascosa della cantautrice con l’industria discografica,<br />

evidentemente non solo di odio ma di amore/odio. La fine della terza strofa, di nuovo, sembra<br />

cambiare ambito; le affermazioni contenute all’interno di essa sono «filosofi<strong>che</strong>» e riguardano la<br />

vita in generale. I primi quattro versi di essa, inoltre, sono un elenco di cosa è giusto fare,<br />

presentandosi indirettamente come critici nei confronti di ciò <strong>che</strong> in realtà viene fatto. Ricordare le<br />

posizioni polemi<strong>che</strong> assunte nel periodo della scrittura della canzone e nel resto dell’album («Tire<br />

skids and teeth marks/What happened to this place?/Lawyers and loan sharks/Are laying America to<br />

waste» 11 ), non solo nei confronti del mondo discografico ma an<strong>che</strong> a livello politico, ci fa supporre<br />

<strong>che</strong> quest’ultima sia l’interpretazione più corretta per l’intera canzone.<br />

Ciò <strong>che</strong> interessa qui, però, è un altro punto: a giudicare dal testo, l’autrice sembra annoverarsi tra i<br />

«saggi» cui fa riferimento nel secondo verso del bridge («during times like <strong>the</strong>se/The wise are<br />

influential»), dal momento <strong>che</strong> esso è disseminato di consigli <strong>che</strong> vengono presentati in prima<br />

persona: «We mustn’t rush» (prima strofa), «We must loyal and wary/Not to give away too<br />

much/Till we build a firm foundation» (seconda strofa), «We should just surrender/Let fate and<br />

duty shape us» (terza strofa) e, naturalmente, la chiusura di ogni periodo, «We should stay in<br />

<strong>touch</strong>». E la saggezza, inutile ricordarlo, è un attributo comunemente non associato alla gioventù;<br />

nel 1998 Mit<strong>che</strong>ll aveva 55 anni, una persona matura, non ancora “vecchia”. Ma sull’elemento<br />

“vecchiaia” torneremo parlando dei suoni.<br />

3. ANNOTAZIONI DI CARATTERE MUSICALE<br />

La canzone è molto lenta, a circa 50 bpm (Largo o Lento come indicazione agogica), sebbene sia<br />

molto arduo stabilire dei battiti regolari a causa degli spostamenti d’accento continui<br />

dell’accompagnamento di chitarra (di base è in , ma spesso capita <strong>che</strong> a una battuta venga tolto o<br />

aggiunto un ottavo, passando quindi in o in ) e del metro irregolare dei versi, tra l’altro<br />

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spezzettati in frasi musicali l’una diversa dall’altra e dall’assenza di una sezione ritmica. La<br />

sensazione generale è di un’esecuzione in tempo rubato, con il canto e l’improvvisazione del sax a<br />

dettare la scansione vera e propria.<br />

La melodia è molto tortuosa, assecondando continuamente la metrica del testo, ragion per cui<br />

nessun verso è uguale ad un altro. I finali di ogni chorus (quelli contenenti il titolo della canzone) si<br />

distinguono chiaramente per due ragioni: [1] hanno lo stesso, brevissimo testo; [2] sono<br />

caratterizzati da note lunghe e pause ampie della voce tra una ripetizione del refrain e l’altra,<br />

mentre quelle del resto del chorus sono brevi e irregolari. Il bridge ha un disegno melodico più<br />

lineare, tendenzialmente ascendente, e sull’ultimo «No doubt» si abbandona all’unico momento di<br />

rilassato slancio verso l’acuto. Queste caratteristi<strong>che</strong> di combinazione tra testo e melodia fanno in<br />

modo <strong>che</strong> le parti più immediatamente memorizzabili siano proprio il refrain del chorus e il finale<br />

del bridge.<br />

Il clima armonico si potrebbe definire bimodale, ove i due poli sarebbero Fa lidio e Do ionico; la<br />

chitarra è in accordatura aperta 12 . L’armonia 13 della prima parte del chorus è il loop di accordi FA<br />

– LAm – MIm – FA, cui va aggiunto il Do <strong>che</strong> si può scorgere nei cambi tra un accordo e l’altro,<br />

dato <strong>che</strong> Mit<strong>che</strong>ll lascia risuonare le corde a vuoto. La seconda parte («Stay in <strong>touch</strong>») ha gli<br />

accordi dell’introduzione, cioè una spola di accordi FA↔DO. L’unica parte in cui l’armonia ha una<br />

“direzione” (ascendente) è il bridge, e questa caratteristica, unitamente agli aspetti melodici descritti<br />

nel capoverso precedente, lo rendono il momento di “schiarita” del pezzo. Gli accordi di questa<br />

sezione sono LAmSImREmMImFA, ripetuti per due volte, con il FA conclusivo a fare da<br />

cerniera con il FA <strong>che</strong> dà inizio ad ogni strofa e l’ultimo «No doubt» sostenuto dal movimento<br />

ascendente remifa del basso. La canzone termina su di un lungo accordo di Do maggiore.<br />

STUCK INSIDE A CLOUD<br />

1. NOTE DI PRODUZIONE<br />

A un anno esatto dalla morte di George Harrison, nel novembre del 2002, venne pubblicato<br />

Brainwashed, contenente gli ultimi lavori del chitarrista; molte delle canzoni in esso raccolte furono<br />

terminate in studio dal figlio Dhani e dal produttore Jeff Lynne seguendo le indicazioni dell’ex<br />

Beatle. Alcuni pezzi erano stati scritti molti anni prima, mentre altri sono stati ultimati<br />

probabilmente a ridosso degli ultimi trattamenti di radioterapia cui Harrison fu sottoposto;<br />

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inevitabilmente, quindi, si può trovare qual<strong>che</strong> riferimento alla propria vicenda personale nei testi di<br />

alcuni di essi.<br />

Mentre la maggior parte delle canzoni riguarda<br />

l’argomento prediletto da Harrison dalla metà degli<br />

anni Sessanta in poi, la spiritualità, il brano Stuck<br />

Inside A Cloud è chiaramente ispirato dalla sua lotta<br />

contro il cancro al cervello; la qual cosa permetterebbe<br />

di collocare la sua stesura tra la fine degli anni Novanta<br />

e l’inizio del nuovo millennio. Datarne a grandi linee la<br />

scrittura può esserci utile se non altro per sapere <strong>che</strong><br />

almeno il testo fu concepito dopo il progetto dell’Anthology, <strong>che</strong> fu portato avanti nel 1995-96. È<br />

possibile, quindi, <strong>che</strong> l’espressione «losing <strong>touch</strong>» sia rimasta nella mente di Harrison, ma questa<br />

non può <strong>che</strong> essere una congettura.<br />

2. TESTO<br />

La struttura della canzone è strofa-ritornello, senza bridge o altri elementi, con un testo un po’<br />

diverso per gli ultimi ritornelli:<br />

Never slept so little<br />

Never smoked so much<br />

Lost my concentration I could<br />

Even lose my <strong>touch</strong><br />

Data la brevità dei versi, questa canzone è, tra le quattro, la più criptica da decifrare, perché priva di<br />

particolari e colma di immagini sfuggenti. Vi sono però alcuni versi <strong>che</strong> permettono di identificare<br />

la tematica della canzone: mentre chi canta sa di essere bloccato in una situazione tra la vita e la<br />

morte («incastrato in una nuvola»), la metafora <strong>che</strong> viene utilizzata per chiudere i primi quattro<br />

versi è proprio quella della perdita del contatto con il mondo (o del tocco; magari, in questo caso<br />

come in quello dei Rolling Stones, da intendersi in senso chitarristico), mentre la medesima<br />

posizione nelle strofe successive è occupata da un’invocazione a Dio («The only thing that matters<br />

to me is to/Touch your lotus feet»; come si è detto la spiritualità, segnatamente orientale, è forse<br />

l’argomento più presente nelle canzoni di Harrison) e da una rassegnata quanto cruda affermazione<br />

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(«I wish I <strong>had</strong> <strong>the</strong> answer to give don’t/Even have <strong>the</strong> cure»). Il pianto disperato di cui si parla nel<br />

ritornello («Crying out loud») rimane drammaticamente inascoltato, forse a rappresentare la<br />

solitudine interiore nell’affrontare la malattia («Only I can hear me») 14 . Più difficile identificare la<br />

seconda persona («you») cui si fa riferimento nell’ultimo ritornello: forse Dio, in una richiesta di<br />

non essere lasciato solo, o forse la moglie Olivia.<br />

3. ANNOTAZIONI DI CARATTERE MUSICALE<br />

La velocità del pezzo è a 98 bpm (Andante, magari con qual<strong>che</strong> altro aggettivo), ed è in .<br />

Ogni frase, come si è visto composta da po<strong>che</strong> sillabe, copre due battute, sia nelle strofe <strong>che</strong> nel<br />

ritornello. I versi <strong>che</strong> chiudono ogni strofa (cioè proprio «Lose my <strong>touch</strong>» nella prima) sono<br />

caratterizzati da una nota un po’ più lunga delle altre (con un piccolo melisma sulle ultime sillabe) e<br />

in generale da un piccolo movimento verso l’alto, per cui si può dire <strong>che</strong>, insieme all’ultima parola<br />

di ogni ritornello («Cloud» prima, «Heart» dopo; Esempio 2), svettino su tutto il resto.<br />

Esempio 2<br />

Questo pezzo <strong>che</strong> non ha un hook, né un ritornello tale da essere facilmente cantabile al primo<br />

ascolto.<br />

Le strofe sono accompagnate da una spola DO↔FA suonata tre volte <strong>che</strong> chiude con REm – SOL. I<br />

ritornelli invece sono caratterizzati da un movimento discendente del basso FAMImREmDO e<br />

da una chiusura relativamente “stagnante”, priva di direzionalità (REm – LAm – FA).<br />

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LOSING MY TOUCH<br />

Figura 1. Vignetta di Jeff Stahler del 1997 riportata in BILL WYMAN, Rolling with <strong>the</strong> Stones,<br />

Mondadori, Milano 2002, p. 501<br />

1. NOTE DI PRODUZIONE<br />

Nel 2002 i Rolling Stones festeggiarono il quarantennale della loro carriera pubblicando una<br />

raccolta dei loro singoli, Forty Licks, contenente, come facilmente desumibile dal titolo, quaranta<br />

canzoni in totale: 36 successi e 4 inediti, uno dei quali, Don’t Stop, fu an<strong>che</strong> a sua volta singolo e<br />

venne molto trasmesso da MTV. Non era certo la prima volta <strong>che</strong> veniva pubblicata una raccolta di<br />

successi del gruppo 15 , ma forse in quel caso si era approfittato dell’anniversario an<strong>che</strong> per<br />

conquistare il pubblico dei più giovani, dopo diversi anni di tour praticamente ininterrotto e di<br />

assenza di singoli pubblicati. A seguito dell’uscita del disco, la band intraprese l’ennesimo,<br />

ciclopico tour mondiale 16 : “la più grande <strong>rock</strong> ‘n’ roll band del mondo” doveva essere all’altezza di<br />

se stessa.<br />

2. TESTO<br />

Tra i quattro inediti vi è un pezzo di Keith Richards 17 intitolato Losing My Touch <strong>che</strong> si allontana<br />

molto dalle atmosfere energi<strong>che</strong> del resto della raccolta. La canzone è in forma strofa-ritornello; tra<br />

il quarto e il quinto ritornello c’è un solo di chitarra acustica, sul giro armonico della strofa. Questo<br />

è il semplice ritornello:<br />

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I'm losing my <strong>touch</strong>, yeah<br />

Losing my <strong>touch</strong><br />

Losing my <strong>touch</strong> baby, way too much<br />

Baby, get me out of here<br />

It should be clear<br />

La descrizione nelle strofe sembra riguardare qualcosa di non divertente <strong>che</strong> accade («It ain’t<br />

funny/How things happen») 18 , <strong>che</strong> inaspettatamente sposta tutto «in avanti», senza <strong>che</strong> però vi sia<br />

una reazione da parte del soggetto, <strong>che</strong> al contrario non fa altro <strong>che</strong> «sedersi» e «aspettare». Nella<br />

seconda strofa parrebbe <strong>che</strong> ci sia qualcosa di importante (tale da giustificare le «occhiate nervose»)<br />

<strong>che</strong> viene tenuta nascosta («in a lockdown») all’interessato<br />

(«tutti <strong>parlano</strong> sussurrando/ Nessuno vuole emettere un<br />

suono»). Dopodiché giunge il ritornello, in cui il cantante<br />

ammette di stare perdendo il suo «tocco» o il «contatto». Le<br />

due strofe successive continuano a mantenere la prima<br />

persona, con il soggetto <strong>che</strong> dice di entrare di soppiatto nella<br />

casa della «baby» a cui si rivolge (Richards non rinuncia alle<br />

retori<strong>che</strong> da blues e <strong>rock</strong> ‘n’ roll) e di non aver bisogno di<br />

molto tempo per raccattare le proprie cose e il proprio<br />

passaporto; evidentemente si sta preparando una partenza, quasi certamente dopo un avvenimento<br />

spiacevole – <strong>che</strong> giustifi<strong>che</strong>rebbe l’entrata in casa dal retro e il fatto <strong>che</strong> la donna a cui si rivolge sta<br />

tenendo d’occhio la porta. Le interpretazioni <strong>che</strong> si possono dare di questo testo sono relativamente<br />

po<strong>che</strong> per la seconda parte – il protagonista se ne vuole andare – mentre c’è un po’ più di incertezza<br />

sulle prime due: potrebbero descrivere i momenti di attesa prima di sapere una diagnosi riguardante<br />

qualcosa di particolarmente grave (un problema di salute <strong>che</strong> sopraggiunge in un momento in cui la<br />

vita sembrava essersi sistemata, il personale <strong>che</strong> parla sottovoce e <strong>che</strong> fatica a mas<strong>che</strong>rare il<br />

nervosismo, per non farsi sentire dal paziente seduto, il silenzio forzato <strong>che</strong> circonda la situazione:<br />

saputa la notizia, il protagonista decide di scappare), oppure la presa di coscienza da parte<br />

dell’autore di non essere più un ragazzino (e la decisione di scappare), oppure una banale sbronza<br />

(quindi tutte le descrizioni sarebbero dal punto di vista distorto di un ubriaco, magari in un<br />

momento di tristezza ingrandito dall’alcool; la voce tendente al parlato di Richards suggerirebbe<br />

questa soluzione) 19 . Ciò <strong>che</strong> è innegabile è la sensazione di inadeguatezza <strong>che</strong> sta sopraggiungendo<br />

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in chi canta, manifestata con la formula «I’m losing my <strong>touch</strong>», ripetuta numerose volte lungo tutto<br />

lo svolgimento del brano.<br />

3. ANNOTAZIONI DI CARATTERE MUSICALE<br />

An<strong>che</strong> questo pezzo, come i primi due, è molto lento (62 bpm circa, Larghetto) e in .<br />

Nelle strofe viene privilegiato un uso della voce tra il parlato e il sussurrato, e l’andamento<br />

melodico è estremamente irregolare (Esempio 3). Le po<strong>che</strong> note <strong>che</strong> si potrebbero trascrivere<br />

coprono comunque l’estensione di una quinta. Sia qui <strong>che</strong> nei ritornelli le pause tra un verso e<br />

l’altro sono molto lunghe, ma siccome il profilo melodico di questi ultimi è chiaramente ascendente<br />

(con melisma discendente su ogni «<strong>touch</strong>» conclusivo Esempio 4), riconosciamo chiaramente la<br />

frase <strong>che</strong> dà an<strong>che</strong> il titolo al pezzo, <strong>che</strong> peraltro viene enunciata spessissimo.<br />

Sulle strofe viene tenuto un pedale di do dal contrabbasso, mentre accenni di chitarra acustica,<br />

pedal steel guitar e pianoforte ci fanno intuire <strong>che</strong> si stanno facendo i cambi di una spola<br />

DO 6/9 ↔FA (sus9) /do (si è usato il verbo “intuire” perché il silenzio pervade tutta la registrazione, tutti<br />

gli strumenti suonano molto poco). La fissità del pedale viene, nei ritornelli, interrotta dal<br />

movimento omofonico del contrabbasso (sostenuto dal pianoforte) e della voce, proprio sullo hook<br />

«Losing my <strong>touch</strong>», tramutando la spola nel loop |DO DO /mi | SOL SOL /re SOL /mi SOL |. Dalla<br />

stasi delle strofe al movimento circolare del ritornello, qui è il basso a rinfrescare l’atmosfera e a<br />

sottolineare il testo.<br />

Esempio 3<br />

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Esempio 4<br />

«THIS IS NOT HI-TECH». I SUONI E UNA POSSIBILE INTERPRETAZIONE<br />

Ricapitolando: i brani presi in considerazione sono tutti lenti (tra i 50 e i 100 bpm) e nella<br />

strumentazione comprendono chitarra acustica molto in risalto nel mixaggio, batteria acustica,<br />

basso (con l’eccezione di Joni Mit<strong>che</strong>ll, per cui non c’è sezione ritmica; contrabbasso per i Rolling<br />

Stones), pianoforte (elettrico, dal suono poco invadente, in Stuck Inside a Cloud). Solo nel caso di<br />

Joni Mit<strong>che</strong>ll sono presenti tastiere elettroni<strong>che</strong>, le quali però impiegano dei pad molto soffusi, privi<br />

di attacco, a sostegno della chitarra acustica, come an<strong>che</strong> la pedal steel guitar nel pezzo di Keith<br />

Richards; gli strumenti solisti (la chitarra elettrica di Harrison, acustica per i Rolling Stones,<br />

sassofono per Mit<strong>che</strong>ll) hanno tutti suoni puliti, controllati; nel caso della chitarra elettrica dei<br />

Beatles il suono è sporcato da una distorsione, e il registro acuto del solo aiuta a far «spiccare» il<br />

suono sugli altri, ma il grande controllo della vibrazione delle corde di Harrison, esperto di chitarra<br />

slide hawaiana, evita la presenza di feedback o altri rumori “collaterali”. L’impressione generale<br />

<strong>che</strong> può suscitare l’ascolto del pezzo dei Rolling Stones è quella di un piccolo complesso jazz da<br />

night club anni Cinquanta o Sessanta (batteria suonata con le spazzole, contrabbasso, tutti gli<br />

strumenti suonano poco, accennando solo accordi o piccole frasi), mentre per il pezzo di Harrison<br />

entra in gioco un elemento, apparentemente marginale, <strong>che</strong> però è un segnale an<strong>che</strong> per l’ascoltatore<br />

più distratto (magari non cosciente del perché): sui ritornelli, si sente chiaramente un sitar 20 <strong>che</strong><br />

suona il primo accordo del giro, invadendo poi con i caratteristici ronzii l’ambiente armonico,<br />

probabilmente insieme all’immancabile tambura a sostegno. Questo elemento, in ambito <strong>rock</strong>, non<br />

può <strong>che</strong> far venire alla mente il periodo psi<strong>che</strong>delico del 1965-68.<br />

Un altro elemento importante <strong>che</strong> accomuna tutti e quattro i pezzi è lo stile interpretativo del<br />

cantato: in ognuno dei casi trattati la vocalità è sommessa, senza una particolare spinta del<br />

diaframma. In tutte le canzoni qui prese in esame il volume non è mai “alto”, compresa la voce, la<br />

quale sembra quasi sussurrare di perdere il contatto con l’ascoltatore.<br />

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Forse, però, sono gli strumenti <strong>che</strong> non ci sono a dirci di più di queste registrazioni.<br />

I’m going to make a record something like twenty years ago. Just like a <strong>rock</strong> ‘n’ roll band<br />

making a record. We <strong>had</strong> real saxes, real guitars, real pianos, real drums; real people<br />

playing real songs 21 .<br />

I still do it <strong>the</strong> same as we did thirty years ago or even forty years ago; it’s still in <strong>the</strong> old<br />

school of music or, you know, in Sixties or Seventies way of doing stuff. It’s not hi-tech,<br />

and it’s not rap or techno or whatever version of it… I used acoustic guitars, played by<br />

people, into microphones, on <strong>the</strong> tape 22 .<br />

Le parole di George Harrison appena citate sono estremamente significative. Certo, né lui né gli<br />

altri artisti qui presi in considerazione si sarebbero sognati di incidere, negli anni Ottanta, Novanta o<br />

oggi, un disco come all’inizio della propria carriera (due tracce, magari in mono, tutto in diretta o<br />

con po<strong>che</strong> sovraincisioni, nessun effetto digitale ecc.); si tenga presente, inoltre, <strong>che</strong> nel disco Cloud<br />

Nine (1987), per il quale faceva promozione nel momento in cui rilasciò la prima delle due<br />

dichiarazioni, si sente un massiccio uso (ma non invasivo, non chiaramente riconoscibile dai non<br />

esperti) del vocoder, ossia il “raddrizzatore” vocale artificiale molto in auge negli anni Ottanta (e<br />

sempre di più in questo ultimo decennio), per dare un effetto di compattezza ai cori e ad alcune<br />

sezioni strumentali (si ascoltino attentamente i sax e i cori di Got My Mind Set On You: sembrano<br />

tutt’altro <strong>che</strong> reali…).<br />

Ciò di cui parla Harrison non riguarda l’uso di tutti i trucchi del mestiere possibili per far suonare al<br />

meglio una registrazione 23 ; la «old school of music» a cui fa riferimento è quella <strong>che</strong> non ha<br />

bisogno di un campionatore per fare musica. Le «vere canzoni» non sono quelle <strong>che</strong> nascono dalla<br />

riproduzione in loop di una base tratta dal disco di qualcun altro 24 , in cui basta premere un tasto e la<br />

base è fatta. Il pensiero «la musica vera è quella prodotta con il sudore della fronte, non con i suoni<br />

preconfezionati di un computer» è diffusissimo tra gli appassionati “medi” di musica <strong>rock</strong>; per<br />

quale motivo un pensiero come questo non dovrebbe essere an<strong>che</strong> nelle menti di musicisti così<br />

importanti? Si tenga ben presente tutto ciò: in nessuno di questi brani è presente un campionamento,<br />

una batteria elettronica, un rap o uno scratch.<br />

Il riferimento <strong>che</strong> viene fatto nel titolo di questo articolo è a una canzone di Peter Gabriel tratta dal<br />

suo quarto disco (1982) il cui titolo originale è I have <strong>the</strong> <strong>touch</strong>. Nel testo del bridge Gabriel canta<br />

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«Give me <strong>the</strong> things I understand», ossia «dammi le cose <strong>che</strong> riesco a capire»: coniugare il verbo al<br />

passato, in questo caso, vuole sottolineare come – forse – la perdita di contatto è riferita an<strong>che</strong> a una<br />

incomprensione nei confronti di alcune delle ultime mode musicali da parte dei musicisti qui trattati<br />

(in particolare, questa posizione sembra particolarmente evidente in George Harrison e Joni<br />

Mit<strong>che</strong>ll) 25 .<br />

L’idea <strong>che</strong> il «<strong>touch</strong>» di cui si è parlato in questo articolo sia, a ben guardare, il contatto con il<br />

pubblico o con il mondo discografico è simile a quella secondo cui Dinosaur (THRAK, 1995) dei<br />

King Crimson sia un modo, da parte del gruppo, di autodefinirsi “dinosauro” del <strong>rock</strong> 26 , e si è<br />

cercato di fornire dei dati a sostegno di questa. Si tenga comunque presente il fatto <strong>che</strong> questi artisti<br />

hanno mantenuto un loro (folto) pubblico negli anni e <strong>che</strong>, probabilmente, questa sorta di<br />

“straniamento” rispetto al mondo musicale è rivolto principalmente alla discografia più attenta al<br />

mercato giovanile: contrariamente a quanto insinuato da Harrison, esistono ancora gruppi di grande<br />

successo commerciale <strong>che</strong> suonano per intero nei loro dischi senza ricorrere a campionamenti; molti<br />

di questi, anzi, si dedicano esclusivamente alla musica acustica 27 . Sempre in questa ottica, si<br />

tengano presente i numerosi artisti <strong>che</strong>, negli ultimi anni, hanno pubblicato raccolte di<br />

reinterpretazioni di classici altrui o propri, come Rod Stewart, James Taylor o Sting. Non hanno<br />

(ancora) scritto brani in cui affermano di «perdere il contatto» con il pubblico o il «tocco» in senso<br />

musicale, ma di certo questo è il sintomo di uno sguardo – più <strong>che</strong> legittimamente, certo – rivolto al<br />

passato.<br />

Un’ultima, piccola annotazione di carattere linguistico: in tutti i casi appena trattati, dal momento<br />

<strong>che</strong> siamo nell’ambito popular, sarebbe da molti considerato fuori luogo parlare di “tardo stile”…<br />

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BIBLIOGRAFIA<br />

FRANCO FABBRI, Il suono in cui viviamo, Il Saggiatore, Milano 2008 (terza edizione).<br />

SIMON FRITH, Il <strong>rock</strong> è finito. miti giovanili e seduzioni commerciali nella musica pop, EDT, Torino 1990<br />

(ed. orig. Music for pleasure, Routledge, New York 1988).<br />

GEORGE HARRISON, I Me Mine, Rizzoli, Ginevra-Milano 2002 (ed. orig. I Me Mine, Simon & Shuster, New<br />

York 1980)<br />

MARK LEWISOHN, La grande storia dei Beatles, Giunti, Firenze 1996.<br />

BRIAN ROBINSON, Somebody is Digging My Bones: King Crimson's 'Dinasaur' as (post)Progressive<br />

Historiography, in Kevin Holm-Hudson (a cura di), Progressive Rock Reconsidered,<br />

Routledge, New York & London 2002, pp. 221-42<br />

PHILIP TAGG, Everyday Tonality. towards a tonal <strong>the</strong>ory of what most people hear, The Mass Media<br />

Scholars’ Press Inc., New York & Montral 2009 (ed. italiana La tonalità di tutti i giorni. armonia,<br />

modalità, tonalità nella popular music: un manuale, Il Saggiatore, Milano 2011).<br />

RIFERIMENTI DISCOGRAFICI<br />

BEATLES, The, Rubber Soul, EMI 0777 7 46440 2 0, 1965<br />

– , Revolver, EMI PMCQ 31510, 1966 (con Tomorrow Never Knows).<br />

– , Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, EMI 0777 7 46442 2 8, 1967 (con Good Morning, Good<br />

Morning).<br />

– , Magical Mystery Tour, EMI C2 0 777 48062 2 0, 1967 (con Flying).<br />

– , The Beatles, EMI 7243 4 96895 2 7, 1968 (con Piggies e Blackbird).<br />

– , Let It Be, EMI 0777 7 46447 2 3, 1970 (con Dig It e Maggie Mae)<br />

– , The Beatles Anthology 1, EMI 7243 8 34445 2 6, 1995 (con Free As A Bird).<br />

– , The Beatles Anthology 2, EMI 7243 8 34448 2 3, 1996 (con Real Love).<br />

HARRISON, George, All Things Must Pass, EMI Parlophone 7243 550474 2 9, 1970.<br />

HARRISON, George (& Friends), Concert For Bangladesh, EMI , 1971.<br />

HARRISON, George, Living In The Material World, EMI LITMW 1, 1973.<br />

– , Dark Horse, EMI CDP 7980792, 1974.<br />

– , Somewhere In England, Parlophone 7243 5 94235 2 4, 1981 (con All Those Years Ago).<br />

– , Cloud Nine, Parlophone 7243 5 94237 2 2, 1987 (con Got My Mind Set On You).<br />

– , Brainwashed, EMI 7243 5 43747 0 8, 2002 (con Stuck Inside A Cloud).<br />

– , The Dark Horse Years 1976-1992, Parlophone GHBOX 1, 2004 (con il DVD eponimo).<br />

KING CRIMSON, THRAK, Discipline Global Mobile, KCCDY 1 7243 8 40313 2 9 (con Dinosaur).<br />

LENNON, John, John Lennon/Plastic Ono, EMI 7243 5 28740 2 6, 1970.<br />

– , Imagine, EMI 7243 5 24858 2 6, 1971.<br />

MITCHELL, Joni, Turbulent Indigo, Reprise Records 9362-45786-2, 1994.<br />

– , Taming The Tiger, Reprise Records 9362-46451-2, 1998 (con Stay In <strong>touch</strong> e No Apologies).<br />

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___________________________________________________________________________________________________________<br />

ROLLING STONES, The, Forty Licks, Virgin 724381337820, 2002 (con Losing My Touch).<br />

– , A Bigger Bang, Virgin 0094633799424, 2005 (con This Place Is Empty).<br />

1 L’ordine in cui le canzoni vengono presentate è quello supposto cronologico di composizione (per questa ragione si è<br />

collocata prima la canzone di Harrison rispetto a quella dei Rolling Stones, an<strong>che</strong> se Brainwashed è uscito nel<br />

novembre 2002 mentre Forty Licks è stato pubblicato in ottobre).<br />

2 Per ulteriori specificazioni, cfr. Philip Tagg, Everyday Tonality. Towards a tonal <strong>the</strong>ory of what most people hear, The<br />

Mass Media Scholars’ Press Inc., New York & Montral 2009, pp. 139-158.<br />

3 Si tratta di tre dischi doppi, un grosso volume di memorie con ampia documentazione fotografica e otto videocassette,<br />

poi riedite in dvd.<br />

4 Booklet di The Beatles Anthology 1, a cura di Mark Lewisohn, EMI 7243 8 34445 2 6, 1995, p. 4.<br />

5 Cfr. Franco Fabbri, Il Suono In Cui Viviamo, Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 155-196.<br />

6 I precedenti ufficiali furono lo strumentale – l’unico del gruppo – Flying (Magical Mystery Tour, 1967) e Dig It (Let It<br />

Be, 1970), una jam cantata di cui furono pubblicati solo pochi secondi. Maggie Mae (Let It Be, 1970) era invece un<br />

brano tradizionale, solo arrangiato dal gruppo. L’Anthology Vol. 2 (1996) svelò l’esistenza di un ulteriore pezzo<br />

strumentale registrato durante le sessioni per Rubber Soul (1965) spartanamente intitolato 12-Bar Original, anch’esso a<br />

firma di tutti e quattro.<br />

7 Made e il servile can sono contati come un tutt’uno con i verbi <strong>che</strong> reggono (mean e feel).<br />

8 Se la fine del quartetto fu sancita, dal punto di vista legale, dalla causa intentata da McCartney, dal punto di vista<br />

mediatico ciò avvenne con una sua dichiarazione alla stampa datata 10 aprile 1970 (Mark Lewisohn, La grande storia<br />

dei Beatles, Giunti, Firenze 1996, p. 349). McCartney, tra l’altro, nel periodo immediatamente successivo lo<br />

scioglimento dei Beatles si dimostrò il più restio a suonare nei dischi degli ex sodali: mentre Starr suonò la batteria in<br />

John Lennon/Plastic Ono (1970) di Lennon e All Things Must Pass (1970), Concert For Bangladesh (1971), Living In<br />

The Material World (1973) e Dark Horse (1974) di Harrison, <strong>che</strong> a sua volta suonò in Imagine (1971) di Lennon,<br />

McCartney scrisse e suonò per il solo Starr, a causa dei rapporti tesi con gli altri due. Collaborò per la prima volta con<br />

Harrison solo nel 1981, facendo i cori per All Those Years Ago (Somewhere In England, 1981), il cui testo è dedicato<br />

alla memoria di Lennon.<br />

9 P. Tagg, Everyday Tonality, cit. Cfr. in particolare pp. 199-240.<br />

10 Entrambi i libretti contengono i testi delle canzoni, ma ça va sans dir: essendo Joni Mit<strong>che</strong>ll una cantautrice<br />

“impegnata”, è necessario <strong>che</strong> ci siano.<br />

11 È il ritornello di No Apologies, <strong>che</strong> precede di tre tracce Stay In Touch. In realtà le canzoni <strong>che</strong> fanno esplicito<br />

riferimento alla situazione politica contemporanea sono sempre frequenti nella produzione di Joni Mit<strong>che</strong>ll.<br />

12 Per Joni Mit<strong>che</strong>ll è quasi la norma, specialmente se l’accordatura è insolita. In questo caso, è in Do maggiore aperto,<br />

con le due corde più gravi intonate su due do ad un’ottava di distanza, risuonando in maniera piuttosto invasiva.<br />

13 Per quanto annotabile: an<strong>che</strong> gli arpeggi e gli accordi di passaggio sono soggetti a cambiamenti frequenti dovuti<br />

all’interpretazione. Qui si trascrive l’impalcatura generica.<br />

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14 Si sottolinea interiore: la famiglia gli rimase sempre vicinissima. Se si vuole collegare il verso a questo significato, è<br />

forse da interpretare come «unica persona a combattere con la malattia».<br />

15 Senza contare i dischi dal vivo, furono pubblicate ben ventitre (!) raccolte ufficiali del gruppo, ma mai <strong>che</strong><br />

racchiudessero tutta la loro produzione come in questo caso.<br />

16 Dal settembre 2002 al novembre 2003, con due pause nel dicembre 2002 e nel maggio 2003, per un totale di 117<br />

concerti.<br />

17 Ciò significa <strong>che</strong>, seppure sia registrato a nome Jagger/Richards, è stato scritto interamente da Richards: Jagger, tra<br />

l’altro, non vi fa nessun coro, né suona l’armonica o la chitarra ritmica<br />

18 Può al contrario essere divertente notare <strong>che</strong> un pezzo cantato da Richards nel disco successivo del gruppo intitolato<br />

This Place Is Empty (A Bigger Bang, 2005), anch’essa una ballad acustica, presenta come frase iniziale di ogni<br />

ritornello proprio l’opposto di quella scritta qui: «It’s funny how things go around/It’s crazy but it’s true».<br />

19 Data la fama di Keith Richards, né la prima né la seconda opzione escluderebbero la terza.<br />

20 Non accreditato nel booklet, stranamente.<br />

21 Dvd di The Dark Horse Years 1976-1992, Parlophone GHBOX 1, 2004, [0:28].<br />

22 Dvd aggiunto all’edizione speciale di Brainwashed, EMI 7243 5 43747 0 8, 2002, [1:44].<br />

23 Sarebbe contraddittorio: è stata proprio la sua generazione (e i Beatles in particolare) ad aver dato un input fortissimo<br />

alle innovazioni in quel campo.<br />

24 Questo elemento va sottolineato: in Tomorrow Never Knows (Revolver, 1966), i Beatles usarono – forse per primi nel<br />

loro ambito – i loop e i campionamenti, ma si trattava di pattern ritmici e suoni di vario genere <strong>che</strong> effettivamente erano<br />

stati suonati dai quattro e dai tecnici di studio, non presi in prestito da altri dischi. Gli unici suoni pre-registrati <strong>che</strong><br />

possiamo sentire nei dischi dei Beatles sono il finto pubblico in tutto il disco Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band<br />

(1967) e gli animali in esso presenti (Good Morning, Good Morning…) e nel White Album (Piggies, Blackbird…).<br />

25 Harrison dimostrò di non avere particolare simpatia per la popular music a lui contemporanea nean<strong>che</strong> nella sua<br />

autobiografia, scritta nel 1979, indicando come alcuni elementi dei nuovi chitarristi lo infastidissero: per esempio,<br />

parlando del bending (la tecnica chitarristica con cui la mano sinistra piega le corde lungo il manico per far loro<br />

raggiungere note più alte) affermava (la frase tra parentesi è carica di ironia): «Quando si suona la chitarra blues, si<br />

tratta di spingere la corda come puoi e provare, a orecchio, a ottenere il tono giusto (sapete, la maggior parte dei<br />

chitarristi odierni non ha assolutamente orecchio per il tono, e sembra <strong>che</strong> questo non abbia più importanza)». George<br />

Harrison, I Me Mine, Rizzoli, Ginevra-Milano 2002, p. 56.<br />

26<br />

Cfr. Brian Robinson, Somebody is Digging My Bones: King Crimson's 'Dinasaur' as (post)Progressive<br />

Historiography, in Kevin Holm-Hudson (a cura di), Progressive Rock Reconsidered, Routledge, New York 2002, pp.<br />

221-42.<br />

27 Va però sottolineato <strong>che</strong> un interesse per la musica esclusivamente acustica è rinato nel mercato mainstream a cavallo<br />

tra il XX e il XXI secolo, e non al tempo delle dichiarazioni di Harrison.<br />

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