Clicca qui - C'era una volta l'«America
Clicca qui - C'era una volta l'«America
Clicca qui - C'era una volta l'«America
Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
NEWSLETTER DEL CISPEA SUMMER SCHOOL NETWORK<br />
*<br />
NUMERO 2 ~ Autunno 2011<br />
Questo numero è stato curato da: Matteo Battistini, Alberto Benvenuti,<br />
Cristina Bon, Francesca Cadeddu, Andrea Casati, Michele Cento,<br />
Chiara Corazziari, Lorenzo Costaguta, Mattia Diletti, Matteo Fornaciari,<br />
Angela Santese<br />
Per iscriversi alla newsletter:<br />
http://cispeanetwork.hosted.phplist.com/lists/<br />
Indice<br />
Presentazione del numero 2 della newsletter p. 2<br />
Appunti su: Gli Stati Uniti e l’unità italiana (Daniele Fiorentino) p. 4<br />
Relazioni dei gruppi di studio della VII Summer School p. 11<br />
Intervento del Console John Larrea alla conferenza conclusiva della VII Summer<br />
School p. 46<br />
Dalle regioni al globo: Le dimensioni della potenza (Federico Romero) p. 48<br />
Oltre il secolo americano? p. 61<br />
“CISPEA Summer School Network“ su Facebook p. 70
Presentazione del<br />
numero 2 della<br />
newsletter<br />
Il numero due di C’era <strong>una</strong> <strong>volta</strong> l’America si presenta più ricco e interessante del<br />
solito. Come di consueto, il numero autunnale propone le principali tematiche<br />
affrontate nella Summer School CISPEA, quest’anno alla sua settima edizione<br />
(Reggio Emilia, 26–30 giugno 2011). In occasione del 150° anniversario dell’Unità<br />
d’Italia, la scuola è stata dedicata alle sfide dell’unità nazionale di tre importanti<br />
paesi della Grande Europa euro-americana: gli Stati Uniti, la Germania e l’Italia.<br />
Questi tre paesi negli anni Settanta dell’Ottocento furono segnati da processi di<br />
unificazione o riunificazione nazionale, che mossero lungo la via della modernizzazione<br />
seguendo percorsi paralleli, ma molto differenziati a seconda del lascito<br />
storico da cui uscivano e delle specifiche e peculiari condizioni in cui si trovavano.<br />
Una attenta analisi comparata mostra come la modernità non sia un mo dello unitario,<br />
bensì sistemico, nato nelle varie nazioni da fasci di processi storici diversi,<br />
ma compatibili. Questo approccio caratterizza le relazioni che gli alunni, organizzati<br />
in gruppi di lavoro, hanno presentato nell’ultimo giorno della scuola, e che<br />
pubblichiamo in questo numero della newsletter.<br />
Alessandro Caivano e Lorenzo Pavoncello presentano la lezione del Professor<br />
Arnaldo Testi sulla costruzione della nazione americana dopo la guerra civile; Silvia<br />
Nanni riprende la lezione del Professor Fulvio Cammarano sull’Italia e la sfida<br />
dell’Unità nazionale; Lucia Ducci tratta il tema “religione e politica” affrontato dal<br />
Professor Tiziano Bonazzi; la relazione di Francesco De Felice e di Camilla Palazzini<br />
considera il caso tedesco presentato dal Professor Pierangelo Schiera; Francesco<br />
Condoluci e Francesca Ghezzi discutono la lezione della Professoressa Elisabetta<br />
Vezzosi su questione sociale e scontro di classe, confrontando l’esperienza italiana<br />
e statunitense; Chiara Corazziari tratta infine il tema del liberalismo in prospettiva<br />
comparata tra Italia, Stati Uniti e Germania, affrontato dalla lezione del Professor<br />
Jörn Leonhard.<br />
Le relazioni degli alunni sono inoltre precedute dalla lezione introduttiva del<br />
Professor Daniele Fiorentino, che delinea <strong>una</strong> lettura comparata della guerra civile<br />
e della guerra per l’Unità d’Italia alla luce delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.<br />
Lo spazio dedicato alla scuola estiva termina con la pubblicazione degli inter-<br />
2
venti del Console John Larrea (Consulate General of the United States di Firenze)<br />
e del Professor Federico Romero alla conferenza conclusiva della scuola, dedicata<br />
a “Le dimensioni della potenza: dalla regione al globo”. Li ringraziamo vivamente<br />
per la loro disponibilità e il loro consenso alla pubblicazione.<br />
Questo numero di C’era <strong>una</strong> <strong>volta</strong> l’America esce a un mese di distanza<br />
dall’undici settembre. Non potevamo <strong>qui</strong>ndi non cogliere l’occasione per considerare<br />
da un punto di vista storico e storiografico il significato di un evento che<br />
ha influito profondamente non soltanto sulla politica statunitense, ma anche su<br />
quella europea e globale. Alberto Benvenuti e Chiara Corazziari hanno intervistato<br />
Raffaella Baritono e Elisabetta Vezzosi, curatrici di Oltre il Secolo americano.<br />
Gli Stati Uniti prima e dopo l’11 settembre. Il volume edito da Carocci raccoglie<br />
sedici saggi dei più importanti storici americanisti italiani, che ricostruiscono la<br />
storia degli Stati Uniti degli ultimi vent’anni ponendo l’11 settembre al centro di<br />
un’analisi storica, economica, politica e culturale.<br />
Prima di lasciarvi alla lettura, non resta che darvi qualche aggiornamento che<br />
riguarda noi. Il CISPEA-Summer School Network è ora attivo su Facebook con <strong>una</strong><br />
pagina fan, aperta a tutti e dedicata alla newsletter, e il gruppo “CISPEA-Summer<br />
School Network”, riservato agli ex-alunni. Trovate maggiori informazioni nella<br />
presentazione che pubblichiamo in coda alle relazioni. Infine, vi comunichiamo<br />
che a breve sarà consultabile sul sito del CISPEA <strong>una</strong> pagina che raccoglie i curriculum<br />
degli ex alunni che hanno aderito all’iniziativa. Non appena sarà pronta<br />
riceverete un’email di informazione. Buona lettura a tutte e tutti.<br />
3
Appunti su:<br />
Gli Stati Uniti e<br />
l’unità italiana<br />
Daniele Fiorentino (Università Roma Tre)<br />
“La pressione dell’economia nordista su quella sudista era indubitabile; nel<br />
quadro della lotta millenaria tra città e campagna si può dire degli Stati Uniti in<br />
quegli anni ciò che si può dire dell’Italia: il Nord stava al Sud un po’ come <strong>una</strong><br />
colossale città in rapporto a <strong>una</strong> sterminata campagnola” (Luraghi 2008, 95).<br />
In <strong>una</strong> riflessione generale sulla seconda metà del XIX secolo si evidenzia un<br />
processo in atto a livello mondiale e in particolare tra Europa e Stati Uniti:<br />
l’affermazione di un modello di stato-nazione che, prendendo le mosse dalle rivoluzioni<br />
per l’indipendenza e per la libertà di quegli anni, si consolida in conformità<br />
con le nuove esigenze emerse tra coloro che si trovavano alla guida dello stato<br />
negli anni che vanno dal 1861 al 1901. Infatti, se nello specifico ci si sofferma a<br />
riflettere sulle dinamiche che portarono all’unità d’Italia e alla Guerra Civile americana,<br />
cui seguì la Ricostruzione, si può evidenziare:<br />
• L’affermazione di <strong>una</strong> borghesia commerciale e imprenditoriale che impone<br />
un modello di liberalismo moderato su un sud agrario con un sistema economico<br />
non al passo con i tempi. Da <strong>una</strong> parte i protezionisti puntano a sostenere<br />
lo sforzo produttivo e di investimento della classe imprenditoriale. Dall’altra<br />
il settore agricolo si appella al liberismo economico e all’accesso ai mercati per<br />
un prodotto che non costava molto nella sua fase di produzione ma che comportava<br />
uno sforzo ingente di manodopera schiava o molto povera, legata alla<br />
terra.<br />
• Nei <strong>qui</strong>ndici anni che vanno dal 1861 al 1876 questo liberalismo moderato tende<br />
a includere le frange consenzienti dell’opposizione (che stanno nel sistema) e<br />
ad escludere invece il radicalismo democratico. Questo aveva vissuto un momento<br />
importante intorno al 1848 e si era trascinato per circa un decennio, per<br />
essere poi tacitato da chi si era consolidato al potere. La nuova élite si impegnò<br />
a evitare conflitti che potessero fomentare rivolte intestine.<br />
• Le rivoluzioni degli anni quaranta preoccuparono i liberali moderati per la<br />
loro carica potenzialmente sovversiva e per il fatto di essere spesso anche<br />
rivolu zioni sociali delle classi più povere. Esse spaventarono perfino alcuni<br />
4
dei politici più radicali (Hobsbawm 1975, 18–20).<br />
• Dopo la reazione o provvisoria stabilizzazione degli anni cinquanta, all’inizio<br />
dei sessanta, quando la borghesia imprenditoriale liberale ha ricon<strong>qui</strong>stato<br />
il controllo, essa riprende l’iniziativa militare per completare un processo di<br />
nation-building lasciato in sospeso. Rimangono però dei rischi (lo sfaldamento<br />
stesso dell’unione nord-americana, la ricostruzione radicale, il successo in<br />
Europa dei partiti radicali, ma soprattutto la Comune di Parigi del 1871). I liberali<br />
moderati riportano così l’individuo e la libera iniziativa (con la proprietà)<br />
al centro della costruzione statuale e costituzionale.<br />
La II guerra d’indipendenza era sfociata per esempio nel temuto sbarco dei mille,<br />
poi ricondotto sotto la guida dello stato centralizzato. Mentre la spinta all’azione e<br />
all’unificazione era spesso venuta dalle forze democratiche (anche rivoluzionarie),<br />
furono poi le forze istituzionali (Savoia-Governo dell’Unione) a completare l’opera<br />
e a ricondurla in ambito moderato-liberale. La secessione era in sé un atto rivoluzionario,<br />
anche se qualcuno lo definisce piuttosto controrivoluzionario, e culminò<br />
in un bagno di sangue che qualcuno considerava inizialmente rigeneratore<br />
ma che ben presto sem-<br />
sacrificio di molti. Mentre<br />
i fatti del 1860–1861 portano<br />
l’esercito sabaudo a ri-<br />
l’impresa garibaldina, la<br />
porta due risultati: spazza<br />
gli USA continuavano a<br />
provare tanto per la debolezza<br />
interna quanto per<br />
all’Europa; dà la prova<br />
americano e della tecno-<br />
Italia e USA tra<br />
il 1859 e il 1877<br />
attraversano<br />
esperienze in<br />
qualche modo<br />
c o m p a r a b i l i<br />
brò diventare un inutile<br />
prendere l’iniziativa dopo<br />
guerra per gli Stati Uniti<br />
il senso di insicurezza che<br />
la loro posizione rispetto<br />
della potenza dell’esercito<br />
logia prodotta nel paese al<br />
servizio di quello. “The military power of the United States, as shown by the recent<br />
Civil War,” affermava il Segretario di stato James Blaine nel 1881, “is without limi t,<br />
and in any conflict on the American continent altogether irresistible” (Herring<br />
2008, 242–243). Si era data così prova dell’inevitabile dominio USA sul continente<br />
e delle potenzialità della nazione a livello internazionale.<br />
In fondo, Italia e Stati Uniti nei diciotto anni tra il 1859 e il 1877 attraversano<br />
esperienze in qualche modo comparabili. I loro rapporti diplomatici e commerciali<br />
si consolidano proprio intorno al 1861 e i due rappresentanti che occupano le<br />
rispettive legazioni rappresentano <strong>una</strong> certa intellighenzia e borghesia commerciale<br />
legata alle due regioni che sono al tempo stesso protagoniste del consolidamento<br />
dello stato-nazione e dell’affermazione di ottimi rapporti tra Italia e USA:<br />
Piemonte e New England. George Perkins Marsh e Giuseppe Bertinatti sono esponenti<br />
significativi di un’élite tanto culturale che amministrativa. Con loro sono<br />
protagonisti importanti ministri degli esteri italiani e segretari di stato americani:<br />
Pasquale Stanislao Mancini e Emilio Visconti Venosta, William Seward e Hamilton<br />
5
Fish (e successivamente anche James Blaine).<br />
Nel processo di nation-building di quegli anni, Stati Uniti e Italia condividevano<br />
un altro aspetto determinante: la sistemazione della questione meridionale,<br />
che passava per l’affermazione di uno standard nazionale deciso dai vincitori, e<br />
l’uniformazione del paese, almeno a livello istituzionale. Questa lascia comunque<br />
ai margini la parte meridionale del paese. Se si guarda a quanto avviene dopo<br />
il 1861–1865 ci si accorge che il rapido sviluppo dell’industria si accompagna a<br />
un’affermazione dello stato-nazione secondo modelli imposti “dai vincitori”. Modelli<br />
che in qualche misura vengono rimessi in discussione dalla grave crisi del<br />
1873 che contribuisce a <strong>una</strong> “normalizzazione” del sistema ac<strong>qui</strong>sito fino ad allora<br />
ma fa riflettere i liberali moderati sulla continuazione della via delle riforme.<br />
In Italia, dopo la dichiarazione dello Stato d’assedio del 1862 contro il Brigantaggio,<br />
nel 1863 viene varata la Legge Pica che cede poteri speciali all’esercito<br />
e stabilisce <strong>una</strong> sorta di occupazione militare nel Sud fino al 1865. L’esercito divide<br />
in zone di occupazione le province meridionali. Chiunque giri armato in un<br />
gruppo di più di tre persone è considerato un brigante e può essere processato da<br />
un trib<strong>una</strong>le militare. Tra i briganti vi erano molti oppositori del sistema imposto<br />
dal governo di Torino delusi dalla speranza in <strong>una</strong> riforma agraria. Il governo<br />
sabaudo finisce per favorire lo status quo delegando ai grandi proprietari terrieri il<br />
controllo delle regioni meridionali sacrificate alle necessità dell’unificazione. Non<br />
solo, nonostante i tentativi ripetuti di alcuni liberali democratici, come nel caso di<br />
Giuseppe Ferrari, non si perviene mai alla decentralizzazione che si era auspicata<br />
attraverso la formazione delle regioni.<br />
Negli USA, la cosiddetta Ricostruzione Radicale porta (contestualmente al tentativo<br />
di impeachment di Andrew Johnson sul Tenure of Office Act) a <strong>una</strong> nuova<br />
occupazione garantita dall’esercito, e al varo degli emendamenti XIV (1868) e XV<br />
(1870) alla Costituzione. Il Sud viene diviso in cinque dipartimenti controllati da<br />
Un agente del Freedmen’s Bureau divide gruppi armati<br />
di euro-americani e afro-americani nel Sud degli USA.<br />
6<br />
Briganti affrontano le forze di<br />
repressione del Regno d’Italia.
politici del Nord in accordo con coloro che non avevano abbracciato la secessione<br />
nel Sud. Grazie a politici provenienti dal Nord, Carpetbaggers, e a bianchi del Sud<br />
interessati a gestire la Ricostruzione, Scalawags, questa si trasforma anche in un<br />
affare per alcuni gruppi di profittatori legati a un sistema clientelare difficile da<br />
scalfire. Il “patronage system” in uso fino alla fine degli anni settanta viene definitivamente<br />
messo da parte con l’elezione di Grover Cleveland nel 1884. Nel 1883 il<br />
Pendleton Act introduce la Civil Service Commission.<br />
Le tendenze radicali negli USA e la severità delle scelte economiche e politiche<br />
della Destra in Italia, con il mito del pareggio del bilancio di Sella, portano alla<br />
fine a uno stallo e ai compromessi del 1876 (il trio Lanza-Sella-Minghetti è costretto<br />
a dimettersi). Si includono così nella gestione del potere le parti più moderate<br />
dell’opposizione che fino ad allora ne erano rimaste escluse. Contestualmente si<br />
escludono però le ali più radicali e democratiche, alcune delle quali considerate<br />
troppo vicine ai socialisti.<br />
Nell’impasse elettorale del 1876, dopo che il democratico Samuel Tilden vince<br />
il voto popolare di oltre 300.000 preferenze, e a un solo voto dalla conferma dei<br />
grandi elettori, quattro stati sono ancora contesi. Si trova così un compromesso<br />
fuori della Costituzione: la Commissione Elettorale assegna la vittoria a Rutherford<br />
Hayes, in cambio del ritiro dell’occupazione militare mentre i governi Repubblicani<br />
controllati dal Nord lasciano il Sud. Ciò comporta, com’è ovvio, anche un<br />
compromesso con i grandi proprietari terrieri e con molti leader democratici degli<br />
stati secessionisti. Chi ne porta le conseguenze sono le popolazioni nere, che<br />
infatti cominciano a lasciare sempre più numerose le campagne meridionali, e i<br />
poveri del sud.<br />
Si chiude così la prima fase di nation-building e si apre la crescita dei paesi<br />
sia interna che internazionale. Le loro rivendicazioni imperiali, già presenti negli<br />
anni sessanta e settanta, soprattutto negli Stati Uniti, si fanno sentire più forti. Per<br />
dirla con Baily, grazie alla grande crescita economica di questi anni che derivava<br />
in parte dall’assenza almeno parziale di guerra, e alla nuova rilevanza assunta<br />
dall’individualismo e dall’affermazione delle aspirazioni borghesi, “lo Stato poteva<br />
allargare la propria sfera di controllo anche grazie a un nazionalismo sempre più<br />
aggressivo che sventolava il rischio della rivoluzione davanti agli occhi degli scettici”<br />
(ibid., 181). Letto in questa prospettiva l’imperialismo di fine secolo diventa<br />
parte del processo di costruzione della nazione.<br />
In tutto ciò i rapporti tra Italia e USA sono cresciuti e si sono rafforzati. Le<br />
somiglianze, <strong>qui</strong> esposte, e gli interessi comuni hanno consentito un consolidamento<br />
anche dell’amicizia tra i due paesi soprattutto sotto l’aspetto commerciale<br />
ma anche dal punto di vista diplomatico. George Perkins Marsh è stato chiamato a<br />
presiedere la commissione di arbitrato sul confine italo-svizzero. Federigo Sclopis<br />
presiede l’importante commissione internazionale per gli Alabama Claims (1871).<br />
7
Il sostegno degli USA (e di Marsh in particolare) per il consolidamento dell’unità<br />
d’Italia, e in particolare per Roma capitale è stato forte, così come lo è stato quello<br />
dell’Italia e di Bertinatti per l’Unione quando diverse potenze straniere mantenevano<br />
posizioni ambigue sui diritti degli stati del sud alla secessione. Con il Trattato<br />
Commerciale del 1871 si sono rinsaldati i rapporti economici. C’è da dire che Marsh<br />
è deluso: le speranze liberal-democratiche e repubblicane sono sfumate. Ma in<br />
fondo lo sono anche negli Stati Uniti. Bertinatti intanto ha lasciato Washington per<br />
altri incarichi. Il ventennio seguente vedrà diversi cambiamenti nei rapporti tra<br />
le due nazioni, soprattutto a causa di due fattori: l’emigrazione italiana e le aspirazioni<br />
imperiali di entrambi con risultati ben diversi.<br />
La guerra e l’unificazione, o riunificazione, comportano un rafforzamento dello<br />
stato e successivamente un progressivo accentramento. Se questo può essere dato<br />
per scontato nel caso dell’Italia, non lo è per gli Stati Uniti. Questo accentramento<br />
si verifica attraverso alcuni percorsi comuni a diversi paesi ma di sicuro a Italia<br />
e USA: l’inclusione del sud nel discorso nazionale secondo parametri stabiliti dai<br />
vincitori di cui si è parlato; il rafforzamento della burocrazia; l’uso dell’istruzione<br />
pubblica; la diffusione della lingua nazionale. Quest’ultimo per gli Stati Uniti significò<br />
programmi di “americanizzazione” tanto per le popolazioni indigene e per<br />
gli afro-americani quanto per le masse di immigrati che si riversavano nel paese.<br />
Per l’Italia un lento e difficile percorso inteso a scalzare i dialetti per introdurre <strong>una</strong><br />
lingua riservata fino ad allora alle classi colte.<br />
La scuola diventa un importante strumento di nazionalizzazione. Sebbene negli<br />
Stati Uniti l’obbligatorietà della common school venisse introdotta soprattutto negli<br />
anni cinquanta a partire dal Massachusetts, nella seconda metà dell’Ottocento,<br />
si diffuse a livello nazionale per essere collegata all’istruzione del college. Tra il<br />
1865 e il 1914 aumenta esponenzialmente il numero delle scuole professionali e dei<br />
college, soprattutto grazie alla legge sui Land Grant colleges, ma l’attenzione di chi<br />
è al governo si concentra sull’istruzione elementare che è fondamentale tanto per<br />
la lingua quanto per i valori da trasmettere alla massa della popolazione, soprattutto<br />
immigrata. In Italia nei <strong>qui</strong>ndici anni successivi all’unificazione il numero<br />
degli allievi raddoppia. Questo si deve all’estensione nel 1861 della Legge Casati<br />
(1859) sull’obbligatorietà dei primi due anni a tutto il Regno. Nel 1877 la Legge Coppino<br />
rafforza ulteriormente questa scelta. Ma se nel 1871 gli analfabeti erano il 78%<br />
nel 1881 erano ancora il 67%. Negli USA la situazione era molto diversa: nel 1880<br />
gli analfabeti erano il 17%, e nonostante la grande immigrazione la percentuale<br />
non salì di molto nel ventennio successivo.<br />
Lo sviluppo delle comunicazioni, tanto con il telegrafo che con la ferrovia,<br />
aveva garantito <strong>una</strong> crescente penetrazione della macchina statale nel paese già<br />
nella prima fase di nation-building. Secondo Nancy Cohen: la tariffa protezionista<br />
Morrill emanata con lo Homestead Act durante la guerra, e il Land College Grant<br />
8
Act, consentirono lo sviluppo dell’Ovest rafforzato dal Pacific Railroad Act. Ciò<br />
consentì contestualmente “the creation of a National market and the settlement of<br />
the frontier” (Cohen 2002, 27). Per quanto riguarda l’Italia, sottolinea Fulvio Cammarano,<br />
“la legge di unificazione amministrativa, destinata a diventare un perno<br />
della legislazione italiana, venne promulgata il 20 marzo 1865” (ibid., 13). Ma, scrive<br />
Raffaele Romanelli, vi fu un vero pregiudizio sulla centralizzazione anche da parte<br />
del governo, e la decentralizzazione fu da subito all’ordine del giorno (ibid., 35–37).<br />
Lo Stato finì per assumere su di sé prerogative discutibili, tanto che sia negli USA<br />
che in Italia si sviluppò un aspro dibattito circa i limiti che lo Stato doveva rispettare<br />
in particolar modo nella gestione delle ferrovie e nella crescita della burocrazia.<br />
Nonostante le molte resistenze e i numerosi discorsi e programmi politici, sul<br />
finire del secolo si vengono costruendo delle imponenti macchine burocratiche<br />
funzionali anche all’accentramento dei poteri del governo centrale. Negli USA si<br />
passa dai circa 37.000 impiegati del 1861 ai 200.000 di inizio Novecento, mentre in<br />
Italia dai 3.000 dell’unità ai 90.000 circa della fine del secolo.<br />
Nel consolidamento (che porta all’accentramento) e nella normalizzazione<br />
che entrambe le nazioni cercano, il discorso nazionale diventa funzionale<br />
all’affermazione delle élite al potere. È uno strumento che raccoglie anche le classi<br />
emarginate nell’affermazione di sé e nel riconoscimento delle proprie qualità. In<br />
fondo sia in Italia che in USA il consolidamento dello stato nazionale è un processo<br />
guidato da un’élite che tiene fuori l’elemento democratico radicale, e in Italia questo<br />
vale anche per quello repubblicano. Si deve inoltre fare i conti con il bisogno<br />
di riconoscersi della popolazione che non necessariamente accetta i simboli della<br />
leadership (Doyle 2002, 45–47). A questo fine lo Stato avvia così anche un’attiva e<br />
aggressiva politica estera necessaria a rinsaldare l’adesione delle masse e a rilasciare<br />
tensioni e forze economiche soprattutto dopo la crisi del 1873; così gli USA<br />
si proiettano su Alaska e Midway, mentre l’Italia lotta per Venezia e Roma. Queste<br />
aspirazioni culminano in veri e propri progetti imperiali sul finire del secolo.<br />
Bibliografia:<br />
Bayly C. A., La nascita del mondo moderno, 1780–1914, Torino, Einaudi, 2004.<br />
Cammarano F., Storia politica dell’Italia liberale: L’eta del liberalismo classico,<br />
1861–1901, Bari-Roma, Laterza, 1999.<br />
Cohen N., The reconstruction of American liberalism, 1865–1914, Chapel Hill, The<br />
University of North Carolina Press, 2002.<br />
Doyle D., Nations divided: America, Italy and the southern question, Athens, The<br />
University of Georgia Press, 2002.<br />
Foner E., Reconstruction: America’s unfinished revolution, 1863–1877, New York,<br />
Harper & Row, 1988.<br />
9
Hendrickson D. C., Union, nation or empire. The American debate over international<br />
relations, 1789–1914, Lawrence, University Press of Kansas, 2009.<br />
Herring G., From colony to superpower: U.S. foreign relations since 1776, Oxford-<br />
New York, Oxford University Press, 2008.<br />
Hobsbawm E., Il trionfo della borghesia, 1848–1875, Bari, Laterza, 1975.<br />
Luraghi R., Storia della guerra civile americana, Milano, BUR Rizzoli, 2008 (1° ed.<br />
1969).<br />
Romanelli R., Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna, Il<br />
Mulino, 1988.<br />
Skowronek S., Building a new American state: The expansion of national administrative<br />
capacities, 1877–1920, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.<br />
Vann Woodward C., Reunion and reaction. The Compromise of 1877 and the end of<br />
reconstruction, Boston, Little Brown, 1966 (1° ed. 1951).<br />
10
Relazioni dei<br />
gruppi di studio<br />
della VII Summer<br />
School<br />
Gli Stati Uniti e le sfide dell’unità nazionale (1861–1901) (Alessandro Caivano,<br />
Lorenzo Pavoncello) p. 12<br />
L’Italia e le sfide dell’unità nazionale (Silvia Nanni) p. 17<br />
Sonderweg: La via speciale della Germania all’unità (Francesco De Felice) p. 23<br />
Religione e politica negli Stati Uniti (Lucia Ducci) p. 29<br />
La questione sociale e lo scontro di classe: Un confronto fra Italia e Stati Uniti<br />
d’America (Francesco Condoluci, Francesca Ghezzi) p. 34<br />
Le declinazioni del liberalismo. I movimenti liberali nell’esperienza italiana,<br />
tedesca e statunitense (Chiara Corazziari) p. 40<br />
11
Gli Stati Uniti e le sfide<br />
dell’unità nazionale<br />
(1861–1901)<br />
Alessandro Caivano, Lorenzo Pavoncello<br />
L’eccezionalismo statunitense: stessi problemi, diverse premesse<br />
Nel suo A nation among nations: America’s place in world history, Thomas<br />
Bender sottolinea la necessità di pensare la storia americana in <strong>una</strong> prospettiva<br />
comparata. Con particolare riferimento alla guerra civile, quest’ultima è stata<br />
studiata come un’esperienza sociale, politica e culturale troppo diversa dalle contemporanee<br />
vicende europee e, pertanto, eccezionale. Le sfide dell’unità nazionale<br />
che gli Stati Uniti dovettero affrontare non furono dissimili dagli stati europei e<br />
a testimonianza di ciò è utile sottolineare come vi fosse un reciproco interesse<br />
per le rispettive questioni politiche che caratterizzavano l’Europa e il nuovo continente.<br />
Gli USA, ad esempio, intrattennero <strong>una</strong> fitta corrispondenza diplomatica<br />
con l’Italia che si affiancava ai resoconti di numerosi intellettuali statunitensi che<br />
narravano le gesta dei protagonisti del Risorgimento, in particolar modo di Garibaldi.<br />
Se, come l’approccio metodologico di Bender ci suggerisce, le sfide dell’unità<br />
nazionale statunitense possono essere considerate simili – e in qualche maniera<br />
collegate – a quelle europee, non bisogna tuttavia dimenticare che le risposte date<br />
dagli USA furono frutto di premesse storiche e sociali assolutamente peculiari.<br />
Nel periodo precedente alla guerra civile, gli Stati Uniti erano per certi versi<br />
ancora un paese coloniale, un paese cioè nato su un territorio occupato che comprendeva<br />
gli immigrati, ma escludeva le popolazioni native e gli schiavi neri. Il<br />
problema della schiavitù, elemento fondante del sistema sociale ed economico del<br />
12<br />
In alto a sinistra: sagoma degli stati fedeli all’unione durante<br />
la Guerra civile. A destra: sagoma degli stati secessionisti.
Sud, era <strong>una</strong> questione comune a tutte le potenze coloniali ma gli USA, a differenza<br />
delle nazioni europee, dovevano affrontarla sul proprio territorio. La repubblica<br />
americana era organizzata, inoltre, sulla base di <strong>una</strong> struttura politica federale che<br />
comprendeva stati molto diversi tra loro, per forme di governo, sviluppo economico<br />
e appartenenze religiose. Era infatti nata dopo <strong>una</strong> guerra anti-coloniale ed<br />
espandendosi verso ovest ripeteva il rito della nascita di nuovi stati.<br />
Un’ulteriore particolarità era poi relativa al suo status di potenza post-rivoluzionaria.<br />
Gli Stati Uniti si costituirono in seguito ad <strong>una</strong> rivoluzione di successo;<br />
tale rivoluzione nacque su base locale e produsse da un lato un governo federale<br />
che tendeva a salvaguardare i diritti periferici e il forte senso di appartenenza<br />
alla comunità, dall’altro un profondo sentimento di diffidenza verso le istituzioni<br />
centrali. Tra testi fondamentali spiccava, infine, un documento, la Dichiarazione<br />
d’Indipendenza, che enunciava diritti universali rivendicabili da tutti i popoli e,<br />
allo stesso tempo, poneva enfasi su un eccezionalismo tipicamente americano. Il<br />
messaggio in esso contenuto fu abilmente utilizzato da quanti aspiravano a fare<br />
della società statunitense un modello al punto che, nel corso dell’Ottocento, si<br />
consolidò l’idea che il “destino manifesto” della nuova repubblica fosse quello di<br />
guidare le altre nazioni verso gli ideali di libertà e democrazia.<br />
Tra il 1850 e il 1860 Gli Stati Uniti si avvicinarono al periodo della guerra civile<br />
divisi in “due anime di <strong>una</strong> stessa realtà” – il Nord e il Sud – che proponevano due<br />
sistemi sociali ed economici dai valori antitetici: al Nord industrializzato e protezionista<br />
si contrapponeva, infatti, il Sud agrario e schiavista. Entrambi rivendicavano<br />
in maniera esclusiva il vero significato della rivoluzione, prefigurando per<br />
l’Unione un futuro differente: mentre il Nord, dei cui interessi si faceva portatore<br />
il partito repubblicano di Abraham Lincoln, proponeva un progetto di omogeneizzazione<br />
della nazione, il Sud manifestava l’intenzione di secedere dall’Unione e<br />
formare <strong>una</strong> nuova realtà politico-istituzionale.<br />
Le “soluzioni americane”<br />
La guerra civile pose il paese di fronte alle sfide dell’unità. Tali sfide, presenti<br />
anche nelle realtà europee contemporanee, vennero affrontate dagli Stati Uniti<br />
con soluzioni peculiari, proprio sulla base di quelle premesse differenti che avevano<br />
caratterizzato la storia e l’evoluzione della repubblica a stelle e strisce. La guerra<br />
civile si concluse con la netta vittoria degli unionisti sui confederati: la fine del<br />
conflitto determinò nel Nord la necessità di <strong>una</strong> riflessione sul futuro della nazione,<br />
in particolar modo sulle sorti del Sud. Tra le varie ipotesi, si scelse di occupare<br />
militarmente i territori degli ex stati secessionisti in modo da poter ristabilire<br />
l’ordine secondo le condizioni imposte dai vincitori. Questa politica generò<br />
nel Sud un senso di rancore e di umiliazione nei confronti del governo centrale a<br />
maggioranza repubblicana. I cittadini ex confederati si sentirono a tutti gli effetti<br />
13
come un popolo sconfitto costretto a subire nel proprio territorio <strong>una</strong> vera e propria<br />
invasione da parte dell’esercito nemico che, in quanto vincitore, imponeva il<br />
proprio modello di società.<br />
La più importante conseguenza del dopoguerra fu, così, il rafforzamento del<br />
governo centrale, il quale ampliò le proprie competenze rispetto alle autorità locali:<br />
la vittoria del Nord sancì la supremazia dei federalisti nei confronti dei difensori<br />
delle prerogative statali. A conferma di ciò, dal 1865 vennero redatti gli emendamenti<br />
XIII, XIV e XV alla Costituzione che, almeno inizialmente, sembrarono eliminare<br />
i privilegi delle realtà periferiche. Nel 1869, in <strong>una</strong> fondamentale sentenza<br />
(Texas v. White, 74 U.S. 700, http://supreme.justia.com/us/74/700/case.html) la<br />
Corte Suprema dichiarò che “la secessione e tutti gli atti legislativi intesi a dare effetto<br />
a tale ordinanza” erano da considerarsi nulli. Si assistette, inoltre, ad un processo<br />
di progressivo accentramento dei poteri, al punto che, a partire dagli anni<br />
Ottanta, si iniziò a parlare di sistematizzare la macchina burocratico-amministrativa<br />
rendendola più simile a quella europea. A venir rafforzato fu soprattutto il<br />
potere esecutivo, la cui autorità fu incrementata, già durante il conflitto civile, dal<br />
presidente Lincoln.<br />
Nel processo di formazione dell’identità americana, la guerra civile può essere<br />
considerata un vero e proprio spartiacque. Vennero date due risposte al problema<br />
dell’identità: ad un’idea basata su <strong>una</strong> scelta per il futuro che proponesse<br />
<strong>una</strong> concezione inclusiva di cittadinanza si contrappose un nazionalismo fondato<br />
sul retaggio coloniale, un ideale comunitario bianco dal quale scaturiva necessariamente<br />
<strong>una</strong> visione esclusiva di cittadinanza.<br />
A seguito del conflitto, sembrò infatti formarsi un nuovo nazionalismo: l’idea<br />
che emerse si formò a scapito di alcuni gruppi etnici, come ad esempio i nativi<br />
americani. Nonostante, infatti, l’Indian Appropriations Act del 1871 pose fine alla<br />
prassi di considerare le nazioni indiane come straniere, di fatto, le popolazioni native<br />
vennero escluse dall’idea di nazione americana che si andava formando nella<br />
misura in cui il governo federale, nel processo di colonizzazione dell’Ovest, non<br />
esitò a dar vita a nuovi sanguinosi conflitti per appropriarsi dei territori occupati<br />
dagli indiani.<br />
Attraverso l’approvazione dei nuovi emendamenti costituzionali e, sopratutto,<br />
con l’occupazione militare del Sud, il governo federale inaugurò un esperimento di<br />
democrazia interrazziale, che, tuttavia, al termine della Ricostruzione fallì: per evitare<br />
un nuovo e forse più devastante conflitto tra le tradizioni sudiste e gli interessi<br />
dei nordisti, i cittadini afroamericani furono, infatti, nuovamente esclusi dal corpo<br />
della nazione. Il Compromesso del 1877, con il quale i democratici accettarono di<br />
assegnare al repubblicano Hayes la vittoria nelle concitate elezioni presidenziali<br />
in cambio del ritiro delle truppe federali dal Sud, sancì la fine della Ricostruzione.<br />
Nacque, infine, un nazionalismo di tipo religioso, fondato su un vero e proprio<br />
14
culto per la bandiera americana, che incarnava l’armonia della repubblica, i valori<br />
condivisi e l’unità ritrovata. La guerra civile venne dunque vista come un’esperienza<br />
unificante, e questo grazie soprattutto ai racconti e ai ricordi dei veterani, che ne<br />
sottolineavano la crudeltà, e all’attenzione che tutto il paese riservò alle celebrazioni<br />
commemorative del conflitto.<br />
Conclusioni: The United States are o the United States is?<br />
A<br />
cavallo tra Ottocento e Novecento si assistette ad un’espansione della macchina<br />
burocratico-amministrativa statunitense e ad un accentramento progressivo<br />
dei poteri di Washington ai danni delle realtà locali. A tal riguardo è stato<br />
evidenziato come, al termine della guerra civile e del travagliato periodo della<br />
Ricostruzione, gli Stati Uniti siano passati dall’essere un “paese orizzontale” al diventare<br />
un “paese verticale”.<br />
Dal punto di vista della formazione dell’identità nazionale, molti storici hanno<br />
sostenuto come solamente dopo il conflitto civile si sia cominciata ad utilizzare<br />
la forma singolare in riferimento agli Stati Uniti: “United States is” in sostituzione<br />
di “United States are” (McPherson 2003, viii). In realtà, alcuni studi sulle sentenze<br />
della Corte Suprema hanno rilevato come si sia continuato a privilegiare la forma<br />
plurale.<br />
Nonostante queste premesse è tuttavia arduo constatare se sul finire<br />
dell’Ottocento si sia effettivamente consolidata un’identità nazionale vera e propria.<br />
Non è infatti semplice stabilire se un sentimento di appartenenza alla nazione<br />
fosse concretamente condiviso dalla totalità del popolo americano. Certamente,<br />
come si è visto, la guerra civile giocò un ruolo determinante nella formazione di<br />
uno spirito nazionale e nella costruzione di quella che, circa un secolo dopo, il sociologo<br />
Robert Bellah avrebbe definito <strong>una</strong> “religione civica americana”: la fede in<br />
<strong>una</strong> serie di principi e di ideali simbolicamente espressi nei documenti fondanti<br />
della repubblica e nei discorsi inaugurali dei presidenti più rappresentativi.<br />
Bibliografia:<br />
Bellah R. N., “Religion in America”, in Daedalus: Journal of American academy of<br />
arts and sciences, vol. 96, n. 1 (inverno 1967).<br />
Bender T., A nation among nations: America’s place in world history, New York,<br />
Farrar, Straus and Giroux, 2006.<br />
Fiorentino D., “ ‘The pursuit of Liberalism’: I rappresentanti degli USA negli stati<br />
italiani tra diplomazia e rivoluzione (1848–1861)”, in Annali della Fondazione<br />
Luigi Einaudi, vol. XLII (2009), pp. 39–63.<br />
Foner E., Politics and ideology in the age of the Civil War, New York, Oxford University<br />
Press, 1980.<br />
15
McPherson J. M., Battle cry for freedom: The Civil War era, New York, Oxford University<br />
Press, 2003.<br />
Moore Jr. B., Social origins of dictatorship and democracy: Lord and peasant in the<br />
making of the modern world, Boston, Beacon Press, 1966.<br />
Testi A., Il secolo americano, Bologna, Il Mulino, 2008.<br />
16
L’Italia e le<br />
sfide dell’unità<br />
nazionale<br />
SIlvia Nanni<br />
Nazione, costituzione e cittadinanza<br />
La storia dell’unificazione nazionale italiana è<br />
presentata sia tramite l’analisi dei concetti di<br />
nazione, costituzione e cittadinanza, sia attraverso<br />
l’azione politica dei principali attori che hanno<br />
preso parte a questo processo. Inoltre, le vicende<br />
italiane si inseriscono all’interno di un fenomeno europeo più vasto, erede della<br />
rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche.<br />
Nel corso del XIX secolo i processi di composizione nazionale hanno caratterizzato<br />
numerosi stati europei ed extra-europei. Tali trasformazioni scaturirono<br />
dal confronto fra distinte componenti sociali, così come dalla presenza di politiche<br />
statuali particolarmente lungimiranti. I processi di unificazione nazionale hanno<br />
<strong>qui</strong>ndi portato alla progressiva creazione delle moderne organizzazioni statuali.<br />
La formazione dello stato-nazione italiano presenta alcune peculiarità, quali<br />
l’unificazione tardiva, la discontinuità del processo di annessione territoriale 1 ed il<br />
difficile processo di affermazione della coscienza nazionale italiana, anche dopo<br />
l’unificazione. 2 Da un punto di vista strategico, però, la formazione politica dello<br />
stato italiano gli permise di collocarsi all’interno del contesto internazionale al pari<br />
delle altre medie potenze europee.<br />
Nella penisola italiana, l’idea di nazione era presente nell’opinione pubblica<br />
già prima del compimento dell’unità politica dello stato ed il matrimonio tra liberalismo<br />
e questione nazionale diede avvio al discorso costituzionale, che fu successivamente<br />
rivendicato dai moti popolari del 1848. I successi dei moti popolari<br />
furono però estremamente limitati poiché le costituzioni octroyées 3 furono revocate<br />
pochi mesi dopo. Fu <strong>qui</strong>ndi estremamente lungimirante la decisione della<br />
monarchia sabauda di mantenere lo Statuto da poco concesso. La nuova costituzione<br />
collocò il Piemonte nel più ampio contesto delle monarchie costituzionali<br />
europee, fissando i limiti dei poteri costituiti e sancendo garanzie e diritti nei confronti<br />
della popolazione, inaugurando, <strong>qui</strong>ndi, il passaggio dallo status di sudditi a<br />
quello di cittadini.<br />
17<br />
Litografia dei “Padri della Patria” (Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Cavour, Mazzini) pubblicata<br />
dalla Domenica del Corriere del 1 0 gennaio 1961, in occasione dei cento anni dell’unità.
Cavour vs Garibaldi<br />
Nel periodo che va dal 1848 al 1861 i protagonisti della vicenda italiana furono<br />
molteplici. Fra questi, Camillo Benso, Conte di Cavour, ministro dal 1850<br />
e Presidente del Consiglio dei Ministri dal 1852, svolse un ruolo fondamentale<br />
nell’interpretare pienamente la situazione politica del suo tempo. Egli fu l’artefice<br />
politico e diplomatico del Risorgimento italiano e la sua abilità fu quella di guidare<br />
il processo di unificazione sotto l’egida della monarchia sabauda, controllando al<br />
tempo stesso politicamente i movimenti mazziniani. Da un punto di vista strettamente<br />
diplomatico, Cavour fu in grado di sfruttare a proprio vantaggio le situazioni<br />
e le opportunità che di <strong>volta</strong> in <strong>volta</strong> gli si presentarono, come la partecipazione<br />
alla guerra di Crimea e alla successiva conferenza di Parigi del 1856. Questo<br />
permise a Cavour di poter sollevare la questione italiana di fronte ad un consesso<br />
internazionale e, <strong>qui</strong>ndi, di potersi assicurare l’appoggio di Napoleone III di<br />
Francia. Sul piano interno, Cavour giocò saggiamente la carta del mantenimento<br />
dell’istanza parlamentare, un aspetto che rafforzò la legittimazione internazionale<br />
del Regno di Sardegna.<br />
Se Cavour fu il rappresentante delle élite politiche ed intellettuali nella fase<br />
di costruzione dello stato-nazione, Giuseppe Garibaldi, altra figura centrale del<br />
Risorgimento, fu interprete dell’anima popolare e democratica del movimento<br />
di unificazione nazionale e divenne punto di riferimento del volontarismo. Oltre<br />
all’effettiva con<strong>qui</strong>sta del Sud, la rilevanza dell’opera garibaldina fu rappresentata<br />
dalla sua capacità di modificare la strategia di unificazione ideata dalla monarchia<br />
sabauda. Mentre originariamente la costruzione del nuovo stato consisteva nella<br />
semplice estensione del Regno di Sardegna, grazie all’opera di Garibaldi, Cavour si<br />
convinse che <strong>una</strong> spedizione di liberazione nel Mezzogiorno avrebbe ottenuto il<br />
necessario sostegno popolare.<br />
La legittimità politica del nuovo stato derivò principalmente dalla presenza<br />
dell’istituzione parlamentare (anche se non garantiva <strong>una</strong> rappresentanza reale<br />
della popolazione) e dai numerosi plebisciti di unificazione, che si tennero<br />
tra l’ottobre ed il novembre del 1860. Questo fu anche uno dei motivi per cui non<br />
si ritenne necessaria la promulgazione di <strong>una</strong> nuova costituzione, ma venne direttamente<br />
applicata la legge fondamentale del Regno di Sardegna a tutti i nuovi<br />
territori annessi. La continuità con le legislature precedenti fu evidente nella<br />
proclamazione di Vittorio Emanuele, Re d’Italia, con il titolo Vittorio Emanuele II,<br />
rendendo il nuovo stato italiano l’erede diretto del regno sabaudo.<br />
Il problema principale dell’Italia unita non fu dunque quello di darsi <strong>una</strong> nuova<br />
organizzazione costituzione bensì di ottenere <strong>una</strong> piena legittimazione nazionale.<br />
Contrariamente a quanto si può constatare in altri paesi europei, in cui la<br />
nuova nazione si strinse attorno sia a solide istituzioni, come l’esercito od il Sena-<br />
18
to, sia a classi sociali, come l’aristocrazia, il nuovo popolo italiano non condivideva<br />
solidi miti fondativi. Inizialmente, nemmeno la monarchia riuscì a ricoprire<br />
questo complesso ruolo, dal momento che il Re e la casa regnante non godevano<br />
del prestigio internazionale necessario e venivano addirittura percepiti come un<br />
elemento di estraneità. Fu <strong>qui</strong>ndi compito della classe parlamentare tentare di colmare<br />
questo vuoto, divenendo la vera figura di intermediazione tra la società ed il<br />
nuovo stato nascente. Tuttavia, la classe politica a cui ci si riferisce era composta<br />
da singole personalità e rappresentava <strong>una</strong> frazione degli interessi sociali non ancora<br />
organizzati. Si trattò <strong>qui</strong>ndi di un collante parziale e problematico, e non da<br />
tutti riconosciuto (Cammarano 2011, 74–75).<br />
Le sfide della classe politica liberale<br />
Nei primi decenni dell’unità, la classe politica liberale si trovò ad affrontare<br />
<strong>una</strong> situazione altamente problematica poiché, oltre a dover fronteggiare le<br />
resistenze della Chiesa cattolica, che si rifiutava di riconoscere il nuovo stato, si<br />
delineò un’altra importante frattura, di carattere sociale e regionale, quella del divario<br />
tra il Nord ed il Sud della penisola. Nel 1861 il sentimento comune alla maggior<br />
parte dei cittadini italiani era che l’unità nazionale non fosse effettivamente<br />
ancora stata raggiunta, proprio a causa di problemi territoriali legati al completamento<br />
del processo di unificazione 4 ed alle forti differenze regionali. Le condizioni<br />
storiche di emergenza dell’immediato post-1861 portarono ad un accentramento<br />
amministrativo, 5 volto a contrastare le forze anti-unitarie.<br />
Negli anni successivi all’unità, la classe politica liberale si divise in due anime:<br />
un’area moderata, che cercava soluzioni di compromesso ed escludeva la competizione<br />
aperta in politica, rappresentata da figure come Agostino Depretis, Francesco<br />
Crispi e Giovanni Giolitti; dall’altra parte, la seconda anima del liberalismo<br />
ottocentesco italiano era rappresentata da Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli,<br />
e si caratterizzava, al<br />
contrario, per la propensione<br />
al conflitto politico.<br />
Quest’ultimi vennero<br />
sconfitti negli anni<br />
Ottanta<br />
dell’Ottocento;<br />
anni in cui emerse<br />
concretamente la pratica<br />
del trasformismo, che si<br />
concretizzò nella convergenza<br />
verso il centro<br />
dello spettro politico,<br />
con l’esclusione e la<br />
19<br />
Vignetta satirica raffigurante Agostino<br />
Depretis con il corpo di un camaleonte.
marginalizzazione delle opposizioni.<br />
In questo stesso periodo avvenne un rafforzamento dell’esecutivo a scapito del<br />
legislativo, reso necessario dalla rinnovata competizione internazionale e dal bisogno<br />
di un nuovo slancio in termini di efficienza e governabilità dello stato. Tale<br />
s<strong>volta</strong> fu di importanza cruciale, tanto che ridefinì gli e<strong>qui</strong>libri interni della politica<br />
italiana.<br />
La sfida principale rimase per la classe politica liberale quella di rafforzare<br />
l’unità nazionale e due furono gli ambiti che ebbero un decisivo ruolo in tal senso:<br />
la s<strong>volta</strong> in politica estera inaugurata negli anni della Sinistra al governo e la questione<br />
romana con la Chiesa cattolica.<br />
Il coinvolgimento negli affari internazionali ed il ruolo della guerra furono fattori<br />
decisivi per la fortificazione dell’identità nazionale italiana. A partire dai primi<br />
anni Ottanta dell’Ottocento, la Sinistra al governo intrattenne sempre più stretti<br />
contatti con Germania ed Austria-Ungheria, che sfociarono nel trattato della Triplice<br />
alleanza del 1882. Questo atteggiamento di rottura con la tradizionale linea<br />
di prudenza risorgimentale fu interpretato dal governo Depretis come un fattore<br />
“atto a conferire solidità alle istituzioni del giovane Stato” (Sabbatucci e Vidotto<br />
2005, 154). Sul piano più prettamente strategico, la classe politica italiana utilizzò<br />
la Triplice come trampolino per porsi al centro dello scacchiere internazionale e<br />
dare avvio all’esperienza coloniale.<br />
Il secondo ambito è rappresentato dal ruolo della Chiesa, notoriamente forza<br />
anti-unitaria, alla quale si contrappose <strong>una</strong> classe politica cattolica che non volle<br />
rinunciare agli ideali liberali e patriottici. In questo contesto, <strong>qui</strong>ndi, emerse la profonda<br />
contraddizione fra la religione, intesa come fede personale, che accom<strong>una</strong>va<br />
la stragrande maggioranza della popolazione risiedente sul territorio italiano, e<br />
l’istituzione, in quanto tale, della Chiesa cattolica. È con la legge delle guarentigie<br />
del maggio 1871 che lo Stato italiano tentò di risolvere i complessi problemi con il<br />
Vaticano, proclamando il principio della libertà del Papa di operare come un capo<br />
di Stato nella propria enclave territoriale. Questo non impedì comunque allo Stato<br />
pontificio di mantenere <strong>una</strong> certa ostilità nei confronti del nuovo Stato italiano,<br />
che sfociò nella disposizione del non expedit nel 1874, con il quale Pio IX sanciva<br />
che non era opport<strong>una</strong> la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche.<br />
Il crocevia in cui si veniva a trovare il nuovo Stato italiano alla fine dell’Ottocento<br />
non faceva che ampliare le sfide da fronteggiare per la classe politica liberale.<br />
Note:<br />
1. Ricordiamo in particolare l’opposizione della Chiesa cattolica all’unificazione<br />
ed il problema del brigantaggio nel Sud d’Italia.<br />
2. La famosa frase di Massimo d’Azeglio “abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare<br />
20
gli Italiani” rimane un emblema del difficile processo di formazione della coscienza<br />
nazionale italiana.<br />
3. Il primo sovrano a concedere la costituzione nel 1848 fu Ferdinando II di Borbone,<br />
Re delle due Sicilie, seguito da Carlo Alberto di Savoia, da Leopoldo II di<br />
Toscana ed infine da Pio IX.<br />
4. Ricordiamo che erano rimaste escluse dal processo di unificazione numerosi<br />
territori abitati da popolazioni italiane, come il Veneto, il Trentino, Roma ed il<br />
Lazio.<br />
5. Si pensi all’estensione tra il giugno 1859 ed il gennaio 1860 di molte leggi<br />
piemontesi alle nuove regioni annesse, come la legge elettorale.<br />
Bibliografia:<br />
Banti A. M., Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 2004.<br />
Beales D., Biagini E. F., Il Risorgimento e l’unificazione dell’Italia, Bologna, Il Mulino,<br />
2005.<br />
Cammarano F., “Un ibrido fra stato e nazione”, in Il Mulino, vol. 11, n. 1 (gennaio–<br />
febbraio 2011), pp. 72–78.<br />
Cammarano F., Storia dell’Italia liberale, Roma-Bari, Laterza, 2011.<br />
Cammarano F., Guazzaloca G. e Piretti M. S., Storia contemporanea. Dal XIX al XXI<br />
secolo, Milano, Mondadori, 2009.<br />
Musella L., Il trasformismo, Bologna, Il Mulino, 2003.<br />
Sabbatucci G., Il trasformismo come sistema: Saggio sulla storia politica dell’Italia<br />
unita, Roma-Bari, Laterza, 2003.<br />
Sabbatucci G., Vidotto V., Il mondo contemporaneo. Dal 1848 ad oggi, Roma-Bari,<br />
Laterza, 2005.<br />
Viglione M., 1861: Le due Italie: Identità nazionale, unificazione e guerra civile, Milano,<br />
Ares, 2011.<br />
21
Sonderweg:<br />
La via speciale della Germania<br />
all’unità<br />
Francesco De Felice<br />
“Franzosen und Russen gehört das Land,<br />
das Meer gehört den Briten,<br />
Wir aber besitzen im Luftreich des Traums<br />
Die Herrschaft unbestritten.”<br />
Heinrich Heine, Deutschland. Ein Wintermärchen, 1844<br />
Unità tedesca ed unificazione italiana. I concetti fondamentali<br />
I<br />
processi di unificazione in Germania ed in Italia, possono essere analizzati in<br />
chiave comparata con particolare attenzione alla questione nazionale ed al liberalismo<br />
come dottrina politica nelle diverse declinazioni che ebbe nei due Stati.<br />
Questo lavoro ha, <strong>qui</strong>ndi, lo scopo di porre in evidenza sia le analogie quanto,<br />
soprattutto, le profonde differenze nella costituzione dello Stato unitario in Germania<br />
ed in Italia, concentrando l’analisi sulle specificità del caso tedesco nei suoi<br />
concetti fondamentali di Staat, Nation e Bund.<br />
Dopo le vittorie della Prussia nella guerra dei ducati nel 1864, nella campagna<br />
contro l’Austria nel 1866 e nel conflitto con la Francia nel 1870–1871, la proclamazione<br />
dell’Impero Tedesco, avvenuta il 18 gennaio 1871 nel castello di Versailles,<br />
rappresentò la conclusione di un processo unitario che, sorto dal nazionalismo<br />
romantico e passato attraverso la contrapposizione tra conservatorismo e liberalismo,<br />
condusse all’affermazione della potenza prussiana sotto l’abile regia politica<br />
e diplomatica del cancelliere Otto von Bismarck-Schönhausen.<br />
Già da questa sommaria introduzione, appare possibile dedurre le evidenti<br />
analogie tra unificazione italiana ed unità tedesca. Entrambi i casi, infatti, sono<br />
caratterizzati da elementi comuni quali il sentimento nazionale, il confronto tra<br />
filosofie politiche antitetiche e, in più, l’affermazione di uno Stato egemone – il<br />
Regno di Sardegna, il Regno di Prussia – i cui primi ministri, Camillo Benso di Cavour,<br />
Otto von Bismarck-Schönhausen, con determinazione maggiore degli stessi<br />
sovrani Vittorio Emanuele II di Savoia e Guglielmo I di Hohenzollern, intesero utilizzare<br />
il processo di unificazione come strumento di politica di potenza, attuando<br />
<strong>una</strong> visione realista delle relazioni internazionali che impose il ricorso alla guerra<br />
come mezzo per l’affermazione dello Stato.<br />
22
A fronte di queste similitudini, risaltano con maggiore chiarezza le particolarità<br />
esclusive dell’unificazione tedesca, quel Sonderweg che costituisce la “via<br />
speciale” della Germania all’unità. Stante un sentimento nazionale storicamente<br />
forte e radicato, tale da superare le distinzioni di classe o di Stato di appartenenza<br />
attraverso la formazione di <strong>una</strong> comunità culturale coesa nella ricerca dell’unità<br />
politica, l’unificazione divenne <strong>una</strong> risorsa fondamentale nel gioco politico-diplomatico<br />
di Bismarck, il quale riuscì abilmente a strumentalizzare la questione nazionale<br />
per piegarla alle esigenze della politica di potenza del Regno di Prussia nel<br />
perseguimento dell’egemonia regionale e, successivamente, continentale.<br />
Con riguardo alle specificità del caso tedesco, la formazione dello Stato unito<br />
può essere descritta come l’interazione di tre Begriffe o concetti fondamentali, quali<br />
le idee di Staat (Stato), Nation (Nazione) e Bund (legame, ma anche lega, unione<br />
politica). La complementarietà di Staat e Nation, o meglio, di Staatsnation (Nazione<br />
come Stato, Costituzione ed istituzioni) e Kulturnation (Nazione come civiltà,<br />
come idem sentire, legame sentimentale e culturale), costituisce, dunque, l’essenza<br />
del Sonderweg (Rusconi 2011). Sulla via speciale all’unità, ogni tedesco prima che<br />
suddito di uno dei tanti Stati che compongono il Deutscher Bund – la Confederazione<br />
Germanica istituita dal Congresso di Vienna (1814–1815) come successore<br />
del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica – sperimentava effettivamente<br />
il senso di appartenenza ad <strong>una</strong> Kultur, ovvero ad <strong>una</strong> comunione di civiltà<br />
che trascende i confini statali, ed attendeva l’intervento di uno Stato egemone in<br />
grado di dare alla comunità del popolo ed all’unione degli Stati un’organizzazione<br />
politica stabile ed efficiente che ponesse la Germania in grado di competere con<br />
le altre potenze europee. I concetti di Stato e Nazione, infine, erano legati ed interagivano<br />
con un terzo Begriff: il Bund, ovvero il legame con cui si costituisce<br />
la Genossenschaft, l’ “unione di compagni”. Il concetto di Bund, dunque, rende<br />
manifesta <strong>una</strong> prima differenza sostanziale col modello di unificazione italiana.<br />
L’unione dinamica di Staat e Nation in Germania può essere paragonata per opposizione<br />
ad <strong>una</strong> Nationkultur italiana plurisecolare che affrontò notevoli difficoltà<br />
nell’affermazione della Staatsnation.<br />
Un’ulteriore comparazione di notevole utilità ai fini di <strong>una</strong> migliore comprensione<br />
della profonda diversità tra unità tedesca ed unificazione italiana, si<br />
trova dunque sia nel concetto di Nazione, sia nelle differenti esperienze belliche<br />
all’origine dei rispettivi processi di unificazione nazionale.<br />
Sin dall’umanesimo di Ulrich von Hutten (1488–1523) e dalla filosofia politica<br />
della Riforma, a fronte della frantumazione politica del territorio, l’idea di Nazione<br />
venne considerata in Germania come patrimonio dell’intera Genossenschaft,<br />
senza distinzioni in base alla classe cui l’individuo potesse appartenere o in base<br />
allo Stato di cui potesse essere suddito. Questa concezione unitaria dell’idea di Nazione<br />
ebbe la sua massima formalizzazione nell’opera di Johann Gottfried Herder<br />
23
(1744–1803) e nei Reden an die deutsche Nation, pubblicati da Johann Gottlieb<br />
Fichte (1762–1814) nel 1808 durante l’occupazione francese del Regno di Prussia.<br />
In particolare, Herder considerò il sentimento nazionale come vincolo sociale capace<br />
di unificare il Volk – il popolo – e rendeva la Nazione un elemento spontaneo<br />
ed indipendente dalla volontà umana. Questo spirito nazionale che assume<br />
forme di innatismo è fondamentale per la comprensione dell’unità tedesca, poiché<br />
Bismarck lo avrebbe fatto proprio dando prova di acuto realismo. Abbracciando<br />
il progetto della Kleindeutsche Lösung, volto all’unificazione degli Stati tedeschi<br />
settentrionali in <strong>una</strong> confederazione che escludesse l’Austria, Bismarck, pur non<br />
condividendo l’ideale nazionale di matrice liberale, sposava la causa nazionalista<br />
e ne diveniva alfiere. Tale apparente rivolgimento non deve stupire, poiché rappresenta<br />
uno degli esempi classici del realismo che animò l’intera azione politica<br />
del Presidente dei Ministri prussiano. Con l’adesione all’ideale nazionale, infatti,<br />
Bismarck fu capace di fornire <strong>una</strong> solida fonte di legittimazione all’espansione del<br />
Regno di Prussia, presentando questa all’opinione pubblica come realizzazione di<br />
24<br />
Anton von Werner, “La proclamazione<br />
dell’Impero tedesco“ (1877).
un’unità nazionale già presente a livello ideale, così ottenendo il consenso di molti<br />
liberali già contrari al suo governo autoritario.<br />
In Italia, al contrario, l’idea di Nazione fu esclusiva delle élites liberali e il processo<br />
unitario provocò gravi reazioni contrarie all’unificazione, come lo sviluppo<br />
del brigantaggio meridionale e l’opposizione del movimento cattolico conservatore.<br />
Ulteriore differenza essenziale tra Germania ed Italia è riscontrabile nella visione<br />
storiografica e nella mitografia nazionale delle guerre per l’unità. I conflitti<br />
ingaggiati dalla Prussia tra il 1864 ed il 1866, prima a fianco dell’Austria contro la<br />
Danimarca per la questione dei ducati di Schleswig ed Holstein, poi con l’Italia<br />
ed alcuni Stati della Confederazione Tedesca contro l’Austria ed altri Stati del<br />
Deutscher Bund per l’affermazione dell’egemonia prussiana sulla Germania, non<br />
rappresentano campagne di unificazione, ma Einheitskriege, “guerre di unità”<br />
in cui il sentimento nazionale è drammaticamente già ac<strong>qui</strong>sito, tanto da venire<br />
nominate anche Bruderkrieg, ovvero “guerra dei fratelli”.<br />
Non appare questa la sede per approfondire il successo della politica estera<br />
bismarckiana fino alla vittoria sulla Francia nella guerra franco-prussiana del<br />
1870–1871 ed alla proclamazione del Deutsches Reich. Ciò che si ritiene essenziale<br />
rimarcare è il fatto che, nel caso tedesco, la cementazione dello spirito nazionale<br />
precedette le guerre di unificazione prussiane. Il nazionalismo ebbe per Bismarck<br />
<strong>una</strong> funzione esclusivamente strumentale per l’affermazione della potenza prussiana.<br />
Prima che il perfezionamento dell’unità culturale attraverso l’unificazione<br />
politica, l’obiettivo fondamentale delle guerre per l’unità fu l’espansione del<br />
Regno di Prussia ai fini del raggiungimento dell’egemonia in Europa centrale e<br />
dell’inserimento nel gioco delle grandi Potenze su di un piano partecipazione paritaria.<br />
A tale scopo, il nazionalismo venne a costituire per Bismarck niente altro che<br />
<strong>una</strong> risorsa di fondamentale importanza per la creazione del consenso nel compimento<br />
del suo progetto politico basato su di un’unificazione “durch Eisen und<br />
Blut”, ovvero “col ferro e col sangue”, come Bismarck stesso affermò il 30 settembre<br />
1862, innanzi alla Commissione per il Bilancio della Camera dei Deputati del Landtag<br />
prussiano al culmine della crisi istituzionale sull’aumento delle spese militari. I<br />
conflitti combattuti tra il 1864 ed il 1871 costituiscono, dunque, esempi applicativi<br />
della Realpolitik di Bismarck, quello schema analitico introdotto da Ludwig August<br />
von Rochau (1810–1873) nei suoi Grundzüge der Realpolitik (1853). In questo<br />
schema analitico, le guerre sono funzionali all’affermazione dello Stato nazionale<br />
nell’interesse prussiano e, <strong>qui</strong>ndi, tedesco, ancor prima che all’affermazione del<br />
liberalismo e di quell’idea di Nazione che ad esso appartiene. La guerra, in conclusione,<br />
è pura esplicazione della politica di potenza bismarckiana.<br />
25
I liberali prussiani ed il connubio con l’autoritarismo di Bismarck<br />
La comparazione dei processi di unificazione in Italia ed in Germania consente<br />
di porre in evidenza <strong>una</strong> significativa analogia nelle strategie adottate<br />
da Cavour e Bismarck per l’allargamento del consenso ai fini dell’attuazione del<br />
loro programma politico e, specificamente, della risoluzione della questione nazionale.<br />
Mentre il conte liberale inaugurò la politica del connubio con le forze<br />
d’opposizione del Centrosinistra, onde emarginare la destra conservatrice, il principe<br />
conservatore seppe sfruttare le istanze dei Liberalen prussiani per vincere la<br />
loro opposizione alla sua politica autoritaria. A tal scopo, dando ulteriore prova del<br />
proprio realismo, Bismarck fece leva sul pragmatismo dei suoi avversari ed utilizzò<br />
quel sentimento nazionale che costituiva al tempo stesso un principio fondamentale<br />
per i liberali ed uno strumento privo di contenuti ideologici per il Presidente<br />
dei Ministri del Regno di Prussia.<br />
Questa manovra di cooptazione, fu resa più agevole dalle caratteristiche strutturali<br />
del pensiero e della politica liberali come si manifestarono nella Germania<br />
della seconda metà del XIX secolo, in particolare dal forte pragmatismo che animava<br />
i Liberalen. Il liberalismo tedesco, infatti, poneva al centro della sua analisi<br />
politica <strong>una</strong> particolare forma di rapporto tra Stato e società, incardinata nell’idea<br />
di <strong>una</strong> possibile realizzazione del maggiore grado di libertà politica ed economica<br />
per l’individuo anche nel contesto di uno Stato conservatore ed autoritario come<br />
la Prussia degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta del XIX secolo. Ciò è vero<br />
non solo sul piano prettamente filosofico, ma anche su quello più propriamente<br />
26<br />
Vignetta pubblicata il 16 dicembre 1866, pochi mesi dopo la vittoria di<br />
Königgrätz. Bismarck traina i Liberalen prussiani sul carro della vittoria.
politico. Dando prova di abile pragmatismo, i Liberalen intercettarono l’apertura di<br />
Bismarck ed avviarono un avvicinamento al Presidente dei Ministri che culminò<br />
nel sostegno fornito al governo dopo la vittoria nella guerra contro l’Austria nel<br />
1866. Pur di perseguire l’obiettivo della massima realizzazione del principio di libertà<br />
individuale nello “Stato-caserma” prussiano, i liberali giunsero, <strong>qui</strong>ndi, ad<br />
<strong>una</strong> sorta di connubio con il conservatorismo: se appoggiare Bismarck e<strong>qui</strong>valeva<br />
alla rinuncia allo sviluppo delle istituzioni in senso pienamente parlamentare,<br />
in favore di un assetto istituzionale di tipo autoritario al limite dell’assolutismo,<br />
questo era l’unico modo per partecipare in futuro al governo della Germania, in<br />
<strong>una</strong> posizione di forza che rendesse possibile l’avvio di <strong>una</strong> sincera “rivoluzione<br />
liberale” (Cioli 2003).<br />
Dall’apertura alla collaborazione con le forze conservatrici ed autoritarie e<br />
dalla strategia fondata su un approccio pragmatico alla competizione politica,<br />
emerge la specificità dei Liberalen prussiani in confronto ai liberali italiani. Dando<br />
dimostrazione di notevole pragmatismo, stanti l’ac<strong>qui</strong>sizione dell’idea di Nazione<br />
(Kulturnation) e l’obiettivo della costituzione dello Stato Nazionale (Staatsnation),<br />
i Liberalen ed, in particolare, la Nationalliberale Partei fondata nel 1866 – lo<br />
stesso anno della vittoria prussiana a Königgrätz – sarebbero stati fedeli sostenitori<br />
di Bismarck, quale Presidente dei Ministri del Regno di Prussia e Cancelliere<br />
dell’Impero Tedesco, anche a costo di rinunciare a questioni fondamentali del liberalismo.<br />
Tuttavia, il sostegno al Caesarenthum di Bismarck, inteso come forma<br />
moderna del cesarismo (Rusconi 2011) sarebbe stata causa di un grave pregiudizio<br />
sulla Regierungsfähigkeit (“capacità di governare”) dei liberali tedeschi, con drammatiche<br />
conseguenze per la storia della Germania contemporanea.<br />
Bibliografia:<br />
Cioli M., “Forme partitico-organizzative nella Germania di Bismarck. Il pragmatismo<br />
come ideologia del liberalismo tedesco”, in Ricerche di storia politica, n.<br />
1 (2003), pp. 3–33.<br />
Meriggi M., “Liberalismo sociale”, in L’Europa dall’Otto al Novecento, Roma, Carocci,<br />
2006, pp. 89–124.<br />
Rusconi G., Cavour e Bismarck. Due leader fra liberalismo e cesarismo, Bologna, Il<br />
Mulino, 2011.<br />
Schiera P., “Partito-ideologia o partito istituzione? A proposito della ristampa di un<br />
vecchio libro e di un problema che vecchio non è”, in Scienza & politica, n. 2<br />
(1989), pp. 75–88.<br />
27
Religione e politica<br />
negli Stati Uniti<br />
Lucia Ducci<br />
Il posto della religione: comparazione fra Italia e Stati Uniti<br />
Nell’ambito delle ricerche sul tema dell’unità italiana e del parallelo processo di<br />
costruzione della nazione statunitense, un ruolo di particolare importanza è<br />
quello ricoperto dalla variabile religiosa. Sebbene, infatti, si sia fatto spesso riferimento<br />
agli Stati Uniti come a <strong>una</strong> nazione laica, è da rilevare la presenza di un forte<br />
spirito religioso che ha influenzato decisamente la storia e la costituzione materiale<br />
del paese d’oltreoceano.<br />
La stessa idea di missione sulla quale gli Stati Uniti hanno basato la loro politica<br />
estera, ritenendosi <strong>una</strong> sorta di popolo eletto investito da Dio della funzione di diffondere<br />
le proprie istituzioni nel resto del mondo, è un fenomeno di lunghissimo<br />
periodo che affonda le proprie radici in A Model of Christian Charity, il sermone<br />
pronunciato dal leader puritano John Winthrop prima di sbarcare dall’Arbella sulla<br />
costa del Massachusetts nel 1630, e passa attraverso il Manifest Destiny di John<br />
O’Sullivan nel 1845.<br />
La retorica biblica è stata pienamente inserita nel linguaggio politico e i principi<br />
evangelici hanno ispirano la base ideologica della politica, tal<strong>volta</strong> fondendo<br />
il rapporto tra religione e democrazia in un unico tòpos. I valori religiosi sono<br />
<strong>una</strong> parte estremamente importante della vita degli statunitensi, non solo nella<br />
dimensione personale ma anche nella sfera politica e sociale, come dimostrato<br />
dall’inserimento del primo emendamento della Costituzione che sancisce la libertà<br />
di religione.<br />
Tuttavia, il divieto di istituire <strong>una</strong> religione di Stato fu inizialmente limitata al<br />
Congresso e, indirettamente, all’esecutivo federale. Al momento della ratifica del<br />
primo emendamento, quattro Stati vietavano ai non protestanti di ricoprire cariche<br />
pubbliche e la Chiesa congregazionale del Massachusetts vide abolito il suo<br />
ruolo di Chiesa di Stato soltanto nel 1833. Solo con la sentenza Everson v. Board<br />
of Education del 1947 la Corte Suprema stabilì che anche i singoli Stati dovessero<br />
restare neutrali rispetto alle singole religioni e confessioni.<br />
Sin dalla formazione della repubblica americana, molti intellettuali e rappresentanti<br />
politici considerarono fondamentale promuovere un’identità culturale<br />
che facesse perno intorno al tema della religione. Thomas Jefferson, in particolare,<br />
sostenne l’idea che le differenze religiose dovesser essere salvaguardate. Fin<br />
da allora, la religione fu considerata un diritto personale del singolo cittadino e il<br />
28
Congresso non poté emanare nessun atto che negasse la libera espressione di <strong>una</strong><br />
confessione (vedi il Virginian Act of Religious Freedom); di conseguenza, parallelamente<br />
ai vari flussi migratori sorsero sul territorio americano diversi gruppi religiosi,<br />
liberamente organizzati, in quanto considerati come associazioni private,<br />
all’interno della società civile.<br />
All’inizio dell’Ottocento, si attraversò <strong>una</strong> fase molto importante per la storia<br />
religiosa degli Stati Uniti, il cosiddetto “Secondo Grande Risveglio” (il primo era<br />
avvenuto nel secolo precedente), ovvero un vasto fenomeno di revival religioso,<br />
che si manifestò soprattutto nella zona “di frontiera”, definita da Frederick Jackson<br />
Turner come la linea di demarcazione tra la civilization e la savagery, cioè il limite,<br />
sempre in movimento verso occidente, della progressiva colonizzazione americana<br />
del “West”.<br />
Negli anni che precedettero lo scoppio della guerra civile americana,<br />
l’attenzione della stampa (vedi giornalisti come Margaret Fuller) e degli intellettuali<br />
statunitensi per l’elezione di Pio IX al soglio pontificio nell’estate del 1846 mise in<br />
luce non solo le aspettative legate alla speranza per <strong>una</strong> s<strong>volta</strong> riformista nella politica<br />
del papato, ma tal<strong>volta</strong> anche la sottile intenzione di distrarre l’opinione pubblica<br />
dalle crescenti tensioni che avrebbero<br />
condotto al sanguinoso conflitto<br />
tra Nord e Sud.<br />
Gli Stati Uniti, a differenza dell’Italia,<br />
non siglarono mai un concordato con il<br />
Vaticano. Tuttavia le relazioni consolari<br />
con lo Stato pontificio furono stabilite<br />
nel 1797 e le relazioni diplomatiche<br />
propriamente dette furono intraprese<br />
a partire dal 1848, ma nel 1867 il Congresso<br />
cancellò i fondi per la legazione<br />
di Roma e, di fatto, la rappresentanza<br />
statunitense presso lo Stato pontificio<br />
chiuse. Nel corso del Novecento alcuni<br />
presidenti nominarono un proprio rappresentante<br />
personale presso il pontefice,<br />
ma formalmente non si trattava di<br />
un rappresentante dello Stato federale e,<br />
<strong>qui</strong>ndi, non si poteva parlare di ripresa<br />
delle relazioni diplomatiche. Il più noto<br />
diplomatico fu Myron Charles Taylor<br />
per Franklin D. Roosevelt e Harry Truman.<br />
Le relazioni diplomatiche formali<br />
29<br />
Ritratto di John Winthrop, primo<br />
governatore del Massachusetts.
tra gli Stati Uniti e il Vaticano furono ristabilite solo nel 1984 sotto la presidenza<br />
Reagan. Il primo ambasciatore fu Wilson A. Wilson.<br />
La questione religiosa e il rapporto tra politica e Vaticano in Italia sono sempre<br />
stati ben più complessi. La necessità di limitare il potere della Chiesa alla sfera spirituale<br />
si manifestò in occasione della proclamazione del Regno d’Italia nel 1861,<br />
quando Cavour, nel suo primo intervento in parlamento, riprese la frase di Montalembert,<br />
“libera chiesa in libero stato”. Il controverso rapporto tra religione e potere<br />
caratterizzò tutto il secolo e vani furono i tentativi di trovare <strong>una</strong> soluzione: la legge<br />
sulle guarentigie nel 1871 venne considerata dalla Santa Sede un atto unilaterale<br />
e, come reazione, nel 1874 la Chiesa vietò esplicitamente ai cattolici di partecipare<br />
attivamente alla vita politica con il “non expedit”. La Rerum Novarum, l’enciclica<br />
promulgata dal papa Leone XIII nel 1891, rappresentò un debole passo in avanti<br />
nel processo di modernizzazione del rapporto tra religione e politica: per la prima<br />
<strong>volta</strong> la Chiesa cattolica prese posizione in ordine alle questioni sociali e fondò la<br />
moderna dottrina sociale cristiana. L’enciclica esprimeva <strong>una</strong> condanna nei confronti<br />
del socialismo, della teoria della lotta di classe, della massoneria, preferendo<br />
che la questione sociale venisse risolta dall’azione combinata della Chiesa e dello<br />
Stato.<br />
Pubblicità di un programma televisivo<br />
condotto dal pastore Billy Graham (1986).<br />
Evoluzionismo e coscienza nazionale<br />
La pubblicazione del libro di Charles<br />
Darwin L’evoluzione della specie<br />
nel 1859 comportò uno sconvolgimento<br />
profondo del rapporto tra scienza e religione.<br />
Non si poteva più credere in Dio<br />
tramite la scienza e si avviò così il processo<br />
di secolarizzazione della società<br />
americana, dal quale prese forma l’annosa<br />
questione della laicità dell’insegnamento<br />
nelle scuole pubbliche e il problema dei<br />
finanziamenti alle scuole confessionali.<br />
Fu <strong>una</strong> materia soprattutto di ordine<br />
giudiziario, segnata da alcune sentenze<br />
della Corte Suprema come Engel v. Vitale<br />
(1962) sull’incostituzionalità della<br />
recita di <strong>una</strong> preghiera all’inizio di ogni<br />
giorno nelle scuole pubbliche e Wallace<br />
v. Jaffree (1985) sull’incostituzionalità di<br />
riservare per legge un minuto di silenzio<br />
alla meditazione o alla preghiera volon-<br />
30
taria in apertura delle lezioni. Tuttavia sussistevano degli aspetti di rimando alla religione,<br />
come quelli che costituirono il “darwinismo sociale” e il “gospel of wealth”<br />
con cui si sostenne l’esistenza di <strong>una</strong> ristretta élite e di un proletariato subordinato,<br />
come struttura necessaria al progresso della società. Senza dubbio l’applicazione<br />
dell’evoluzionismo allo studio delle scienze umane produsse negli Stati Uniti un<br />
acceleramento del processo di modernizzazione anche in senso capitalistico.<br />
Il caso dell’Italia è tutto sommato meno eclatante, anche se è indubbio che<br />
positivismo ed evoluzionismo abbiano giocato un ruolo importante nella modernizzazione<br />
della cultura italiana postunitaria.<br />
L’importanza della religione si manifesta nel Novecento, quando John Scopes,<br />
un giovane insegnante, è processato e condannato per violazione del Butler Act<br />
dello Stato del Tennessee, che proibiva di insegnare la Teoria dell’evoluzione nelle<br />
scuole del Tennessee. La lotta fra creazionisti ed evoluzionisti negli Stati Uniti continua<br />
ancora adesso con sporadici scontri. Va ricordato che solo nel 1957, a causa<br />
della forte sensazione di essere in ritardo in campo scientifico, un testo comprendente<br />
la teoria di Darwin venne distribuito in parte dei distretti scolastici statunitensi,<br />
nonostante la forte avversità dei cristiani più conservatori. Lo stesso Butler<br />
Act venne abrogato solo nel 1967.<br />
Come avvenuto in Italia in riferimento al liberalismo, negli Stati Uniti l’ateismo<br />
è sempre stato visto come uno dei peggiori nemici della società americana.<br />
Quest’ultima rimane ancora oggi fortemente pervasa dalla componente religiosa,<br />
che si declina prevalentemente in numerose confessioni cristiane – soprattutto<br />
cattoliche e protestanti. Per diffusione sociale la prima delle confessioni religiose<br />
è sicuramente quella protestante, al cui interno si distinguono le chiese di tradizione<br />
calvinista-riformata – presbiteriana, congregazionista e battista – e quelle<br />
che rappresentano invece la versione americana dell’anglicanesimo, come gli<br />
episcopali, che raccolgono solitamente i membri dei ceti sociali medio alti. Nelle<br />
sue due ramificazioni la confessione protestante gode generalmente di <strong>una</strong> consistente<br />
fort<strong>una</strong> tra i giovani, attirati dall’etica liberale che la caratterizza, dalle posizioni<br />
progressiste nell’abito delle riforme sociali, nonché dagli sforzi compiuti<br />
nella direzione di <strong>una</strong> maggiore integrazione razziale. La seconda confessione più<br />
seguita è quella cristiano-cattolica che balza, però, al primo posto nella classifica<br />
delle singole chiese più diffuse sul territorio. Il motivo di questa preminenza va<br />
ovviamente ricercato nell’immigrazione ispanica, che, dagli anni ’80 ad oggi ha<br />
registrato un fortissimo incremento. Non bisogna infine dimenticare la presenza<br />
di <strong>una</strong> comunità ebraica diffusa in particolare sulle due coste oceaniche, e la<br />
cui roccaforte è rappresentata dallo Stato di New York. Alle confessioni religiose<br />
tradizionali si sono poi più recentemente affiancate le cosiddette megachurches,<br />
chiese non-denominazionali di notevoli dimensioni.<br />
Negli ultimi decenni le confessioni religiose hanno trovato nuovi canali di<br />
31
evangelizzazione sia nei mezzi di comunicazione di massa, sia nella rete telematica.<br />
Quest’opera di proselitismo mediatico si è <strong>qui</strong>ndi concretizzata nella fondazione<br />
di TV e web churches, che hanno portato alla ribalta i cosiddetti telepredicatori.<br />
Alcuni di loro, come gli esponenti della Destra cristiana Billy Graham, Pat Robertson<br />
e Jerry Falwell, sono rimasti nella storia per aver dato un grande apporto alla<br />
vittoria di Ronald Reagan nelle elezioni presidenziali del 1980 e del 1984. Il loro apporto<br />
è stato fondamentale anche per mobilitare a favore del partito repubblicano<br />
un bacino di elettori tendenti all’astensionismo nelle elezioni di mid-term del 1994<br />
e in quelle presidenziali del 2000 e 2004, che hanno visto la vittoria consecutiva di<br />
George W. Bush.<br />
Oltre alla comunicazione catodica e telematica, la dimensione religiosa ha<br />
trovato un’ulteriore mezzo di espressione nella letteratura, e questo fenomeno si<br />
pone come ulteriore conferma dell’importanza della religione nell’immaginario<br />
collettivo americano. Negli ultimi anni la religione è diventata addirittura oggetto<br />
di romanzi di fantascienza, fra i quali spicca Left Behind, un’opera di grande successo<br />
scritta da Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins. Basata sull’interpretazione della<br />
Bibbia e, in particolare, delle scritture dei profeti Giovanni, Ezechiele e Daniele in<br />
chiave apocalittica, questa serie indaga la contrapposizione tra conservatori credenti<br />
e progressisti laici, considerata come uno dei principali fattori di divisione<br />
della società statunitense a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Alcuni<br />
dati statistici sulla rilevanza della religione nella vita degli statunitensi riportano<br />
che: l’83% di essi non sono atei, il 59% prega almeno <strong>una</strong> <strong>volta</strong> alla settimana, il<br />
40% partecipa a cerimonie religiose in un luogo di culto almeno <strong>una</strong> <strong>volta</strong> alla settimana.<br />
Inoltre, il 38% degli statunitensi è attivo in un’organizzazione religiosa rispetto<br />
ad appena il 9% degli italiani. Secondo lo studio recente di Robert D. Putnam<br />
e David E. Campbell, gli Stati Uniti sono il paese industrializzato con il più forte<br />
sentimento religioso nella popolazione.<br />
Bibliografia:<br />
Antonelli S., Fiorentino D., Monsagrati G. (a cura di), Gli americani e la Repubblica<br />
romana del 1849, Roma, Gangemi Editore, 2000.<br />
Bonazzi T., “Guerra! Religione e nazione nell’America contemporanea”, in R. Baritono<br />
e E. Vezzosi (a cura di), Oltre il secolo americano? Gli Stati Uniti prima e<br />
dopo l’11 settembre, Roma, Carocci, 2011, pp. 59–73.<br />
D’Agostino P., Rome in America, Transnational catholic ideology from the Risorgimento<br />
to fascism, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2004.<br />
Putnam R. D., Campbell D. E., American grace. How religion divides and unites us,<br />
New York, Simon and Schuster, 2011.<br />
32
La questione sociale e lo<br />
scontro di classe:<br />
Un confronto tra Italia e Stati Uniti<br />
d’America<br />
Francesco Condoluci, Francesca Ghezzi<br />
Scatenata dalla Seconda Rivoluzione Industriale, la questione sociale esplose<br />
con forza nel corso degli anni Ottanta del XIX secolo in Europa così come in<br />
America. Si trattò di un fenomeno estremamente complesso, che assunse dimensioni<br />
e forme differenti nelle diverse nazioni in fase di industrializzazione. La questione<br />
sociale racchiudeva in sé moltissime problematiche che colpivano la grande<br />
massa delle classi lavoratrici, come la povertà, le dure condizioni di lavoro nelle<br />
fabbriche e nelle campagne, le precarie condizioni di igiene e di salute, la mortalità<br />
infantile, la crescente immigrazione. La povertà e il degrado in cui versava la<br />
grande maggioranza delle classi lavoratrici erano in contraddizione con la crescita<br />
economica favorita dall’industrializzazione e si tradussero in <strong>una</strong> decisa ondata di<br />
rivendicazioni sociali, duramente represse dalle autorità. Dopo le prime reazioni di<br />
forza nel lungo periodo i governi furono indotti a introdurre alcuni provvedimenti<br />
al fine di contenere il malessere dei lavoratori.<br />
La questione sociale riguardò tanto l’Italia quanto gli Stati Uniti d’America ma<br />
con differenze molto significative sia circa la portata e i tempi del processo di industrializzazione,<br />
sia circa la natura del movimento operaio e le tipologie di intervento<br />
sociale intraprese dai due paesi.<br />
La questione sociale in Italia<br />
Nel neonato Regno d’Italia la “questione sociale” emerse con particolare vigore<br />
tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, quando alcune inchieste misero<br />
in luce l’esistenza di scenari di povertà e arretratezza particolarmente gravi, specie<br />
nel Sud della penisola. Le prime indagini – come, ad esempio, l’Inchiesta in<br />
Sicilia di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti del 1876 – riguardarono lo stato<br />
dell’industria nazionale e del Mezzogiorno. Gradualmente, il campo d’osservazione<br />
venne esteso anche alle precarie condizioni igienico-sanitarie in cui versava gran<br />
parte della popolazione e alla complessa condizione agraria del paese, trattata diffusamente<br />
dalla cosiddetta Inchiesta Jacini, elaborata da un’apposita commissione<br />
parlamentare tra il 1878 e il 1886. Le crisi economiche depressive che colpirono<br />
33
il paese nell’ultimo ventennio dell’Ottocento favorirono inoltre il diverso sviluppo<br />
del Sud e del Nord della penisola: mentre nel primo imperversava la crisi agraria,<br />
il secondo vedeva la nascita di grandi industrie siderurgiche e meccaniche (ad<br />
esempio la Fiat, nel 1899) e dunque l’affermarsi di nuove tecnologie, nuovi beni di<br />
consumo e <strong>una</strong> più moderna organizzazione del lavoro. Considerate le molteplici<br />
problematiche del caso italiano sarebbe pertanto più corretto parlare di “questioni<br />
sociali”, alle quali nel corso degli anni vennero date di fatto risposte differenziate.<br />
Inizialmente la classe dirigente del paese si dimostrò indifferente nei confronti<br />
del malessere diffuso fra i lavoratori, la cui componente operaia era peraltro in<br />
costante aumento. Di fronte alla mancanza di appoggio istituzionale sorsero due<br />
movimenti di opposta matrice: quello cattolico, tradizionalmente radicato nella<br />
società italiana, e quello nascente operaio e socialista, espressione della modernità<br />
industriale. L’impegno sociale del movimento cattolico si espresse per lo più in<br />
forme paternalistiche di assistenza e carità, elargite nei numerosi istituti religiosi<br />
diffusi nella penisola, fino a quando, nel 1891, l’enciclica Rerum Novarum di Leone<br />
XIII pose le basi per <strong>una</strong> nuova dottrina sociale della Chiesa. Il documento si opponeva<br />
allo sfruttamento capitalistico dei lavoratori, promuovendo <strong>una</strong> conciliazione<br />
tra dipendenti e padroni, e contrapponeva al “falso rimedio” del socialismo<br />
e della lotta di classe lo sviluppo delle associazioni popolari cattoliche. Anche il<br />
movimento operaio si prodigò in iniziative solidaristico-assistenziali tra e per i<br />
lavoratori, come testimonia la rapidissima diffusione, in questi anni, delle Società<br />
Operaie di Mutuo Soccorso. Questo movimento, però, agì anche in campo più<br />
strettamente politico, abbracciando l’ideologia socialista ancor prima del raggiungimento<br />
di <strong>una</strong> piena industrializzazione della penisola, della nascita di un vero<br />
34<br />
Giuseppe Pellizza da Volpedo,<br />
“Il quarto stato“ (1901).
e proprio sistema capitalista e del corrispettivo proletariato industriale (gli operai<br />
italiani della seconda metà del secolo, infatti, spesso alternavano il lavoro in fabbrica<br />
a quello nelle campagne). Quest’anomalia spiega perché il movimento operaio<br />
in Italia assunse delle forme anarchiche molto più frequentemente che in altri<br />
paesi occidentali: mancando solide e mature basi alla coscienza di classe, esso era<br />
più soggetto a derive di questo tipo.<br />
Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento ebbero così luogo le prime agitazioni importanti<br />
dei lavoratori agricoli e industriali. Fra questi ultimi si possono ricordare,<br />
ad esempio, i moti bracciantili in Val Padana, Lombardia e Piemonte, legati alle<br />
conseguenze dell’industrializzazione dell’agricoltura e le Leghe di Resistenza di<br />
Milano, dalle quali nel 1882 nacque il Partito Operaio Italiano. In questi anni lo<br />
sciopero si affermò come un nuovo strumento di protesta di massa, come nel caso<br />
dei Fasci Siciliani (1892–1894) che, seppur duramente repressi, rappresentarono<br />
l’emblema di un violento conflitto sociale ormai incanalatosi nella moderna forma<br />
della lotta sindacale. Tale lotta si sostitutiva dunque al ribellismo spontaneo ed era<br />
indicativa di uno scenario politico in trasformazione, dovuto proprio all’imporsi<br />
della classe operaia, un attore di cui era ormai impossibile non tenere conto. Tra i<br />
lavoratori si fece infatti progressivamente strada la necessità di eleggere rappresentanti<br />
politici capaci di farsi interpreti delle loro istanze. Il Partito Operaio Italiano<br />
iniziò pertanto un cammino di maturazione verso la <strong>una</strong> forma di partito<br />
moderna, che lo portò a ridefinirsi, in un primo tempo, come Partito dei Lavoratori<br />
Italiani (1891) e, infine, con <strong>una</strong> definitiva scelta ideologica, Partito Socialista Italiano<br />
(1892).<br />
Per ciò che concerne le risposte date dal governo italiano ai problemi delle<br />
Bambina al lavoro in un’industria<br />
tessile a Newberry, SC (1908).<br />
35
masse operaie, la rotta fu invertita solo dopo un ventennio di sostanziale indifferenza<br />
attraverso <strong>una</strong> serie di interventi di previdenza sociale, pur scarsamente<br />
coor dinati. Ne sono un esempio l’istituzione della Cassa Nazionale Previdenziale<br />
per gli Invalidi e gli Anziani (1898), quella dell’Ufficio del Lavoro e la Legge sul<br />
Lavoro dei Fanciulli e delle Donne (1902). Fu però in età giolittiana che vennero<br />
create delle strutture statali che, nonostante l’arretratezza generale del paese, erano<br />
basate su criteri moderni di assistenza previdenziale e che provvidero a scalzare<br />
progressivamente il ruolo centrale sino ad allora rivestito dagli istituti religiosi.<br />
La questione sociale negli Stati Uniti.<br />
Con la fine della guerra civile, gli Stati Uniti vissero un imponente e rapidissimo<br />
processo di industrializzazione, che tra il 1860 e il 1900 trasformò il paese nella<br />
prima potenza industriale del mondo. Gli anni chiave di questo processo, soprattutto<br />
dal punto di vista della questione sociale, furono quelli della cosiddetta Gilde d<br />
Age (l’Età dorata), in particolare il ventennio compreso tra il 1870 e il 1890, anno<br />
in cui la produzione industriale assunse il primato su quella agricola. La Gilded<br />
Age fu un’epoca di profonda e rapida trasformazione della società americana, nel<br />
corso della quale, insieme alla grande crescita produttiva, importanti innovazioni<br />
sul piano tecnologico rivoluzionarono il mondo dell’industria, dei trasporti, delle<br />
comunicazioni e della vita quotidiana.<br />
L’impatto dell’industrializzazione sul tessuto economico e sociale americano<br />
fu però traumatico e diede vita a <strong>una</strong> grande polarizzazione sociale, dovuta alla distribuzione<br />
fortemente s<strong>qui</strong>librata della ricchezza. Da un lato, si affermavano vere<br />
e proprie oligarchie industriali e finanziarie e si consolidavano grandi patrimoni:<br />
basti pensare alle enormi fortune accumulate dai magnati dell’industria Andrew<br />
Carnegie e John D. Rockefeller (che attraverso la Carnegie Company e la Standard<br />
Oil Company of Ohio controllavano rispettivamente la produzione dell’acciaio e la<br />
raffinazione del petrolio), dai proprietari delle grandi compagnie ferroviarie (come<br />
i cosiddetti “baroni delle ferrovie” Jay Gould e Cornelius Vanderbilt), o dal “re delle<br />
banche” John P. Morgan, che dominava il mondo della finanza. Dall’altro lato,<br />
l’enorme maggioranza delle classi lavoratrici viveva in <strong>una</strong> condizione di povertà<br />
e sfruttamento e doveva confrontarsi con diversi problemi, tra cui la costante<br />
corsa al ribasso dei salari (dovuta alla grande disponibilità di manodopera a basso<br />
costo resa disponibile dall’immigrazione), la lunga durata delle giornate lavorative,<br />
la pericolosità e l’insalubrità dei luoghi di lavoro, oltre alle conseguenze più<br />
deteriori della massiccia urbanizzazione, quali la nascita nelle città dei cosiddetti<br />
slums, quartieri poverissimi abitati da <strong>una</strong> grande massa di operai e immigrati. Vi<br />
era inoltre <strong>una</strong> situazione di diffusa povertà tra i lavoratori delle campagne, dovuta<br />
all’ampliarsi del divario tra la scarsa crescita dell’agricoltura e quella dell’industria.<br />
Il costo sociale dell’industrializzazione fu <strong>qui</strong>ndi enorme e diede vita a nume-<br />
36
osissime agitazioni operaie e contadine – in alcuni casi eccezionalmente aspre –<br />
che, come in Europa, incontrarono <strong>una</strong> dura risposta da parte delle autorità e che si<br />
risolsero spesso in scontri violenti e sanguinosi. Il movimento operaio americano<br />
conobbe un momento di estrema difficoltà nel 1886 in seguito ai fatti di Haymarket<br />
Square a Chicago, in cui durante un affollato comizio tenuto dagli anarchici scoppiarono<br />
violenti scontri che provocarono la morte di undici persone. L’episodio –<br />
che testimoniava la gravità e la radicalità dello scontro in atto – fu utilizzato dalle<br />
autorità per rafforzare la repressione nei confronti dell’attività dei sindacati e dei<br />
movimenti operai, che si ritrovarono così in <strong>una</strong> condizione di grave fragilità nei<br />
confronti degli apparati repressivi e dell’opinione pubblica.<br />
Rispetto a quello europeo e italiano il movimento operaio americano presentava<br />
importanti peculiarità. In primo luogo era espressione di <strong>una</strong> classe operaia<br />
multietnica nata dalle successive ondate migratorie conosciute dagli Stati Uniti,<br />
dove nel corso dei cinquantanni successivi alla guerra di secessione affluirono oltre<br />
26 milioni di persone, provenienti in <strong>una</strong> prima fase soprattutto dall’Europa nordoccidentale<br />
(fino a verso il 1880) e in seguito dall’Europa sudorientale (nel periodo<br />
compreso tra il 1880 e il 1914). In secondo luogo, nel suo complesso il movimento<br />
operaio americano non si diede <strong>una</strong> identità socialista. Benché gli immigrati europei<br />
portassero spesso con sé un bagaglio di ideali politici e sociali (di ispirazione<br />
marxista, anarchica o anarchico-sindacalista), così come di memorie e pratiche di<br />
lotta sperimentate nei propri paesi d’origine, il movimento operaio americano non<br />
si affiliò mai in massa al Socialist Party of America. Allo stesso modo i principali<br />
sindacati americani di quell’epoca, gli Knights of Labor e l’American Federation<br />
of Labor, non si rifacevano all’ideologia socialista e, come nel caso dell’American<br />
Federation of Labor, erano contrari alla sua diffusione all’interno del movimento<br />
operaio.<br />
Anche sul piano alle risposte date alla questione sociale il governo degli Stati<br />
Uniti agì in modo molto diverso rispetto a quello italiano e ai governi europei in<br />
generale. L’amministrazione federale non elaborò infatti alc<strong>una</strong> misura simile agli<br />
interventi di previdenza sociale introdotti in quegli stessi anni in Italia o nelle altre<br />
nazioni europee (si pensi, ad esempio, all’assicurazione obbligatoria per i lavoratori<br />
istituita nella Germania di Bismarck). L’introduzione di eventuali politiche di tipo<br />
assistenziale venne piuttosto delegata ai singoli Stati dell’Unione, i quali godevano<br />
di autonomia decisionale in materia, anche per ciò che riguardava i soggetti destinatari<br />
dei provvedimenti di tutela e i criteri d’assegnazione. Negli Stati del Sud, per<br />
esempio, l’assegnazione dei sussidi seguì forti criteri razziali, con la conseguente<br />
esclusione di uomini e donne afroamericane dalle politiche sociali.<br />
Un’altra peculiarità del caso americano fu l’emergere, tra le misure elaborate a<br />
livello statuale in questo periodo, di due diversi canali di welfare, basati sulla differenza<br />
di genere. Il primo canale, di tipo previdenziale, era dedicato ai maschi<br />
37
lavoratori e consisteva in forme di assicurazione e indennità per gli incidenti sul<br />
lavoro. Il secondo, di carattere assistenziale, era rivolto invece alle donne e consisteva<br />
in pensioni destinate alle madri povere. Occorre rimarcare come questa<br />
seconda forma di intervento riguardasse le donne esclusivamente in quanto madri,<br />
mentre non esisteva alc<strong>una</strong> forma di aiuto per le donne lavoratrici (come il congedo<br />
di maternità). Si può parlare, in questo caso, di un welfare state di stampo maternalista:<br />
poiché si vedeva nella maternità <strong>una</strong> funzione sociale, si riteneva che<br />
la donna potesse essere portatrice di diritti sociali solo in quanto madre e non in<br />
quanto lavoratrice. Questo aspetto costituisce <strong>una</strong> significativa differenza rispetto<br />
all’Italia, dove a inizio Novecento venne introdotto il congedo durante il puerperio<br />
e si costituì <strong>una</strong> Cassa di maternità.<br />
Conclusione<br />
In conclusione, si può <strong>qui</strong>ndi notare come, a differenza dell’Italia, negli Stati Uniti<br />
la questione sociale non si accompagnò alla diffusione dell’ideologia socialista<br />
tra le classi lavoratrici. Inoltre, lasciando ampia discrezionalità in materia ai<br />
singoli stati, il governo federale non promosse politiche sociali universalistiche,<br />
ma fortemente settoriali, che non tutelavano alcune fasce della popolazione (come<br />
gli afroamericani) e prevedevano canali di intervento diversi per gli uomini e per<br />
le donne. Il caso dell’Italia fu invece diverso, poiché, fra la fine dell’Ottocento e i<br />
primi del Novecento, vide affermare un ruolo decisamente più forte dello Stato<br />
centrale nelle politiche sociali. Quello italiano fu un sistema in cui, parallelamente<br />
all’azione governativa, sia le Società di Operaie di Mutuo Soccorso sia gli enti religiosi<br />
si prodigarono in interventi di solidarietà e assistenza.<br />
Bibliografia:<br />
Guglielmo, J., “Transnational feminism’s radical past. Lessons from Italian immigrant<br />
women anarchists in industrializing America”, in Journal of women’s<br />
history, vol. 22, n. 1, 2010, pp. 10–33.<br />
Procacci G., “Le politiche di intervento sociale in Italia tra fine Ottocento e Prima<br />
guerra mondiale. Alcune osservazioni comparative”, in Economia & lavoro,<br />
XLII (2008), n. 1, pp. 17–43.<br />
Salvadori M. L., L’Europa degli americani. Dai padri fondatori a Roosevelt, Roma-<br />
Bari, Laterza, 2005, pp. 262–266.<br />
38
Le declinazioni del<br />
liberalismo.<br />
I movimenti liberali<br />
nell’esperienza italiana,<br />
tedesca e statunitense<br />
Chiara Corazziari<br />
Per <strong>una</strong> definizione di liberalismo<br />
Nonostante sia difficile arrivare ad <strong>una</strong> definizione univoca di liberalismo, tra<br />
la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento si può osservare la presenza di<br />
<strong>una</strong> costellazione ideale comune all’esperienza europea e statunitense che ha il<br />
suo bacino di incubazione tra il 1776 e il 1789. Concretamente, nella sua declinazione<br />
politico-istituzionale, la dottrina liberale ridefinisce i rapporti tra sfera pubblica<br />
e privata promuovendo principalmente la protezione di alcuni diritti fondamentali<br />
dell’individuo dall’ingerenza dello stato (rappresentanza, voto, habeas<br />
corpus, proprietà, libertà d’espressione).<br />
Il modo in cui il liberalismo si è declinato nei diversi paesi ha avuto un ruolo<br />
determinante sul processo di unificazione nazionale. In particolare, la storia del<br />
liberalismo in rapporto con l’idea di costruzione nazionale si sviluppa in due fasi<br />
temporalmente distinte: la prima nel periodo 1846–1861 e la seconda fra il 1861 e<br />
il 1880.<br />
Il periodo 1846–61 fu caratterizzato da un confronto/dialogo transnazionale<br />
tra i movimenti liberali (es.: Giovine Italia e Giovine Europa mazziniana) che servì<br />
per giungere ad <strong>una</strong> concettualizzazione del liberalismo. In questa prima fase prevalse<br />
l’elaborazione teorica e i confini territoriali non imbrigliarono il liberalismo<br />
in definizioni prettamente nazionali. Tra il 1861 e il 1880 avvenne quella che può<br />
essere chiamata la “nazionalizzazione del liberalismo”, ovvero il liberalismo venne<br />
modellato all’interno della nazione e in funzione di essa. Si ottennero così diverse<br />
declinazioni del liberalismo.<br />
Sia come concetto universalmente valido, sia nelle sue diverse sfaccettature in<br />
relazione all’idea di nazione e allo sviluppo del nazionalismo, l’idea di liberalismo<br />
può pertanto essere utilizzata quale strumento di analisi comparata per esaminare<br />
alcuni aspetti dei processi di unificazione italiana, tedesca e statunitense.<br />
39
Liberalismo e formazione nazionale<br />
Il liberalismo si sviluppa dunque in modi diversi a seconda del contesto storico<br />
politico. In un’ottica comparativa Jörn Leonard traccia <strong>una</strong> prima demarcazione,<br />
seppur non immune a critiche, tra il mondo continentale europeo e quello<br />
statunitense. In particolare, sarebbero tre gli elementi di base che avrebbero influenzano<br />
e condizionato l’emergere dei movimenti liberali e reso, di conseguenza,<br />
profondamente diversi i processi di unificazione dei paesi europei dagli USA: le<br />
condizioni politiche, il processo di nation-building e la ricezione dei principi liberali<br />
nelle istituzioni statuali.<br />
Per ciò che riguarda il primo punto, e cioè l’influsso esercitato dalle condizioni<br />
politiche sui movimenti liberali, si può riscontrare <strong>una</strong> notevole differenza tra<br />
le due sponde dell’Atlantico. Guardando ad Italia e Germania si può notare che,<br />
nel periodo considerato, ovvero il diciannovesimo secolo, i due stati furono caratterizzati<br />
dalla presenza di <strong>una</strong> consistente frammentazione politico-istituzionale.<br />
Sia nella penisola italiana – data la compresenza dello stato pontificio, dello stato<br />
sabaudo e dell’occupazione austriaca – sia nella Federazione tedesca, si assisteva<br />
infatti alla compresenza di molteplici autorità sovrane sul territorio. Inoltre, in entrambi<br />
i casi, l’occupazione napoleonica aveva lasciato <strong>una</strong> pesante e ambivalente<br />
eredità, spingendo verso la centralizzazione ai danni però della nazionalizzazione.<br />
In entrambi i paesi europei non vi era inoltre alcun quadro istituzionale di riferimento<br />
che potesse costituire la base per <strong>una</strong> struttura statale unitaria. Una <strong>volta</strong><br />
unificato il territorio, questi aspetti portarono i riformatori liberali a concentrarsi<br />
sui fondamenti costituzionali e sull’organizzazione burocratica dello stato.<br />
Il caso statunitense si diversifica notevolmente da quello italiano e tedesco.<br />
Negli Stati Uniti, infatti, la nascita dello stato e la stesura del testo costituzionale<br />
precedettero la formazione nazionale, il processo di nation-building. Non avendo<br />
inoltre sperimentato forme di ancien régime 1 non svilupparono le ideologie derivanti,<br />
dal conservatorismo al socialismo. Il quadro liberale di riferimento negli<br />
USA poggiava <strong>qui</strong>ndi principalmente su <strong>una</strong> forte base teorica, e si richiamava<br />
tanto ai concetti del self-rule e di responsabilità individuale quanto al modello repubblicano<br />
jeffersoniano.<br />
Un ulteriore elemento determinante per lo sviluppo dei movimenti liberali<br />
italo-tedeschi e statunitensi riguarda l’interazione tra i movimenti liberali ed il<br />
processo di nation-building. In Italia e in Germania il movimento liberale si fece<br />
promotore dell’idea di nazione connessa al progresso storico (ben individuabile<br />
nella filosofia di Hegel che vede nello stato la realizzazione dello spirito della storia).<br />
Già sul finire dell’Ottocento, però, si assistette al fallimento della costruzione<br />
dello stato dal basso (esemplificato dall’alleanza dei liberali in Italia e in Germania<br />
rispettivamente con Cavour, Garibaldi e Bismarck) con il risultato che l’apparente<br />
compimento ideale liberale nell’unificazione nazionale del decennio 1860–70<br />
40
venne mandato in frantumi. Una <strong>volta</strong> compiuto il processo di formazione nazionale,<br />
la nazione, fino ad allora elemento unificante del liberalismo, finì per sfidare<br />
e sfinire le stesse con<strong>qui</strong>ste liberali, un fenomeno che si manifestò sia Germania,<br />
sia in Italia.<br />
Con particolare riferimento al caso italiano è stato acutamente sottolineato<br />
che in questo contesto il movimento liberale può essere inquadrato all’interno dei<br />
sommovimenti seguiti alla rivoluzione francese e al periodo napoleonico e può<br />
essere ascritto all’interno di un fenomeno europeo molto più vasto che trovò il suo<br />
centro nell’intreccio dei concetti di nazione, cittadino e costituzione (Cammarano<br />
2011, 72–78). Pensare in termini liberal-costituzionali implicò <strong>una</strong> nuova idea di<br />
legittimazione: la nazione cominciò a diventare <strong>una</strong> fonte di legittimazione e il<br />
concetto di liberalismo cominciò a sovrapporsi all’idea di nazione. A partire dal<br />
1861, invece, il liberalismo si declinò secondo due anime diverse: <strong>una</strong> voleva tornare<br />
ai principi liberali e portare avanti la nazionalizzazione degli italiani attraverso<br />
il conflitto politico; l’altra voleva ibernare e neutralizzare il conflitto. Questa<br />
seconda anima si tradusse nel trasformismo politico che rappresentò la vittoria<br />
del liberalismo all’italiana basato sulla centralità del governo e la necessità di un<br />
esecutivo più forte del legislativo, soprattutto a partire dagli anni Ottanta.<br />
Il caso tedesco evidenzia lo stesso tipo di percorso. Si può osservare come, nonostante<br />
la cultura tedesca fosse la più liberale a livello europeo, essa non si manifestasse<br />
in istituzioni politiche altrettanto liberali – come quelle sviluppatesi in<br />
Inghilterra o nei dei Paesi Bassi. Tuttavia, il concetto di nazione, oltre ad essere un<br />
concetto astratto, diventò la parola d’ordine dell’unificazione, legandosi in modo<br />
ambiguo al liberalismo. Se, infatti, da <strong>una</strong> parte la nazione legittimò e fortificò lo<br />
stato liberale, dall’altro creò <strong>una</strong> cultura liberale che divenne la base di aspirazioni<br />
e rivendicazioni a cui lo stesso stato liberale non seppe dare risposta. Così, ad unificazione<br />
avvenuta, in Germania il movimento liberale venne sfidato dalla questione<br />
sociale e dall’ampliamento dei poteri dello stato e il liberalismo venne messo<br />
in crisi dall’emergere di nuovi soggetti che minarono le basi dell’individualismo.<br />
Nel mondo statunitense, invece, il liberalismo si fece promotore delle aspirazioni<br />
della nazione e subì <strong>una</strong> precisa evoluzione fra Otto e Novecento, parallelamente<br />
alle trasformazioni delle esigenze sociali. In questo caso è possibile individuare<br />
tre principali momenti cruciali che legarono strettamente lo sviluppo del<br />
pensiero liberale alla formazione della nazione: il periodo immediatamente successivo<br />
alla guerra di Indipendenza, la guerra civile e gli anni del New Deal.<br />
All’inizio della storia degli Stati Uniti l’idea di liberalismo si fuse con quella del<br />
repubblicanesimo jeffersoniano basato sulle idee chiave di self-rule, omogeneità<br />
etnica e culturale ed autarchia agraria. Pur mettendo sempre al centro del sistema<br />
politico l’individuo, le componenti jeffersoniane del liberalismo statunitense sembravano<br />
in contraddizione rispetto a quei processi di modernità ed industrializza-<br />
41
zione che percorsero i primi cinquant’anni del 1800 e furono <strong>una</strong> delle cause della<br />
guerra civile.<br />
La guerra civile è considerata il vero e proprio momento fondativo della nazione<br />
americana. All’indomani del conflitto i principi jeffersoniani vennero sfidati e<br />
messi in crisi dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, mentre il liberalismo<br />
si fece portavoce del credo capitalista e del darwinismo sociale di Spencer. Questi<br />
radicali cambiamenti mutarono il volto degli Stati Uniti che da paese agricolo divennero<br />
un paese industrializzato. Nonostante ciò l’individuo rimase al centro del<br />
pensiero liberale e lo stato continuò ad avere il compito di non interferire; piuttosto<br />
fu il mercato a divenire il regolatore della vita quotidiana. Al concetto di liberalismo<br />
si accostò quello di liberismo e progresso economico.<br />
Un mutamento radicale del pensiero liberale si ebbe alla fine della Prima guerra<br />
mondiale e si manifestò concretamente nel 1933. La crisi del 1929 scosse i presupposti<br />
dell’economia capitalista al punto da indurre <strong>una</strong> profonda riflessione sul<br />
sistema stesso. Un esempio di questo “nuovo corso” fu rappresentato, non a caso,<br />
dalla politica economica del New Deal promossa da Franklin Delano Roosevelt,<br />
che pose al centro del pensiero “liberal” la necessità dell’intervento dello stato, stravolgendo<br />
<strong>qui</strong>ndi le fondamenta del liberalismo americano fondato appunto sulla<br />
protezione dell’individuo dallo stato.<br />
Fondamentale, infine, per spiegare l’interazione tra liberalismo e unificazione<br />
nazionale è la relazione tra il potere statale e i movimenti liberali stessi. In Italia<br />
e in Germania i fenomeni dell’assolutismo, l’occupazione militare straniera, e un<br />
sistema statuale forte segnarono profondamente la storia dei movimenti liberali,<br />
spesso costretti a svilupparsi per vie clandestine o al di fuori del territorio stesso.<br />
Al tempo stesso lo stato ingeriva pesantemente nella vita del singolo individuo, il<br />
suddito/cittadino. Al contrario negli USA lo stato federale limitava le proprie funzioni<br />
ed aveva un’ingerenza minima sulla vita quotidiana dell’individuo. Fino al<br />
1865, ad esempio, la Federazione non sviluppò un vero e proprio sistema fiscale<br />
e militare a livello nazionale.<br />
Nonostante la presenza di specifiche caratteristiche che distinguevano le esperienze<br />
liberali europee – in particolare italiane e tedesche – da quella americana,<br />
i tre contesti possono essere riavvicinati da alcune considerazioni riguardanti la<br />
trasformazione del liberalismo attraverso conflitti bellici e il suo ambiguo rapporto<br />
con la religione.<br />
Questioni di guerra e di fede. Gli elementi controversi del liberalismo<br />
Nel diciannovesimo secolo i liberali pensarono alla guerra come a uno strumento<br />
di progresso, in grado di esaltare il patriottismo e l’idea di nazione. Da<br />
questo punto di vista, Italia, Germania e Stati Uniti sono accom<strong>una</strong>ti da processi<br />
di formazione nazionale caratterizzati dall’elemento bellico: le guerre di indipen-<br />
42
denza italiane, le guerre austro e franco-prussiane e, infine, la guerra civile americana.<br />
A parte questo aspetto generale, bisogna sempre ricordare che le esperienze<br />
belliche italiane e tedesche si caratterizzarono concretamente in forme molto diverse<br />
dalla guerra civile americana. Mentre per la Germania e l’Italia si trattò sostanzialmente<br />
di guerre di stato e non guerre di popolo, negli USA la guerra civile<br />
si manifestò come <strong>una</strong> vera e propria guerra totale, che coinvolse autorità statali e<br />
società civile, divenendo anche <strong>una</strong> delle guerre più sanguinose della storia contemporanea.<br />
Difficile invece dire quanto l’elemento religioso e il rapporto stato-chiesa possano<br />
costituire elementi di confronto nei casi italiano, tedesco e statunitense. Sicuramente<br />
il diverso rapporto tra liberalismo e chiesa nei tre paesi presi in esame<br />
condizionò il processo di unificazione nazionale e il suo risultato finale. Tuttavia<br />
è difficile definirne con esattezza l’impatto. Il punto di partenza è la sostanziale<br />
diversità tra il mondo europeo e quello statunitense per ciò che riguarda il delicato<br />
rapporto tra chiesa ed autorità statale. Se il conflitto tra lo stato e la Chiesa cattolica<br />
fu particolarmente evidente in Italia (a causa, in particolare, delle conseguenze<br />
dovute alla presa di Porta Pia e alla legge sulle Guarentigie) e se in Germania<br />
Bismarck promosse <strong>una</strong> dura campagna contro i cattolici, negli USA il confronto<br />
stato-chiesa non raggiunse mai un alto livello di criticità.<br />
Così, mentre ad esempio in Italia il liberalismo venne additato dalla chiesa<br />
come la matrice del materialismo e del socialismo – antitesi della religione cattolica<br />
– e il problema della regolamentazione dei rapporti fra stato e chiesa rimase<br />
<strong>una</strong> ferita aperta nella seconda metà dell’Ottocento (si ricordi l’espressione cavouriana<br />
“libera chiesa in libero stato”) il caso statunitense appare del tutto diverso in<br />
quanto le idee liberali e religiose si svilupparono armonicamente e non si sentì la<br />
necessità di regolamentare i rapporti tra stato e chiesa. Non solo, infatti, non vi fu<br />
conflitto ma la religione, in primo luogo quella protestante, divenne un vettore di<br />
liberalizzazione e democratizzazione.<br />
Conclusioni<br />
In conclusione, nonostante la schematizzazione di Leonard mostri la specificità<br />
e la divergenza del liberalismo italo-tedesco da quello statunitense, a livello<br />
concettuale è difficile contrapporre in maniera schematica il liberalismo europeo<br />
a quello che nacque e si sviluppò negli USA. Basti pensare alla prima metà<br />
del secolo diciannovesimo, quando si può individuare <strong>una</strong> fase liberale generalmente<br />
etichettata come liberalismo transatlantico in cui le idee viaggiano dall’<strong>una</strong><br />
all’altra sponda dell’oceano e di cui il viaggio di Kossuth negli Stati Uniti è un esempio.<br />
Nel momento in cui nacque e si sviluppò l’idea di nazione repubblicana<br />
negli USA questa guardava ai movimenti liberali nazionali europei, sentendosene<br />
parte integrante. Allo stesso modo vi furono manifestazioni di adesione da parte<br />
43
degli europei a ciò che accadeva negli Stati Uniti. Non a caso un pensatore liberale<br />
come Giuseppe Mazzini alla fine della guerra civile avrebbe affermato che gli USA<br />
erano diventati la nazione guida dell’internazionale repubblicana.<br />
Si pone poi un’altra importante questione, ovvero quanto il termine liberalismo<br />
possa essere impiegato per spiegare l’esperienza statunitense. Il termine sembra<br />
infatti un vero e proprio taboo per i politici statunitensi tanto da non far parte<br />
del linguaggio statunitense (Mariano 2011, 91–105).<br />
Da sempre la storia degli USA e la concezione che essi hanno di se stessi sono<br />
velate dal concetto di eccezionalismo. Si può parlare di liberalismo eccezionale<br />
per gli USA? Il liberalismo americano può essere inserito nella tradizione liberale<br />
europea? Esiste uno sviluppo parallelo tra le due sponde dell’Atlantico?<br />
Probabilmente gli elementi particolari e specifici dell’evoluzione statunitense<br />
rendono l’esperienza liberale statunitense diversa, ma non necessariamente unica.<br />
In ogni caso la questione sembra rimanere aperta ad un ulteriore approfondimento.<br />
La strada per definire e comprendere il liberalismo americano è ancora lunga.<br />
Note:<br />
1. L’idea secondo la quale gli Stati Uniti non hanno vissuto l’esperienza di ancien<br />
régime, pur avendo comunque sperimentato e subito <strong>una</strong> forma di imperialismo<br />
coloniale, è supportata dal fatto che il colonialismo britannico si distinse<br />
da quello spagnolo o francese, in quanto lasciò ampi spazi di autonomia alle<br />
colonie. Per le differenze fra colonialismi si veda Reinhard W., Storia del colonialsmo,<br />
Torino, Einaudi, 2002, pp. 60–76, pp. 101–125.<br />
Bibliografia:<br />
Cammarano F., “Un ibrido fra stato e nazione”, in Il Mulino, n. 1 (2011), pp. 72–78.<br />
Cioli M., “Forme partitico-organizzative nella Germania di Bismarck. Il pragmatismo<br />
come ideologia nei liberali tedeschi”, in Ricerche di storia politica, n. 1<br />
(2003), pp. 1–33.<br />
Grant S. M., “American forging a new nation, 1860–1916”, in D. Doyle e M. A. Pamplona<br />
(a cura di), Nationalism in the New World, Athens and London, University<br />
of Georgia Press, 2006.<br />
Leonard J., “From European liberalism to the languages of liberalisms: The semantics<br />
of ‘liberalism’ in European comparison”, in Yearbook of political thought<br />
and conceptual history, n. 8 (2004), pp. 17–51.<br />
Leonard J., “Progressive politics and the dilemma of reform. German and American<br />
liberalism in comparison, 1880–1920”, in M. Vaudagna (a cura di), The<br />
place of Europe in American history : twentieth-century perspective, Torino,<br />
44
Otto Ed., 2007, pp. 115–132.<br />
Leonard J., “Linguaggio ideologico e linguaggio politico. All’origine del termine<br />
‘liberale’ in Europa”, in Ricerche di storia politica, vol. 7 (2004), pp. 25–57.<br />
Mariano M., “Da ‘unica tradizione’ a ‘L-word’. La strana morte del liberalismo americano”,<br />
in R. Baritono e E. Vezzosi (a cura di), Oltre il secolo americano? Gli Stati<br />
Uniti prima e dopo l’11 settembre, Roma, Carocci, 2011, pp. 91–105.<br />
Melloni A., Cristiani d’Italia. Chiese, società, stato, 1861–2011, Roma, Istituto<br />
dell’enciclopedia italiana Treccani, pp. 9–48.<br />
Reinhard W., Storia del colonialismo, Torino, Einaudi, 2002.<br />
45
Intervento del<br />
console Larrea<br />
alla conferenza<br />
conclusiva della VII<br />
Summer School<br />
Pubblichiamo l’intervento del Console John Larrea del Consulate General of the<br />
United States di Firenze alla conferenza conclusiva della Summer School CI-<br />
SPEA tenutasi il 30 giugno 2011 presso la sede di Reggio Emilia dell’Università di<br />
Modena e Reggio Emilia.<br />
Sono molto felice di essere <strong>qui</strong> per la conclusione della settima Scuola Estiva di<br />
Storia Americana. Sappiamo tutti che questo è un momento particolarmente<br />
importante nel calendario degli Stati Uniti. Siamo molto vicini al quattro di Luglio,<br />
un momento che ci porta, come americani, a riflettere e ad essere riconoscenti per<br />
le libertà di cui ciascuno di noi gode. In particolare, sono molto grato della prossimità<br />
con il quattro di Luglio perché l’Ambasciatore David Thorne sarebbe dovuto<br />
essere <strong>qui</strong>, ma per l’occasione è dovuto rimanere a Roma: ciò significa che ha chiamato<br />
me cosicché io venissi al suo posto, e per questo sono molto contento.<br />
L’Ambasciatore mi ha chiesto di comunicare a voi tutti quanto è colpito dalla<br />
vitalità degli American Studies in Italia e dal supporto che Boorea offre a questa<br />
straordinaria, eccellente iniziativa, a questo magnifico evento. Egli mi ha chiesto<br />
di portarvi le sue parole.<br />
Il tema della Scuola Estiva CISPEA “1861–1901. Stati Uniti, Italia, Germania<br />
e le sfide dell’unità nazionale” è chiaramente rilevante tanto per gli Stati Uniti<br />
quanto per l’Italia. Come tutti sappiamo, quest’anno si celebra il 150° anniversario<br />
dell’unità d’Italia e sono sicuro che tutti <strong>qui</strong> sapete altrettanto bene che è anche il<br />
150° anniversario dell’insediamento di colui che io considero essere il più grande<br />
Presidente degli Stati Uniti di tutti i tempi: il Presidente Abraham Lincoln.<br />
Egli, come sapete, assunse l’incarico in un periodo nel quale molte delle assemblee<br />
statali si muovevano verso la secessione e, difatti, alla fine diedero inizio<br />
alla Guerra Civile americana, che fu senza dubbio l’evento più importante nella<br />
46
storia della nostra nazione. Furono quattro anni di tempi difficili e durante questi<br />
quattro anni ci furono molti momenti in cui il popolo dell’Unione, il popolo del<br />
Nord, era pronto a cedere, era pronto a dire “non ne vale la pena, disfiamoci di<br />
Abraham Lincoln alla prossima occasione e mettiamo fine a questa guerra”.<br />
Sono tanti gli storici che hanno scritto di come a quel tempo molti americani,<br />
in particolare nel Nord-Est, a New York e a Boston, stessero prendendo a cuore<br />
e seguendo la campagna del Generale Garibaldi per l’unificazione d’Italia. Per gli<br />
ideali che rappresentava, lui ispirò e fornì loro motivazioni e stimoli. Questo aiutò<br />
il popolo a sostenere il Presidente Lincoln in <strong>una</strong> lunga battaglia di quattro anni<br />
per preservare l’Unione. Di fatto, gli storici dicono che il Presidente Lincoln ad<br />
un certo punto abbia persino offerto il comando generale a Garibaldi. La storia ci<br />
dice chiaramente che alla fine lui non venne negli Stati Uniti per guidare l’esercito<br />
dell’Unione, ma questo dimostra che esempio fosse e infatti, in suo onore, la famosa<br />
39esima divisione di fanteria dell’unione di New York fu rinominata “The<br />
Garibaldi Guard”.<br />
Un altro grande Presidente americano è John F. Kennedy, che cinquanta anni<br />
fa disse: “Tutti dobbiamo qualcosa all’Italia”. Disse: “Il Risorgimento ha prodotto un<br />
Paese moderno ma ha anche rappresentato il risveglio della società Occidentale<br />
e un contributo forte per le libertà e i diritti”. Questa è <strong>una</strong> grande eredità per voi,<br />
di cui dovete essere orgogliosi. E io sono orgoglioso di essere <strong>qui</strong>, nel Paese in cui<br />
questa eredità ha avuto inizio.<br />
I nostri Paesi, Stati Uniti e Italia, sono diversi, certo. Ma allo stesso tempo abbiamo<br />
fatto esperienza più o meno nello stesso momento del raggiungimento<br />
dell’unificazione e della libertà. Io penso che i due Paesi si siano influenzati a vicenda:<br />
certamente, l’Italia ha influito molto sugli Stati Uniti. In tempi più recenti abbiamo<br />
stabilito forti legami che ora sono più forti che mai. Di questo all’Ambasciata<br />
a Roma e a Washington siamo molto orgogliosi. Come ho detto, queste relazioni<br />
si sono rafforzate negli anni, arricchite da forti legami politici, storici e sociali. Io<br />
vivo da anni qua in Italia e voglio ringraziarvi tutti per avermi invitato.<br />
Sono sicuro che tutti voi che siete <strong>qui</strong> oggi avrete successo nel vostro percorso<br />
di studio e professionale.<br />
47
Dalle regioni<br />
al globo:<br />
Le dimensioni<br />
della potenza<br />
Federico Romero (European University Institute)<br />
Pubblichiamo la lezione Dalla regione al globo: Le dimensioni della potenza,<br />
tenuta dal Professor Federico Romero alla conferenza conclusiva della Summer<br />
School CISPEA tenutasi il 30 giugno 2011 presso la sede di Reggio Emilia<br />
dell’Università di Modena e Reggio Emilia.<br />
Quando mi fu chiesto di fare questa conferenza conclusiva – delineando <strong>una</strong><br />
comparazione dei tre paesi fino al presente e proiettandola su uno scenario<br />
di storia internazionale – la prima tentazione fu quella di dire: “non ci penso neanche”.<br />
Non sono un comparatista e non lo sono mai stato se non in modo superficiale<br />
e amatoriale. Nella mia esperienza, poi, i tentativi di comparazione sembrano<br />
quasi sempre arrivare alla stessa conclusione: la comparazione ci consente di porci<br />
domande molto utili, ma le risposte tendono poi – almeno per gli storici – a essere<br />
fortemente focalizzate sulla specificità della singola unità di comparazione. Vale a<br />
dire che si arriva in genere a negare la premessa dell’intera operazione. Sono però<br />
molto affezionato a questa Summer School, al CISPEA ed ai colleghi che gestiscono<br />
l’<strong>una</strong> e l’altro, e <strong>qui</strong>ndi prima di rifiutare ho provato a pensare a <strong>una</strong> chiave<br />
che potesse risolvere i miei dubbi e fornire <strong>una</strong> risposta positiva al problema che<br />
mi avevano sottoposto.<br />
Sono stato colpito in primo luogo da un fatto. E cioè che nei 150 anni che intercorrono<br />
tra il nostro punto di partenza ed oggi noi vediamo non solo uno snocciolarsi<br />
di storie molto diverse in ciascuno di questi tre paesi, ma anche <strong>una</strong> palese<br />
divaricazione tra di loro. Una divaricazione crescente di ampiezza, di potenza, di<br />
ricchezza. Quest’ultima fu in parte rimediata nei decenni tra il 1945 e gli anni Ottanta,<br />
durante i quali vi fu <strong>una</strong> robusta convergenza, un catching-up della Germania<br />
e dell’Italia nei confronti dei redditi degli statunitensi, anche se nell’ultimo<br />
ventennio questo processo si è arrestato. Restiamo sostanzialmente sui livelli raggiunti<br />
<strong>una</strong> generazione fa e, per quel che riguarda l’Italia, abbiamo addirittura in-<br />
48
iziato <strong>una</strong> regressione.<br />
Proviamo allora a ragionare sulle implicazioni di questa divaricazione – graduale<br />
ma molto macroscopica – in termini di ricchezza, di potenza e innanzitutto<br />
di traiettoria demografica. Al nostro punto di partenza, per il quale possiamo usare<br />
i censimenti del 1870 o 1871, le tre nazioni hanno popolazioni di consistenza diversa<br />
ma tuttavia ancora raggruppabili in uno stesso ordine di grandezza: l’Italia<br />
aveva 27 milioni di abitanti, la Germania 41 e gli Stati Uniti 38. Ad oggi, i numeri<br />
naturalmente sono raddoppiati ma quelle proporzioni sono rimaste abbastanza<br />
simili tra Italia e Germania, che hanno rispettivamente 61 e 82 milioni di abitanti.<br />
Nel caso degli Stati Uniti, tuttavia, la differenza è divenuta drammatica, e non<br />
c’è più alc<strong>una</strong> somiglianza: la loro popolazione è oggi di 312 milioni di abitanti e<br />
continua – a differenza degli altri due paesi – a crescere costantemente, con <strong>una</strong><br />
proiezione di circa 400 milioni intorno al 2050.<br />
Conosciamo bene tempi e fattori di questa radicale differenziazione (tra i quali<br />
ampi trasferimenti migratori proprio da <strong>qui</strong> a là) e non è il caso di soffermarcisi. Ma<br />
se correliamo questi dati con altri, di diversa natura, possiamo forse cominciare<br />
a porci delle domande più interessanti. Guardiamo i dati sul Prodotto nazionale<br />
lordo (in miliardi di dollari del 1990):<br />
1870 1913<br />
ITALIA 42 95<br />
GERMANIA 71 237<br />
STATI UNITI 98 517<br />
Le distanze sono ben più marcate già al punto di partenza. Il PIL tedesco nel<br />
1870 è già proporzionalmente più alto, in rapporto alla popolazione, di quello italiano,<br />
evidenziando <strong>qui</strong>ndi un differenziale di produttività. E la differenza è straordinariamente<br />
marcata nel caso degli Stati Uniti che con <strong>una</strong> popolazione appena<br />
inferiore a quella tedesca producono già un 25% di ricchezza in più. Non abbiamo<br />
tempo <strong>qui</strong> per indagarne i motivi, ma possiamo presumere che il decennio della<br />
Guerra Civile, con enormi investimenti e <strong>una</strong> robusta crescita industriale degli<br />
Stati Uniti, spieghi buona parte del fenomeno. Se il confronto fosse stato fatto al<br />
1860 forse le distanze sarebbero minori, e già questo è indicativo.<br />
Quel che a noi più interessa, ad ogni modo, è vedere quanto la dinamica economica<br />
del quarantennio successivo – fino alla data fatidica di tutte le scansioni<br />
statistiche, il 1913 – sia stata così fortemente differenziata da mutare radicalmente<br />
non solo le proporzioni quantitative tra le tre economie, ma la natura degli oggetti<br />
che stiamo paragonando. Il PIL tedesco è cresciuto del 310% , quello statunitense<br />
è più che <strong>qui</strong>ntuplicato, mentre quello italiano è salito “appena” del 120%. Nel quarantennio,<br />
insomma, la divaricazione si è fatta già molto marcata.<br />
49
Ci sono naturalmente diversi buoni motivi, complementari tra di loro, per<br />
queste dinamiche. Il primo e principale lo troviamo nei dati sui tassi di crescita<br />
annui della produzione industriale 1870–1913, che sono sufficientemente diversi<br />
da chiarire gran parte del fenomeno visto che dispiegano i loro effetti cumulativi<br />
per ben 40 anni: Italia 2,6%, Germania 3,5%, Stati Uniti 4,6%.<br />
Se li incrociamo con la rapidissima crescita demografica (nel 1913 la popolazione<br />
statunitense tocca i 100 milioni) ci dicono che, pur entro un processo di<br />
industrializzazione in qualche misura condiviso, la diversa scala e intensità tuttavia<br />
sfocia in sbocchi macroscopicamente diversi. Alla vigilia della Prima guerra<br />
mondiale gli USA sono diventati <strong>una</strong> macroeconomia continentale, la prima del<br />
pianeta, la Germania è divenuta <strong>una</strong> grande economia di dimensioni regionali,<br />
con un peso centrale in Europa, mentre quella italiana, pur crescendo ed avviando<br />
la sua industrializzazione, è rimasta un’economia di dimensioni nazionali.<br />
Questo però non ci spiega tutto, e potremmo comunque interrogarci sui motivi<br />
di <strong>una</strong> dinamica così differenziata del tasso di crescita della produzione industriale.<br />
Per questo vorrei spingermi su di un terreno che alcuni storici trattano,<br />
ma che la disciplina storica nel suo insieme tende spesso a trascurare, ed è quello<br />
della dimensione: la dimensione in termini tanto demografici che di spazialità e,<br />
a cascata, le sue numerose implicazioni. Le riflessioni recenti sulla globalizzazione<br />
e la trans-nazionalità hanno sollecitato sguardi retrospettivi sulla spazialità ed<br />
il suo nesso con la formazione della nazione, la modernizzazione, la costruzione<br />
del sistema internazionale. Charles S. Maier, per citare uno storico molto noto tra<br />
noi, indica proprio negli anni di formazione dell’unità nazionale italiana, tedesca<br />
e, nella misura che sappiamo, degli Stati Uniti della guerra civile, il momento di<br />
grande organizzazione della territorialità moderna. Il momento in cui lo stato e la<br />
nazione si organizzano e auto-definiscono anche perché, tra le altre cose, erigono<br />
confini e innervano e strutturano un territorio voluto e costruito come entità<br />
distinta e unitaria: sotto il profilo statuale, del mercato, delle reti infrastrutturali e<br />
della sua composizione etnica e culturale. Questa spazialità non delimita solo la<br />
nazione ma la definisce, contribuendo a modellare gli spazi e i ruoli in cui essa si<br />
immagina nel mondo.<br />
Penso che questo possa essere un terreno di analisi utile, fatta salva la premessa,<br />
per me molto importante, di evitare ogni forma di determinismo geopolitico, a<br />
cui non credo nella maniera più assoluta. Non credo cioè che la geografia e la territorialità<br />
determinino tout court i percorsi e i destini di un paese, o la sua posizione<br />
nella gerarchia di potenza. Si possono fare molti esempi e uno ce l’abbiamo proprio<br />
sotto gli occhi. Benché nel discorso pubblico italiano ricorra l’idea che la centralità<br />
dell’Italia nel Mediterraneo sia <strong>una</strong> risorsa, basta guardare all’attuale conflitto<br />
in Libia per vedere quanto poco questa centralità dell’Italia nel Mediterraneo<br />
operi come risorsa. Quelli ossessionati dall’immigrazione la vedono semmai come<br />
50
<strong>una</strong> vulnerabilità, e pure in termini di pura politica estera l’élite dirigente non l’ha<br />
usata come <strong>una</strong> risorsa, sia verso i libici che dentro la NATO. Siamo tutti d’accordo,<br />
credo, che c’è un rapporto tra territorialità, proiezione internazionale e capacità o<br />
meno di potenza: l’Islanda non potrebbe, quand’anche lo volesse, fare la guerra in<br />
Libia. Taiwan è in posizione inevitabilmente subordinata rispetto alla Cina continentale.<br />
La geopolitica non va ignorata, spesso è importante, ma non è tutto e non<br />
va letta in modo meccanico.<br />
Fatta questa premessa antideterministica, possiamo addentrarci con cautela<br />
ma anche con convinzione e curiosità nella questione della dimensione che, nella<br />
storia di queste tre nazioni, ha un peso e <strong>una</strong> valenza storica tutt’altro che marginale.<br />
Intanto essa contribuisce a spiegarci quella differenza così marcata nei ritmi<br />
di crescita dell’industrializzazione, che non dipende solo dal fatto che in Germania<br />
e negli Stati Uniti c’è il carbone come vorrebbe un determinismo semplicistico<br />
spesso accoppiato a spiegazioni di carattere culturale. Quelle che si affidano a<br />
categorie intuitive o solo vagamente soppesate: l’ingegnosità tecnologica, l’etica<br />
protestante ecc. La disponibilità di materie prime e le attitudini socio-culturali<br />
sono fattori importanti e spesso cruciali. Ma come li contestualizziamo ed in che<br />
traiettorie diacroniche li inseriamo ?<br />
Vorrei tornare alle dimensioni iniziali, che abbiamo visto in termini di popolazione<br />
e di PIL, per rapportarle anche a un’altra determinante cruciale, ovvero la<br />
disponibilità e la formazione di capitali, un indicatore cruciale per quei percorsi di<br />
grande o piccola crescita dei tre paesi. Nell’800 dell’industrializzazione i capitali<br />
si formano fondamentalmente dagli scambi commerciali e dai surplus agricoli.<br />
Questi ultimi hanno ovviamente un rapporto diretto con l’ampiezza di terre fertili.<br />
Ed è <strong>qui</strong> che casca subito l’asino, perché il territorio dell’Italia, pur non essendo<br />
povero di terre fertili, ne contiene tuttavia ben di meno della Germania, che è un<br />
paese pianeggiante e non montuoso, e infinitamente meno degli USA. La capacità<br />
di accumulare capitali che si rovescino in investimenti per l’industrializzazione è<br />
<strong>qui</strong>ndi già di per sé molto minore. Oltre a ciò, le differenze territoriali e climatiche<br />
consentono agli USA forme di specializzazione dell’agricoltura molto più intense,<br />
e <strong>qui</strong>ndi redditizie, di quanto non possa avvenire <strong>qui</strong> e in Germania.<br />
Il secondo fattore cruciale di accumulazione dei capitali, che poi si possono<br />
rovesciare o meno sull’industrializzazione, viene dalla partecipazione al commercio<br />
internazionale, che è piuttosto alta per la Germania, soprattutto nell’area baltica,<br />
ed assai rilevante per gli Stati Uniti. E’ vero che in rapporto all’enorme mercato<br />
interno degli Stati Uniti i loro scambi internazionali costituiscono <strong>una</strong> quota<br />
relativamente limitata dell’economia nazionale, ma nel ricco commercio atlantico<br />
essi costituiscono nondimeno un formidabile volano di accumulazione di capitali<br />
utilizzabili, ed effettivamente utilizzati, per la costruzione di infrastrutture e per<br />
investimenti industriali veri e propri, aiutandoci a spiegare quei tassi di crescita<br />
51
più accelerati. Soprattutto, tassi alti di formazione del capitale, ed in generale di<br />
redditività degli investimenti (sia agricoli che industriali) hanno un effetto di volano,<br />
vale a dire ne attirano degli altri da tutto il mondo. E’ questa probabilmente la<br />
debolezza maggiore dell’Italia di quei decenni. Mentre invece gli Stati Uniti di fine<br />
Ottocento sono ciò che è stata la Cina degli ultimi vent’ani, ovvero il mercato su cui<br />
converge la maggiore quota proporzionale di capitali internazionali in cerca degli<br />
investimenti più redditizi. Oltre a quelli americani, anche i risparmiatori francesi<br />
o olandesi, e soprattutto britannici, investono nella costruzione delle grandi linee<br />
ferroviarie, negli impianti siderurgici, nelle miniere, nelle utilities e quant’altro,<br />
finanziando la colossale industrializzazione statunitense di fine Ottocento.<br />
Questo elemento di volano, in cui un tasso rapido di accumulazione dei capitali<br />
ne attrae molti altri su scala internazionale, vale meno per la Germania, e tuttavia<br />
lì abbiamo già <strong>una</strong> dimensione decisamente ampia che possiamo chiamare non<br />
solo più nazionale ma regionale e, al limite, quasi continentale. Ciò consiste nel<br />
fatto che il grande apparato industriale e infrastrutturale che si forma in Germania<br />
nei decenni che andiamo considerando, si ramifica molto rapidamente e profondamente<br />
in <strong>una</strong> cerchia più ampia, in <strong>una</strong> galassia di altre aree di industrializzazione<br />
e di ricchezza crescente. Ciasc<strong>una</strong> di esse è piccola ma se le consideriamo<br />
tutte insieme siamo di fronte a <strong>una</strong> cornice, a <strong>una</strong> corona di poli economici avanzati<br />
che moltiplica il mercato, la capitalizzazione, e la rilevanza del polo industriale<br />
tedesco. La Svizzera, l’Austria, la Boemia, parte dell’agricoltura danese, l’Olanda,<br />
il Belgio e il bacino carbo-siderurgico dell’Alsazia-Lorena, sono tutti largamente<br />
integrati in un’economia industriale (e finanziaria) tedesca che è ben più ampia<br />
dei confini nazionali. Anche l’industria nascente dell’Italia settentrionale, soprattutto<br />
in Lombardia, ed i suoi istituti finanziari, sono collegati all’economia tedesca.<br />
Abbiamo così <strong>una</strong> dimensione macroregionale, quasi continentale dell’economia<br />
industriale tedesca, ed essa è un fattore ricorrente fino a noi. Anche tralasciando le<br />
ambizioni hitleriane di un nuovo ordine europeo, noi ritroviamo questa posizione<br />
di perno ed epicentro anche dopo il 1949, quando la ripresa economica della Repubblica<br />
Federale Tedesca traina il rilancio di <strong>una</strong> galassia industriale molto più<br />
ampia, che comprende tutti i poli che ho elencato (salvo ovviamente la Boemia<br />
e la Slesia, ora al di là della Cortina di ferro). E sappiamo come l’espansione tedesca<br />
all’Est dopo il 1989 sia centrale nella trasformazione di quell’area e la sua integrazione<br />
in Europa.<br />
Insomma, già a fine Ottocento siamo di fronte a <strong>una</strong> netta differenziazione di<br />
dimensioni. L’Italia opera in un mercato nazionale con un’integrazione internazionale<br />
importante ma contenuta. Quello tedesco è un mercato già ben più grande e<br />
più dinamico, ma soprattutto innervato profondamente in un’altra serie di mercati<br />
dipendenti che, tutti insieme, definiscono <strong>una</strong> grande e dinamica area economica<br />
su cui Berlino stende la propria influenza. Gli Stati Uniti sono un’economia conti-<br />
52
nentale a tutti gli effetti, ormai sulla soglia di <strong>una</strong> scala incomparabile con le altre<br />
economie industriali.<br />
Chi conosce questo periodo della storia americana sa bene quale rilevanza abbia<br />
l’ampiezza del mercato, sia perché facilita forti specializzazioni sia perché consente<br />
un alto dinamismo della domanda, con la diffusione di consumi standardizzati<br />
su scala nazionale. E questi due fattori, congiunti tra loro, attivano economie<br />
di scala molto forti. Le prime grandi corporation di tipo moderno sorgono non a<br />
caso negli USA, per la possibilità e necessità di operare in un mercato più vasto e<br />
dinamico. L’ampiezza continentale influisce anche sul lato dell’offerta, appunto<br />
per la disponibilità di capitali nazionali e internazionali che in questo caso è colossale,<br />
rispetto a ciò di cui può disporre la Germania e, ancor più, l’Italia. Ricordiamo<br />
quanto la vastità del mercato, dei suoi flussi di scambio e dei suoi circuiti finanziari<br />
corrisponda abbastanza strettamente alla potenza nei decenni che precedono<br />
la Prima Guerra mondiale. La Gran Bretagna e la Francia non sono paesi grandi,<br />
non sono nazioni con un’economia domestica particolarmente più ricca di altri –<br />
a cavallo tra ’800 e ’900 –<br />
dimensioni mondiali con<br />
enormemente più ampia.<br />
ma sono grandi imperi di<br />
<strong>una</strong> spazialità economica<br />
È entro di essa che questi<br />
paesi, ed in particolare la Gran Bretagna, trovano<br />
le risorse della loro mag-<br />
giore potenza ed influenza<br />
internazionale. In modo sia pure totalmente<br />
diverso, perché è un paese enormemente più<br />
povero e per certi aspetti<br />
grande potenza europea<br />
la sua potenza in larghis-<br />
dei suoi spazi, cosa su cui<br />
A fine ‘800,<br />
la vastità del<br />
mercato corr<br />
i s p o n d e v a<br />
a b b a s t a n z a<br />
strettamente<br />
alla potenza<br />
miserabile, anche l’altra<br />
dell’epoca, la Russia, fonda<br />
sima misura sull’ampiezza<br />
tornerò dopo.<br />
L’Italia questa spazialità più estesa non ce l’ha e non la può ac<strong>qui</strong>sire. C’era<br />
<strong>una</strong> consapevolezza diffusa, nell’élite nazionale, del fatto che uno spazio più<br />
ampio fosse indispensabile, e questo fu uno dei fattori essenziali che promossero<br />
l’impresa coloniale. Ma si trattò di un’avventura guidata dall’idea che possedere un<br />
impero e<strong>qui</strong>valesse ipso facto a diventare <strong>una</strong> grande potenza europea. La strategia<br />
non era tanto orientata ad un ampliamento dello spazio economico, altrimenti<br />
si sarebbero più logicamente cercate altre forme di penetrazione commerciale sui<br />
mercati esteri più dinamici, invece della con<strong>qui</strong>sta territoriale di paesi poverissimi<br />
come l’Etiopia o la Libia (prima del petrolio). Quel che si perseguiva, in un malinteso<br />
connubio di semplicismo geopolitico e grandeur culturale, era un obiettivo<br />
di prestigio e di potenza, con strategie che di fatto digiungono la con<strong>qui</strong>sta territoriale<br />
dall’ampliamento delle risorse economiche. Alcuni storici economici ci dicono,<br />
in modo piuttosto convincente, che l’Italia unita avrebbe dovuto – e secondo<br />
loro avrebbe potuto – perseguire <strong>una</strong> politica non di con<strong>qui</strong>sta territoriale ed<br />
53
espansione coloniale bensì di penetrazione nei mercati, in modo analogo a ciò che<br />
fu poi fatto dopo il 1945. Sotto questo profilo, l’America Latina verso la quale andavano<br />
molti degli emigranti sarebbe stata un luogo più rilevante per i nostri circuiti<br />
commerciali. Analogamente, <strong>una</strong> deliberata politica del turismo avrebbe fatto ben<br />
di più – come poi fece – per attrarre capitali verso l’economia italiana.<br />
Invece della costruzione di circuiti commerciali e finanziari virtuosi, insomma,<br />
la con<strong>qui</strong>sta coloniale non rimedia alla limitata dimensione spaziale<br />
dell’economia italiana. Questa è in parte data da fattori naturali e condizioni economiche<br />
che consentono <strong>una</strong> accumulazione di capitali relativamente scarsa, ma<br />
in parte è legata anche alle scelte politiche e alle loro radici culturali che definiscono<br />
l’orizzonte geografico e storico in cui si pensa il proprio posto nel mondo.<br />
Pensiamo ad esempio al breve, fuggevole momento in cui l’Italia potrebbe esercitare<br />
un ruolo di grande potenza europea. Alla fine del 1918, l’Italia è <strong>una</strong> potenza<br />
vincitrice della Grande Guerra europea, si trova cioè per la prima <strong>volta</strong> (e anche<br />
l’ultima) con un ruolo influente ai tavoli che contano, quelli che definiscono e determinano<br />
il futuro del continente. Potrebbe ipoteticamente esercitare un ruolo di<br />
potenza egemone nei confronti di buona parte dei Balcani, subentrando all’impero<br />
austro-ungarico non in <strong>una</strong> modalità di dominio ma con un’egemonia politicoeconomica<br />
e culturale. Ma non lo fa, perché interpreta il suo ruolo in un senso<br />
puramente nazionalista di ac<strong>qui</strong>sizioni territoriali, tra l’altro abbastanza insignificanti,<br />
rinunciando così a ragionare su spazi più ampi e modalità d’influenza più<br />
indiretta. Invece di proiettare influenza come forza d’e<strong>qui</strong>librio e stabilizzazione, si<br />
auto-confina nella rivendicazione di tipo etnico e nazionalista – sull’Istria, Fiume<br />
e quant’altro – e <strong>qui</strong>ndi su un rapporto conflittuale con gli altri stati dell’area. Non<br />
è affatto casuale che l’Italia riesca a rompere i confini abbastanza limitati della sua<br />
spazialità economica solo in un’epoca successiva (e forse unica) della sua storia, tra<br />
il 1945 e gli anni ’80, quando cioè agisce in <strong>una</strong> sintonia e sinergia positiva con un<br />
ordinamento commerciale internazionale aperto e liberale. Quello che consente<br />
alle esportazioni italiane di riorientarsi verso i mercati più ricchi e dinamici dove<br />
può esportare non solo frutta e pomodori ma automobili, frigoriferi e macchinari.<br />
Non siamo più fissati sul dominio di mercati poveri (come i Balcani) in funzione<br />
geopolitica, bensì sull’interazione con i mercati ricchi e dinamici dell’Europa occidentale,<br />
a cominciare da quello tedesco, e poi del Nord America e del resto del<br />
mondo. Quella straordinaria dinamicità dell’economia italiana non discende solo<br />
dalla capacità di esportare ma – è bene ricordarlo soprattutto oggi – dalla simultanea<br />
capacità di attrarre forti capitali ed avere <strong>qui</strong>ndi <strong>una</strong> duplice sinergia con la<br />
creazione e redistribuzione delle risorse su scala internazionale. Quella aumentata<br />
spazialità dell’economia italiana non è perduta ma sta indubbiamente restringendosi<br />
da vent’anni a questa parte, e questo è uno dei problemi della stagnazione<br />
attuale del paese.<br />
54
L’importanza dello spazio, di un grande spazio economico e delle sue eventuali<br />
forme di organizzazione politica è molto presente nella consapevolezza politica<br />
e pubblica degli anni a cavallo della Prima guerra mondiale. Forse lì più che in<br />
qualsiasi altro momento. Il wilsonismo è anche un modo per integrare le crescenti<br />
interdipendenze dell’economia statunitense – che oltre che in Canada, Messico<br />
e America centrale comincia a ramificarsi su scala globale – in <strong>una</strong> struttura efficace<br />
di cooperazione internazionale. Per i britannici, ma anche per i francesi,<br />
l’intero periodo tra le due guerre è anche, se non soprattutto, un’epoca di difficile<br />
ridefinizione dell’organizzazione di un impero amplissimo, che si risolverà nel<br />
Commonwealth, e dei suoi rapporti con l’economia mondiale. E non c’è bisogno<br />
di ricordare quanto il ruolo della Germania in Europa (o del Giappone in Asia),<br />
e delle forme politiche della loro influenza, sia la chiave di <strong>volta</strong> dell’intero ciclo<br />
1914–1945.<br />
Siamo assuefatti a vedere i decenni centrali del Novecento secondo la grammatica<br />
delle ideologie e delle loro declinazioni più o meno totalitarie. Ma possiamo<br />
altrettanto utilmente e cogentemente considerarli alla luce dei modi in cui si pensano<br />
le relazioni tra territorialità e scambio, tra dominio di uno spazio e sua organizzazione,<br />
tra controllo e interdipendenza. Il rapporto tra le risorse dell’impero,<br />
la sicurezza europea e la connessione atlantica è, e resterà a lungo, il perno dei<br />
dilemmi e delle scelte britanniche. La spazialità della rivoluzione – i confini in cui<br />
essa può espandersi, sopravvivere o soccombere – è <strong>una</strong> dimensione precipua<br />
della storia sovietica. E ovviamente la dimensione economica, razziale, strategica<br />
e immaginaria dello spazio della nazione tedesca, fino all’incubo del nuovo ordine<br />
hitleriano, sta ben piantata al centro della crisi dell’Europa.<br />
Dopo il 1945 questa importanza di <strong>una</strong> spazialità estesa ac<strong>qui</strong>sta nuove geometrie,<br />
si riconfigura e si condensa, per quel che ci riguarda, soprattutto nella<br />
dimensione economica, ma non scompare affatto. Tutte le idee che ispirano e<br />
canalizzano la costruzione della Comunità Europea e poi della UE discendono da<br />
<strong>una</strong> logica “continentale” che postula il superamento dei confini troppo angusti dei<br />
mercati nazionali – come dei nazionalismi antagonistici – per pacificare l’Europa<br />
attraverso meccanismi di crescita e collaborazione in un mercato più ampio. Negli<br />
anni della ricostruzione il modello di crescita continentale americana è la matrice<br />
di riferimento fondamentale. Siamo nell’epoca della grande produzione industriale<br />
fordista e lì le economie di scala sono fondamentali. Poter produrre (e vendere)<br />
5 milioni di macchine invece di 500.000 fa <strong>una</strong> differenza sostanziale. Lo vediamo<br />
ancora adesso là dove si è spostato il cuore della produzione manifatturiera,<br />
nell’Estremo Oriente in cui la profondità e vastità del mercato cinese agisce da<br />
magnete indiscutibile per l’intera regione.<br />
Sappiamo meno sul ruolo della spazialità nell’economia di oggi ma vale la<br />
pena ragionarci su perché molti indizi ci dicono che, per quanto attraverso ri-<br />
55
configurazioni cruciali, essa costituisca ancora <strong>una</strong> categoria importante. Alcuni<br />
settori si vanno integrando su di <strong>una</strong> scala puramente e semplicemente globale.<br />
Nell’aerospaziale, dominato da Airbus e Boeing, entreranno forse due o tre altri<br />
protagonisti brasiliani o cinesi ma solo nella misura in cui diverranno anch’essi<br />
concorrenti globali. Anche <strong>una</strong> produzione relativamente matura come quella siderurgica<br />
– ora dominata da un colosso indiano che ha comprato aziende in Europa<br />
e altrove – ha ormai <strong>una</strong> dimensione mondiale. Vale la pena notare, tuttavia,<br />
che in tutti questi casi il punto di partenza in un mercato “nazionale” di grandi<br />
dimensioni (USA, Europa, Cina, India, Brasile) costituisce un trampolino probabilmente<br />
indispensabile per l’espansione globale. E lo stesso mi sembra si possa dire<br />
per settori più innovativi delle nuove tecnologie, dove lo stessa differenziazione<br />
tra industria e servizi si offusca fino a perdere di senso.<br />
Dove e come crescono Microsoft, Intel, Cisco, Apple, Google o Facebook? Siamo<br />
abbacinati dalle origini micro – nel famoso garage vicino a <strong>una</strong> grande università<br />
– ma le ragioni della loro crescita esponenziale non stanno solo nell’innovazione<br />
geniale, bensì nella possibilità immediata di finanziarla e venderla su un mercato<br />
enorme e ricettivo. Anche nella loro ascesa a giganti mondiali opera un meccanismo<br />
in qualche modo di scala, con <strong>una</strong> spazialità che se non è quella tipica<br />
della produzione industriale ha nondimeno un ruolo molto forte. Una Google auto-confinata<br />
a un mercato di dimensioni svizzere, o anche britanniche o texane,<br />
avrebbe fatto la fine ingloriosa del Minitel francese di 20 anni fa, che è morto per<br />
soffocamento. Il fatto che questi colossi nascano in un mercato di grande ampiezza<br />
come quello statunitense ci dice qualcosa di più della solita (e certo importante)<br />
connessione virtuosa tra l’ingegnosità di Stanford, i venture capitalist di<br />
Silicon Valley e la valorizzazione tipicamente americana dell’intraprendenza. La<br />
possibilità di immediata irradiazione su di un mercato di enormi dimensioni è la<br />
condizione – probabilmente sine qua non – per trasformare un piccolo e audace<br />
progetto in un colosso che, proprio per questa sua ampia base di partenza, si può<br />
poi affacciare sulla dimensione globale con <strong>una</strong> forza irresistibile.<br />
Voltiamo pagina e consideriamo un altro terreno sul quale sappiamo piuttosto<br />
bene quanto la dimensione sia stata, e tutto sommato sia ancora, essenziale: quello<br />
della sicurezza e della potenza militare, da considerare sia sotto il profilo delle risorse<br />
effettivamente disponibili, o ac<strong>qui</strong>sibili, sia sotto quello delle percezioni ed<br />
aspettative collettive sull’ordinamento internazionale e le sue dinamiche. E’ tanto<br />
ovvio quando banale, ma non per questo meno giusto, dire che la grandezza facilita<br />
la potenza, e soprattutto che la grandezza può aumentare la sicurezza e addirittura<br />
garantire la sopravvivenza. Abbiamo <strong>una</strong> casistica ampia e diversificata<br />
che conosciamo tutti abbastanza bene.<br />
Cominciamo proprio dagli Stati Uniti. Si possono elencare <strong>una</strong> varietà di motivi<br />
per spiegare il successo della rivoluzione – dall’eroismo dei patrioti all’illuminismo<br />
56
dell’élite, dalla pazzia di Re Giorgio agli errori politico-militari del governo di Londra<br />
– ma è indubbio che il fattore determinante della vittoria dei coloni contro la<br />
maggior potenza mondiale risieda nell’ampiezza del loro territorio: uno spazio che,<br />
molto semplicemente e banalmente, è troppo vasto per essere e occupato e controllato<br />
da <strong>una</strong> forza di occupazione. Per quanto la Gran Bretagna impegni forze<br />
rilevanti, essa non può pensare di mantenere a tempo indefinito il dominio militare<br />
di un territorio la cui popolazione è – almeno in <strong>una</strong> parte cospicua, probabilmente<br />
maggioritaria – ostile a questa soluzione. Se le colonie fossero state compattate<br />
su un territorio molto più piccolo, è facile presumere che le cose sarebbero<br />
andate molto diversamente. Se non altro perché la Gran Bretagna avrebbe avuto<br />
un incentivo molto più grande a combattere, invece di dire a un certo punto: “il<br />
gioco non vale la candela, costa troppo, la vittoria è impensabile”.<br />
La Cina non fu sottoposta a un’occupazione coloniale in piena regola, ed invece<br />
costretta a forme indirette di domino, di penetrazione finanziaria e missionaria<br />
sulla sua fascia costiera e su alcuni dei fiumi che penetrano all’interno. Ma<br />
nessuno si sognò mai di occupare tutta la Cina e trasformarla in un dominio coloniale<br />
diretto, tout court, come invece, per esempio, avvenne in Kenya o in Algeria.<br />
Gli stessi giapponesi ne occuparono <strong>una</strong> fetta, per quanto ampia e non è affatto<br />
detto che se non avessero incontrato quella forte resistenza dei nazionalisti e dei<br />
comunisti avrebbero mirato a occuparla tutta, perché sarebbe stata un’impresa titanica,<br />
probabilmente senza senso.<br />
E pensate all’India ed alla sua penetrazione da parte britannica. Ci sono molti<br />
libri sul colonialismo britannico in India, ma tutti sottolineano – vuoi da un punto<br />
di vista nostalgico-imperiale alla Ferguson, vuoi da un punto di vista post-colonial<br />
molto critico – che il controllo britannico sull’India fu fortemente indiretto, affidato<br />
ad élites locali coordinate da uno sparuto apparato burocratico britannico, e<br />
che gli interessi britannici vitali furono posizionati in alcune piccole aree cruciali.<br />
E non è casuale che l’India sia il primo paese a rendersi indipendente: non solo<br />
perché ha un leader cruciale come Gandhi, ma anche perché l’Inghilterra non può<br />
ragionevolmente pensare di sostenere <strong>una</strong> lotta militare per l’India. Lo fa, in quei<br />
decenni, per la Malesia e per il Kenya; i francesi lo faranno inutilmente per il Vietnam<br />
e per l’Algeria. Ma per un paese delle dimensioni dell’India è semplicemente<br />
impensabile. Lo spazio in quel caso è sicurezza per gli indiani e la loro indipendenza.<br />
E pensate alla Russia – questo è il caso da libro di testo. Se la Russia fosse stato<br />
un paese che si stendeva da Minsk, Kiev e Odessa fino a Mosca e Pietroburgo<br />
sarebbe stato di gran lunga il paese più grande d’Europa, ma sarebbe probabilmente<br />
stata sconfitta da Napoleone e certamente da Hitler. Con tutte le differenze<br />
che possiamo provare a immaginarci per la storia europea e mondiale. Non fu<br />
sconfitta, in entrambi i casi, perché al di là di Mosca c’è ancora <strong>una</strong> Russia altret-<br />
57
tanto grande che arriva fino agli Urali e, al di là di quelli, ancora un’altra infinitamente<br />
più grande in cui i russi poterono arretrare e ricostituirsi, per poi ricostruire<br />
enormi armate e passare alla controffensiva. Altrimenti come spiegarsi la sconfitta<br />
di un paese altamente sotto il profilo tecnologico-militare come era la Germania<br />
hitleriana, a fronte di un paese enormemente più povero? Lì lo spazio – che in termini<br />
strategici viene chiamato profondità – è vitale. Prima che si arrivi agli armamenti<br />
atomici, ma per molti verso anche dopo, il grande spazio è <strong>una</strong> delle risorse<br />
di potenza cruciali, in alcuni casi decisiva, per la Russia/URSS.<br />
Questo mi porta a due considerazioni sulle quali vorrei concludere. La comparazione<br />
dei processi di formazione e sviluppo delle nazioni, come hanno fatto<br />
diversi studiosi, è molto utile. Ci può consentire di costruire tipologie e misurare<br />
le variazioni dei singoli casi in termini di culture politiche, modalità<br />
dell’industrializzazione come della nazionalizzazione, culture e istituti dello Statebuilding<br />
e quant’altro. Tuttavia questa indagine sulle analogie e le divergenze necessita<br />
di ampie, profonde e sofisticate contestualizzazioni, <strong>una</strong> delle quali può<br />
essere – in taluni casi probabilmente deve essere – quella spaziale. Ce ne devono<br />
ovviamente essere altre, di diversa natura, ma questa mi sembra non irrilevante<br />
per spiegare le divaricazioni su di un lungo arco di tempo.<br />
Lo spazio e la territorialità ci possono dire cose importanti. In primo luogo,<br />
com’è abbastanza palese, in relazione alle differenze comparative di potere e di influenza<br />
internazionale, ma anche per ciò che concerne le concezioni di sé e <strong>qui</strong>ndi<br />
i contorni dell’identità: tra i due estremi di <strong>una</strong> massima vulnerabilità – comune a<br />
molti paesi europei – e di <strong>una</strong> sicurezza pressoché garantita dall’essere non con<strong>qui</strong>stabili,<br />
come nel caso statunitense, c’è <strong>una</strong> gamma di immaginari che differenzia<br />
effettivamente le nazioni ed i loro comportamenti. Siamo abituati a imperniare<br />
l’identità americana intorno alla visione della “città sulla collina”, il mo dello<br />
self-righteous di un futuro universale, ma cosa sarebbe rimasto di quell’utopia<br />
senza l’effettiva, duratura sicurezza della nazione americana garantita dalla sua<br />
ampiezza e dagli oceani ? Una <strong>volta</strong> concluso il conflitto con la Gran Bretagna –<br />
tra la guerra di Indipendenza e il 1812 – bisognerà arrivare ai missili nucleari, un<br />
secolo e mezzo dopo, perché si incrini, e neppure definitivamente, la percezione<br />
degli Stati Uniti come territorio ed esperimento intrinsecamente sicuro. Che tutto<br />
questo condizioni profondamente, se non addirittura plasmi le lenti attraverso cui<br />
gli Stati Uniti leggono e interpretano i loro rapporti con il mondo, e le ambiziose<br />
strategie che ne derivano fondate sulla fiduciosa convinzione di poter guidare <strong>una</strong><br />
modernizzazione e democratizzazione globale, credo sia indiscutibile.<br />
Non meno rilevante, anche se di segno quasi opposto, è il ruolo esercitato dai<br />
dilemmi della spazialità nella storia della Germania e dell’Italia. Il pericolo della<br />
vulnerabilità territoriale, del soffocamento entro confini angusti percepiti come<br />
ingiu sti o illogici, del confronto con concorrenti e rivali dotati di altri spazi e ri-<br />
58
sorse, e delle relative aspettative di sviluppo o declino sono al centro della travagliata<br />
storia dell’<strong>una</strong> come dell’altra nazione. Il nazismo si costruisce – e per fort<strong>una</strong><br />
si autodistrug ge – intorno alla fantasia sterminista di un grande spazio razziale,<br />
economico e territoriale. Per il fascismo italiano la dimensione del dominio e<br />
dell’impero, con la sua fantasmagoria di immagini classicheggianti e moderne,<br />
non è meno rilevante. Ma è evidente che ancor prima di essere peculiarità delle<br />
due ideologie in questione, queste sono risposte estreme ai problemi che definiscono<br />
l’intera storia nazionale, con i quali Germania e Italia si confrontano prima,<br />
dopo e ancora oggi e, presumibilmente, domani.<br />
Queste considerazioni sul problema della spazialità, per quanto rapide e sommarie,<br />
forse inducono anche a conclusioni più sobrie, ma magari più lucide, sul<br />
presente e su quello che da esso possiamo estrapolare per cercare di intravedere il<br />
futuro. Voglio dire che non mi sembra affatto che stiamo assistendo al deperimento,<br />
così spesso preconizzato o auspicato, degli stati nazionali. Semmai siamo di<br />
fronte ad <strong>una</strong> forte (e, per quel poco di futuro che si può ragionevolmente in tuire,<br />
probabilmente inesora- bile) polarizzazione delle<br />
relazioni internazionali intorno ad alcuni megastati<br />
di ampiezza conti-<br />
di territorio, popolazione,<br />
l’India, il Brasile, la Rus-<br />
basso il Messico, la Tur-<br />
domani il Sud Africa. Po-<br />
chissime cose accom<strong>una</strong>no<br />
questi paesi, ma <strong>una</strong><br />
spazi, della popolazione,<br />
Ampiezza <strong>qui</strong>ndi delle ri-<br />
concentrate e convertite<br />
nentale o quasi, in termini<br />
mercato: la Cina, gli USA,<br />
sia, a un livello un po’ più<br />
chia, l’Indonesia e forse<br />
c’è ed è l’ampiezza dei loro<br />
della loro sfera economica.<br />
sorse che possono essere<br />
in grandi progetti: dalla<br />
enorme spesa militare statunitense, che un’economia più piccola non si potrebbe<br />
permettere, alla gigantesca costruzione di infrastrutture in Cina, o la modernizzazione<br />
galoppante dell’economia brasiliana congiunta a cospicui investimenti<br />
in spesa sociale, pur’essi impensabili su <strong>una</strong> scala economica più piccola. O<br />
l’ampiezza che, in congiunzione con i suoi lineamenti culturali e politici, da alla<br />
Turchia la possibilità di ascendere a potenza centrale, forse determinante, nell’area<br />
Mediorientale.<br />
È in atto <strong>una</strong><br />
forte pola rizzazione<br />
delle<br />
relazioni internazionali<br />
attorno<br />
ad alcuni<br />
m e g a - s t a t i<br />
C’è insomma un nesso robusto tra il dinamismo economico, e <strong>qui</strong>ndi<br />
l’accumulazione di potenza finanziaria e commerciale, e la possibilità di proiettare<br />
influenza politico-culturale oltre che forza militare, e questo nesso è decisamente<br />
irrobustito e facilitato da <strong>una</strong> spazialità ampia ed estesa. Perché è evidente<br />
che si può essere molto ricchi e benestanti – pensiamo alla Svezia, alla Svizzera<br />
o, in microcosmo, al Lussemburgo – ma il reddito pro capite e la qualità della vita<br />
non sono l’unica e spesso neppure la principale misura dell’influenza internazio-<br />
59
nale di un paese. Questo mi porta a pensare che il dibattito dell’ultimo decennio<br />
sull’Unione Europea – su cosa vogliamo essere e in particolare sulla UE come<br />
modello di un’aggregazione che porta al superamento degli stati nazionali – sia<br />
<strong>una</strong> riflessione molto introversa, tutta ri<strong>volta</strong> verso l’interno della nostra storia<br />
europea, se non addirittura fissata sul nostro ombelico, ma poco attenta a quello<br />
che succede tutto intorno. Perché è vero che ci sono forme di cooperazione su<br />
scala regionale, per quanto assai diluite e poco istituzionalizzate, come Mercosur,<br />
ASEAN o NAFTA, ma non si tratta affatto di aggregazioni tra stati in chiave postnazionale,<br />
bensì di agglomerazioni abbastanza parziali di spazi economici intorno<br />
a un grande attore con <strong>una</strong> nazionalità e statualità fortemente definita, che in<br />
genere attraverso quelle collaborazioni cerca di accentuare la propria influenza<br />
regionale. La UE non sembra affatto un modello replicabile: al massimo è la forma<br />
peculiare, ed evidentemente assai parziale e imperfetta, assunta dal tentativo<br />
esitante e incompleto di stato medio-piccoli (come sono quelli europei) di scalare<br />
verso l’ampia dimensione che caratterizza il nuovo mondo multipolare. Se la UE<br />
diventerà mai un’unione a tutti gli effetti, salda e in certa misura centralizzata,<br />
potrà forse essere tra i protagonisti di questa nuova geometria mondiale. Se invece<br />
resta l’ibrido pericolante che è adesso, più disunione che unione con i vari litigi su<br />
chi si accolla i rifugiati dalla Libia o il debito greco, la UE potrà forse continuare ad<br />
essere un esperimento unico di post-nazionalità ma – a parte il fatto che rischia<br />
in ogni momento di inciampare su stessa e regredire se non addirittura disintegrarsi<br />
– anche nella più ottimistica delle ipotesi non potrà certo aspirare a divenire<br />
quella potenza con <strong>una</strong> proiezione globale di cui si fantasticava fino a poco tempo<br />
sotto la consolante etichetta di “potenza civile”. E’ evidente infatti che la sua pur<br />
cospicua dimensione economica e demografica è delimitata, e <strong>qui</strong>ndi per molti<br />
aspetti tarpata e spezzettata, dall’assenza di unità decisionale. Ed oggi sembra essere<br />
proprio questa caratteristica – in fondo la più tipica dello stato-nazione – a<br />
definire il connubio dimensione-potenza.<br />
60
Oltre il secolo<br />
americano?<br />
In occasione del decimo anniversario<br />
dell’11 settembre vi presentiamo<br />
il libro Oltre il secolo americano? Gli<br />
Stati Uniti prima e dopo l’11 settembre<br />
(Roma, Carocci editore, 2011), attraverso<br />
l’intervista alle curatrici, Raffaella Baritono<br />
ed Elisabetta Vezzosi. L’intervista è<br />
di Alberto Benvenuti e Chiara Corazziari.<br />
“Oltre il Secolo Americano?” è<br />
<strong>una</strong> raccolta di saggi che ricostruisce<br />
la storia degli Stati Uniti degli ultimi<br />
vent’anni, ponendo l’11 settembre al<br />
centro di un’analisi storica, economica,<br />
politica e culturale che lo definisce non<br />
più come punto di s<strong>volta</strong> storiografico,<br />
ma piuttosto come “momento di concentrazione<br />
delle aporie e delle contraddizioni<br />
che la Guerra fredda e l’ideologia<br />
dell’eccezionalismo americano avevano<br />
tenuto in subordine”. I sedici contributi<br />
raccolti in questo volume offrono <strong>una</strong> riflessione<br />
ampia, utile a farci comprendere<br />
con maggiore chiarezza gli Stati Uniti<br />
di oggi, impegnati a uscire dalla crisi e<br />
a ridefinire e il loro ruolo di potenza in<br />
uno scenario globale in trasformazione.<br />
Dieci anni dopo l’11 settembre ricordiamo, celebriamo e riflettiamo sugli attentati<br />
terroristici che hanno provocato la morte di quasi 3000 persone, trasformato<br />
il volto di New York, sconvolto gli Stati Uniti e ammutolito il mondo. Sono<br />
tante le domande che non hanno ancora trovato risposta e dieci anni non sono<br />
forse sufficienti per <strong>una</strong> comprensione a 360° di quegli avvenimenti, per capirne<br />
tutte le conseguenze e stabilire se queste saranno durature o passeggere. “Oltre il<br />
61
secolo americano” pone gli eventi dell’11 settembre in relazione con la fine della<br />
guerra fredda e esamina quelle che sono le dinamiche successive agli attentati. L’11<br />
settembre cessa di essere un momento astorico, un fulmine a ciel sereno, per essere<br />
inserito in un contesto storico, politico e sociale definito. Allo stesso modo non<br />
viene interpretato necessariamente come l’inizio di <strong>una</strong> nuova epoca, ma parte di<br />
un processo che non inizia e non finisce con il crollo delle torri gemelle. Si può<br />
dire <strong>qui</strong>ndi che il libro va oltre la volontà di rispondere alle tante domande su come<br />
siano cambiati gli Stati Uniti dall’11 settembre? Potrebbe essere definito come il coraggioso<br />
e complesso tentativo di consegnare l’11 settembre alla storia attraverso<br />
un’analisi politica, economica e sociale degli Stati Uniti?<br />
EV. Quando abbiamo cominciato a immaginare il volume, insieme a Claudia<br />
Evangelisti (Carocci Editore), l’idea è stata immediatamente quella di collocare gli<br />
eventi dell’11 settembre in uno spettro temporale molto più ampio, il ventennio<br />
a cavallo di quella data. Ci interessava infatti cercar di capire dinamiche sociali,<br />
politiche, economiche, di politica estera, nel periodo compreso tra la presidenza<br />
Clinton e Obama. In questo contesto il trauma dell’11 settembre è stato visto come<br />
un momento di “snodo” ma non necessariamente come uno spartiacque.<br />
RB. Come ha detto Elisabetta, l’interrogativo che ci siamo poste è stato quello<br />
di considerare l’11 settembre come un momento di “snodo” di fenomeni politici,<br />
economici e sociali le cui premesse spesso risalgono al decennio precedente.<br />
I noltre, non so se il tentativo sia stato “coraggioso”, ma certo il progetto, ambizioso<br />
per certi versi, è stato quello di calare il trauma del crollo delle due torri dentro<br />
un’analisi storica e non semplicemente di inscrivere questo evento solo nel solco<br />
tracciato dalla memoria, come pure mi pare sia emerso – e forse non poteva che<br />
essere così – nelle rievocazioni e nelle celebrazioni pubbliche. D’altra parte, come<br />
mettiamo in evidenza nell’introduzione, negli Stati Uniti la “necessità” della storia<br />
ha caratterizzato immediatamente il bisogno di dare senso, e di elaborare il lutto.<br />
Già nel 2002 lo History News Network della George Mason University pose alla comunità<br />
degli storici la domanda se l’11 settembre aveva modificato il modo stesso<br />
di guardare alla storia. Ed è significativo che il 40% rispondesse con un netto sì,<br />
anche se le posizioni, come sottolineiamo, sarebbero divenute più sfumate negli<br />
anni successivi.<br />
L’<br />
11 settembre ha costretto gli Stati Uniti a ripensare al loro ruolo nel mondo.<br />
L’amministrazione Bush pensò di affrontare la nuova minaccia terrorista in<br />
modo simile a quanto era stato fatto con la minaccia comunista, con l’uso della potenza<br />
militare, iniziando un conflitto potenzialmente senza fine contro un nemico<br />
difficilmente circoscrivibile. Quelle che il giornalista Jeremy Scahill ha chiamato<br />
“guerre ombra” – cioè interventi militari in paesi stranieri di cui l’opinione pubblica<br />
è in larga parte all’oscuro – hanno confermato anche nell’amministrazione Obama<br />
62
un approccio decisamente militarista. Quanto e in che misura le guerre al terrore<br />
hanno contribuito a un ridimensionamento dell’influenza globale americana, sia<br />
da un punto di vista geopolitico, che da un punto di vista ideologico? A questo<br />
proposito, nel decennale dell’11 settembre, possiamo considerare gli attentati come<br />
l’inizio del declino dell’eccezionalismo americano?<br />
EV. Come scrive Federico Romero nel saggio compreso nel volume, il decennio<br />
di fine ’900 è rimasto connotato dall’ottimistica percezione di <strong>una</strong> progressiva<br />
ascesa dell’America verso <strong>una</strong> centralità che ne riconfermava, e forse addirittura<br />
accresceva, un ruolo d’incontestata leadership mondiale. L’autorità americana<br />
era ben visibile anche nella politica mondiale. La guerra nel Golfo aveva evidenziato<br />
<strong>una</strong> schiacciante supremazia tecnologica e militare e <strong>una</strong> forte capacità di<br />
leadership: gli stati del Golfo avevano affidato la propria sicurezza agli USA, molte<br />
nazioni arabe erano confluite nella coalizione anti-irachena e l’assenza di opposizioni<br />
all’ONU aveva fatto intravedere la possibilità di un ordine collettivo a guida<br />
americana. Le guerre al terrore e il loro sostanziale fallimento hanno cambiato la<br />
prospettiva. Sta chiudendosi insomma un lungo ciclo storico, durato quasi un secolo,<br />
in cui gli USA non solo forgiarono e diressero il sistema internazionale, ma lo<br />
fecero grazie a <strong>una</strong> preminenza economica e ideale dalla quale scaturiva la forza<br />
della loro egemonia culturale. Oggi gli Stati Uniti sembrano condannati ad <strong>una</strong><br />
crescente insularità, alla “solitudine”.<br />
RB. Non credo si possa parlare degli attentati come l’inizio del declino<br />
dell’eccezionalismo americano. L’eccezionalismo come convinzione della superiorità<br />
morale degli Stati Uniti, del paese come “città sulla collina”, certo attraversa<br />
l’intera storia americana e si ripresenta ciclicamente. Non dimentichiamo che,<br />
prima che ritrovasse vigore con l’amministrazione Bush, aveva subito non pochi<br />
contraccolpi a partire quanto meno dalla guerra del Vietnam, la prima guerra “non<br />
giusta” (e mai dichiarata) combattuta dagli Stati Uniti. Inoltre, all’indomani della<br />
fine della guerra fredda, nonostante il trionfalismo dominante nel dibattito pubblico,<br />
si aprì, all’interno della comunità scientifica e intellettuale, seppure per un breve<br />
periodo, <strong>una</strong> riflessione sul presunto “declino” statunitense, nella convinzio ne che<br />
la guerra fredda avesse finito per logorare gli Stati Uniti stessi. Si potrebbe dire<br />
che gli attentati non portano a un declino dell’eccezionalismo, ma impongono agli<br />
Stati Uniti di ripensare la loro collocazione all’interno del contesto internazionale.<br />
Dopo il trionfalismo post-guerra fredda, dall’11 settembre e ancora di più dal<br />
2008, l’immagine economica degli USA appare notevolmente ridimensionata.<br />
Al di là delle ragioni ideologiche, religiose e politiche, legate all’emergere del movimento<br />
neoconservatore, la guerra al terrore è stata preceduta da <strong>una</strong> nuova corsa<br />
agli armamenti, iniziata con Clinton, che ha certamente dato linfa allo sviluppo<br />
economico. La guerra è inoltre stata anche <strong>una</strong> guerra per il petrolio. L’11 settembre<br />
63
può allora essere considerata come data simbolo per comprendere la transizione<br />
post-egemonica in corso, non solo dal lato politico-militare, ma anche economico?<br />
In altre parole, possiamo dire che con l’11 settembre è finito il “ciclo economico<br />
americano”?<br />
EV. Se fondiamo la risposta sulle teorie di Giovanni Arrighi l’attuale crisi e<br />
l’inarrestabile processo di finanziarizzazione che le si collega sono interpretati alla<br />
luce dell’intera traiettoria di sviluppo del capitalismo mondiale, dalle città-Stato<br />
italiane rinascimentali all’ascesa degli Stati Uniti alla guida del sistema economico<br />
internazionale. In questa prospettiva, il processo di finanziarizzazione che segna<br />
la nostra epoca deve essere inteso sia come sintomo della decadenza dello Stato<br />
attualmente egemone a livello internazionale, gli Stati Uniti, sia come condizione<br />
della riapertura, in un diverso contesto geografico, di un nuovo ciclo di espansione<br />
economica “materiale” (industriale e commerciale). In questo senso dunque<br />
il “ciclo economico americano si è concluso ben prima dell’11 settembre”.<br />
RB. Al di là della condivisione o meno delle tesi di economisti marxisti come<br />
Arrighi (uno dei suoi ultimi saggi, pubblicati prima della morte, non a caso si intitola<br />
“Adam Smith a Pechino”), mi pare che emerga, per esempio dal saggio di Duccio<br />
Basosi pubblicato nel libro, <strong>una</strong> dialettica anche questa di lungo periodo che<br />
non sembra essere stata modificata dall’11 settembre. Basosi, riprendendo le tesi di<br />
Malcom Sylvers, parla della dinamica economica americana come contraddistinta<br />
dai due termini di “dominio” e “declino” (<strong>una</strong> parola che, come si vede, ricorre spesso).<br />
Certo la crisi economico-finanziaria, emersa con la bolla speculativa dei mutui<br />
subprime, induce a vedere il pendolo oscillare più verso il “declino” – e <strong>qui</strong>ndi apparentemente<br />
certificare la fine del “ciclo americano” –, ma proprio la storia non<br />
lineare degli ultimi venti anni ci dimostra come in realtà sia difficile sposare <strong>una</strong><br />
tesi rispetto all’altra. Riprenderei <strong>qui</strong>ndi le parole di Basosi, quando, in conclusione<br />
afferma “Al di là delle mutevoli previsioni dei futurologi, è oggi possibile affermare<br />
che vari elementi di fragilità dell’economia statunitense, a lungo denunciati dai<br />
declinisti in passato, si sono effettivamente manifestati in tempi recenti, sul piano<br />
interno come su quello globale. Qui, tuttavia, lo storico deve fermarsi. Troppe sono<br />
le variabili in gioco, che in futuro potrebbero dare forma a configurazioni alternative<br />
dell’economia statunitense e del suo ruolo nel mondo: dagli e<strong>qui</strong>libri politici<br />
interni al Paese agli e<strong>qui</strong>libri politici e militari globali, dalle potenzialità delle innovazioni<br />
tecnologiche alle conseguenze dei cambiamenti climatici, dalla psicologia<br />
dei mercati valutari alle molteplici contraddizioni dell’ascesa cinese”.<br />
Se da un lato l’elezione del primo presidente afroamericano è stata indiscutibilmente<br />
un momento storico per la comunità nera americana, dall’altro Obama<br />
ha fatto di tutto per scrollarsi di dosso l’etichetta di presidente nero. Diversi osservatori<br />
hanno evidenziato il fatto che la questione razziale è stata esclusa dall’agenda<br />
64
presidenziale come pochi altri presidenti dal secondo dopoguerra avevano fatto,<br />
mentre con la crisi è aumentato il tasso di povertà degli afroamericani. Quali<br />
politiche dovrebbe adottare Obama per non rischiare di far stagnare <strong>una</strong> situazione<br />
potenzialmente esplosiva – la crisi successiva all’uragano Katrina ci insegna – nascosta<br />
dietro la maschera di un’America post-razziale? E’ ancora possibile parlare<br />
di “cittadinanza di seconda classe” per l’America non bianca?<br />
EV. Come ho scritto nel mio saggio la candidatura di Barack Obama alla presidenza<br />
degli Stati Uniti e il suo successo elettorale, nel 2008, sono stati certo il<br />
frutto di <strong>una</strong> profonda trasformazione negli atteggiamenti razziali dei cittadini<br />
americani. Tuttavia, sebbene Obama abbia ricevuto il 53% dei voti, solo il 43% degli<br />
elettori bianchi lo ha scelto, a fronte di <strong>una</strong> larga maggioranza di consensi da<br />
parte dei gruppi di minoranza: il 67% degli ispanici, il 62% degli asiatici e il 95%<br />
degli a froamericani. Se la narrazione apparentemente prevalente negli Stati Uniti<br />
dell’era Obama parla di <strong>una</strong> società che ha ormai superato le divisioni razziali e<br />
che si presenta, dunque, all’alba del XXI secolo come race-neutral, essa sembra<br />
non tener conto dei dati di realtà che, innegabili, mostrano <strong>una</strong> disuguaglianza<br />
economica e sociale persistente che si acutizza se prendiamo in considerazione la<br />
realtà di molte donne nere. Forse, come scrive Imani Perry, gli Stati Uniti si trovano<br />
oggi non tanto in <strong>una</strong> fase post-razziale quanto in un periodo di razzismo “postintenzionale”,<br />
che non è fondato sulle discriminazioni del passato, né su concezioni<br />
biologiche della razza, ma continua comunque a mettere in atto “pratiche di<br />
disuguaglianza razziale”.<br />
RB. Non credo di poter aggiungere niente di più a quanto ha già detto Elisabetta.<br />
Mi pare difficile poter parlare senza ulteriori specificazioni di un’America<br />
post-razziale. Sulle sottili forme di un razzismo post-intenzionale vorrei rimandare<br />
a un articolo, alquanto controverso, che è stato pubblicato dalla politologa<br />
Melissa Harris-Perry su The Nation del 21 settembre (sarà pubblicato sul numero<br />
che andrà poi in edicola il 10 ottobre) dal titolo “Black President, Double Standard:<br />
Why White Liberals Are Abandoning Obama”, in cui mette il dito nella piaga di un<br />
pregiudizio che sopravvive anche negli stessi liberal bianchi.<br />
L’<br />
11 settembre ha anche riproposto, da <strong>una</strong> parte, un “nuovo maschilismo”<br />
costruito sul nesso terrore-sicurezza, a consolidamento di gerarchie solo apparentemente<br />
superate, dall’altra ha visto emergere non solo <strong>una</strong> nuova retorica<br />
di destra sui diritti delle donne a giustificazione delle guerre, ma anche <strong>una</strong> forte<br />
partecipazione di donne nei movimenti conservatori, come il recente Tea Party. In<br />
questo contesto, come emerge o viene marginalizzata la questione di genere nel<br />
dibattito pubblico e politico americano?<br />
RB. Così come appare difficile parlare di un’America post-razziale, appare altrettanto<br />
complicato, a mio avviso, definire il periodo attuale come caratterizza-<br />
65
to dal post-femminismo, dove il suffisso post in realtà può voler dire molte cose:<br />
dall’andare oltre al superamento del femminismo a molto altro. Dal mio saggio<br />
emerge come proprio negli anni che vanno dall’elezione di Clinton nel 1992 ad<br />
oggi, il contesto politico americano non possa essere letto attraverso la dicotomia<br />
inclusione-esclusione. Anzi, questi anni sono caratterizzati da un grande protagonismo<br />
delle donne nella vita pubblica, come in quella intellettuale e politica,<br />
seppure con modulazioni diverse e oscillazioni nei processi di rappresentazione e<br />
autorappresentazione e con forti elementi di ambivalenza come il caso della presidenza<br />
Bush dimostra. La “mascolinizzazione” del discorso pubblico, all’indomani<br />
dell’11 settembre, legata al nesso sicurezza-vulnerabilità, si accompagnava a<br />
<strong>una</strong> retorica dei diritti delle donne come diritti umani che doveva le gittimare<br />
l’egemonia americana. La campagna di Hillary Clinton da questo punto di vista<br />
ha rappresentato per certi versi <strong>una</strong> summa delle contraddizioni e delle ambiguità<br />
di <strong>una</strong> sfera pubblica e politica statunitense in cui a <strong>una</strong> narrazione spesso poco<br />
rispettosa delle differenze di genere (da questo punto di vista, alcuni media non<br />
solo hanno riprodotto, ma probabilmente rilanciato stereotipi e pregiu dizi di genere)<br />
non sempre corrisponde la realtà dei rapporti di forza e viceversa. Il Tea Party<br />
movement è esemplificativo da questo punto di vista: grande visibilità di alcune<br />
delle protagoniste del nuovo conservatorismo che si accompagna a un’analisi che<br />
vede il movimento espressione di maschi, anziani, middle-class, così come mettono<br />
in luce Theda Skocpol e Vanessa Williamson, nel loro libro The Tea Party and<br />
the Remaking of Republican Conservatism di prossima uscita per la Oxford University<br />
Press.<br />
EV. Mi pare di poter aggiungere che i conservatori repubblicani vedano nella<br />
maternità le radici della cittadinanza femminile e che cerchino di usare il potere<br />
che detengono a livello istituzionale per favorire questa visione. I repubblicani in<br />
Congresso hanno sostenuto con forza, negli ultimi anni, la legislazione antichoice,<br />
<strong>una</strong> scelta che avrà enorme peso sulla vita delle donne americane. Ne è esempio<br />
l’abolizione del finanziamento dei centri Planned Parenthood, che fornivano<br />
un’assistenza medica di base nell’arco del percorso riproduttivo, praticavano test<br />
gratuiti per l’individuazione di malattie sessualmente trasmissibili, prestavano<br />
consulenza sulla contraccezione e organizzavano screening per il cancro al seno<br />
per milioni di donne americane. Un enorme passo indietro insomma.<br />
Elezioni 2012: successi e sconfitte hanno caratterizzato questi primi anni di presidenza<br />
Obama, anni in cui la decisa opposizione dei Tea Parties e l’influenza<br />
che hanno esercitato sul partito repubblicano e – dopo le elezioni di mid-term –<br />
sul Congresso hanno condizionato le riforme e le proposte del presidente. Alla luce<br />
delle più recenti questioni di attualità, dall’uccisione di bin Laden al sofferto accordo<br />
con i repubblicani per evitare il default, quali saranno gli argomenti forti sui<br />
66
quali Obama potrà giocarsi la rielezione nel 2012?<br />
EV. Come noto la campagna elettorale di Barack Obama è molto in salita. Secondo<br />
i sondaggi il presidente detiene solo il 42% dei consensi a fronte del 57%<br />
nei giorni immediatamente seguenti alla cattura e uccisione di bin Laden. Naturalmente<br />
l’amministrazione paga il prezzo di <strong>una</strong> lunga crisi economica che non<br />
trova risoluzione e che vede anzi a tutt’oggi un altissimo tasso di disoccupazione.<br />
Il proseguimento, di fatto, della guerra in Afghanistan, così come le timidissime<br />
politiche sull’ambiente hanno allontanato dal presidente molti suoi sostenitori. La<br />
sua campagna si concentrerà <strong>qui</strong>ndi in gran parte su lavoro e occupazione, come<br />
dimostra l’American Jobs Act, presentato dal presidente ai primi di settembre. E’<br />
un piano per rilanciare l’economia del paese che prevede 450 miliardi di investimenti<br />
in opere pubbliche e incentivi fiscali a famiglie e imprese.<br />
RB. Fermo restando che molto dipenderà anche dal candidato repubblicano<br />
che emergerà dalle primarie, i temi forti, come ha sottolineato Elisabetta, sono<br />
quelli dell’economia e del rilancio della crescita, tanto in termini di assorbimento<br />
della disoccupazione che in quelli di un miglioramento della qualità stessa del<br />
lavoro. Infatti dati anche recenti (v. ad esempio le tabelle riportate in un blog come<br />
America 2012) dimostrano come a partire dal 1979, a fronte di un aumento minimo<br />
dei salari e degli stipendi della classe media, l’1% più ricco abbia visto aumentare<br />
i propri introiti del 240%. Tuttavia un recente sondaggio Gallup ha misurato le<br />
percentuali di gradimento e di insoddisfazione degli americani rispetto al proprio<br />
lavoro, confrontando i dati del 2011 con quelli del 2008 e in alcuni casi del 2001<br />
(http://www.gallup.com/poll/149324/Workers-Unhappy-Health-BenefitsPromotions.aspx).<br />
Ciò che emerge è un quadro di crescente insoddisfazione su <strong>una</strong> varietà<br />
di elementi presi in esame, dai piani sanitari offerti dai datori di lavoro alle<br />
norme di sicurezza, dai piani pensionistici alle relazioni con gli altri lavoratori,<br />
dalla pressione e competizione alla mancanza di prospettive di carriera, per citarne<br />
solo alcuni. Per gli analisti della Gallup la classe politica e in particolare coloro<br />
che si candidano alla leadership del paese dovrebbero prestare attenzione alla percezione<br />
che i lavoratori hanno del proprio lavoro al pari delle questioni relative alla<br />
disoccupazione e alla necessità di creare nuove occupazioni. Il tema della giustizia<br />
sociale si propone <strong>qui</strong>ndi di nuovo come grande spartiacque tra liberal e conservatori.<br />
Per approfondire l’argomento, vi suggeriamo <strong>una</strong> selezione di volumi pubblicati<br />
in Europa e negli Stati Uniti e due progetti di conservazione della memoria.<br />
Marshall Clark M., Bearman P., Ellis C., Drury Smith S., (a cura di), After the fall. New<br />
Yorkers remember September 2001 and the years that followed, New York, The<br />
New Press, 2011. After the fall è <strong>una</strong> selezione delle testimonianze raccolte dal<br />
67
Columbia Oral History Research Office (Columbia University) con il progetto<br />
“9/11 Oral History Project”, basato su centinaia d’interviste in cui i newyorchesi<br />
raccontano la loro esperienza dell’11 settembre. http://library.columbia.<br />
edu/indiv/ccoh/new_projects/9-11.html<br />
Rumsfeld D., Known and unknown: A memoir, New York, Sentinel, 2011. Non solo<br />
<strong>una</strong> raccolta di memorie, ma anche e soprattutto centinaia di documenti inediti<br />
– archiviati sul web – di <strong>una</strong> carriera lunga quasi quarant’anni. In Known<br />
and unknown Rumsfled si racconta e ci racconta la sua vita politica, rivelando<br />
il dietro le <strong>qui</strong>nte dei momenti più critici dell’era G. W. Bush, quando le persone<br />
più vicine al Presidente, nelle parole dell’autore, preferivano l’autodifesa<br />
anticipata a quella preventiva per difendere il Paese dalla minaccia terroristica.<br />
Howell J. Lind, J., (a cura di), Civil society under strain: Counter-terrorism policy,<br />
civil society, and aid post-9/11, Sterling, VA, Kumarian Press, 2010. Il volume<br />
edito da Howell e Lind analizza la convergenza, a partire dall’11 settembre, degli<br />
aiuti umanitari e degli obiettivi di sicurezza non solo negli spazi della socie tà<br />
civile, ma anche per attori e organizzazioni internazionali. Esplorando gli effetti<br />
delle misure e delle pratiche anti-terrorismo in diversi contesti politici, si<br />
sostiene che la securizzazione degli aiuti, benchè già in crescita, abbia subito<br />
<strong>una</strong> forte accelerazione nel mondo post-9/11.<br />
Streatfeild D., A history of the world since 9/11, London: Atlantic Books, 2011. Pubblicato<br />
nel Regno Unito e negli Stati Uniti, il libro del giornalista e autore Dominic<br />
Streatfeild racconta in otto storie l’impatto dell’11 settembre e della<br />
Guerra al Terrore nelle vite di milioni di persone in tutto il mondo. Una combinazione<br />
di storia, biografia e giornalismo investigativo, che descrive il modo<br />
68
in cui la risposta al crollo delle Twin Towers ha colpito la vita di persone comuni<br />
in Afghanistan, Texas o Maiorca.<br />
Summers A., Swan R., The eleventh day: The full story of 9/11, New York, Ballantine<br />
Books, 2011. Grazie a centinaia di documenti ufficiali rilasciati di recente,<br />
alle interviste e a <strong>una</strong> riflessione ormai decennale, Summers e Swan hanno<br />
descritto un primo sguardo panoramico e autorevole sull’11 settembre. Il libro<br />
racconta la sequenza degli avvenimenti e ne disegna i protagonisti: piloti,<br />
passeggeri, persone comuni e terroristi, cercando di capire cosa abbia guidato<br />
questi ultimi nell’attacco e cosa abbia invece motivato le azioni di risposta del<br />
governo Bush.<br />
Malcomson S. L., Generation’s end: A personal memoir of American power after<br />
9/11, Washington, D.C., Potomac Books, c2010. In parte narrativo e in parte<br />
analitico, questo piccolo volume copre il periodo di due anni che comincia<br />
con l’11 settembre, continua con le fasi iniziali della guerra in Afghanistan, e<br />
finisce con il passaggio di Malcomson da editore del New York Times a consigliere<br />
per Nazioni Unite a Ginevra. Intervallando la vita personale e la politica,<br />
l’autore cerca di riproporre il senso di confusione che si diffuse dopo gli attacchi,<br />
senza nascondere la speranza che la generazione dell’11 settembre si<br />
faccia da parte, per lasciare spazio agli Stati Uniti di Obama e ad <strong>una</strong> rinnovata<br />
leadership globale.<br />
Spiegelman A., Sampayo C., Hyman M., Charyn J., Mattotti L., 12 Septembre,<br />
l’Amérique d’après, Bruxelles, Editions Casterman, 2011. Una raccolta che riunisce<br />
testimonianze, immagini e parole di binomi di giornalisti, scrittori, cantanti<br />
e disegnatori delle due coste dell’Atlantico, in cui ciascuno si esprime con<br />
il proprio linguaggio artistico.<br />
Caracciolo L., America vs America. Perché gli Stati Uniti sono in guerra contro se<br />
stessi, Bari-Roma, Laterza, 2011. Lucio Caracciolo rifugge dalla tentazione di<br />
classificare l’11 settembre come l’ora zero di <strong>una</strong> nuova epoca, e pensa piuttosto<br />
che sia stato solo l’inizio <strong>una</strong> fase nuova nella parabola geopolitica aperta<br />
nel biennio 1989–91 dal crollo dell´impero sovietico e della stessa URSS. In<br />
cinque tesi, vengono indagate le ragioni ideologiche, geoeconomiche e strategiche<br />
per cui la “superpotenza unica” è finita in <strong>una</strong> trappola da cui non<br />
riesce a uscire.<br />
“The September 11 Digital Archive”. Archivio digitale con più di 150 mila voci promosso<br />
dalla Alfred P. Sloan Foundation e gestito dall’American Social History<br />
Project alla City University of New York Graduate Center e dal Center for History<br />
and New Media alla George Mason University. http://911digitalarchive.org/<br />
69
“CISPEA Summer<br />
School Network”<br />
su Facebook<br />
Il CISPEA-Summer School Network è ora su Facebook attraverso <strong>una</strong> duplice<br />
i niziativa. In primo luogo è stata creata <strong>una</strong> pagina fan, aperta a tutti, dedicata<br />
alla newsletter (indirizzo: http://www.facebook.com/pages/Cera-<strong>una</strong>-<strong>volta</strong>lAmerica-Newsletter-del-CISPEA-Summer-School-Network/101740516600584).<br />
L’obiettivo è quello di pubblicizzare la newsletter e di segnalare le iniziative patrocinate<br />
dal CISPEA e le nuove pubblicazioni, sia di carattere pubblicistico che<br />
scientifico, relative alla politica e alla storia americane.<br />
Inoltre, è nato il gruppo Facebook “CISPEA-Summer School Network”, riservato<br />
agli ex-alunni della Summer School CISPEA. Il gruppo vuole essere uno spazio<br />
che consenta a chi ha partecipato alle precedenti edizioni della Summer School di<br />
condividere l’interesse per la storia, la cultura e la politica statunitense. Lo scopo è<br />
di creare un luogo di dibattito scientifico e culturale tra gli ex alunni e un’occasione<br />
per condividere il bagaglio di conoscenze accumulate non solo durante la scuola,<br />
ma anche nel corso del proprio percorso di studi e delle proprie esperienze personali<br />
e professionali. In tal senso, il gruppo punta a creare uno spazio virtuale<br />
all’interno del quale presentare le proprie ricerche, condividere informazioni storiografiche<br />
e bibliografiche, discutere dell’attualità politica statunitense e di pubblicazioni<br />
recenti in ambito americanistico.<br />
70
www.cispea.org