02.11.2014 Views

Clicca qui - C'era una volta l'«America

Clicca qui - C'era una volta l'«America

Clicca qui - C'era una volta l'«America

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

NEWSLETTER DEL CISPEA SUMMER SCHOOL NETWORK<br />

*<br />

NUMERO 2 ~ Autunno 2011<br />

Questo numero è stato curato da: Matteo Battistini, Alberto Benvenuti,<br />

Cristina Bon, Francesca Cadeddu, Andrea Casati, Michele Cento,<br />

Chiara Corazziari, Lorenzo Costaguta, Mattia Diletti, Matteo Fornaciari,<br />

Angela Santese<br />

Per iscriversi alla newsletter:<br />

http://cispeanetwork.hosted.phplist.com/lists/<br />

Indice<br />

Presentazione del numero 2 della newsletter p. 2<br />

Appunti su: Gli Stati Uniti e l’unità italiana (Daniele Fiorentino) p. 4<br />

Relazioni dei gruppi di studio della VII Summer School p. 11<br />

Intervento del Console John Larrea alla conferenza conclusiva della VII Summer<br />

School p. 46<br />

Dalle regioni al globo: Le dimensioni della potenza (Federico Romero) p. 48<br />

Oltre il secolo americano? p. 61<br />

“CISPEA Summer School Network“ su Facebook p. 70


Presentazione del<br />

numero 2 della<br />

newsletter<br />

Il numero due di C’era <strong>una</strong> <strong>volta</strong> l’America si presenta più ricco e interessante del<br />

solito. Come di consueto, il numero autunnale propone le principali tematiche<br />

affrontate nella Summer School CISPEA, quest’anno alla sua settima edizione<br />

(Reggio Emilia, 26–30 giugno 2011). In occasione del 150° anniversario dell’Unità<br />

d’Italia, la scuola è stata dedicata alle sfide dell’unità nazionale di tre importanti<br />

paesi della Grande Europa euro-americana: gli Stati Uniti, la Germania e l’Italia.<br />

Questi tre paesi negli anni Settanta dell’Ottocento furono segnati da processi di<br />

unificazione o riunificazione nazionale, che mossero lungo la via della modernizzazione<br />

seguendo percorsi paralleli, ma molto differenziati a seconda del lascito<br />

storico da cui uscivano e delle specifiche e peculiari condizioni in cui si trovavano.<br />

Una attenta analisi comparata mostra come la modernità non sia un mo dello unitario,<br />

bensì sistemico, nato nelle varie nazioni da fasci di processi storici diversi,<br />

ma compatibili. Questo approccio caratterizza le relazioni che gli alunni, organizzati<br />

in gruppi di lavoro, hanno presentato nell’ultimo giorno della scuola, e che<br />

pubblichiamo in questo numero della newsletter.<br />

Alessandro Caivano e Lorenzo Pavoncello presentano la lezione del Professor<br />

Arnaldo Testi sulla costruzione della nazione americana dopo la guerra civile; Silvia<br />

Nanni riprende la lezione del Professor Fulvio Cammarano sull’Italia e la sfida<br />

dell’Unità nazionale; Lucia Ducci tratta il tema “religione e politica” affrontato dal<br />

Professor Tiziano Bonazzi; la relazione di Francesco De Felice e di Camilla Palazzini<br />

considera il caso tedesco presentato dal Professor Pierangelo Schiera; Francesco<br />

Condoluci e Francesca Ghezzi discutono la lezione della Professoressa Elisabetta<br />

Vezzosi su questione sociale e scontro di classe, confrontando l’esperienza italiana<br />

e statunitense; Chiara Corazziari tratta infine il tema del liberalismo in prospettiva<br />

comparata tra Italia, Stati Uniti e Germania, affrontato dalla lezione del Professor<br />

Jörn Leonhard.<br />

Le relazioni degli alunni sono inoltre precedute dalla lezione introduttiva del<br />

Professor Daniele Fiorentino, che delinea <strong>una</strong> lettura comparata della guerra civile<br />

e della guerra per l’Unità d’Italia alla luce delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.<br />

Lo spazio dedicato alla scuola estiva termina con la pubblicazione degli inter-<br />

2


venti del Console John Larrea (Consulate General of the United States di Firenze)<br />

e del Professor Federico Romero alla conferenza conclusiva della scuola, dedicata<br />

a “Le dimensioni della potenza: dalla regione al globo”. Li ringraziamo vivamente<br />

per la loro disponibilità e il loro consenso alla pubblicazione.<br />

Questo numero di C’era <strong>una</strong> <strong>volta</strong> l’America esce a un mese di distanza<br />

dall’undici settembre. Non potevamo <strong>qui</strong>ndi non cogliere l’occasione per considerare<br />

da un punto di vista storico e storiografico il significato di un evento che<br />

ha influito profondamente non soltanto sulla politica statunitense, ma anche su<br />

quella europea e globale. Alberto Benvenuti e Chiara Corazziari hanno intervistato<br />

Raffaella Baritono e Elisabetta Vezzosi, curatrici di Oltre il Secolo americano.<br />

Gli Stati Uniti prima e dopo l’11 settembre. Il volume edito da Carocci raccoglie<br />

sedici saggi dei più importanti storici americanisti italiani, che ricostruiscono la<br />

storia degli Stati Uniti degli ultimi vent’anni ponendo l’11 settembre al centro di<br />

un’analisi storica, economica, politica e culturale.<br />

Prima di lasciarvi alla lettura, non resta che darvi qualche aggiornamento che<br />

riguarda noi. Il CISPEA-Summer School Network è ora attivo su Facebook con <strong>una</strong><br />

pagina fan, aperta a tutti e dedicata alla newsletter, e il gruppo “CISPEA-Summer<br />

School Network”, riservato agli ex-alunni. Trovate maggiori informazioni nella<br />

presentazione che pubblichiamo in coda alle relazioni. Infine, vi comunichiamo<br />

che a breve sarà consultabile sul sito del CISPEA <strong>una</strong> pagina che raccoglie i curriculum<br />

degli ex alunni che hanno aderito all’iniziativa. Non appena sarà pronta<br />

riceverete un’email di informazione. Buona lettura a tutte e tutti.<br />

3


Appunti su:<br />

Gli Stati Uniti e<br />

l’unità italiana<br />

Daniele Fiorentino (Università Roma Tre)<br />

“La pressione dell’economia nordista su quella sudista era indubitabile; nel<br />

quadro della lotta millenaria tra città e campagna si può dire degli Stati Uniti in<br />

quegli anni ciò che si può dire dell’Italia: il Nord stava al Sud un po’ come <strong>una</strong><br />

colossale città in rapporto a <strong>una</strong> sterminata campagnola” (Luraghi 2008, 95).<br />

In <strong>una</strong> riflessione generale sulla seconda metà del XIX secolo si evidenzia un<br />

processo in atto a livello mondiale e in particolare tra Europa e Stati Uniti:<br />

l’affermazione di un modello di stato-nazione che, prendendo le mosse dalle rivoluzioni<br />

per l’indipendenza e per la libertà di quegli anni, si consolida in conformità<br />

con le nuove esigenze emerse tra coloro che si trovavano alla guida dello stato<br />

negli anni che vanno dal 1861 al 1901. Infatti, se nello specifico ci si sofferma a<br />

riflettere sulle dinamiche che portarono all’unità d’Italia e alla Guerra Civile americana,<br />

cui seguì la Ricostruzione, si può evidenziare:<br />

• L’affermazione di <strong>una</strong> borghesia commerciale e imprenditoriale che impone<br />

un modello di liberalismo moderato su un sud agrario con un sistema economico<br />

non al passo con i tempi. Da <strong>una</strong> parte i protezionisti puntano a sostenere<br />

lo sforzo produttivo e di investimento della classe imprenditoriale. Dall’altra<br />

il settore agricolo si appella al liberismo economico e all’accesso ai mercati per<br />

un prodotto che non costava molto nella sua fase di produzione ma che comportava<br />

uno sforzo ingente di manodopera schiava o molto povera, legata alla<br />

terra.<br />

• Nei <strong>qui</strong>ndici anni che vanno dal 1861 al 1876 questo liberalismo moderato tende<br />

a includere le frange consenzienti dell’opposizione (che stanno nel sistema) e<br />

ad escludere invece il radicalismo democratico. Questo aveva vissuto un momento<br />

importante intorno al 1848 e si era trascinato per circa un decennio, per<br />

essere poi tacitato da chi si era consolidato al potere. La nuova élite si impegnò<br />

a evitare conflitti che potessero fomentare rivolte intestine.<br />

• Le rivoluzioni degli anni quaranta preoccuparono i liberali moderati per la<br />

loro carica potenzialmente sovversiva e per il fatto di essere spesso anche<br />

rivolu zioni sociali delle classi più povere. Esse spaventarono perfino alcuni<br />

4


dei politici più radicali (Hobsbawm 1975, 18–20).<br />

• Dopo la reazione o provvisoria stabilizzazione degli anni cinquanta, all’inizio<br />

dei sessanta, quando la borghesia imprenditoriale liberale ha ricon<strong>qui</strong>stato<br />

il controllo, essa riprende l’iniziativa militare per completare un processo di<br />

nation-building lasciato in sospeso. Rimangono però dei rischi (lo sfaldamento<br />

stesso dell’unione nord-americana, la ricostruzione radicale, il successo in<br />

Europa dei partiti radicali, ma soprattutto la Comune di Parigi del 1871). I liberali<br />

moderati riportano così l’individuo e la libera iniziativa (con la proprietà)<br />

al centro della costruzione statuale e costituzionale.<br />

La II guerra d’indipendenza era sfociata per esempio nel temuto sbarco dei mille,<br />

poi ricondotto sotto la guida dello stato centralizzato. Mentre la spinta all’azione e<br />

all’unificazione era spesso venuta dalle forze democratiche (anche rivoluzionarie),<br />

furono poi le forze istituzionali (Savoia-Governo dell’Unione) a completare l’opera<br />

e a ricondurla in ambito moderato-liberale. La secessione era in sé un atto rivoluzionario,<br />

anche se qualcuno lo definisce piuttosto controrivoluzionario, e culminò<br />

in un bagno di sangue che qualcuno considerava inizialmente rigeneratore<br />

ma che ben presto sem-<br />

sacrificio di molti. Mentre<br />

i fatti del 1860–1861 portano<br />

l’esercito sabaudo a ri-<br />

l’impresa garibaldina, la<br />

porta due risultati: spazza<br />

gli USA continuavano a<br />

provare tanto per la debolezza<br />

interna quanto per<br />

all’Europa; dà la prova<br />

americano e della tecno-<br />

Italia e USA tra<br />

il 1859 e il 1877<br />

attraversano<br />

esperienze in<br />

qualche modo<br />

c o m p a r a b i l i<br />

brò diventare un inutile<br />

prendere l’iniziativa dopo<br />

guerra per gli Stati Uniti<br />

il senso di insicurezza che<br />

la loro posizione rispetto<br />

della potenza dell’esercito<br />

logia prodotta nel paese al<br />

servizio di quello. “The military power of the United States, as shown by the recent<br />

Civil War,” affermava il Segretario di stato James Blaine nel 1881, “is without limi t,<br />

and in any conflict on the American continent altogether irresistible” (Herring<br />

2008, 242–243). Si era data così prova dell’inevitabile dominio USA sul continente<br />

e delle potenzialità della nazione a livello internazionale.<br />

In fondo, Italia e Stati Uniti nei diciotto anni tra il 1859 e il 1877 attraversano<br />

esperienze in qualche modo comparabili. I loro rapporti diplomatici e commerciali<br />

si consolidano proprio intorno al 1861 e i due rappresentanti che occupano le<br />

rispettive legazioni rappresentano <strong>una</strong> certa intellighenzia e borghesia commerciale<br />

legata alle due regioni che sono al tempo stesso protagoniste del consolidamento<br />

dello stato-nazione e dell’affermazione di ottimi rapporti tra Italia e USA:<br />

Piemonte e New England. George Perkins Marsh e Giuseppe Bertinatti sono esponenti<br />

significativi di un’élite tanto culturale che amministrativa. Con loro sono<br />

protagonisti importanti ministri degli esteri italiani e segretari di stato americani:<br />

Pasquale Stanislao Mancini e Emilio Visconti Venosta, William Seward e Hamilton<br />

5


Fish (e successivamente anche James Blaine).<br />

Nel processo di nation-building di quegli anni, Stati Uniti e Italia condividevano<br />

un altro aspetto determinante: la sistemazione della questione meridionale,<br />

che passava per l’affermazione di uno standard nazionale deciso dai vincitori, e<br />

l’uniformazione del paese, almeno a livello istituzionale. Questa lascia comunque<br />

ai margini la parte meridionale del paese. Se si guarda a quanto avviene dopo<br />

il 1861–1865 ci si accorge che il rapido sviluppo dell’industria si accompagna a<br />

un’affermazione dello stato-nazione secondo modelli imposti “dai vincitori”. Modelli<br />

che in qualche misura vengono rimessi in discussione dalla grave crisi del<br />

1873 che contribuisce a <strong>una</strong> “normalizzazione” del sistema ac<strong>qui</strong>sito fino ad allora<br />

ma fa riflettere i liberali moderati sulla continuazione della via delle riforme.<br />

In Italia, dopo la dichiarazione dello Stato d’assedio del 1862 contro il Brigantaggio,<br />

nel 1863 viene varata la Legge Pica che cede poteri speciali all’esercito<br />

e stabilisce <strong>una</strong> sorta di occupazione militare nel Sud fino al 1865. L’esercito divide<br />

in zone di occupazione le province meridionali. Chiunque giri armato in un<br />

gruppo di più di tre persone è considerato un brigante e può essere processato da<br />

un trib<strong>una</strong>le militare. Tra i briganti vi erano molti oppositori del sistema imposto<br />

dal governo di Torino delusi dalla speranza in <strong>una</strong> riforma agraria. Il governo<br />

sabaudo finisce per favorire lo status quo delegando ai grandi proprietari terrieri il<br />

controllo delle regioni meridionali sacrificate alle necessità dell’unificazione. Non<br />

solo, nonostante i tentativi ripetuti di alcuni liberali democratici, come nel caso di<br />

Giuseppe Ferrari, non si perviene mai alla decentralizzazione che si era auspicata<br />

attraverso la formazione delle regioni.<br />

Negli USA, la cosiddetta Ricostruzione Radicale porta (contestualmente al tentativo<br />

di impeachment di Andrew Johnson sul Tenure of Office Act) a <strong>una</strong> nuova<br />

occupazione garantita dall’esercito, e al varo degli emendamenti XIV (1868) e XV<br />

(1870) alla Costituzione. Il Sud viene diviso in cinque dipartimenti controllati da<br />

Un agente del Freedmen’s Bureau divide gruppi armati<br />

di euro-americani e afro-americani nel Sud degli USA.<br />

6<br />

Briganti affrontano le forze di<br />

repressione del Regno d’Italia.


politici del Nord in accordo con coloro che non avevano abbracciato la secessione<br />

nel Sud. Grazie a politici provenienti dal Nord, Carpetbaggers, e a bianchi del Sud<br />

interessati a gestire la Ricostruzione, Scalawags, questa si trasforma anche in un<br />

affare per alcuni gruppi di profittatori legati a un sistema clientelare difficile da<br />

scalfire. Il “patronage system” in uso fino alla fine degli anni settanta viene definitivamente<br />

messo da parte con l’elezione di Grover Cleveland nel 1884. Nel 1883 il<br />

Pendleton Act introduce la Civil Service Commission.<br />

Le tendenze radicali negli USA e la severità delle scelte economiche e politiche<br />

della Destra in Italia, con il mito del pareggio del bilancio di Sella, portano alla<br />

fine a uno stallo e ai compromessi del 1876 (il trio Lanza-Sella-Minghetti è costretto<br />

a dimettersi). Si includono così nella gestione del potere le parti più moderate<br />

dell’opposizione che fino ad allora ne erano rimaste escluse. Contestualmente si<br />

escludono però le ali più radicali e democratiche, alcune delle quali considerate<br />

troppo vicine ai socialisti.<br />

Nell’impasse elettorale del 1876, dopo che il democratico Samuel Tilden vince<br />

il voto popolare di oltre 300.000 preferenze, e a un solo voto dalla conferma dei<br />

grandi elettori, quattro stati sono ancora contesi. Si trova così un compromesso<br />

fuori della Costituzione: la Commissione Elettorale assegna la vittoria a Rutherford<br />

Hayes, in cambio del ritiro dell’occupazione militare mentre i governi Repubblicani<br />

controllati dal Nord lasciano il Sud. Ciò comporta, com’è ovvio, anche un<br />

compromesso con i grandi proprietari terrieri e con molti leader democratici degli<br />

stati secessionisti. Chi ne porta le conseguenze sono le popolazioni nere, che<br />

infatti cominciano a lasciare sempre più numerose le campagne meridionali, e i<br />

poveri del sud.<br />

Si chiude così la prima fase di nation-building e si apre la crescita dei paesi<br />

sia interna che internazionale. Le loro rivendicazioni imperiali, già presenti negli<br />

anni sessanta e settanta, soprattutto negli Stati Uniti, si fanno sentire più forti. Per<br />

dirla con Baily, grazie alla grande crescita economica di questi anni che derivava<br />

in parte dall’assenza almeno parziale di guerra, e alla nuova rilevanza assunta<br />

dall’individualismo e dall’affermazione delle aspirazioni borghesi, “lo Stato poteva<br />

allargare la propria sfera di controllo anche grazie a un nazionalismo sempre più<br />

aggressivo che sventolava il rischio della rivoluzione davanti agli occhi degli scettici”<br />

(ibid., 181). Letto in questa prospettiva l’imperialismo di fine secolo diventa<br />

parte del processo di costruzione della nazione.<br />

In tutto ciò i rapporti tra Italia e USA sono cresciuti e si sono rafforzati. Le<br />

somiglianze, <strong>qui</strong> esposte, e gli interessi comuni hanno consentito un consolidamento<br />

anche dell’amicizia tra i due paesi soprattutto sotto l’aspetto commerciale<br />

ma anche dal punto di vista diplomatico. George Perkins Marsh è stato chiamato a<br />

presiedere la commissione di arbitrato sul confine italo-svizzero. Federigo Sclopis<br />

presiede l’importante commissione internazionale per gli Alabama Claims (1871).<br />

7


Il sostegno degli USA (e di Marsh in particolare) per il consolidamento dell’unità<br />

d’Italia, e in particolare per Roma capitale è stato forte, così come lo è stato quello<br />

dell’Italia e di Bertinatti per l’Unione quando diverse potenze straniere mantenevano<br />

posizioni ambigue sui diritti degli stati del sud alla secessione. Con il Trattato<br />

Commerciale del 1871 si sono rinsaldati i rapporti economici. C’è da dire che Marsh<br />

è deluso: le speranze liberal-democratiche e repubblicane sono sfumate. Ma in<br />

fondo lo sono anche negli Stati Uniti. Bertinatti intanto ha lasciato Washington per<br />

altri incarichi. Il ventennio seguente vedrà diversi cambiamenti nei rapporti tra<br />

le due nazioni, soprattutto a causa di due fattori: l’emigrazione italiana e le aspirazioni<br />

imperiali di entrambi con risultati ben diversi.<br />

La guerra e l’unificazione, o riunificazione, comportano un rafforzamento dello<br />

stato e successivamente un progressivo accentramento. Se questo può essere dato<br />

per scontato nel caso dell’Italia, non lo è per gli Stati Uniti. Questo accentramento<br />

si verifica attraverso alcuni percorsi comuni a diversi paesi ma di sicuro a Italia<br />

e USA: l’inclusione del sud nel discorso nazionale secondo parametri stabiliti dai<br />

vincitori di cui si è parlato; il rafforzamento della burocrazia; l’uso dell’istruzione<br />

pubblica; la diffusione della lingua nazionale. Quest’ultimo per gli Stati Uniti significò<br />

programmi di “americanizzazione” tanto per le popolazioni indigene e per<br />

gli afro-americani quanto per le masse di immigrati che si riversavano nel paese.<br />

Per l’Italia un lento e difficile percorso inteso a scalzare i dialetti per introdurre <strong>una</strong><br />

lingua riservata fino ad allora alle classi colte.<br />

La scuola diventa un importante strumento di nazionalizzazione. Sebbene negli<br />

Stati Uniti l’obbligatorietà della common school venisse introdotta soprattutto negli<br />

anni cinquanta a partire dal Massachusetts, nella seconda metà dell’Ottocento,<br />

si diffuse a livello nazionale per essere collegata all’istruzione del college. Tra il<br />

1865 e il 1914 aumenta esponenzialmente il numero delle scuole professionali e dei<br />

college, soprattutto grazie alla legge sui Land Grant colleges, ma l’attenzione di chi<br />

è al governo si concentra sull’istruzione elementare che è fondamentale tanto per<br />

la lingua quanto per i valori da trasmettere alla massa della popolazione, soprattutto<br />

immigrata. In Italia nei <strong>qui</strong>ndici anni successivi all’unificazione il numero<br />

degli allievi raddoppia. Questo si deve all’estensione nel 1861 della Legge Casati<br />

(1859) sull’obbligatorietà dei primi due anni a tutto il Regno. Nel 1877 la Legge Coppino<br />

rafforza ulteriormente questa scelta. Ma se nel 1871 gli analfabeti erano il 78%<br />

nel 1881 erano ancora il 67%. Negli USA la situazione era molto diversa: nel 1880<br />

gli analfabeti erano il 17%, e nonostante la grande immigrazione la percentuale<br />

non salì di molto nel ventennio successivo.<br />

Lo sviluppo delle comunicazioni, tanto con il telegrafo che con la ferrovia,<br />

aveva garantito <strong>una</strong> crescente penetrazione della macchina statale nel paese già<br />

nella prima fase di nation-building. Secondo Nancy Cohen: la tariffa protezionista<br />

Morrill emanata con lo Homestead Act durante la guerra, e il Land College Grant<br />

8


Act, consentirono lo sviluppo dell’Ovest rafforzato dal Pacific Railroad Act. Ciò<br />

consentì contestualmente “the creation of a National market and the settlement of<br />

the frontier” (Cohen 2002, 27). Per quanto riguarda l’Italia, sottolinea Fulvio Cammarano,<br />

“la legge di unificazione amministrativa, destinata a diventare un perno<br />

della legislazione italiana, venne promulgata il 20 marzo 1865” (ibid., 13). Ma, scrive<br />

Raffaele Romanelli, vi fu un vero pregiudizio sulla centralizzazione anche da parte<br />

del governo, e la decentralizzazione fu da subito all’ordine del giorno (ibid., 35–37).<br />

Lo Stato finì per assumere su di sé prerogative discutibili, tanto che sia negli USA<br />

che in Italia si sviluppò un aspro dibattito circa i limiti che lo Stato doveva rispettare<br />

in particolar modo nella gestione delle ferrovie e nella crescita della burocrazia.<br />

Nonostante le molte resistenze e i numerosi discorsi e programmi politici, sul<br />

finire del secolo si vengono costruendo delle imponenti macchine burocratiche<br />

funzionali anche all’accentramento dei poteri del governo centrale. Negli USA si<br />

passa dai circa 37.000 impiegati del 1861 ai 200.000 di inizio Novecento, mentre in<br />

Italia dai 3.000 dell’unità ai 90.000 circa della fine del secolo.<br />

Nel consolidamento (che porta all’accentramento) e nella normalizzazione<br />

che entrambe le nazioni cercano, il discorso nazionale diventa funzionale<br />

all’affermazione delle élite al potere. È uno strumento che raccoglie anche le classi<br />

emarginate nell’affermazione di sé e nel riconoscimento delle proprie qualità. In<br />

fondo sia in Italia che in USA il consolidamento dello stato nazionale è un processo<br />

guidato da un’élite che tiene fuori l’elemento democratico radicale, e in Italia questo<br />

vale anche per quello repubblicano. Si deve inoltre fare i conti con il bisogno<br />

di riconoscersi della popolazione che non necessariamente accetta i simboli della<br />

leadership (Doyle 2002, 45–47). A questo fine lo Stato avvia così anche un’attiva e<br />

aggressiva politica estera necessaria a rinsaldare l’adesione delle masse e a rilasciare<br />

tensioni e forze economiche soprattutto dopo la crisi del 1873; così gli USA<br />

si proiettano su Alaska e Midway, mentre l’Italia lotta per Venezia e Roma. Queste<br />

aspirazioni culminano in veri e propri progetti imperiali sul finire del secolo.<br />

Bibliografia:<br />

Bayly C. A., La nascita del mondo moderno, 1780–1914, Torino, Einaudi, 2004.<br />

Cammarano F., Storia politica dell’Italia liberale: L’eta del liberalismo classico,<br />

1861–1901, Bari-Roma, Laterza, 1999.<br />

Cohen N., The reconstruction of American liberalism, 1865–1914, Chapel Hill, The<br />

University of North Carolina Press, 2002.<br />

Doyle D., Nations divided: America, Italy and the southern question, Athens, The<br />

University of Georgia Press, 2002.<br />

Foner E., Reconstruction: America’s unfinished revolution, 1863–1877, New York,<br />

Harper & Row, 1988.<br />

9


Hendrickson D. C., Union, nation or empire. The American debate over international<br />

relations, 1789–1914, Lawrence, University Press of Kansas, 2009.<br />

Herring G., From colony to superpower: U.S. foreign relations since 1776, Oxford-<br />

New York, Oxford University Press, 2008.<br />

Hobsbawm E., Il trionfo della borghesia, 1848–1875, Bari, Laterza, 1975.<br />

Luraghi R., Storia della guerra civile americana, Milano, BUR Rizzoli, 2008 (1° ed.<br />

1969).<br />

Romanelli R., Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna, Il<br />

Mulino, 1988.<br />

Skowronek S., Building a new American state: The expansion of national administrative<br />

capacities, 1877–1920, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.<br />

Vann Woodward C., Reunion and reaction. The Compromise of 1877 and the end of<br />

reconstruction, Boston, Little Brown, 1966 (1° ed. 1951).<br />

10


Relazioni dei<br />

gruppi di studio<br />

della VII Summer<br />

School<br />

Gli Stati Uniti e le sfide dell’unità nazionale (1861–1901) (Alessandro Caivano,<br />

Lorenzo Pavoncello) p. 12<br />

L’Italia e le sfide dell’unità nazionale (Silvia Nanni) p. 17<br />

Sonderweg: La via speciale della Germania all’unità (Francesco De Felice) p. 23<br />

Religione e politica negli Stati Uniti (Lucia Ducci) p. 29<br />

La questione sociale e lo scontro di classe: Un confronto fra Italia e Stati Uniti<br />

d’America (Francesco Condoluci, Francesca Ghezzi) p. 34<br />

Le declinazioni del liberalismo. I movimenti liberali nell’esperienza italiana,<br />

tedesca e statunitense (Chiara Corazziari) p. 40<br />

11


Gli Stati Uniti e le sfide<br />

dell’unità nazionale<br />

(1861–1901)<br />

Alessandro Caivano, Lorenzo Pavoncello<br />

L’eccezionalismo statunitense: stessi problemi, diverse premesse<br />

Nel suo A nation among nations: America’s place in world history, Thomas<br />

Bender sottolinea la necessità di pensare la storia americana in <strong>una</strong> prospettiva<br />

comparata. Con particolare riferimento alla guerra civile, quest’ultima è stata<br />

studiata come un’esperienza sociale, politica e culturale troppo diversa dalle contemporanee<br />

vicende europee e, pertanto, eccezionale. Le sfide dell’unità nazionale<br />

che gli Stati Uniti dovettero affrontare non furono dissimili dagli stati europei e<br />

a testimonianza di ciò è utile sottolineare come vi fosse un reciproco interesse<br />

per le rispettive questioni politiche che caratterizzavano l’Europa e il nuovo continente.<br />

Gli USA, ad esempio, intrattennero <strong>una</strong> fitta corrispondenza diplomatica<br />

con l’Italia che si affiancava ai resoconti di numerosi intellettuali statunitensi che<br />

narravano le gesta dei protagonisti del Risorgimento, in particolar modo di Garibaldi.<br />

Se, come l’approccio metodologico di Bender ci suggerisce, le sfide dell’unità<br />

nazionale statunitense possono essere considerate simili – e in qualche maniera<br />

collegate – a quelle europee, non bisogna tuttavia dimenticare che le risposte date<br />

dagli USA furono frutto di premesse storiche e sociali assolutamente peculiari.<br />

Nel periodo precedente alla guerra civile, gli Stati Uniti erano per certi versi<br />

ancora un paese coloniale, un paese cioè nato su un territorio occupato che comprendeva<br />

gli immigrati, ma escludeva le popolazioni native e gli schiavi neri. Il<br />

problema della schiavitù, elemento fondante del sistema sociale ed economico del<br />

12<br />

In alto a sinistra: sagoma degli stati fedeli all’unione durante<br />

la Guerra civile. A destra: sagoma degli stati secessionisti.


Sud, era <strong>una</strong> questione comune a tutte le potenze coloniali ma gli USA, a differenza<br />

delle nazioni europee, dovevano affrontarla sul proprio territorio. La repubblica<br />

americana era organizzata, inoltre, sulla base di <strong>una</strong> struttura politica federale che<br />

comprendeva stati molto diversi tra loro, per forme di governo, sviluppo economico<br />

e appartenenze religiose. Era infatti nata dopo <strong>una</strong> guerra anti-coloniale ed<br />

espandendosi verso ovest ripeteva il rito della nascita di nuovi stati.<br />

Un’ulteriore particolarità era poi relativa al suo status di potenza post-rivoluzionaria.<br />

Gli Stati Uniti si costituirono in seguito ad <strong>una</strong> rivoluzione di successo;<br />

tale rivoluzione nacque su base locale e produsse da un lato un governo federale<br />

che tendeva a salvaguardare i diritti periferici e il forte senso di appartenenza<br />

alla comunità, dall’altro un profondo sentimento di diffidenza verso le istituzioni<br />

centrali. Tra testi fondamentali spiccava, infine, un documento, la Dichiarazione<br />

d’Indipendenza, che enunciava diritti universali rivendicabili da tutti i popoli e,<br />

allo stesso tempo, poneva enfasi su un eccezionalismo tipicamente americano. Il<br />

messaggio in esso contenuto fu abilmente utilizzato da quanti aspiravano a fare<br />

della società statunitense un modello al punto che, nel corso dell’Ottocento, si<br />

consolidò l’idea che il “destino manifesto” della nuova repubblica fosse quello di<br />

guidare le altre nazioni verso gli ideali di libertà e democrazia.<br />

Tra il 1850 e il 1860 Gli Stati Uniti si avvicinarono al periodo della guerra civile<br />

divisi in “due anime di <strong>una</strong> stessa realtà” – il Nord e il Sud – che proponevano due<br />

sistemi sociali ed economici dai valori antitetici: al Nord industrializzato e protezionista<br />

si contrapponeva, infatti, il Sud agrario e schiavista. Entrambi rivendicavano<br />

in maniera esclusiva il vero significato della rivoluzione, prefigurando per<br />

l’Unione un futuro differente: mentre il Nord, dei cui interessi si faceva portatore<br />

il partito repubblicano di Abraham Lincoln, proponeva un progetto di omogeneizzazione<br />

della nazione, il Sud manifestava l’intenzione di secedere dall’Unione e<br />

formare <strong>una</strong> nuova realtà politico-istituzionale.<br />

Le “soluzioni americane”<br />

La guerra civile pose il paese di fronte alle sfide dell’unità. Tali sfide, presenti<br />

anche nelle realtà europee contemporanee, vennero affrontate dagli Stati Uniti<br />

con soluzioni peculiari, proprio sulla base di quelle premesse differenti che avevano<br />

caratterizzato la storia e l’evoluzione della repubblica a stelle e strisce. La guerra<br />

civile si concluse con la netta vittoria degli unionisti sui confederati: la fine del<br />

conflitto determinò nel Nord la necessità di <strong>una</strong> riflessione sul futuro della nazione,<br />

in particolar modo sulle sorti del Sud. Tra le varie ipotesi, si scelse di occupare<br />

militarmente i territori degli ex stati secessionisti in modo da poter ristabilire<br />

l’ordine secondo le condizioni imposte dai vincitori. Questa politica generò<br />

nel Sud un senso di rancore e di umiliazione nei confronti del governo centrale a<br />

maggioranza repubblicana. I cittadini ex confederati si sentirono a tutti gli effetti<br />

13


come un popolo sconfitto costretto a subire nel proprio territorio <strong>una</strong> vera e propria<br />

invasione da parte dell’esercito nemico che, in quanto vincitore, imponeva il<br />

proprio modello di società.<br />

La più importante conseguenza del dopoguerra fu, così, il rafforzamento del<br />

governo centrale, il quale ampliò le proprie competenze rispetto alle autorità locali:<br />

la vittoria del Nord sancì la supremazia dei federalisti nei confronti dei difensori<br />

delle prerogative statali. A conferma di ciò, dal 1865 vennero redatti gli emendamenti<br />

XIII, XIV e XV alla Costituzione che, almeno inizialmente, sembrarono eliminare<br />

i privilegi delle realtà periferiche. Nel 1869, in <strong>una</strong> fondamentale sentenza<br />

(Texas v. White, 74 U.S. 700, http://supreme.justia.com/us/74/700/case.html) la<br />

Corte Suprema dichiarò che “la secessione e tutti gli atti legislativi intesi a dare effetto<br />

a tale ordinanza” erano da considerarsi nulli. Si assistette, inoltre, ad un processo<br />

di progressivo accentramento dei poteri, al punto che, a partire dagli anni<br />

Ottanta, si iniziò a parlare di sistematizzare la macchina burocratico-amministrativa<br />

rendendola più simile a quella europea. A venir rafforzato fu soprattutto il<br />

potere esecutivo, la cui autorità fu incrementata, già durante il conflitto civile, dal<br />

presidente Lincoln.<br />

Nel processo di formazione dell’identità americana, la guerra civile può essere<br />

considerata un vero e proprio spartiacque. Vennero date due risposte al problema<br />

dell’identità: ad un’idea basata su <strong>una</strong> scelta per il futuro che proponesse<br />

<strong>una</strong> concezione inclusiva di cittadinanza si contrappose un nazionalismo fondato<br />

sul retaggio coloniale, un ideale comunitario bianco dal quale scaturiva necessariamente<br />

<strong>una</strong> visione esclusiva di cittadinanza.<br />

A seguito del conflitto, sembrò infatti formarsi un nuovo nazionalismo: l’idea<br />

che emerse si formò a scapito di alcuni gruppi etnici, come ad esempio i nativi<br />

americani. Nonostante, infatti, l’Indian Appropriations Act del 1871 pose fine alla<br />

prassi di considerare le nazioni indiane come straniere, di fatto, le popolazioni native<br />

vennero escluse dall’idea di nazione americana che si andava formando nella<br />

misura in cui il governo federale, nel processo di colonizzazione dell’Ovest, non<br />

esitò a dar vita a nuovi sanguinosi conflitti per appropriarsi dei territori occupati<br />

dagli indiani.<br />

Attraverso l’approvazione dei nuovi emendamenti costituzionali e, sopratutto,<br />

con l’occupazione militare del Sud, il governo federale inaugurò un esperimento di<br />

democrazia interrazziale, che, tuttavia, al termine della Ricostruzione fallì: per evitare<br />

un nuovo e forse più devastante conflitto tra le tradizioni sudiste e gli interessi<br />

dei nordisti, i cittadini afroamericani furono, infatti, nuovamente esclusi dal corpo<br />

della nazione. Il Compromesso del 1877, con il quale i democratici accettarono di<br />

assegnare al repubblicano Hayes la vittoria nelle concitate elezioni presidenziali<br />

in cambio del ritiro delle truppe federali dal Sud, sancì la fine della Ricostruzione.<br />

Nacque, infine, un nazionalismo di tipo religioso, fondato su un vero e proprio<br />

14


culto per la bandiera americana, che incarnava l’armonia della repubblica, i valori<br />

condivisi e l’unità ritrovata. La guerra civile venne dunque vista come un’esperienza<br />

unificante, e questo grazie soprattutto ai racconti e ai ricordi dei veterani, che ne<br />

sottolineavano la crudeltà, e all’attenzione che tutto il paese riservò alle celebrazioni<br />

commemorative del conflitto.<br />

Conclusioni: The United States are o the United States is?<br />

A<br />

cavallo tra Ottocento e Novecento si assistette ad un’espansione della macchina<br />

burocratico-amministrativa statunitense e ad un accentramento progressivo<br />

dei poteri di Washington ai danni delle realtà locali. A tal riguardo è stato<br />

evidenziato come, al termine della guerra civile e del travagliato periodo della<br />

Ricostruzione, gli Stati Uniti siano passati dall’essere un “paese orizzontale” al diventare<br />

un “paese verticale”.<br />

Dal punto di vista della formazione dell’identità nazionale, molti storici hanno<br />

sostenuto come solamente dopo il conflitto civile si sia cominciata ad utilizzare<br />

la forma singolare in riferimento agli Stati Uniti: “United States is” in sostituzione<br />

di “United States are” (McPherson 2003, viii). In realtà, alcuni studi sulle sentenze<br />

della Corte Suprema hanno rilevato come si sia continuato a privilegiare la forma<br />

plurale.<br />

Nonostante queste premesse è tuttavia arduo constatare se sul finire<br />

dell’Ottocento si sia effettivamente consolidata un’identità nazionale vera e propria.<br />

Non è infatti semplice stabilire se un sentimento di appartenenza alla nazione<br />

fosse concretamente condiviso dalla totalità del popolo americano. Certamente,<br />

come si è visto, la guerra civile giocò un ruolo determinante nella formazione di<br />

uno spirito nazionale e nella costruzione di quella che, circa un secolo dopo, il sociologo<br />

Robert Bellah avrebbe definito <strong>una</strong> “religione civica americana”: la fede in<br />

<strong>una</strong> serie di principi e di ideali simbolicamente espressi nei documenti fondanti<br />

della repubblica e nei discorsi inaugurali dei presidenti più rappresentativi.<br />

Bibliografia:<br />

Bellah R. N., “Religion in America”, in Daedalus: Journal of American academy of<br />

arts and sciences, vol. 96, n. 1 (inverno 1967).<br />

Bender T., A nation among nations: America’s place in world history, New York,<br />

Farrar, Straus and Giroux, 2006.<br />

Fiorentino D., “ ‘The pursuit of Liberalism’: I rappresentanti degli USA negli stati<br />

italiani tra diplomazia e rivoluzione (1848–1861)”, in Annali della Fondazione<br />

Luigi Einaudi, vol. XLII (2009), pp. 39–63.<br />

Foner E., Politics and ideology in the age of the Civil War, New York, Oxford University<br />

Press, 1980.<br />

15


McPherson J. M., Battle cry for freedom: The Civil War era, New York, Oxford University<br />

Press, 2003.<br />

Moore Jr. B., Social origins of dictatorship and democracy: Lord and peasant in the<br />

making of the modern world, Boston, Beacon Press, 1966.<br />

Testi A., Il secolo americano, Bologna, Il Mulino, 2008.<br />

16


L’Italia e le<br />

sfide dell’unità<br />

nazionale<br />

SIlvia Nanni<br />

Nazione, costituzione e cittadinanza<br />

La storia dell’unificazione nazionale italiana è<br />

presentata sia tramite l’analisi dei concetti di<br />

nazione, costituzione e cittadinanza, sia attraverso<br />

l’azione politica dei principali attori che hanno<br />

preso parte a questo processo. Inoltre, le vicende<br />

italiane si inseriscono all’interno di un fenomeno europeo più vasto, erede della<br />

rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche.<br />

Nel corso del XIX secolo i processi di composizione nazionale hanno caratterizzato<br />

numerosi stati europei ed extra-europei. Tali trasformazioni scaturirono<br />

dal confronto fra distinte componenti sociali, così come dalla presenza di politiche<br />

statuali particolarmente lungimiranti. I processi di unificazione nazionale hanno<br />

<strong>qui</strong>ndi portato alla progressiva creazione delle moderne organizzazioni statuali.<br />

La formazione dello stato-nazione italiano presenta alcune peculiarità, quali<br />

l’unificazione tardiva, la discontinuità del processo di annessione territoriale 1 ed il<br />

difficile processo di affermazione della coscienza nazionale italiana, anche dopo<br />

l’unificazione. 2 Da un punto di vista strategico, però, la formazione politica dello<br />

stato italiano gli permise di collocarsi all’interno del contesto internazionale al pari<br />

delle altre medie potenze europee.<br />

Nella penisola italiana, l’idea di nazione era presente nell’opinione pubblica<br />

già prima del compimento dell’unità politica dello stato ed il matrimonio tra liberalismo<br />

e questione nazionale diede avvio al discorso costituzionale, che fu successivamente<br />

rivendicato dai moti popolari del 1848. I successi dei moti popolari<br />

furono però estremamente limitati poiché le costituzioni octroyées 3 furono revocate<br />

pochi mesi dopo. Fu <strong>qui</strong>ndi estremamente lungimirante la decisione della<br />

monarchia sabauda di mantenere lo Statuto da poco concesso. La nuova costituzione<br />

collocò il Piemonte nel più ampio contesto delle monarchie costituzionali<br />

europee, fissando i limiti dei poteri costituiti e sancendo garanzie e diritti nei confronti<br />

della popolazione, inaugurando, <strong>qui</strong>ndi, il passaggio dallo status di sudditi a<br />

quello di cittadini.<br />

17<br />

Litografia dei “Padri della Patria” (Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Cavour, Mazzini) pubblicata<br />

dalla Domenica del Corriere del 1 0 gennaio 1961, in occasione dei cento anni dell’unità.


Cavour vs Garibaldi<br />

Nel periodo che va dal 1848 al 1861 i protagonisti della vicenda italiana furono<br />

molteplici. Fra questi, Camillo Benso, Conte di Cavour, ministro dal 1850<br />

e Presidente del Consiglio dei Ministri dal 1852, svolse un ruolo fondamentale<br />

nell’interpretare pienamente la situazione politica del suo tempo. Egli fu l’artefice<br />

politico e diplomatico del Risorgimento italiano e la sua abilità fu quella di guidare<br />

il processo di unificazione sotto l’egida della monarchia sabauda, controllando al<br />

tempo stesso politicamente i movimenti mazziniani. Da un punto di vista strettamente<br />

diplomatico, Cavour fu in grado di sfruttare a proprio vantaggio le situazioni<br />

e le opportunità che di <strong>volta</strong> in <strong>volta</strong> gli si presentarono, come la partecipazione<br />

alla guerra di Crimea e alla successiva conferenza di Parigi del 1856. Questo<br />

permise a Cavour di poter sollevare la questione italiana di fronte ad un consesso<br />

internazionale e, <strong>qui</strong>ndi, di potersi assicurare l’appoggio di Napoleone III di<br />

Francia. Sul piano interno, Cavour giocò saggiamente la carta del mantenimento<br />

dell’istanza parlamentare, un aspetto che rafforzò la legittimazione internazionale<br />

del Regno di Sardegna.<br />

Se Cavour fu il rappresentante delle élite politiche ed intellettuali nella fase<br />

di costruzione dello stato-nazione, Giuseppe Garibaldi, altra figura centrale del<br />

Risorgimento, fu interprete dell’anima popolare e democratica del movimento<br />

di unificazione nazionale e divenne punto di riferimento del volontarismo. Oltre<br />

all’effettiva con<strong>qui</strong>sta del Sud, la rilevanza dell’opera garibaldina fu rappresentata<br />

dalla sua capacità di modificare la strategia di unificazione ideata dalla monarchia<br />

sabauda. Mentre originariamente la costruzione del nuovo stato consisteva nella<br />

semplice estensione del Regno di Sardegna, grazie all’opera di Garibaldi, Cavour si<br />

convinse che <strong>una</strong> spedizione di liberazione nel Mezzogiorno avrebbe ottenuto il<br />

necessario sostegno popolare.<br />

La legittimità politica del nuovo stato derivò principalmente dalla presenza<br />

dell’istituzione parlamentare (anche se non garantiva <strong>una</strong> rappresentanza reale<br />

della popolazione) e dai numerosi plebisciti di unificazione, che si tennero<br />

tra l’ottobre ed il novembre del 1860. Questo fu anche uno dei motivi per cui non<br />

si ritenne necessaria la promulgazione di <strong>una</strong> nuova costituzione, ma venne direttamente<br />

applicata la legge fondamentale del Regno di Sardegna a tutti i nuovi<br />

territori annessi. La continuità con le legislature precedenti fu evidente nella<br />

proclamazione di Vittorio Emanuele, Re d’Italia, con il titolo Vittorio Emanuele II,<br />

rendendo il nuovo stato italiano l’erede diretto del regno sabaudo.<br />

Il problema principale dell’Italia unita non fu dunque quello di darsi <strong>una</strong> nuova<br />

organizzazione costituzione bensì di ottenere <strong>una</strong> piena legittimazione nazionale.<br />

Contrariamente a quanto si può constatare in altri paesi europei, in cui la<br />

nuova nazione si strinse attorno sia a solide istituzioni, come l’esercito od il Sena-<br />

18


to, sia a classi sociali, come l’aristocrazia, il nuovo popolo italiano non condivideva<br />

solidi miti fondativi. Inizialmente, nemmeno la monarchia riuscì a ricoprire<br />

questo complesso ruolo, dal momento che il Re e la casa regnante non godevano<br />

del prestigio internazionale necessario e venivano addirittura percepiti come un<br />

elemento di estraneità. Fu <strong>qui</strong>ndi compito della classe parlamentare tentare di colmare<br />

questo vuoto, divenendo la vera figura di intermediazione tra la società ed il<br />

nuovo stato nascente. Tuttavia, la classe politica a cui ci si riferisce era composta<br />

da singole personalità e rappresentava <strong>una</strong> frazione degli interessi sociali non ancora<br />

organizzati. Si trattò <strong>qui</strong>ndi di un collante parziale e problematico, e non da<br />

tutti riconosciuto (Cammarano 2011, 74–75).<br />

Le sfide della classe politica liberale<br />

Nei primi decenni dell’unità, la classe politica liberale si trovò ad affrontare<br />

<strong>una</strong> situazione altamente problematica poiché, oltre a dover fronteggiare le<br />

resistenze della Chiesa cattolica, che si rifiutava di riconoscere il nuovo stato, si<br />

delineò un’altra importante frattura, di carattere sociale e regionale, quella del divario<br />

tra il Nord ed il Sud della penisola. Nel 1861 il sentimento comune alla maggior<br />

parte dei cittadini italiani era che l’unità nazionale non fosse effettivamente<br />

ancora stata raggiunta, proprio a causa di problemi territoriali legati al completamento<br />

del processo di unificazione 4 ed alle forti differenze regionali. Le condizioni<br />

storiche di emergenza dell’immediato post-1861 portarono ad un accentramento<br />

amministrativo, 5 volto a contrastare le forze anti-unitarie.<br />

Negli anni successivi all’unità, la classe politica liberale si divise in due anime:<br />

un’area moderata, che cercava soluzioni di compromesso ed escludeva la competizione<br />

aperta in politica, rappresentata da figure come Agostino Depretis, Francesco<br />

Crispi e Giovanni Giolitti; dall’altra parte, la seconda anima del liberalismo<br />

ottocentesco italiano era rappresentata da Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli,<br />

e si caratterizzava, al<br />

contrario, per la propensione<br />

al conflitto politico.<br />

Quest’ultimi vennero<br />

sconfitti negli anni<br />

Ottanta<br />

dell’Ottocento;<br />

anni in cui emerse<br />

concretamente la pratica<br />

del trasformismo, che si<br />

concretizzò nella convergenza<br />

verso il centro<br />

dello spettro politico,<br />

con l’esclusione e la<br />

19<br />

Vignetta satirica raffigurante Agostino<br />

Depretis con il corpo di un camaleonte.


marginalizzazione delle opposizioni.<br />

In questo stesso periodo avvenne un rafforzamento dell’esecutivo a scapito del<br />

legislativo, reso necessario dalla rinnovata competizione internazionale e dal bisogno<br />

di un nuovo slancio in termini di efficienza e governabilità dello stato. Tale<br />

s<strong>volta</strong> fu di importanza cruciale, tanto che ridefinì gli e<strong>qui</strong>libri interni della politica<br />

italiana.<br />

La sfida principale rimase per la classe politica liberale quella di rafforzare<br />

l’unità nazionale e due furono gli ambiti che ebbero un decisivo ruolo in tal senso:<br />

la s<strong>volta</strong> in politica estera inaugurata negli anni della Sinistra al governo e la questione<br />

romana con la Chiesa cattolica.<br />

Il coinvolgimento negli affari internazionali ed il ruolo della guerra furono fattori<br />

decisivi per la fortificazione dell’identità nazionale italiana. A partire dai primi<br />

anni Ottanta dell’Ottocento, la Sinistra al governo intrattenne sempre più stretti<br />

contatti con Germania ed Austria-Ungheria, che sfociarono nel trattato della Triplice<br />

alleanza del 1882. Questo atteggiamento di rottura con la tradizionale linea<br />

di prudenza risorgimentale fu interpretato dal governo Depretis come un fattore<br />

“atto a conferire solidità alle istituzioni del giovane Stato” (Sabbatucci e Vidotto<br />

2005, 154). Sul piano più prettamente strategico, la classe politica italiana utilizzò<br />

la Triplice come trampolino per porsi al centro dello scacchiere internazionale e<br />

dare avvio all’esperienza coloniale.<br />

Il secondo ambito è rappresentato dal ruolo della Chiesa, notoriamente forza<br />

anti-unitaria, alla quale si contrappose <strong>una</strong> classe politica cattolica che non volle<br />

rinunciare agli ideali liberali e patriottici. In questo contesto, <strong>qui</strong>ndi, emerse la profonda<br />

contraddizione fra la religione, intesa come fede personale, che accom<strong>una</strong>va<br />

la stragrande maggioranza della popolazione risiedente sul territorio italiano, e<br />

l’istituzione, in quanto tale, della Chiesa cattolica. È con la legge delle guarentigie<br />

del maggio 1871 che lo Stato italiano tentò di risolvere i complessi problemi con il<br />

Vaticano, proclamando il principio della libertà del Papa di operare come un capo<br />

di Stato nella propria enclave territoriale. Questo non impedì comunque allo Stato<br />

pontificio di mantenere <strong>una</strong> certa ostilità nei confronti del nuovo Stato italiano,<br />

che sfociò nella disposizione del non expedit nel 1874, con il quale Pio IX sanciva<br />

che non era opport<strong>una</strong> la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche.<br />

Il crocevia in cui si veniva a trovare il nuovo Stato italiano alla fine dell’Ottocento<br />

non faceva che ampliare le sfide da fronteggiare per la classe politica liberale.<br />

Note:<br />

1. Ricordiamo in particolare l’opposizione della Chiesa cattolica all’unificazione<br />

ed il problema del brigantaggio nel Sud d’Italia.<br />

2. La famosa frase di Massimo d’Azeglio “abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare<br />

20


gli Italiani” rimane un emblema del difficile processo di formazione della coscienza<br />

nazionale italiana.<br />

3. Il primo sovrano a concedere la costituzione nel 1848 fu Ferdinando II di Borbone,<br />

Re delle due Sicilie, seguito da Carlo Alberto di Savoia, da Leopoldo II di<br />

Toscana ed infine da Pio IX.<br />

4. Ricordiamo che erano rimaste escluse dal processo di unificazione numerosi<br />

territori abitati da popolazioni italiane, come il Veneto, il Trentino, Roma ed il<br />

Lazio.<br />

5. Si pensi all’estensione tra il giugno 1859 ed il gennaio 1860 di molte leggi<br />

piemontesi alle nuove regioni annesse, come la legge elettorale.<br />

Bibliografia:<br />

Banti A. M., Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 2004.<br />

Beales D., Biagini E. F., Il Risorgimento e l’unificazione dell’Italia, Bologna, Il Mulino,<br />

2005.<br />

Cammarano F., “Un ibrido fra stato e nazione”, in Il Mulino, vol. 11, n. 1 (gennaio–<br />

febbraio 2011), pp. 72–78.<br />

Cammarano F., Storia dell’Italia liberale, Roma-Bari, Laterza, 2011.<br />

Cammarano F., Guazzaloca G. e Piretti M. S., Storia contemporanea. Dal XIX al XXI<br />

secolo, Milano, Mondadori, 2009.<br />

Musella L., Il trasformismo, Bologna, Il Mulino, 2003.<br />

Sabbatucci G., Il trasformismo come sistema: Saggio sulla storia politica dell’Italia<br />

unita, Roma-Bari, Laterza, 2003.<br />

Sabbatucci G., Vidotto V., Il mondo contemporaneo. Dal 1848 ad oggi, Roma-Bari,<br />

Laterza, 2005.<br />

Viglione M., 1861: Le due Italie: Identità nazionale, unificazione e guerra civile, Milano,<br />

Ares, 2011.<br />

21


Sonderweg:<br />

La via speciale della Germania<br />

all’unità<br />

Francesco De Felice<br />

“Franzosen und Russen gehört das Land,<br />

das Meer gehört den Briten,<br />

Wir aber besitzen im Luftreich des Traums<br />

Die Herrschaft unbestritten.”<br />

Heinrich Heine, Deutschland. Ein Wintermärchen, 1844<br />

Unità tedesca ed unificazione italiana. I concetti fondamentali<br />

I<br />

processi di unificazione in Germania ed in Italia, possono essere analizzati in<br />

chiave comparata con particolare attenzione alla questione nazionale ed al liberalismo<br />

come dottrina politica nelle diverse declinazioni che ebbe nei due Stati.<br />

Questo lavoro ha, <strong>qui</strong>ndi, lo scopo di porre in evidenza sia le analogie quanto,<br />

soprattutto, le profonde differenze nella costituzione dello Stato unitario in Germania<br />

ed in Italia, concentrando l’analisi sulle specificità del caso tedesco nei suoi<br />

concetti fondamentali di Staat, Nation e Bund.<br />

Dopo le vittorie della Prussia nella guerra dei ducati nel 1864, nella campagna<br />

contro l’Austria nel 1866 e nel conflitto con la Francia nel 1870–1871, la proclamazione<br />

dell’Impero Tedesco, avvenuta il 18 gennaio 1871 nel castello di Versailles,<br />

rappresentò la conclusione di un processo unitario che, sorto dal nazionalismo<br />

romantico e passato attraverso la contrapposizione tra conservatorismo e liberalismo,<br />

condusse all’affermazione della potenza prussiana sotto l’abile regia politica<br />

e diplomatica del cancelliere Otto von Bismarck-Schönhausen.<br />

Già da questa sommaria introduzione, appare possibile dedurre le evidenti<br />

analogie tra unificazione italiana ed unità tedesca. Entrambi i casi, infatti, sono<br />

caratterizzati da elementi comuni quali il sentimento nazionale, il confronto tra<br />

filosofie politiche antitetiche e, in più, l’affermazione di uno Stato egemone – il<br />

Regno di Sardegna, il Regno di Prussia – i cui primi ministri, Camillo Benso di Cavour,<br />

Otto von Bismarck-Schönhausen, con determinazione maggiore degli stessi<br />

sovrani Vittorio Emanuele II di Savoia e Guglielmo I di Hohenzollern, intesero utilizzare<br />

il processo di unificazione come strumento di politica di potenza, attuando<br />

<strong>una</strong> visione realista delle relazioni internazionali che impose il ricorso alla guerra<br />

come mezzo per l’affermazione dello Stato.<br />

22


A fronte di queste similitudini, risaltano con maggiore chiarezza le particolarità<br />

esclusive dell’unificazione tedesca, quel Sonderweg che costituisce la “via<br />

speciale” della Germania all’unità. Stante un sentimento nazionale storicamente<br />

forte e radicato, tale da superare le distinzioni di classe o di Stato di appartenenza<br />

attraverso la formazione di <strong>una</strong> comunità culturale coesa nella ricerca dell’unità<br />

politica, l’unificazione divenne <strong>una</strong> risorsa fondamentale nel gioco politico-diplomatico<br />

di Bismarck, il quale riuscì abilmente a strumentalizzare la questione nazionale<br />

per piegarla alle esigenze della politica di potenza del Regno di Prussia nel<br />

perseguimento dell’egemonia regionale e, successivamente, continentale.<br />

Con riguardo alle specificità del caso tedesco, la formazione dello Stato unito<br />

può essere descritta come l’interazione di tre Begriffe o concetti fondamentali, quali<br />

le idee di Staat (Stato), Nation (Nazione) e Bund (legame, ma anche lega, unione<br />

politica). La complementarietà di Staat e Nation, o meglio, di Staatsnation (Nazione<br />

come Stato, Costituzione ed istituzioni) e Kulturnation (Nazione come civiltà,<br />

come idem sentire, legame sentimentale e culturale), costituisce, dunque, l’essenza<br />

del Sonderweg (Rusconi 2011). Sulla via speciale all’unità, ogni tedesco prima che<br />

suddito di uno dei tanti Stati che compongono il Deutscher Bund – la Confederazione<br />

Germanica istituita dal Congresso di Vienna (1814–1815) come successore<br />

del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica – sperimentava effettivamente<br />

il senso di appartenenza ad <strong>una</strong> Kultur, ovvero ad <strong>una</strong> comunione di civiltà<br />

che trascende i confini statali, ed attendeva l’intervento di uno Stato egemone in<br />

grado di dare alla comunità del popolo ed all’unione degli Stati un’organizzazione<br />

politica stabile ed efficiente che ponesse la Germania in grado di competere con<br />

le altre potenze europee. I concetti di Stato e Nazione, infine, erano legati ed interagivano<br />

con un terzo Begriff: il Bund, ovvero il legame con cui si costituisce<br />

la Genossenschaft, l’ “unione di compagni”. Il concetto di Bund, dunque, rende<br />

manifesta <strong>una</strong> prima differenza sostanziale col modello di unificazione italiana.<br />

L’unione dinamica di Staat e Nation in Germania può essere paragonata per opposizione<br />

ad <strong>una</strong> Nationkultur italiana plurisecolare che affrontò notevoli difficoltà<br />

nell’affermazione della Staatsnation.<br />

Un’ulteriore comparazione di notevole utilità ai fini di <strong>una</strong> migliore comprensione<br />

della profonda diversità tra unità tedesca ed unificazione italiana, si<br />

trova dunque sia nel concetto di Nazione, sia nelle differenti esperienze belliche<br />

all’origine dei rispettivi processi di unificazione nazionale.<br />

Sin dall’umanesimo di Ulrich von Hutten (1488–1523) e dalla filosofia politica<br />

della Riforma, a fronte della frantumazione politica del territorio, l’idea di Nazione<br />

venne considerata in Germania come patrimonio dell’intera Genossenschaft,<br />

senza distinzioni in base alla classe cui l’individuo potesse appartenere o in base<br />

allo Stato di cui potesse essere suddito. Questa concezione unitaria dell’idea di Nazione<br />

ebbe la sua massima formalizzazione nell’opera di Johann Gottfried Herder<br />

23


(1744–1803) e nei Reden an die deutsche Nation, pubblicati da Johann Gottlieb<br />

Fichte (1762–1814) nel 1808 durante l’occupazione francese del Regno di Prussia.<br />

In particolare, Herder considerò il sentimento nazionale come vincolo sociale capace<br />

di unificare il Volk – il popolo – e rendeva la Nazione un elemento spontaneo<br />

ed indipendente dalla volontà umana. Questo spirito nazionale che assume<br />

forme di innatismo è fondamentale per la comprensione dell’unità tedesca, poiché<br />

Bismarck lo avrebbe fatto proprio dando prova di acuto realismo. Abbracciando<br />

il progetto della Kleindeutsche Lösung, volto all’unificazione degli Stati tedeschi<br />

settentrionali in <strong>una</strong> confederazione che escludesse l’Austria, Bismarck, pur non<br />

condividendo l’ideale nazionale di matrice liberale, sposava la causa nazionalista<br />

e ne diveniva alfiere. Tale apparente rivolgimento non deve stupire, poiché rappresenta<br />

uno degli esempi classici del realismo che animò l’intera azione politica<br />

del Presidente dei Ministri prussiano. Con l’adesione all’ideale nazionale, infatti,<br />

Bismarck fu capace di fornire <strong>una</strong> solida fonte di legittimazione all’espansione del<br />

Regno di Prussia, presentando questa all’opinione pubblica come realizzazione di<br />

24<br />

Anton von Werner, “La proclamazione<br />

dell’Impero tedesco“ (1877).


un’unità nazionale già presente a livello ideale, così ottenendo il consenso di molti<br />

liberali già contrari al suo governo autoritario.<br />

In Italia, al contrario, l’idea di Nazione fu esclusiva delle élites liberali e il processo<br />

unitario provocò gravi reazioni contrarie all’unificazione, come lo sviluppo<br />

del brigantaggio meridionale e l’opposizione del movimento cattolico conservatore.<br />

Ulteriore differenza essenziale tra Germania ed Italia è riscontrabile nella visione<br />

storiografica e nella mitografia nazionale delle guerre per l’unità. I conflitti<br />

ingaggiati dalla Prussia tra il 1864 ed il 1866, prima a fianco dell’Austria contro la<br />

Danimarca per la questione dei ducati di Schleswig ed Holstein, poi con l’Italia<br />

ed alcuni Stati della Confederazione Tedesca contro l’Austria ed altri Stati del<br />

Deutscher Bund per l’affermazione dell’egemonia prussiana sulla Germania, non<br />

rappresentano campagne di unificazione, ma Einheitskriege, “guerre di unità”<br />

in cui il sentimento nazionale è drammaticamente già ac<strong>qui</strong>sito, tanto da venire<br />

nominate anche Bruderkrieg, ovvero “guerra dei fratelli”.<br />

Non appare questa la sede per approfondire il successo della politica estera<br />

bismarckiana fino alla vittoria sulla Francia nella guerra franco-prussiana del<br />

1870–1871 ed alla proclamazione del Deutsches Reich. Ciò che si ritiene essenziale<br />

rimarcare è il fatto che, nel caso tedesco, la cementazione dello spirito nazionale<br />

precedette le guerre di unificazione prussiane. Il nazionalismo ebbe per Bismarck<br />

<strong>una</strong> funzione esclusivamente strumentale per l’affermazione della potenza prussiana.<br />

Prima che il perfezionamento dell’unità culturale attraverso l’unificazione<br />

politica, l’obiettivo fondamentale delle guerre per l’unità fu l’espansione del<br />

Regno di Prussia ai fini del raggiungimento dell’egemonia in Europa centrale e<br />

dell’inserimento nel gioco delle grandi Potenze su di un piano partecipazione paritaria.<br />

A tale scopo, il nazionalismo venne a costituire per Bismarck niente altro che<br />

<strong>una</strong> risorsa di fondamentale importanza per la creazione del consenso nel compimento<br />

del suo progetto politico basato su di un’unificazione “durch Eisen und<br />

Blut”, ovvero “col ferro e col sangue”, come Bismarck stesso affermò il 30 settembre<br />

1862, innanzi alla Commissione per il Bilancio della Camera dei Deputati del Landtag<br />

prussiano al culmine della crisi istituzionale sull’aumento delle spese militari. I<br />

conflitti combattuti tra il 1864 ed il 1871 costituiscono, dunque, esempi applicativi<br />

della Realpolitik di Bismarck, quello schema analitico introdotto da Ludwig August<br />

von Rochau (1810–1873) nei suoi Grundzüge der Realpolitik (1853). In questo<br />

schema analitico, le guerre sono funzionali all’affermazione dello Stato nazionale<br />

nell’interesse prussiano e, <strong>qui</strong>ndi, tedesco, ancor prima che all’affermazione del<br />

liberalismo e di quell’idea di Nazione che ad esso appartiene. La guerra, in conclusione,<br />

è pura esplicazione della politica di potenza bismarckiana.<br />

25


I liberali prussiani ed il connubio con l’autoritarismo di Bismarck<br />

La comparazione dei processi di unificazione in Italia ed in Germania consente<br />

di porre in evidenza <strong>una</strong> significativa analogia nelle strategie adottate<br />

da Cavour e Bismarck per l’allargamento del consenso ai fini dell’attuazione del<br />

loro programma politico e, specificamente, della risoluzione della questione nazionale.<br />

Mentre il conte liberale inaugurò la politica del connubio con le forze<br />

d’opposizione del Centrosinistra, onde emarginare la destra conservatrice, il principe<br />

conservatore seppe sfruttare le istanze dei Liberalen prussiani per vincere la<br />

loro opposizione alla sua politica autoritaria. A tal scopo, dando ulteriore prova del<br />

proprio realismo, Bismarck fece leva sul pragmatismo dei suoi avversari ed utilizzò<br />

quel sentimento nazionale che costituiva al tempo stesso un principio fondamentale<br />

per i liberali ed uno strumento privo di contenuti ideologici per il Presidente<br />

dei Ministri del Regno di Prussia.<br />

Questa manovra di cooptazione, fu resa più agevole dalle caratteristiche strutturali<br />

del pensiero e della politica liberali come si manifestarono nella Germania<br />

della seconda metà del XIX secolo, in particolare dal forte pragmatismo che animava<br />

i Liberalen. Il liberalismo tedesco, infatti, poneva al centro della sua analisi<br />

politica <strong>una</strong> particolare forma di rapporto tra Stato e società, incardinata nell’idea<br />

di <strong>una</strong> possibile realizzazione del maggiore grado di libertà politica ed economica<br />

per l’individuo anche nel contesto di uno Stato conservatore ed autoritario come<br />

la Prussia degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta del XIX secolo. Ciò è vero<br />

non solo sul piano prettamente filosofico, ma anche su quello più propriamente<br />

26<br />

Vignetta pubblicata il 16 dicembre 1866, pochi mesi dopo la vittoria di<br />

Königgrätz. Bismarck traina i Liberalen prussiani sul carro della vittoria.


politico. Dando prova di abile pragmatismo, i Liberalen intercettarono l’apertura di<br />

Bismarck ed avviarono un avvicinamento al Presidente dei Ministri che culminò<br />

nel sostegno fornito al governo dopo la vittoria nella guerra contro l’Austria nel<br />

1866. Pur di perseguire l’obiettivo della massima realizzazione del principio di libertà<br />

individuale nello “Stato-caserma” prussiano, i liberali giunsero, <strong>qui</strong>ndi, ad<br />

<strong>una</strong> sorta di connubio con il conservatorismo: se appoggiare Bismarck e<strong>qui</strong>valeva<br />

alla rinuncia allo sviluppo delle istituzioni in senso pienamente parlamentare,<br />

in favore di un assetto istituzionale di tipo autoritario al limite dell’assolutismo,<br />

questo era l’unico modo per partecipare in futuro al governo della Germania, in<br />

<strong>una</strong> posizione di forza che rendesse possibile l’avvio di <strong>una</strong> sincera “rivoluzione<br />

liberale” (Cioli 2003).<br />

Dall’apertura alla collaborazione con le forze conservatrici ed autoritarie e<br />

dalla strategia fondata su un approccio pragmatico alla competizione politica,<br />

emerge la specificità dei Liberalen prussiani in confronto ai liberali italiani. Dando<br />

dimostrazione di notevole pragmatismo, stanti l’ac<strong>qui</strong>sizione dell’idea di Nazione<br />

(Kulturnation) e l’obiettivo della costituzione dello Stato Nazionale (Staatsnation),<br />

i Liberalen ed, in particolare, la Nationalliberale Partei fondata nel 1866 – lo<br />

stesso anno della vittoria prussiana a Königgrätz – sarebbero stati fedeli sostenitori<br />

di Bismarck, quale Presidente dei Ministri del Regno di Prussia e Cancelliere<br />

dell’Impero Tedesco, anche a costo di rinunciare a questioni fondamentali del liberalismo.<br />

Tuttavia, il sostegno al Caesarenthum di Bismarck, inteso come forma<br />

moderna del cesarismo (Rusconi 2011) sarebbe stata causa di un grave pregiudizio<br />

sulla Regierungsfähigkeit (“capacità di governare”) dei liberali tedeschi, con drammatiche<br />

conseguenze per la storia della Germania contemporanea.<br />

Bibliografia:<br />

Cioli M., “Forme partitico-organizzative nella Germania di Bismarck. Il pragmatismo<br />

come ideologia del liberalismo tedesco”, in Ricerche di storia politica, n.<br />

1 (2003), pp. 3–33.<br />

Meriggi M., “Liberalismo sociale”, in L’Europa dall’Otto al Novecento, Roma, Carocci,<br />

2006, pp. 89–124.<br />

Rusconi G., Cavour e Bismarck. Due leader fra liberalismo e cesarismo, Bologna, Il<br />

Mulino, 2011.<br />

Schiera P., “Partito-ideologia o partito istituzione? A proposito della ristampa di un<br />

vecchio libro e di un problema che vecchio non è”, in Scienza & politica, n. 2<br />

(1989), pp. 75–88.<br />

27


Religione e politica<br />

negli Stati Uniti<br />

Lucia Ducci<br />

Il posto della religione: comparazione fra Italia e Stati Uniti<br />

Nell’ambito delle ricerche sul tema dell’unità italiana e del parallelo processo di<br />

costruzione della nazione statunitense, un ruolo di particolare importanza è<br />

quello ricoperto dalla variabile religiosa. Sebbene, infatti, si sia fatto spesso riferimento<br />

agli Stati Uniti come a <strong>una</strong> nazione laica, è da rilevare la presenza di un forte<br />

spirito religioso che ha influenzato decisamente la storia e la costituzione materiale<br />

del paese d’oltreoceano.<br />

La stessa idea di missione sulla quale gli Stati Uniti hanno basato la loro politica<br />

estera, ritenendosi <strong>una</strong> sorta di popolo eletto investito da Dio della funzione di diffondere<br />

le proprie istituzioni nel resto del mondo, è un fenomeno di lunghissimo<br />

periodo che affonda le proprie radici in A Model of Christian Charity, il sermone<br />

pronunciato dal leader puritano John Winthrop prima di sbarcare dall’Arbella sulla<br />

costa del Massachusetts nel 1630, e passa attraverso il Manifest Destiny di John<br />

O’Sullivan nel 1845.<br />

La retorica biblica è stata pienamente inserita nel linguaggio politico e i principi<br />

evangelici hanno ispirano la base ideologica della politica, tal<strong>volta</strong> fondendo<br />

il rapporto tra religione e democrazia in un unico tòpos. I valori religiosi sono<br />

<strong>una</strong> parte estremamente importante della vita degli statunitensi, non solo nella<br />

dimensione personale ma anche nella sfera politica e sociale, come dimostrato<br />

dall’inserimento del primo emendamento della Costituzione che sancisce la libertà<br />

di religione.<br />

Tuttavia, il divieto di istituire <strong>una</strong> religione di Stato fu inizialmente limitata al<br />

Congresso e, indirettamente, all’esecutivo federale. Al momento della ratifica del<br />

primo emendamento, quattro Stati vietavano ai non protestanti di ricoprire cariche<br />

pubbliche e la Chiesa congregazionale del Massachusetts vide abolito il suo<br />

ruolo di Chiesa di Stato soltanto nel 1833. Solo con la sentenza Everson v. Board<br />

of Education del 1947 la Corte Suprema stabilì che anche i singoli Stati dovessero<br />

restare neutrali rispetto alle singole religioni e confessioni.<br />

Sin dalla formazione della repubblica americana, molti intellettuali e rappresentanti<br />

politici considerarono fondamentale promuovere un’identità culturale<br />

che facesse perno intorno al tema della religione. Thomas Jefferson, in particolare,<br />

sostenne l’idea che le differenze religiose dovesser essere salvaguardate. Fin<br />

da allora, la religione fu considerata un diritto personale del singolo cittadino e il<br />

28


Congresso non poté emanare nessun atto che negasse la libera espressione di <strong>una</strong><br />

confessione (vedi il Virginian Act of Religious Freedom); di conseguenza, parallelamente<br />

ai vari flussi migratori sorsero sul territorio americano diversi gruppi religiosi,<br />

liberamente organizzati, in quanto considerati come associazioni private,<br />

all’interno della società civile.<br />

All’inizio dell’Ottocento, si attraversò <strong>una</strong> fase molto importante per la storia<br />

religiosa degli Stati Uniti, il cosiddetto “Secondo Grande Risveglio” (il primo era<br />

avvenuto nel secolo precedente), ovvero un vasto fenomeno di revival religioso,<br />

che si manifestò soprattutto nella zona “di frontiera”, definita da Frederick Jackson<br />

Turner come la linea di demarcazione tra la civilization e la savagery, cioè il limite,<br />

sempre in movimento verso occidente, della progressiva colonizzazione americana<br />

del “West”.<br />

Negli anni che precedettero lo scoppio della guerra civile americana,<br />

l’attenzione della stampa (vedi giornalisti come Margaret Fuller) e degli intellettuali<br />

statunitensi per l’elezione di Pio IX al soglio pontificio nell’estate del 1846 mise in<br />

luce non solo le aspettative legate alla speranza per <strong>una</strong> s<strong>volta</strong> riformista nella politica<br />

del papato, ma tal<strong>volta</strong> anche la sottile intenzione di distrarre l’opinione pubblica<br />

dalle crescenti tensioni che avrebbero<br />

condotto al sanguinoso conflitto<br />

tra Nord e Sud.<br />

Gli Stati Uniti, a differenza dell’Italia,<br />

non siglarono mai un concordato con il<br />

Vaticano. Tuttavia le relazioni consolari<br />

con lo Stato pontificio furono stabilite<br />

nel 1797 e le relazioni diplomatiche<br />

propriamente dette furono intraprese<br />

a partire dal 1848, ma nel 1867 il Congresso<br />

cancellò i fondi per la legazione<br />

di Roma e, di fatto, la rappresentanza<br />

statunitense presso lo Stato pontificio<br />

chiuse. Nel corso del Novecento alcuni<br />

presidenti nominarono un proprio rappresentante<br />

personale presso il pontefice,<br />

ma formalmente non si trattava di<br />

un rappresentante dello Stato federale e,<br />

<strong>qui</strong>ndi, non si poteva parlare di ripresa<br />

delle relazioni diplomatiche. Il più noto<br />

diplomatico fu Myron Charles Taylor<br />

per Franklin D. Roosevelt e Harry Truman.<br />

Le relazioni diplomatiche formali<br />

29<br />

Ritratto di John Winthrop, primo<br />

governatore del Massachusetts.


tra gli Stati Uniti e il Vaticano furono ristabilite solo nel 1984 sotto la presidenza<br />

Reagan. Il primo ambasciatore fu Wilson A. Wilson.<br />

La questione religiosa e il rapporto tra politica e Vaticano in Italia sono sempre<br />

stati ben più complessi. La necessità di limitare il potere della Chiesa alla sfera spirituale<br />

si manifestò in occasione della proclamazione del Regno d’Italia nel 1861,<br />

quando Cavour, nel suo primo intervento in parlamento, riprese la frase di Montalembert,<br />

“libera chiesa in libero stato”. Il controverso rapporto tra religione e potere<br />

caratterizzò tutto il secolo e vani furono i tentativi di trovare <strong>una</strong> soluzione: la legge<br />

sulle guarentigie nel 1871 venne considerata dalla Santa Sede un atto unilaterale<br />

e, come reazione, nel 1874 la Chiesa vietò esplicitamente ai cattolici di partecipare<br />

attivamente alla vita politica con il “non expedit”. La Rerum Novarum, l’enciclica<br />

promulgata dal papa Leone XIII nel 1891, rappresentò un debole passo in avanti<br />

nel processo di modernizzazione del rapporto tra religione e politica: per la prima<br />

<strong>volta</strong> la Chiesa cattolica prese posizione in ordine alle questioni sociali e fondò la<br />

moderna dottrina sociale cristiana. L’enciclica esprimeva <strong>una</strong> condanna nei confronti<br />

del socialismo, della teoria della lotta di classe, della massoneria, preferendo<br />

che la questione sociale venisse risolta dall’azione combinata della Chiesa e dello<br />

Stato.<br />

Pubblicità di un programma televisivo<br />

condotto dal pastore Billy Graham (1986).<br />

Evoluzionismo e coscienza nazionale<br />

La pubblicazione del libro di Charles<br />

Darwin L’evoluzione della specie<br />

nel 1859 comportò uno sconvolgimento<br />

profondo del rapporto tra scienza e religione.<br />

Non si poteva più credere in Dio<br />

tramite la scienza e si avviò così il processo<br />

di secolarizzazione della società<br />

americana, dal quale prese forma l’annosa<br />

questione della laicità dell’insegnamento<br />

nelle scuole pubbliche e il problema dei<br />

finanziamenti alle scuole confessionali.<br />

Fu <strong>una</strong> materia soprattutto di ordine<br />

giudiziario, segnata da alcune sentenze<br />

della Corte Suprema come Engel v. Vitale<br />

(1962) sull’incostituzionalità della<br />

recita di <strong>una</strong> preghiera all’inizio di ogni<br />

giorno nelle scuole pubbliche e Wallace<br />

v. Jaffree (1985) sull’incostituzionalità di<br />

riservare per legge un minuto di silenzio<br />

alla meditazione o alla preghiera volon-<br />

30


taria in apertura delle lezioni. Tuttavia sussistevano degli aspetti di rimando alla religione,<br />

come quelli che costituirono il “darwinismo sociale” e il “gospel of wealth”<br />

con cui si sostenne l’esistenza di <strong>una</strong> ristretta élite e di un proletariato subordinato,<br />

come struttura necessaria al progresso della società. Senza dubbio l’applicazione<br />

dell’evoluzionismo allo studio delle scienze umane produsse negli Stati Uniti un<br />

acceleramento del processo di modernizzazione anche in senso capitalistico.<br />

Il caso dell’Italia è tutto sommato meno eclatante, anche se è indubbio che<br />

positivismo ed evoluzionismo abbiano giocato un ruolo importante nella modernizzazione<br />

della cultura italiana postunitaria.<br />

L’importanza della religione si manifesta nel Novecento, quando John Scopes,<br />

un giovane insegnante, è processato e condannato per violazione del Butler Act<br />

dello Stato del Tennessee, che proibiva di insegnare la Teoria dell’evoluzione nelle<br />

scuole del Tennessee. La lotta fra creazionisti ed evoluzionisti negli Stati Uniti continua<br />

ancora adesso con sporadici scontri. Va ricordato che solo nel 1957, a causa<br />

della forte sensazione di essere in ritardo in campo scientifico, un testo comprendente<br />

la teoria di Darwin venne distribuito in parte dei distretti scolastici statunitensi,<br />

nonostante la forte avversità dei cristiani più conservatori. Lo stesso Butler<br />

Act venne abrogato solo nel 1967.<br />

Come avvenuto in Italia in riferimento al liberalismo, negli Stati Uniti l’ateismo<br />

è sempre stato visto come uno dei peggiori nemici della società americana.<br />

Quest’ultima rimane ancora oggi fortemente pervasa dalla componente religiosa,<br />

che si declina prevalentemente in numerose confessioni cristiane – soprattutto<br />

cattoliche e protestanti. Per diffusione sociale la prima delle confessioni religiose<br />

è sicuramente quella protestante, al cui interno si distinguono le chiese di tradizione<br />

calvinista-riformata – presbiteriana, congregazionista e battista – e quelle<br />

che rappresentano invece la versione americana dell’anglicanesimo, come gli<br />

episcopali, che raccolgono solitamente i membri dei ceti sociali medio alti. Nelle<br />

sue due ramificazioni la confessione protestante gode generalmente di <strong>una</strong> consistente<br />

fort<strong>una</strong> tra i giovani, attirati dall’etica liberale che la caratterizza, dalle posizioni<br />

progressiste nell’abito delle riforme sociali, nonché dagli sforzi compiuti<br />

nella direzione di <strong>una</strong> maggiore integrazione razziale. La seconda confessione più<br />

seguita è quella cristiano-cattolica che balza, però, al primo posto nella classifica<br />

delle singole chiese più diffuse sul territorio. Il motivo di questa preminenza va<br />

ovviamente ricercato nell’immigrazione ispanica, che, dagli anni ’80 ad oggi ha<br />

registrato un fortissimo incremento. Non bisogna infine dimenticare la presenza<br />

di <strong>una</strong> comunità ebraica diffusa in particolare sulle due coste oceaniche, e la<br />

cui roccaforte è rappresentata dallo Stato di New York. Alle confessioni religiose<br />

tradizionali si sono poi più recentemente affiancate le cosiddette megachurches,<br />

chiese non-denominazionali di notevoli dimensioni.<br />

Negli ultimi decenni le confessioni religiose hanno trovato nuovi canali di<br />

31


evangelizzazione sia nei mezzi di comunicazione di massa, sia nella rete telematica.<br />

Quest’opera di proselitismo mediatico si è <strong>qui</strong>ndi concretizzata nella fondazione<br />

di TV e web churches, che hanno portato alla ribalta i cosiddetti telepredicatori.<br />

Alcuni di loro, come gli esponenti della Destra cristiana Billy Graham, Pat Robertson<br />

e Jerry Falwell, sono rimasti nella storia per aver dato un grande apporto alla<br />

vittoria di Ronald Reagan nelle elezioni presidenziali del 1980 e del 1984. Il loro apporto<br />

è stato fondamentale anche per mobilitare a favore del partito repubblicano<br />

un bacino di elettori tendenti all’astensionismo nelle elezioni di mid-term del 1994<br />

e in quelle presidenziali del 2000 e 2004, che hanno visto la vittoria consecutiva di<br />

George W. Bush.<br />

Oltre alla comunicazione catodica e telematica, la dimensione religiosa ha<br />

trovato un’ulteriore mezzo di espressione nella letteratura, e questo fenomeno si<br />

pone come ulteriore conferma dell’importanza della religione nell’immaginario<br />

collettivo americano. Negli ultimi anni la religione è diventata addirittura oggetto<br />

di romanzi di fantascienza, fra i quali spicca Left Behind, un’opera di grande successo<br />

scritta da Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins. Basata sull’interpretazione della<br />

Bibbia e, in particolare, delle scritture dei profeti Giovanni, Ezechiele e Daniele in<br />

chiave apocalittica, questa serie indaga la contrapposizione tra conservatori credenti<br />

e progressisti laici, considerata come uno dei principali fattori di divisione<br />

della società statunitense a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Alcuni<br />

dati statistici sulla rilevanza della religione nella vita degli statunitensi riportano<br />

che: l’83% di essi non sono atei, il 59% prega almeno <strong>una</strong> <strong>volta</strong> alla settimana, il<br />

40% partecipa a cerimonie religiose in un luogo di culto almeno <strong>una</strong> <strong>volta</strong> alla settimana.<br />

Inoltre, il 38% degli statunitensi è attivo in un’organizzazione religiosa rispetto<br />

ad appena il 9% degli italiani. Secondo lo studio recente di Robert D. Putnam<br />

e David E. Campbell, gli Stati Uniti sono il paese industrializzato con il più forte<br />

sentimento religioso nella popolazione.<br />

Bibliografia:<br />

Antonelli S., Fiorentino D., Monsagrati G. (a cura di), Gli americani e la Repubblica<br />

romana del 1849, Roma, Gangemi Editore, 2000.<br />

Bonazzi T., “Guerra! Religione e nazione nell’America contemporanea”, in R. Baritono<br />

e E. Vezzosi (a cura di), Oltre il secolo americano? Gli Stati Uniti prima e<br />

dopo l’11 settembre, Roma, Carocci, 2011, pp. 59–73.<br />

D’Agostino P., Rome in America, Transnational catholic ideology from the Risorgimento<br />

to fascism, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2004.<br />

Putnam R. D., Campbell D. E., American grace. How religion divides and unites us,<br />

New York, Simon and Schuster, 2011.<br />

32


La questione sociale e lo<br />

scontro di classe:<br />

Un confronto tra Italia e Stati Uniti<br />

d’America<br />

Francesco Condoluci, Francesca Ghezzi<br />

Scatenata dalla Seconda Rivoluzione Industriale, la questione sociale esplose<br />

con forza nel corso degli anni Ottanta del XIX secolo in Europa così come in<br />

America. Si trattò di un fenomeno estremamente complesso, che assunse dimensioni<br />

e forme differenti nelle diverse nazioni in fase di industrializzazione. La questione<br />

sociale racchiudeva in sé moltissime problematiche che colpivano la grande<br />

massa delle classi lavoratrici, come la povertà, le dure condizioni di lavoro nelle<br />

fabbriche e nelle campagne, le precarie condizioni di igiene e di salute, la mortalità<br />

infantile, la crescente immigrazione. La povertà e il degrado in cui versava la<br />

grande maggioranza delle classi lavoratrici erano in contraddizione con la crescita<br />

economica favorita dall’industrializzazione e si tradussero in <strong>una</strong> decisa ondata di<br />

rivendicazioni sociali, duramente represse dalle autorità. Dopo le prime reazioni di<br />

forza nel lungo periodo i governi furono indotti a introdurre alcuni provvedimenti<br />

al fine di contenere il malessere dei lavoratori.<br />

La questione sociale riguardò tanto l’Italia quanto gli Stati Uniti d’America ma<br />

con differenze molto significative sia circa la portata e i tempi del processo di industrializzazione,<br />

sia circa la natura del movimento operaio e le tipologie di intervento<br />

sociale intraprese dai due paesi.<br />

La questione sociale in Italia<br />

Nel neonato Regno d’Italia la “questione sociale” emerse con particolare vigore<br />

tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, quando alcune inchieste misero<br />

in luce l’esistenza di scenari di povertà e arretratezza particolarmente gravi, specie<br />

nel Sud della penisola. Le prime indagini – come, ad esempio, l’Inchiesta in<br />

Sicilia di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti del 1876 – riguardarono lo stato<br />

dell’industria nazionale e del Mezzogiorno. Gradualmente, il campo d’osservazione<br />

venne esteso anche alle precarie condizioni igienico-sanitarie in cui versava gran<br />

parte della popolazione e alla complessa condizione agraria del paese, trattata diffusamente<br />

dalla cosiddetta Inchiesta Jacini, elaborata da un’apposita commissione<br />

parlamentare tra il 1878 e il 1886. Le crisi economiche depressive che colpirono<br />

33


il paese nell’ultimo ventennio dell’Ottocento favorirono inoltre il diverso sviluppo<br />

del Sud e del Nord della penisola: mentre nel primo imperversava la crisi agraria,<br />

il secondo vedeva la nascita di grandi industrie siderurgiche e meccaniche (ad<br />

esempio la Fiat, nel 1899) e dunque l’affermarsi di nuove tecnologie, nuovi beni di<br />

consumo e <strong>una</strong> più moderna organizzazione del lavoro. Considerate le molteplici<br />

problematiche del caso italiano sarebbe pertanto più corretto parlare di “questioni<br />

sociali”, alle quali nel corso degli anni vennero date di fatto risposte differenziate.<br />

Inizialmente la classe dirigente del paese si dimostrò indifferente nei confronti<br />

del malessere diffuso fra i lavoratori, la cui componente operaia era peraltro in<br />

costante aumento. Di fronte alla mancanza di appoggio istituzionale sorsero due<br />

movimenti di opposta matrice: quello cattolico, tradizionalmente radicato nella<br />

società italiana, e quello nascente operaio e socialista, espressione della modernità<br />

industriale. L’impegno sociale del movimento cattolico si espresse per lo più in<br />

forme paternalistiche di assistenza e carità, elargite nei numerosi istituti religiosi<br />

diffusi nella penisola, fino a quando, nel 1891, l’enciclica Rerum Novarum di Leone<br />

XIII pose le basi per <strong>una</strong> nuova dottrina sociale della Chiesa. Il documento si opponeva<br />

allo sfruttamento capitalistico dei lavoratori, promuovendo <strong>una</strong> conciliazione<br />

tra dipendenti e padroni, e contrapponeva al “falso rimedio” del socialismo<br />

e della lotta di classe lo sviluppo delle associazioni popolari cattoliche. Anche il<br />

movimento operaio si prodigò in iniziative solidaristico-assistenziali tra e per i<br />

lavoratori, come testimonia la rapidissima diffusione, in questi anni, delle Società<br />

Operaie di Mutuo Soccorso. Questo movimento, però, agì anche in campo più<br />

strettamente politico, abbracciando l’ideologia socialista ancor prima del raggiungimento<br />

di <strong>una</strong> piena industrializzazione della penisola, della nascita di un vero<br />

34<br />

Giuseppe Pellizza da Volpedo,<br />

“Il quarto stato“ (1901).


e proprio sistema capitalista e del corrispettivo proletariato industriale (gli operai<br />

italiani della seconda metà del secolo, infatti, spesso alternavano il lavoro in fabbrica<br />

a quello nelle campagne). Quest’anomalia spiega perché il movimento operaio<br />

in Italia assunse delle forme anarchiche molto più frequentemente che in altri<br />

paesi occidentali: mancando solide e mature basi alla coscienza di classe, esso era<br />

più soggetto a derive di questo tipo.<br />

Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento ebbero così luogo le prime agitazioni importanti<br />

dei lavoratori agricoli e industriali. Fra questi ultimi si possono ricordare,<br />

ad esempio, i moti bracciantili in Val Padana, Lombardia e Piemonte, legati alle<br />

conseguenze dell’industrializzazione dell’agricoltura e le Leghe di Resistenza di<br />

Milano, dalle quali nel 1882 nacque il Partito Operaio Italiano. In questi anni lo<br />

sciopero si affermò come un nuovo strumento di protesta di massa, come nel caso<br />

dei Fasci Siciliani (1892–1894) che, seppur duramente repressi, rappresentarono<br />

l’emblema di un violento conflitto sociale ormai incanalatosi nella moderna forma<br />

della lotta sindacale. Tale lotta si sostitutiva dunque al ribellismo spontaneo ed era<br />

indicativa di uno scenario politico in trasformazione, dovuto proprio all’imporsi<br />

della classe operaia, un attore di cui era ormai impossibile non tenere conto. Tra i<br />

lavoratori si fece infatti progressivamente strada la necessità di eleggere rappresentanti<br />

politici capaci di farsi interpreti delle loro istanze. Il Partito Operaio Italiano<br />

iniziò pertanto un cammino di maturazione verso la <strong>una</strong> forma di partito<br />

moderna, che lo portò a ridefinirsi, in un primo tempo, come Partito dei Lavoratori<br />

Italiani (1891) e, infine, con <strong>una</strong> definitiva scelta ideologica, Partito Socialista Italiano<br />

(1892).<br />

Per ciò che concerne le risposte date dal governo italiano ai problemi delle<br />

Bambina al lavoro in un’industria<br />

tessile a Newberry, SC (1908).<br />

35


masse operaie, la rotta fu invertita solo dopo un ventennio di sostanziale indifferenza<br />

attraverso <strong>una</strong> serie di interventi di previdenza sociale, pur scarsamente<br />

coor dinati. Ne sono un esempio l’istituzione della Cassa Nazionale Previdenziale<br />

per gli Invalidi e gli Anziani (1898), quella dell’Ufficio del Lavoro e la Legge sul<br />

Lavoro dei Fanciulli e delle Donne (1902). Fu però in età giolittiana che vennero<br />

create delle strutture statali che, nonostante l’arretratezza generale del paese, erano<br />

basate su criteri moderni di assistenza previdenziale e che provvidero a scalzare<br />

progressivamente il ruolo centrale sino ad allora rivestito dagli istituti religiosi.<br />

La questione sociale negli Stati Uniti.<br />

Con la fine della guerra civile, gli Stati Uniti vissero un imponente e rapidissimo<br />

processo di industrializzazione, che tra il 1860 e il 1900 trasformò il paese nella<br />

prima potenza industriale del mondo. Gli anni chiave di questo processo, soprattutto<br />

dal punto di vista della questione sociale, furono quelli della cosiddetta Gilde d<br />

Age (l’Età dorata), in particolare il ventennio compreso tra il 1870 e il 1890, anno<br />

in cui la produzione industriale assunse il primato su quella agricola. La Gilded<br />

Age fu un’epoca di profonda e rapida trasformazione della società americana, nel<br />

corso della quale, insieme alla grande crescita produttiva, importanti innovazioni<br />

sul piano tecnologico rivoluzionarono il mondo dell’industria, dei trasporti, delle<br />

comunicazioni e della vita quotidiana.<br />

L’impatto dell’industrializzazione sul tessuto economico e sociale americano<br />

fu però traumatico e diede vita a <strong>una</strong> grande polarizzazione sociale, dovuta alla distribuzione<br />

fortemente s<strong>qui</strong>librata della ricchezza. Da un lato, si affermavano vere<br />

e proprie oligarchie industriali e finanziarie e si consolidavano grandi patrimoni:<br />

basti pensare alle enormi fortune accumulate dai magnati dell’industria Andrew<br />

Carnegie e John D. Rockefeller (che attraverso la Carnegie Company e la Standard<br />

Oil Company of Ohio controllavano rispettivamente la produzione dell’acciaio e la<br />

raffinazione del petrolio), dai proprietari delle grandi compagnie ferroviarie (come<br />

i cosiddetti “baroni delle ferrovie” Jay Gould e Cornelius Vanderbilt), o dal “re delle<br />

banche” John P. Morgan, che dominava il mondo della finanza. Dall’altro lato,<br />

l’enorme maggioranza delle classi lavoratrici viveva in <strong>una</strong> condizione di povertà<br />

e sfruttamento e doveva confrontarsi con diversi problemi, tra cui la costante<br />

corsa al ribasso dei salari (dovuta alla grande disponibilità di manodopera a basso<br />

costo resa disponibile dall’immigrazione), la lunga durata delle giornate lavorative,<br />

la pericolosità e l’insalubrità dei luoghi di lavoro, oltre alle conseguenze più<br />

deteriori della massiccia urbanizzazione, quali la nascita nelle città dei cosiddetti<br />

slums, quartieri poverissimi abitati da <strong>una</strong> grande massa di operai e immigrati. Vi<br />

era inoltre <strong>una</strong> situazione di diffusa povertà tra i lavoratori delle campagne, dovuta<br />

all’ampliarsi del divario tra la scarsa crescita dell’agricoltura e quella dell’industria.<br />

Il costo sociale dell’industrializzazione fu <strong>qui</strong>ndi enorme e diede vita a nume-<br />

36


osissime agitazioni operaie e contadine – in alcuni casi eccezionalmente aspre –<br />

che, come in Europa, incontrarono <strong>una</strong> dura risposta da parte delle autorità e che si<br />

risolsero spesso in scontri violenti e sanguinosi. Il movimento operaio americano<br />

conobbe un momento di estrema difficoltà nel 1886 in seguito ai fatti di Haymarket<br />

Square a Chicago, in cui durante un affollato comizio tenuto dagli anarchici scoppiarono<br />

violenti scontri che provocarono la morte di undici persone. L’episodio –<br />

che testimoniava la gravità e la radicalità dello scontro in atto – fu utilizzato dalle<br />

autorità per rafforzare la repressione nei confronti dell’attività dei sindacati e dei<br />

movimenti operai, che si ritrovarono così in <strong>una</strong> condizione di grave fragilità nei<br />

confronti degli apparati repressivi e dell’opinione pubblica.<br />

Rispetto a quello europeo e italiano il movimento operaio americano presentava<br />

importanti peculiarità. In primo luogo era espressione di <strong>una</strong> classe operaia<br />

multietnica nata dalle successive ondate migratorie conosciute dagli Stati Uniti,<br />

dove nel corso dei cinquantanni successivi alla guerra di secessione affluirono oltre<br />

26 milioni di persone, provenienti in <strong>una</strong> prima fase soprattutto dall’Europa nordoccidentale<br />

(fino a verso il 1880) e in seguito dall’Europa sudorientale (nel periodo<br />

compreso tra il 1880 e il 1914). In secondo luogo, nel suo complesso il movimento<br />

operaio americano non si diede <strong>una</strong> identità socialista. Benché gli immigrati europei<br />

portassero spesso con sé un bagaglio di ideali politici e sociali (di ispirazione<br />

marxista, anarchica o anarchico-sindacalista), così come di memorie e pratiche di<br />

lotta sperimentate nei propri paesi d’origine, il movimento operaio americano non<br />

si affiliò mai in massa al Socialist Party of America. Allo stesso modo i principali<br />

sindacati americani di quell’epoca, gli Knights of Labor e l’American Federation<br />

of Labor, non si rifacevano all’ideologia socialista e, come nel caso dell’American<br />

Federation of Labor, erano contrari alla sua diffusione all’interno del movimento<br />

operaio.<br />

Anche sul piano alle risposte date alla questione sociale il governo degli Stati<br />

Uniti agì in modo molto diverso rispetto a quello italiano e ai governi europei in<br />

generale. L’amministrazione federale non elaborò infatti alc<strong>una</strong> misura simile agli<br />

interventi di previdenza sociale introdotti in quegli stessi anni in Italia o nelle altre<br />

nazioni europee (si pensi, ad esempio, all’assicurazione obbligatoria per i lavoratori<br />

istituita nella Germania di Bismarck). L’introduzione di eventuali politiche di tipo<br />

assistenziale venne piuttosto delegata ai singoli Stati dell’Unione, i quali godevano<br />

di autonomia decisionale in materia, anche per ciò che riguardava i soggetti destinatari<br />

dei provvedimenti di tutela e i criteri d’assegnazione. Negli Stati del Sud, per<br />

esempio, l’assegnazione dei sussidi seguì forti criteri razziali, con la conseguente<br />

esclusione di uomini e donne afroamericane dalle politiche sociali.<br />

Un’altra peculiarità del caso americano fu l’emergere, tra le misure elaborate a<br />

livello statuale in questo periodo, di due diversi canali di welfare, basati sulla differenza<br />

di genere. Il primo canale, di tipo previdenziale, era dedicato ai maschi<br />

37


lavoratori e consisteva in forme di assicurazione e indennità per gli incidenti sul<br />

lavoro. Il secondo, di carattere assistenziale, era rivolto invece alle donne e consisteva<br />

in pensioni destinate alle madri povere. Occorre rimarcare come questa<br />

seconda forma di intervento riguardasse le donne esclusivamente in quanto madri,<br />

mentre non esisteva alc<strong>una</strong> forma di aiuto per le donne lavoratrici (come il congedo<br />

di maternità). Si può parlare, in questo caso, di un welfare state di stampo maternalista:<br />

poiché si vedeva nella maternità <strong>una</strong> funzione sociale, si riteneva che<br />

la donna potesse essere portatrice di diritti sociali solo in quanto madre e non in<br />

quanto lavoratrice. Questo aspetto costituisce <strong>una</strong> significativa differenza rispetto<br />

all’Italia, dove a inizio Novecento venne introdotto il congedo durante il puerperio<br />

e si costituì <strong>una</strong> Cassa di maternità.<br />

Conclusione<br />

In conclusione, si può <strong>qui</strong>ndi notare come, a differenza dell’Italia, negli Stati Uniti<br />

la questione sociale non si accompagnò alla diffusione dell’ideologia socialista<br />

tra le classi lavoratrici. Inoltre, lasciando ampia discrezionalità in materia ai<br />

singoli stati, il governo federale non promosse politiche sociali universalistiche,<br />

ma fortemente settoriali, che non tutelavano alcune fasce della popolazione (come<br />

gli afroamericani) e prevedevano canali di intervento diversi per gli uomini e per<br />

le donne. Il caso dell’Italia fu invece diverso, poiché, fra la fine dell’Ottocento e i<br />

primi del Novecento, vide affermare un ruolo decisamente più forte dello Stato<br />

centrale nelle politiche sociali. Quello italiano fu un sistema in cui, parallelamente<br />

all’azione governativa, sia le Società di Operaie di Mutuo Soccorso sia gli enti religiosi<br />

si prodigarono in interventi di solidarietà e assistenza.<br />

Bibliografia:<br />

Guglielmo, J., “Transnational feminism’s radical past. Lessons from Italian immigrant<br />

women anarchists in industrializing America”, in Journal of women’s<br />

history, vol. 22, n. 1, 2010, pp. 10–33.<br />

Procacci G., “Le politiche di intervento sociale in Italia tra fine Ottocento e Prima<br />

guerra mondiale. Alcune osservazioni comparative”, in Economia & lavoro,<br />

XLII (2008), n. 1, pp. 17–43.<br />

Salvadori M. L., L’Europa degli americani. Dai padri fondatori a Roosevelt, Roma-<br />

Bari, Laterza, 2005, pp. 262–266.<br />

38


Le declinazioni del<br />

liberalismo.<br />

I movimenti liberali<br />

nell’esperienza italiana,<br />

tedesca e statunitense<br />

Chiara Corazziari<br />

Per <strong>una</strong> definizione di liberalismo<br />

Nonostante sia difficile arrivare ad <strong>una</strong> definizione univoca di liberalismo, tra<br />

la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento si può osservare la presenza di<br />

<strong>una</strong> costellazione ideale comune all’esperienza europea e statunitense che ha il<br />

suo bacino di incubazione tra il 1776 e il 1789. Concretamente, nella sua declinazione<br />

politico-istituzionale, la dottrina liberale ridefinisce i rapporti tra sfera pubblica<br />

e privata promuovendo principalmente la protezione di alcuni diritti fondamentali<br />

dell’individuo dall’ingerenza dello stato (rappresentanza, voto, habeas<br />

corpus, proprietà, libertà d’espressione).<br />

Il modo in cui il liberalismo si è declinato nei diversi paesi ha avuto un ruolo<br />

determinante sul processo di unificazione nazionale. In particolare, la storia del<br />

liberalismo in rapporto con l’idea di costruzione nazionale si sviluppa in due fasi<br />

temporalmente distinte: la prima nel periodo 1846–1861 e la seconda fra il 1861 e<br />

il 1880.<br />

Il periodo 1846–61 fu caratterizzato da un confronto/dialogo transnazionale<br />

tra i movimenti liberali (es.: Giovine Italia e Giovine Europa mazziniana) che servì<br />

per giungere ad <strong>una</strong> concettualizzazione del liberalismo. In questa prima fase prevalse<br />

l’elaborazione teorica e i confini territoriali non imbrigliarono il liberalismo<br />

in definizioni prettamente nazionali. Tra il 1861 e il 1880 avvenne quella che può<br />

essere chiamata la “nazionalizzazione del liberalismo”, ovvero il liberalismo venne<br />

modellato all’interno della nazione e in funzione di essa. Si ottennero così diverse<br />

declinazioni del liberalismo.<br />

Sia come concetto universalmente valido, sia nelle sue diverse sfaccettature in<br />

relazione all’idea di nazione e allo sviluppo del nazionalismo, l’idea di liberalismo<br />

può pertanto essere utilizzata quale strumento di analisi comparata per esaminare<br />

alcuni aspetti dei processi di unificazione italiana, tedesca e statunitense.<br />

39


Liberalismo e formazione nazionale<br />

Il liberalismo si sviluppa dunque in modi diversi a seconda del contesto storico<br />

politico. In un’ottica comparativa Jörn Leonard traccia <strong>una</strong> prima demarcazione,<br />

seppur non immune a critiche, tra il mondo continentale europeo e quello<br />

statunitense. In particolare, sarebbero tre gli elementi di base che avrebbero influenzano<br />

e condizionato l’emergere dei movimenti liberali e reso, di conseguenza,<br />

profondamente diversi i processi di unificazione dei paesi europei dagli USA: le<br />

condizioni politiche, il processo di nation-building e la ricezione dei principi liberali<br />

nelle istituzioni statuali.<br />

Per ciò che riguarda il primo punto, e cioè l’influsso esercitato dalle condizioni<br />

politiche sui movimenti liberali, si può riscontrare <strong>una</strong> notevole differenza tra<br />

le due sponde dell’Atlantico. Guardando ad Italia e Germania si può notare che,<br />

nel periodo considerato, ovvero il diciannovesimo secolo, i due stati furono caratterizzati<br />

dalla presenza di <strong>una</strong> consistente frammentazione politico-istituzionale.<br />

Sia nella penisola italiana – data la compresenza dello stato pontificio, dello stato<br />

sabaudo e dell’occupazione austriaca – sia nella Federazione tedesca, si assisteva<br />

infatti alla compresenza di molteplici autorità sovrane sul territorio. Inoltre, in entrambi<br />

i casi, l’occupazione napoleonica aveva lasciato <strong>una</strong> pesante e ambivalente<br />

eredità, spingendo verso la centralizzazione ai danni però della nazionalizzazione.<br />

In entrambi i paesi europei non vi era inoltre alcun quadro istituzionale di riferimento<br />

che potesse costituire la base per <strong>una</strong> struttura statale unitaria. Una <strong>volta</strong><br />

unificato il territorio, questi aspetti portarono i riformatori liberali a concentrarsi<br />

sui fondamenti costituzionali e sull’organizzazione burocratica dello stato.<br />

Il caso statunitense si diversifica notevolmente da quello italiano e tedesco.<br />

Negli Stati Uniti, infatti, la nascita dello stato e la stesura del testo costituzionale<br />

precedettero la formazione nazionale, il processo di nation-building. Non avendo<br />

inoltre sperimentato forme di ancien régime 1 non svilupparono le ideologie derivanti,<br />

dal conservatorismo al socialismo. Il quadro liberale di riferimento negli<br />

USA poggiava <strong>qui</strong>ndi principalmente su <strong>una</strong> forte base teorica, e si richiamava<br />

tanto ai concetti del self-rule e di responsabilità individuale quanto al modello repubblicano<br />

jeffersoniano.<br />

Un ulteriore elemento determinante per lo sviluppo dei movimenti liberali<br />

italo-tedeschi e statunitensi riguarda l’interazione tra i movimenti liberali ed il<br />

processo di nation-building. In Italia e in Germania il movimento liberale si fece<br />

promotore dell’idea di nazione connessa al progresso storico (ben individuabile<br />

nella filosofia di Hegel che vede nello stato la realizzazione dello spirito della storia).<br />

Già sul finire dell’Ottocento, però, si assistette al fallimento della costruzione<br />

dello stato dal basso (esemplificato dall’alleanza dei liberali in Italia e in Germania<br />

rispettivamente con Cavour, Garibaldi e Bismarck) con il risultato che l’apparente<br />

compimento ideale liberale nell’unificazione nazionale del decennio 1860–70<br />

40


venne mandato in frantumi. Una <strong>volta</strong> compiuto il processo di formazione nazionale,<br />

la nazione, fino ad allora elemento unificante del liberalismo, finì per sfidare<br />

e sfinire le stesse con<strong>qui</strong>ste liberali, un fenomeno che si manifestò sia Germania,<br />

sia in Italia.<br />

Con particolare riferimento al caso italiano è stato acutamente sottolineato<br />

che in questo contesto il movimento liberale può essere inquadrato all’interno dei<br />

sommovimenti seguiti alla rivoluzione francese e al periodo napoleonico e può<br />

essere ascritto all’interno di un fenomeno europeo molto più vasto che trovò il suo<br />

centro nell’intreccio dei concetti di nazione, cittadino e costituzione (Cammarano<br />

2011, 72–78). Pensare in termini liberal-costituzionali implicò <strong>una</strong> nuova idea di<br />

legittimazione: la nazione cominciò a diventare <strong>una</strong> fonte di legittimazione e il<br />

concetto di liberalismo cominciò a sovrapporsi all’idea di nazione. A partire dal<br />

1861, invece, il liberalismo si declinò secondo due anime diverse: <strong>una</strong> voleva tornare<br />

ai principi liberali e portare avanti la nazionalizzazione degli italiani attraverso<br />

il conflitto politico; l’altra voleva ibernare e neutralizzare il conflitto. Questa<br />

seconda anima si tradusse nel trasformismo politico che rappresentò la vittoria<br />

del liberalismo all’italiana basato sulla centralità del governo e la necessità di un<br />

esecutivo più forte del legislativo, soprattutto a partire dagli anni Ottanta.<br />

Il caso tedesco evidenzia lo stesso tipo di percorso. Si può osservare come, nonostante<br />

la cultura tedesca fosse la più liberale a livello europeo, essa non si manifestasse<br />

in istituzioni politiche altrettanto liberali – come quelle sviluppatesi in<br />

Inghilterra o nei dei Paesi Bassi. Tuttavia, il concetto di nazione, oltre ad essere un<br />

concetto astratto, diventò la parola d’ordine dell’unificazione, legandosi in modo<br />

ambiguo al liberalismo. Se, infatti, da <strong>una</strong> parte la nazione legittimò e fortificò lo<br />

stato liberale, dall’altro creò <strong>una</strong> cultura liberale che divenne la base di aspirazioni<br />

e rivendicazioni a cui lo stesso stato liberale non seppe dare risposta. Così, ad unificazione<br />

avvenuta, in Germania il movimento liberale venne sfidato dalla questione<br />

sociale e dall’ampliamento dei poteri dello stato e il liberalismo venne messo<br />

in crisi dall’emergere di nuovi soggetti che minarono le basi dell’individualismo.<br />

Nel mondo statunitense, invece, il liberalismo si fece promotore delle aspirazioni<br />

della nazione e subì <strong>una</strong> precisa evoluzione fra Otto e Novecento, parallelamente<br />

alle trasformazioni delle esigenze sociali. In questo caso è possibile individuare<br />

tre principali momenti cruciali che legarono strettamente lo sviluppo del<br />

pensiero liberale alla formazione della nazione: il periodo immediatamente successivo<br />

alla guerra di Indipendenza, la guerra civile e gli anni del New Deal.<br />

All’inizio della storia degli Stati Uniti l’idea di liberalismo si fuse con quella del<br />

repubblicanesimo jeffersoniano basato sulle idee chiave di self-rule, omogeneità<br />

etnica e culturale ed autarchia agraria. Pur mettendo sempre al centro del sistema<br />

politico l’individuo, le componenti jeffersoniane del liberalismo statunitense sembravano<br />

in contraddizione rispetto a quei processi di modernità ed industrializza-<br />

41


zione che percorsero i primi cinquant’anni del 1800 e furono <strong>una</strong> delle cause della<br />

guerra civile.<br />

La guerra civile è considerata il vero e proprio momento fondativo della nazione<br />

americana. All’indomani del conflitto i principi jeffersoniani vennero sfidati e<br />

messi in crisi dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, mentre il liberalismo<br />

si fece portavoce del credo capitalista e del darwinismo sociale di Spencer. Questi<br />

radicali cambiamenti mutarono il volto degli Stati Uniti che da paese agricolo divennero<br />

un paese industrializzato. Nonostante ciò l’individuo rimase al centro del<br />

pensiero liberale e lo stato continuò ad avere il compito di non interferire; piuttosto<br />

fu il mercato a divenire il regolatore della vita quotidiana. Al concetto di liberalismo<br />

si accostò quello di liberismo e progresso economico.<br />

Un mutamento radicale del pensiero liberale si ebbe alla fine della Prima guerra<br />

mondiale e si manifestò concretamente nel 1933. La crisi del 1929 scosse i presupposti<br />

dell’economia capitalista al punto da indurre <strong>una</strong> profonda riflessione sul<br />

sistema stesso. Un esempio di questo “nuovo corso” fu rappresentato, non a caso,<br />

dalla politica economica del New Deal promossa da Franklin Delano Roosevelt,<br />

che pose al centro del pensiero “liberal” la necessità dell’intervento dello stato, stravolgendo<br />

<strong>qui</strong>ndi le fondamenta del liberalismo americano fondato appunto sulla<br />

protezione dell’individuo dallo stato.<br />

Fondamentale, infine, per spiegare l’interazione tra liberalismo e unificazione<br />

nazionale è la relazione tra il potere statale e i movimenti liberali stessi. In Italia<br />

e in Germania i fenomeni dell’assolutismo, l’occupazione militare straniera, e un<br />

sistema statuale forte segnarono profondamente la storia dei movimenti liberali,<br />

spesso costretti a svilupparsi per vie clandestine o al di fuori del territorio stesso.<br />

Al tempo stesso lo stato ingeriva pesantemente nella vita del singolo individuo, il<br />

suddito/cittadino. Al contrario negli USA lo stato federale limitava le proprie funzioni<br />

ed aveva un’ingerenza minima sulla vita quotidiana dell’individuo. Fino al<br />

1865, ad esempio, la Federazione non sviluppò un vero e proprio sistema fiscale<br />

e militare a livello nazionale.<br />

Nonostante la presenza di specifiche caratteristiche che distinguevano le esperienze<br />

liberali europee – in particolare italiane e tedesche – da quella americana,<br />

i tre contesti possono essere riavvicinati da alcune considerazioni riguardanti la<br />

trasformazione del liberalismo attraverso conflitti bellici e il suo ambiguo rapporto<br />

con la religione.<br />

Questioni di guerra e di fede. Gli elementi controversi del liberalismo<br />

Nel diciannovesimo secolo i liberali pensarono alla guerra come a uno strumento<br />

di progresso, in grado di esaltare il patriottismo e l’idea di nazione. Da<br />

questo punto di vista, Italia, Germania e Stati Uniti sono accom<strong>una</strong>ti da processi<br />

di formazione nazionale caratterizzati dall’elemento bellico: le guerre di indipen-<br />

42


denza italiane, le guerre austro e franco-prussiane e, infine, la guerra civile americana.<br />

A parte questo aspetto generale, bisogna sempre ricordare che le esperienze<br />

belliche italiane e tedesche si caratterizzarono concretamente in forme molto diverse<br />

dalla guerra civile americana. Mentre per la Germania e l’Italia si trattò sostanzialmente<br />

di guerre di stato e non guerre di popolo, negli USA la guerra civile<br />

si manifestò come <strong>una</strong> vera e propria guerra totale, che coinvolse autorità statali e<br />

società civile, divenendo anche <strong>una</strong> delle guerre più sanguinose della storia contemporanea.<br />

Difficile invece dire quanto l’elemento religioso e il rapporto stato-chiesa possano<br />

costituire elementi di confronto nei casi italiano, tedesco e statunitense. Sicuramente<br />

il diverso rapporto tra liberalismo e chiesa nei tre paesi presi in esame<br />

condizionò il processo di unificazione nazionale e il suo risultato finale. Tuttavia<br />

è difficile definirne con esattezza l’impatto. Il punto di partenza è la sostanziale<br />

diversità tra il mondo europeo e quello statunitense per ciò che riguarda il delicato<br />

rapporto tra chiesa ed autorità statale. Se il conflitto tra lo stato e la Chiesa cattolica<br />

fu particolarmente evidente in Italia (a causa, in particolare, delle conseguenze<br />

dovute alla presa di Porta Pia e alla legge sulle Guarentigie) e se in Germania<br />

Bismarck promosse <strong>una</strong> dura campagna contro i cattolici, negli USA il confronto<br />

stato-chiesa non raggiunse mai un alto livello di criticità.<br />

Così, mentre ad esempio in Italia il liberalismo venne additato dalla chiesa<br />

come la matrice del materialismo e del socialismo – antitesi della religione cattolica<br />

– e il problema della regolamentazione dei rapporti fra stato e chiesa rimase<br />

<strong>una</strong> ferita aperta nella seconda metà dell’Ottocento (si ricordi l’espressione cavouriana<br />

“libera chiesa in libero stato”) il caso statunitense appare del tutto diverso in<br />

quanto le idee liberali e religiose si svilupparono armonicamente e non si sentì la<br />

necessità di regolamentare i rapporti tra stato e chiesa. Non solo, infatti, non vi fu<br />

conflitto ma la religione, in primo luogo quella protestante, divenne un vettore di<br />

liberalizzazione e democratizzazione.<br />

Conclusioni<br />

In conclusione, nonostante la schematizzazione di Leonard mostri la specificità<br />

e la divergenza del liberalismo italo-tedesco da quello statunitense, a livello<br />

concettuale è difficile contrapporre in maniera schematica il liberalismo europeo<br />

a quello che nacque e si sviluppò negli USA. Basti pensare alla prima metà<br />

del secolo diciannovesimo, quando si può individuare <strong>una</strong> fase liberale generalmente<br />

etichettata come liberalismo transatlantico in cui le idee viaggiano dall’<strong>una</strong><br />

all’altra sponda dell’oceano e di cui il viaggio di Kossuth negli Stati Uniti è un esempio.<br />

Nel momento in cui nacque e si sviluppò l’idea di nazione repubblicana<br />

negli USA questa guardava ai movimenti liberali nazionali europei, sentendosene<br />

parte integrante. Allo stesso modo vi furono manifestazioni di adesione da parte<br />

43


degli europei a ciò che accadeva negli Stati Uniti. Non a caso un pensatore liberale<br />

come Giuseppe Mazzini alla fine della guerra civile avrebbe affermato che gli USA<br />

erano diventati la nazione guida dell’internazionale repubblicana.<br />

Si pone poi un’altra importante questione, ovvero quanto il termine liberalismo<br />

possa essere impiegato per spiegare l’esperienza statunitense. Il termine sembra<br />

infatti un vero e proprio taboo per i politici statunitensi tanto da non far parte<br />

del linguaggio statunitense (Mariano 2011, 91–105).<br />

Da sempre la storia degli USA e la concezione che essi hanno di se stessi sono<br />

velate dal concetto di eccezionalismo. Si può parlare di liberalismo eccezionale<br />

per gli USA? Il liberalismo americano può essere inserito nella tradizione liberale<br />

europea? Esiste uno sviluppo parallelo tra le due sponde dell’Atlantico?<br />

Probabilmente gli elementi particolari e specifici dell’evoluzione statunitense<br />

rendono l’esperienza liberale statunitense diversa, ma non necessariamente unica.<br />

In ogni caso la questione sembra rimanere aperta ad un ulteriore approfondimento.<br />

La strada per definire e comprendere il liberalismo americano è ancora lunga.<br />

Note:<br />

1. L’idea secondo la quale gli Stati Uniti non hanno vissuto l’esperienza di ancien<br />

régime, pur avendo comunque sperimentato e subito <strong>una</strong> forma di imperialismo<br />

coloniale, è supportata dal fatto che il colonialismo britannico si distinse<br />

da quello spagnolo o francese, in quanto lasciò ampi spazi di autonomia alle<br />

colonie. Per le differenze fra colonialismi si veda Reinhard W., Storia del colonialsmo,<br />

Torino, Einaudi, 2002, pp. 60–76, pp. 101–125.<br />

Bibliografia:<br />

Cammarano F., “Un ibrido fra stato e nazione”, in Il Mulino, n. 1 (2011), pp. 72–78.<br />

Cioli M., “Forme partitico-organizzative nella Germania di Bismarck. Il pragmatismo<br />

come ideologia nei liberali tedeschi”, in Ricerche di storia politica, n. 1<br />

(2003), pp. 1–33.<br />

Grant S. M., “American forging a new nation, 1860–1916”, in D. Doyle e M. A. Pamplona<br />

(a cura di), Nationalism in the New World, Athens and London, University<br />

of Georgia Press, 2006.<br />

Leonard J., “From European liberalism to the languages of liberalisms: The semantics<br />

of ‘liberalism’ in European comparison”, in Yearbook of political thought<br />

and conceptual history, n. 8 (2004), pp. 17–51.<br />

Leonard J., “Progressive politics and the dilemma of reform. German and American<br />

liberalism in comparison, 1880–1920”, in M. Vaudagna (a cura di), The<br />

place of Europe in American history : twentieth-century perspective, Torino,<br />

44


Otto Ed., 2007, pp. 115–132.<br />

Leonard J., “Linguaggio ideologico e linguaggio politico. All’origine del termine<br />

‘liberale’ in Europa”, in Ricerche di storia politica, vol. 7 (2004), pp. 25–57.<br />

Mariano M., “Da ‘unica tradizione’ a ‘L-word’. La strana morte del liberalismo americano”,<br />

in R. Baritono e E. Vezzosi (a cura di), Oltre il secolo americano? Gli Stati<br />

Uniti prima e dopo l’11 settembre, Roma, Carocci, 2011, pp. 91–105.<br />

Melloni A., Cristiani d’Italia. Chiese, società, stato, 1861–2011, Roma, Istituto<br />

dell’enciclopedia italiana Treccani, pp. 9–48.<br />

Reinhard W., Storia del colonialismo, Torino, Einaudi, 2002.<br />

45


Intervento del<br />

console Larrea<br />

alla conferenza<br />

conclusiva della VII<br />

Summer School<br />

Pubblichiamo l’intervento del Console John Larrea del Consulate General of the<br />

United States di Firenze alla conferenza conclusiva della Summer School CI-<br />

SPEA tenutasi il 30 giugno 2011 presso la sede di Reggio Emilia dell’Università di<br />

Modena e Reggio Emilia.<br />

Sono molto felice di essere <strong>qui</strong> per la conclusione della settima Scuola Estiva di<br />

Storia Americana. Sappiamo tutti che questo è un momento particolarmente<br />

importante nel calendario degli Stati Uniti. Siamo molto vicini al quattro di Luglio,<br />

un momento che ci porta, come americani, a riflettere e ad essere riconoscenti per<br />

le libertà di cui ciascuno di noi gode. In particolare, sono molto grato della prossimità<br />

con il quattro di Luglio perché l’Ambasciatore David Thorne sarebbe dovuto<br />

essere <strong>qui</strong>, ma per l’occasione è dovuto rimanere a Roma: ciò significa che ha chiamato<br />

me cosicché io venissi al suo posto, e per questo sono molto contento.<br />

L’Ambasciatore mi ha chiesto di comunicare a voi tutti quanto è colpito dalla<br />

vitalità degli American Studies in Italia e dal supporto che Boorea offre a questa<br />

straordinaria, eccellente iniziativa, a questo magnifico evento. Egli mi ha chiesto<br />

di portarvi le sue parole.<br />

Il tema della Scuola Estiva CISPEA “1861–1901. Stati Uniti, Italia, Germania<br />

e le sfide dell’unità nazionale” è chiaramente rilevante tanto per gli Stati Uniti<br />

quanto per l’Italia. Come tutti sappiamo, quest’anno si celebra il 150° anniversario<br />

dell’unità d’Italia e sono sicuro che tutti <strong>qui</strong> sapete altrettanto bene che è anche il<br />

150° anniversario dell’insediamento di colui che io considero essere il più grande<br />

Presidente degli Stati Uniti di tutti i tempi: il Presidente Abraham Lincoln.<br />

Egli, come sapete, assunse l’incarico in un periodo nel quale molte delle assemblee<br />

statali si muovevano verso la secessione e, difatti, alla fine diedero inizio<br />

alla Guerra Civile americana, che fu senza dubbio l’evento più importante nella<br />

46


storia della nostra nazione. Furono quattro anni di tempi difficili e durante questi<br />

quattro anni ci furono molti momenti in cui il popolo dell’Unione, il popolo del<br />

Nord, era pronto a cedere, era pronto a dire “non ne vale la pena, disfiamoci di<br />

Abraham Lincoln alla prossima occasione e mettiamo fine a questa guerra”.<br />

Sono tanti gli storici che hanno scritto di come a quel tempo molti americani,<br />

in particolare nel Nord-Est, a New York e a Boston, stessero prendendo a cuore<br />

e seguendo la campagna del Generale Garibaldi per l’unificazione d’Italia. Per gli<br />

ideali che rappresentava, lui ispirò e fornì loro motivazioni e stimoli. Questo aiutò<br />

il popolo a sostenere il Presidente Lincoln in <strong>una</strong> lunga battaglia di quattro anni<br />

per preservare l’Unione. Di fatto, gli storici dicono che il Presidente Lincoln ad<br />

un certo punto abbia persino offerto il comando generale a Garibaldi. La storia ci<br />

dice chiaramente che alla fine lui non venne negli Stati Uniti per guidare l’esercito<br />

dell’Unione, ma questo dimostra che esempio fosse e infatti, in suo onore, la famosa<br />

39esima divisione di fanteria dell’unione di New York fu rinominata “The<br />

Garibaldi Guard”.<br />

Un altro grande Presidente americano è John F. Kennedy, che cinquanta anni<br />

fa disse: “Tutti dobbiamo qualcosa all’Italia”. Disse: “Il Risorgimento ha prodotto un<br />

Paese moderno ma ha anche rappresentato il risveglio della società Occidentale<br />

e un contributo forte per le libertà e i diritti”. Questa è <strong>una</strong> grande eredità per voi,<br />

di cui dovete essere orgogliosi. E io sono orgoglioso di essere <strong>qui</strong>, nel Paese in cui<br />

questa eredità ha avuto inizio.<br />

I nostri Paesi, Stati Uniti e Italia, sono diversi, certo. Ma allo stesso tempo abbiamo<br />

fatto esperienza più o meno nello stesso momento del raggiungimento<br />

dell’unificazione e della libertà. Io penso che i due Paesi si siano influenzati a vicenda:<br />

certamente, l’Italia ha influito molto sugli Stati Uniti. In tempi più recenti abbiamo<br />

stabilito forti legami che ora sono più forti che mai. Di questo all’Ambasciata<br />

a Roma e a Washington siamo molto orgogliosi. Come ho detto, queste relazioni<br />

si sono rafforzate negli anni, arricchite da forti legami politici, storici e sociali. Io<br />

vivo da anni qua in Italia e voglio ringraziarvi tutti per avermi invitato.<br />

Sono sicuro che tutti voi che siete <strong>qui</strong> oggi avrete successo nel vostro percorso<br />

di studio e professionale.<br />

47


Dalle regioni<br />

al globo:<br />

Le dimensioni<br />

della potenza<br />

Federico Romero (European University Institute)<br />

Pubblichiamo la lezione Dalla regione al globo: Le dimensioni della potenza,<br />

tenuta dal Professor Federico Romero alla conferenza conclusiva della Summer<br />

School CISPEA tenutasi il 30 giugno 2011 presso la sede di Reggio Emilia<br />

dell’Università di Modena e Reggio Emilia.<br />

Quando mi fu chiesto di fare questa conferenza conclusiva – delineando <strong>una</strong><br />

comparazione dei tre paesi fino al presente e proiettandola su uno scenario<br />

di storia internazionale – la prima tentazione fu quella di dire: “non ci penso neanche”.<br />

Non sono un comparatista e non lo sono mai stato se non in modo superficiale<br />

e amatoriale. Nella mia esperienza, poi, i tentativi di comparazione sembrano<br />

quasi sempre arrivare alla stessa conclusione: la comparazione ci consente di porci<br />

domande molto utili, ma le risposte tendono poi – almeno per gli storici – a essere<br />

fortemente focalizzate sulla specificità della singola unità di comparazione. Vale a<br />

dire che si arriva in genere a negare la premessa dell’intera operazione. Sono però<br />

molto affezionato a questa Summer School, al CISPEA ed ai colleghi che gestiscono<br />

l’<strong>una</strong> e l’altro, e <strong>qui</strong>ndi prima di rifiutare ho provato a pensare a <strong>una</strong> chiave<br />

che potesse risolvere i miei dubbi e fornire <strong>una</strong> risposta positiva al problema che<br />

mi avevano sottoposto.<br />

Sono stato colpito in primo luogo da un fatto. E cioè che nei 150 anni che intercorrono<br />

tra il nostro punto di partenza ed oggi noi vediamo non solo uno snocciolarsi<br />

di storie molto diverse in ciascuno di questi tre paesi, ma anche <strong>una</strong> palese<br />

divaricazione tra di loro. Una divaricazione crescente di ampiezza, di potenza, di<br />

ricchezza. Quest’ultima fu in parte rimediata nei decenni tra il 1945 e gli anni Ottanta,<br />

durante i quali vi fu <strong>una</strong> robusta convergenza, un catching-up della Germania<br />

e dell’Italia nei confronti dei redditi degli statunitensi, anche se nell’ultimo<br />

ventennio questo processo si è arrestato. Restiamo sostanzialmente sui livelli raggiunti<br />

<strong>una</strong> generazione fa e, per quel che riguarda l’Italia, abbiamo addirittura in-<br />

48


iziato <strong>una</strong> regressione.<br />

Proviamo allora a ragionare sulle implicazioni di questa divaricazione – graduale<br />

ma molto macroscopica – in termini di ricchezza, di potenza e innanzitutto<br />

di traiettoria demografica. Al nostro punto di partenza, per il quale possiamo usare<br />

i censimenti del 1870 o 1871, le tre nazioni hanno popolazioni di consistenza diversa<br />

ma tuttavia ancora raggruppabili in uno stesso ordine di grandezza: l’Italia<br />

aveva 27 milioni di abitanti, la Germania 41 e gli Stati Uniti 38. Ad oggi, i numeri<br />

naturalmente sono raddoppiati ma quelle proporzioni sono rimaste abbastanza<br />

simili tra Italia e Germania, che hanno rispettivamente 61 e 82 milioni di abitanti.<br />

Nel caso degli Stati Uniti, tuttavia, la differenza è divenuta drammatica, e non<br />

c’è più alc<strong>una</strong> somiglianza: la loro popolazione è oggi di 312 milioni di abitanti e<br />

continua – a differenza degli altri due paesi – a crescere costantemente, con <strong>una</strong><br />

proiezione di circa 400 milioni intorno al 2050.<br />

Conosciamo bene tempi e fattori di questa radicale differenziazione (tra i quali<br />

ampi trasferimenti migratori proprio da <strong>qui</strong> a là) e non è il caso di soffermarcisi. Ma<br />

se correliamo questi dati con altri, di diversa natura, possiamo forse cominciare<br />

a porci delle domande più interessanti. Guardiamo i dati sul Prodotto nazionale<br />

lordo (in miliardi di dollari del 1990):<br />

1870 1913<br />

ITALIA 42 95<br />

GERMANIA 71 237<br />

STATI UNITI 98 517<br />

Le distanze sono ben più marcate già al punto di partenza. Il PIL tedesco nel<br />

1870 è già proporzionalmente più alto, in rapporto alla popolazione, di quello italiano,<br />

evidenziando <strong>qui</strong>ndi un differenziale di produttività. E la differenza è straordinariamente<br />

marcata nel caso degli Stati Uniti che con <strong>una</strong> popolazione appena<br />

inferiore a quella tedesca producono già un 25% di ricchezza in più. Non abbiamo<br />

tempo <strong>qui</strong> per indagarne i motivi, ma possiamo presumere che il decennio della<br />

Guerra Civile, con enormi investimenti e <strong>una</strong> robusta crescita industriale degli<br />

Stati Uniti, spieghi buona parte del fenomeno. Se il confronto fosse stato fatto al<br />

1860 forse le distanze sarebbero minori, e già questo è indicativo.<br />

Quel che a noi più interessa, ad ogni modo, è vedere quanto la dinamica economica<br />

del quarantennio successivo – fino alla data fatidica di tutte le scansioni<br />

statistiche, il 1913 – sia stata così fortemente differenziata da mutare radicalmente<br />

non solo le proporzioni quantitative tra le tre economie, ma la natura degli oggetti<br />

che stiamo paragonando. Il PIL tedesco è cresciuto del 310% , quello statunitense<br />

è più che <strong>qui</strong>ntuplicato, mentre quello italiano è salito “appena” del 120%. Nel quarantennio,<br />

insomma, la divaricazione si è fatta già molto marcata.<br />

49


Ci sono naturalmente diversi buoni motivi, complementari tra di loro, per<br />

queste dinamiche. Il primo e principale lo troviamo nei dati sui tassi di crescita<br />

annui della produzione industriale 1870–1913, che sono sufficientemente diversi<br />

da chiarire gran parte del fenomeno visto che dispiegano i loro effetti cumulativi<br />

per ben 40 anni: Italia 2,6%, Germania 3,5%, Stati Uniti 4,6%.<br />

Se li incrociamo con la rapidissima crescita demografica (nel 1913 la popolazione<br />

statunitense tocca i 100 milioni) ci dicono che, pur entro un processo di<br />

industrializzazione in qualche misura condiviso, la diversa scala e intensità tuttavia<br />

sfocia in sbocchi macroscopicamente diversi. Alla vigilia della Prima guerra<br />

mondiale gli USA sono diventati <strong>una</strong> macroeconomia continentale, la prima del<br />

pianeta, la Germania è divenuta <strong>una</strong> grande economia di dimensioni regionali,<br />

con un peso centrale in Europa, mentre quella italiana, pur crescendo ed avviando<br />

la sua industrializzazione, è rimasta un’economia di dimensioni nazionali.<br />

Questo però non ci spiega tutto, e potremmo comunque interrogarci sui motivi<br />

di <strong>una</strong> dinamica così differenziata del tasso di crescita della produzione industriale.<br />

Per questo vorrei spingermi su di un terreno che alcuni storici trattano,<br />

ma che la disciplina storica nel suo insieme tende spesso a trascurare, ed è quello<br />

della dimensione: la dimensione in termini tanto demografici che di spazialità e,<br />

a cascata, le sue numerose implicazioni. Le riflessioni recenti sulla globalizzazione<br />

e la trans-nazionalità hanno sollecitato sguardi retrospettivi sulla spazialità ed<br />

il suo nesso con la formazione della nazione, la modernizzazione, la costruzione<br />

del sistema internazionale. Charles S. Maier, per citare uno storico molto noto tra<br />

noi, indica proprio negli anni di formazione dell’unità nazionale italiana, tedesca<br />

e, nella misura che sappiamo, degli Stati Uniti della guerra civile, il momento di<br />

grande organizzazione della territorialità moderna. Il momento in cui lo stato e la<br />

nazione si organizzano e auto-definiscono anche perché, tra le altre cose, erigono<br />

confini e innervano e strutturano un territorio voluto e costruito come entità<br />

distinta e unitaria: sotto il profilo statuale, del mercato, delle reti infrastrutturali e<br />

della sua composizione etnica e culturale. Questa spazialità non delimita solo la<br />

nazione ma la definisce, contribuendo a modellare gli spazi e i ruoli in cui essa si<br />

immagina nel mondo.<br />

Penso che questo possa essere un terreno di analisi utile, fatta salva la premessa,<br />

per me molto importante, di evitare ogni forma di determinismo geopolitico, a<br />

cui non credo nella maniera più assoluta. Non credo cioè che la geografia e la territorialità<br />

determinino tout court i percorsi e i destini di un paese, o la sua posizione<br />

nella gerarchia di potenza. Si possono fare molti esempi e uno ce l’abbiamo proprio<br />

sotto gli occhi. Benché nel discorso pubblico italiano ricorra l’idea che la centralità<br />

dell’Italia nel Mediterraneo sia <strong>una</strong> risorsa, basta guardare all’attuale conflitto<br />

in Libia per vedere quanto poco questa centralità dell’Italia nel Mediterraneo<br />

operi come risorsa. Quelli ossessionati dall’immigrazione la vedono semmai come<br />

50


<strong>una</strong> vulnerabilità, e pure in termini di pura politica estera l’élite dirigente non l’ha<br />

usata come <strong>una</strong> risorsa, sia verso i libici che dentro la NATO. Siamo tutti d’accordo,<br />

credo, che c’è un rapporto tra territorialità, proiezione internazionale e capacità o<br />

meno di potenza: l’Islanda non potrebbe, quand’anche lo volesse, fare la guerra in<br />

Libia. Taiwan è in posizione inevitabilmente subordinata rispetto alla Cina continentale.<br />

La geopolitica non va ignorata, spesso è importante, ma non è tutto e non<br />

va letta in modo meccanico.<br />

Fatta questa premessa antideterministica, possiamo addentrarci con cautela<br />

ma anche con convinzione e curiosità nella questione della dimensione che, nella<br />

storia di queste tre nazioni, ha un peso e <strong>una</strong> valenza storica tutt’altro che marginale.<br />

Intanto essa contribuisce a spiegarci quella differenza così marcata nei ritmi<br />

di crescita dell’industrializzazione, che non dipende solo dal fatto che in Germania<br />

e negli Stati Uniti c’è il carbone come vorrebbe un determinismo semplicistico<br />

spesso accoppiato a spiegazioni di carattere culturale. Quelle che si affidano a<br />

categorie intuitive o solo vagamente soppesate: l’ingegnosità tecnologica, l’etica<br />

protestante ecc. La disponibilità di materie prime e le attitudini socio-culturali<br />

sono fattori importanti e spesso cruciali. Ma come li contestualizziamo ed in che<br />

traiettorie diacroniche li inseriamo ?<br />

Vorrei tornare alle dimensioni iniziali, che abbiamo visto in termini di popolazione<br />

e di PIL, per rapportarle anche a un’altra determinante cruciale, ovvero la<br />

disponibilità e la formazione di capitali, un indicatore cruciale per quei percorsi di<br />

grande o piccola crescita dei tre paesi. Nell’800 dell’industrializzazione i capitali<br />

si formano fondamentalmente dagli scambi commerciali e dai surplus agricoli.<br />

Questi ultimi hanno ovviamente un rapporto diretto con l’ampiezza di terre fertili.<br />

Ed è <strong>qui</strong> che casca subito l’asino, perché il territorio dell’Italia, pur non essendo<br />

povero di terre fertili, ne contiene tuttavia ben di meno della Germania, che è un<br />

paese pianeggiante e non montuoso, e infinitamente meno degli USA. La capacità<br />

di accumulare capitali che si rovescino in investimenti per l’industrializzazione è<br />

<strong>qui</strong>ndi già di per sé molto minore. Oltre a ciò, le differenze territoriali e climatiche<br />

consentono agli USA forme di specializzazione dell’agricoltura molto più intense,<br />

e <strong>qui</strong>ndi redditizie, di quanto non possa avvenire <strong>qui</strong> e in Germania.<br />

Il secondo fattore cruciale di accumulazione dei capitali, che poi si possono<br />

rovesciare o meno sull’industrializzazione, viene dalla partecipazione al commercio<br />

internazionale, che è piuttosto alta per la Germania, soprattutto nell’area baltica,<br />

ed assai rilevante per gli Stati Uniti. E’ vero che in rapporto all’enorme mercato<br />

interno degli Stati Uniti i loro scambi internazionali costituiscono <strong>una</strong> quota<br />

relativamente limitata dell’economia nazionale, ma nel ricco commercio atlantico<br />

essi costituiscono nondimeno un formidabile volano di accumulazione di capitali<br />

utilizzabili, ed effettivamente utilizzati, per la costruzione di infrastrutture e per<br />

investimenti industriali veri e propri, aiutandoci a spiegare quei tassi di crescita<br />

51


più accelerati. Soprattutto, tassi alti di formazione del capitale, ed in generale di<br />

redditività degli investimenti (sia agricoli che industriali) hanno un effetto di volano,<br />

vale a dire ne attirano degli altri da tutto il mondo. E’ questa probabilmente la<br />

debolezza maggiore dell’Italia di quei decenni. Mentre invece gli Stati Uniti di fine<br />

Ottocento sono ciò che è stata la Cina degli ultimi vent’ani, ovvero il mercato su cui<br />

converge la maggiore quota proporzionale di capitali internazionali in cerca degli<br />

investimenti più redditizi. Oltre a quelli americani, anche i risparmiatori francesi<br />

o olandesi, e soprattutto britannici, investono nella costruzione delle grandi linee<br />

ferroviarie, negli impianti siderurgici, nelle miniere, nelle utilities e quant’altro,<br />

finanziando la colossale industrializzazione statunitense di fine Ottocento.<br />

Questo elemento di volano, in cui un tasso rapido di accumulazione dei capitali<br />

ne attrae molti altri su scala internazionale, vale meno per la Germania, e tuttavia<br />

lì abbiamo già <strong>una</strong> dimensione decisamente ampia che possiamo chiamare non<br />

solo più nazionale ma regionale e, al limite, quasi continentale. Ciò consiste nel<br />

fatto che il grande apparato industriale e infrastrutturale che si forma in Germania<br />

nei decenni che andiamo considerando, si ramifica molto rapidamente e profondamente<br />

in <strong>una</strong> cerchia più ampia, in <strong>una</strong> galassia di altre aree di industrializzazione<br />

e di ricchezza crescente. Ciasc<strong>una</strong> di esse è piccola ma se le consideriamo<br />

tutte insieme siamo di fronte a <strong>una</strong> cornice, a <strong>una</strong> corona di poli economici avanzati<br />

che moltiplica il mercato, la capitalizzazione, e la rilevanza del polo industriale<br />

tedesco. La Svizzera, l’Austria, la Boemia, parte dell’agricoltura danese, l’Olanda,<br />

il Belgio e il bacino carbo-siderurgico dell’Alsazia-Lorena, sono tutti largamente<br />

integrati in un’economia industriale (e finanziaria) tedesca che è ben più ampia<br />

dei confini nazionali. Anche l’industria nascente dell’Italia settentrionale, soprattutto<br />

in Lombardia, ed i suoi istituti finanziari, sono collegati all’economia tedesca.<br />

Abbiamo così <strong>una</strong> dimensione macroregionale, quasi continentale dell’economia<br />

industriale tedesca, ed essa è un fattore ricorrente fino a noi. Anche tralasciando le<br />

ambizioni hitleriane di un nuovo ordine europeo, noi ritroviamo questa posizione<br />

di perno ed epicentro anche dopo il 1949, quando la ripresa economica della Repubblica<br />

Federale Tedesca traina il rilancio di <strong>una</strong> galassia industriale molto più<br />

ampia, che comprende tutti i poli che ho elencato (salvo ovviamente la Boemia<br />

e la Slesia, ora al di là della Cortina di ferro). E sappiamo come l’espansione tedesca<br />

all’Est dopo il 1989 sia centrale nella trasformazione di quell’area e la sua integrazione<br />

in Europa.<br />

Insomma, già a fine Ottocento siamo di fronte a <strong>una</strong> netta differenziazione di<br />

dimensioni. L’Italia opera in un mercato nazionale con un’integrazione internazionale<br />

importante ma contenuta. Quello tedesco è un mercato già ben più grande e<br />

più dinamico, ma soprattutto innervato profondamente in un’altra serie di mercati<br />

dipendenti che, tutti insieme, definiscono <strong>una</strong> grande e dinamica area economica<br />

su cui Berlino stende la propria influenza. Gli Stati Uniti sono un’economia conti-<br />

52


nentale a tutti gli effetti, ormai sulla soglia di <strong>una</strong> scala incomparabile con le altre<br />

economie industriali.<br />

Chi conosce questo periodo della storia americana sa bene quale rilevanza abbia<br />

l’ampiezza del mercato, sia perché facilita forti specializzazioni sia perché consente<br />

un alto dinamismo della domanda, con la diffusione di consumi standardizzati<br />

su scala nazionale. E questi due fattori, congiunti tra loro, attivano economie<br />

di scala molto forti. Le prime grandi corporation di tipo moderno sorgono non a<br />

caso negli USA, per la possibilità e necessità di operare in un mercato più vasto e<br />

dinamico. L’ampiezza continentale influisce anche sul lato dell’offerta, appunto<br />

per la disponibilità di capitali nazionali e internazionali che in questo caso è colossale,<br />

rispetto a ciò di cui può disporre la Germania e, ancor più, l’Italia. Ricordiamo<br />

quanto la vastità del mercato, dei suoi flussi di scambio e dei suoi circuiti finanziari<br />

corrisponda abbastanza strettamente alla potenza nei decenni che precedono<br />

la Prima Guerra mondiale. La Gran Bretagna e la Francia non sono paesi grandi,<br />

non sono nazioni con un’economia domestica particolarmente più ricca di altri –<br />

a cavallo tra ’800 e ’900 –<br />

dimensioni mondiali con<br />

enormemente più ampia.<br />

ma sono grandi imperi di<br />

<strong>una</strong> spazialità economica<br />

È entro di essa che questi<br />

paesi, ed in particolare la Gran Bretagna, trovano<br />

le risorse della loro mag-<br />

giore potenza ed influenza<br />

internazionale. In modo sia pure totalmente<br />

diverso, perché è un paese enormemente più<br />

povero e per certi aspetti<br />

grande potenza europea<br />

la sua potenza in larghis-<br />

dei suoi spazi, cosa su cui<br />

A fine ‘800,<br />

la vastità del<br />

mercato corr<br />

i s p o n d e v a<br />

a b b a s t a n z a<br />

strettamente<br />

alla potenza<br />

miserabile, anche l’altra<br />

dell’epoca, la Russia, fonda<br />

sima misura sull’ampiezza<br />

tornerò dopo.<br />

L’Italia questa spazialità più estesa non ce l’ha e non la può ac<strong>qui</strong>sire. C’era<br />

<strong>una</strong> consapevolezza diffusa, nell’élite nazionale, del fatto che uno spazio più<br />

ampio fosse indispensabile, e questo fu uno dei fattori essenziali che promossero<br />

l’impresa coloniale. Ma si trattò di un’avventura guidata dall’idea che possedere un<br />

impero e<strong>qui</strong>valesse ipso facto a diventare <strong>una</strong> grande potenza europea. La strategia<br />

non era tanto orientata ad un ampliamento dello spazio economico, altrimenti<br />

si sarebbero più logicamente cercate altre forme di penetrazione commerciale sui<br />

mercati esteri più dinamici, invece della con<strong>qui</strong>sta territoriale di paesi poverissimi<br />

come l’Etiopia o la Libia (prima del petrolio). Quel che si perseguiva, in un malinteso<br />

connubio di semplicismo geopolitico e grandeur culturale, era un obiettivo<br />

di prestigio e di potenza, con strategie che di fatto digiungono la con<strong>qui</strong>sta territoriale<br />

dall’ampliamento delle risorse economiche. Alcuni storici economici ci dicono,<br />

in modo piuttosto convincente, che l’Italia unita avrebbe dovuto – e secondo<br />

loro avrebbe potuto – perseguire <strong>una</strong> politica non di con<strong>qui</strong>sta territoriale ed<br />

53


espansione coloniale bensì di penetrazione nei mercati, in modo analogo a ciò che<br />

fu poi fatto dopo il 1945. Sotto questo profilo, l’America Latina verso la quale andavano<br />

molti degli emigranti sarebbe stata un luogo più rilevante per i nostri circuiti<br />

commerciali. Analogamente, <strong>una</strong> deliberata politica del turismo avrebbe fatto ben<br />

di più – come poi fece – per attrarre capitali verso l’economia italiana.<br />

Invece della costruzione di circuiti commerciali e finanziari virtuosi, insomma,<br />

la con<strong>qui</strong>sta coloniale non rimedia alla limitata dimensione spaziale<br />

dell’economia italiana. Questa è in parte data da fattori naturali e condizioni economiche<br />

che consentono <strong>una</strong> accumulazione di capitali relativamente scarsa, ma<br />

in parte è legata anche alle scelte politiche e alle loro radici culturali che definiscono<br />

l’orizzonte geografico e storico in cui si pensa il proprio posto nel mondo.<br />

Pensiamo ad esempio al breve, fuggevole momento in cui l’Italia potrebbe esercitare<br />

un ruolo di grande potenza europea. Alla fine del 1918, l’Italia è <strong>una</strong> potenza<br />

vincitrice della Grande Guerra europea, si trova cioè per la prima <strong>volta</strong> (e anche<br />

l’ultima) con un ruolo influente ai tavoli che contano, quelli che definiscono e determinano<br />

il futuro del continente. Potrebbe ipoteticamente esercitare un ruolo di<br />

potenza egemone nei confronti di buona parte dei Balcani, subentrando all’impero<br />

austro-ungarico non in <strong>una</strong> modalità di dominio ma con un’egemonia politicoeconomica<br />

e culturale. Ma non lo fa, perché interpreta il suo ruolo in un senso<br />

puramente nazionalista di ac<strong>qui</strong>sizioni territoriali, tra l’altro abbastanza insignificanti,<br />

rinunciando così a ragionare su spazi più ampi e modalità d’influenza più<br />

indiretta. Invece di proiettare influenza come forza d’e<strong>qui</strong>librio e stabilizzazione, si<br />

auto-confina nella rivendicazione di tipo etnico e nazionalista – sull’Istria, Fiume<br />

e quant’altro – e <strong>qui</strong>ndi su un rapporto conflittuale con gli altri stati dell’area. Non<br />

è affatto casuale che l’Italia riesca a rompere i confini abbastanza limitati della sua<br />

spazialità economica solo in un’epoca successiva (e forse unica) della sua storia, tra<br />

il 1945 e gli anni ’80, quando cioè agisce in <strong>una</strong> sintonia e sinergia positiva con un<br />

ordinamento commerciale internazionale aperto e liberale. Quello che consente<br />

alle esportazioni italiane di riorientarsi verso i mercati più ricchi e dinamici dove<br />

può esportare non solo frutta e pomodori ma automobili, frigoriferi e macchinari.<br />

Non siamo più fissati sul dominio di mercati poveri (come i Balcani) in funzione<br />

geopolitica, bensì sull’interazione con i mercati ricchi e dinamici dell’Europa occidentale,<br />

a cominciare da quello tedesco, e poi del Nord America e del resto del<br />

mondo. Quella straordinaria dinamicità dell’economia italiana non discende solo<br />

dalla capacità di esportare ma – è bene ricordarlo soprattutto oggi – dalla simultanea<br />

capacità di attrarre forti capitali ed avere <strong>qui</strong>ndi <strong>una</strong> duplice sinergia con la<br />

creazione e redistribuzione delle risorse su scala internazionale. Quella aumentata<br />

spazialità dell’economia italiana non è perduta ma sta indubbiamente restringendosi<br />

da vent’anni a questa parte, e questo è uno dei problemi della stagnazione<br />

attuale del paese.<br />

54


L’importanza dello spazio, di un grande spazio economico e delle sue eventuali<br />

forme di organizzazione politica è molto presente nella consapevolezza politica<br />

e pubblica degli anni a cavallo della Prima guerra mondiale. Forse lì più che in<br />

qualsiasi altro momento. Il wilsonismo è anche un modo per integrare le crescenti<br />

interdipendenze dell’economia statunitense – che oltre che in Canada, Messico<br />

e America centrale comincia a ramificarsi su scala globale – in <strong>una</strong> struttura efficace<br />

di cooperazione internazionale. Per i britannici, ma anche per i francesi,<br />

l’intero periodo tra le due guerre è anche, se non soprattutto, un’epoca di difficile<br />

ridefinizione dell’organizzazione di un impero amplissimo, che si risolverà nel<br />

Commonwealth, e dei suoi rapporti con l’economia mondiale. E non c’è bisogno<br />

di ricordare quanto il ruolo della Germania in Europa (o del Giappone in Asia),<br />

e delle forme politiche della loro influenza, sia la chiave di <strong>volta</strong> dell’intero ciclo<br />

1914–1945.<br />

Siamo assuefatti a vedere i decenni centrali del Novecento secondo la grammatica<br />

delle ideologie e delle loro declinazioni più o meno totalitarie. Ma possiamo<br />

altrettanto utilmente e cogentemente considerarli alla luce dei modi in cui si pensano<br />

le relazioni tra territorialità e scambio, tra dominio di uno spazio e sua organizzazione,<br />

tra controllo e interdipendenza. Il rapporto tra le risorse dell’impero,<br />

la sicurezza europea e la connessione atlantica è, e resterà a lungo, il perno dei<br />

dilemmi e delle scelte britanniche. La spazialità della rivoluzione – i confini in cui<br />

essa può espandersi, sopravvivere o soccombere – è <strong>una</strong> dimensione precipua<br />

della storia sovietica. E ovviamente la dimensione economica, razziale, strategica<br />

e immaginaria dello spazio della nazione tedesca, fino all’incubo del nuovo ordine<br />

hitleriano, sta ben piantata al centro della crisi dell’Europa.<br />

Dopo il 1945 questa importanza di <strong>una</strong> spazialità estesa ac<strong>qui</strong>sta nuove geometrie,<br />

si riconfigura e si condensa, per quel che ci riguarda, soprattutto nella<br />

dimensione economica, ma non scompare affatto. Tutte le idee che ispirano e<br />

canalizzano la costruzione della Comunità Europea e poi della UE discendono da<br />

<strong>una</strong> logica “continentale” che postula il superamento dei confini troppo angusti dei<br />

mercati nazionali – come dei nazionalismi antagonistici – per pacificare l’Europa<br />

attraverso meccanismi di crescita e collaborazione in un mercato più ampio. Negli<br />

anni della ricostruzione il modello di crescita continentale americana è la matrice<br />

di riferimento fondamentale. Siamo nell’epoca della grande produzione industriale<br />

fordista e lì le economie di scala sono fondamentali. Poter produrre (e vendere)<br />

5 milioni di macchine invece di 500.000 fa <strong>una</strong> differenza sostanziale. Lo vediamo<br />

ancora adesso là dove si è spostato il cuore della produzione manifatturiera,<br />

nell’Estremo Oriente in cui la profondità e vastità del mercato cinese agisce da<br />

magnete indiscutibile per l’intera regione.<br />

Sappiamo meno sul ruolo della spazialità nell’economia di oggi ma vale la<br />

pena ragionarci su perché molti indizi ci dicono che, per quanto attraverso ri-<br />

55


configurazioni cruciali, essa costituisca ancora <strong>una</strong> categoria importante. Alcuni<br />

settori si vanno integrando su di <strong>una</strong> scala puramente e semplicemente globale.<br />

Nell’aerospaziale, dominato da Airbus e Boeing, entreranno forse due o tre altri<br />

protagonisti brasiliani o cinesi ma solo nella misura in cui diverranno anch’essi<br />

concorrenti globali. Anche <strong>una</strong> produzione relativamente matura come quella siderurgica<br />

– ora dominata da un colosso indiano che ha comprato aziende in Europa<br />

e altrove – ha ormai <strong>una</strong> dimensione mondiale. Vale la pena notare, tuttavia,<br />

che in tutti questi casi il punto di partenza in un mercato “nazionale” di grandi<br />

dimensioni (USA, Europa, Cina, India, Brasile) costituisce un trampolino probabilmente<br />

indispensabile per l’espansione globale. E lo stesso mi sembra si possa dire<br />

per settori più innovativi delle nuove tecnologie, dove lo stessa differenziazione<br />

tra industria e servizi si offusca fino a perdere di senso.<br />

Dove e come crescono Microsoft, Intel, Cisco, Apple, Google o Facebook? Siamo<br />

abbacinati dalle origini micro – nel famoso garage vicino a <strong>una</strong> grande università<br />

– ma le ragioni della loro crescita esponenziale non stanno solo nell’innovazione<br />

geniale, bensì nella possibilità immediata di finanziarla e venderla su un mercato<br />

enorme e ricettivo. Anche nella loro ascesa a giganti mondiali opera un meccanismo<br />

in qualche modo di scala, con <strong>una</strong> spazialità che se non è quella tipica<br />

della produzione industriale ha nondimeno un ruolo molto forte. Una Google auto-confinata<br />

a un mercato di dimensioni svizzere, o anche britanniche o texane,<br />

avrebbe fatto la fine ingloriosa del Minitel francese di 20 anni fa, che è morto per<br />

soffocamento. Il fatto che questi colossi nascano in un mercato di grande ampiezza<br />

come quello statunitense ci dice qualcosa di più della solita (e certo importante)<br />

connessione virtuosa tra l’ingegnosità di Stanford, i venture capitalist di<br />

Silicon Valley e la valorizzazione tipicamente americana dell’intraprendenza. La<br />

possibilità di immediata irradiazione su di un mercato di enormi dimensioni è la<br />

condizione – probabilmente sine qua non – per trasformare un piccolo e audace<br />

progetto in un colosso che, proprio per questa sua ampia base di partenza, si può<br />

poi affacciare sulla dimensione globale con <strong>una</strong> forza irresistibile.<br />

Voltiamo pagina e consideriamo un altro terreno sul quale sappiamo piuttosto<br />

bene quanto la dimensione sia stata, e tutto sommato sia ancora, essenziale: quello<br />

della sicurezza e della potenza militare, da considerare sia sotto il profilo delle risorse<br />

effettivamente disponibili, o ac<strong>qui</strong>sibili, sia sotto quello delle percezioni ed<br />

aspettative collettive sull’ordinamento internazionale e le sue dinamiche. E’ tanto<br />

ovvio quando banale, ma non per questo meno giusto, dire che la grandezza facilita<br />

la potenza, e soprattutto che la grandezza può aumentare la sicurezza e addirittura<br />

garantire la sopravvivenza. Abbiamo <strong>una</strong> casistica ampia e diversificata<br />

che conosciamo tutti abbastanza bene.<br />

Cominciamo proprio dagli Stati Uniti. Si possono elencare <strong>una</strong> varietà di motivi<br />

per spiegare il successo della rivoluzione – dall’eroismo dei patrioti all’illuminismo<br />

56


dell’élite, dalla pazzia di Re Giorgio agli errori politico-militari del governo di Londra<br />

– ma è indubbio che il fattore determinante della vittoria dei coloni contro la<br />

maggior potenza mondiale risieda nell’ampiezza del loro territorio: uno spazio che,<br />

molto semplicemente e banalmente, è troppo vasto per essere e occupato e controllato<br />

da <strong>una</strong> forza di occupazione. Per quanto la Gran Bretagna impegni forze<br />

rilevanti, essa non può pensare di mantenere a tempo indefinito il dominio militare<br />

di un territorio la cui popolazione è – almeno in <strong>una</strong> parte cospicua, probabilmente<br />

maggioritaria – ostile a questa soluzione. Se le colonie fossero state compattate<br />

su un territorio molto più piccolo, è facile presumere che le cose sarebbero<br />

andate molto diversamente. Se non altro perché la Gran Bretagna avrebbe avuto<br />

un incentivo molto più grande a combattere, invece di dire a un certo punto: “il<br />

gioco non vale la candela, costa troppo, la vittoria è impensabile”.<br />

La Cina non fu sottoposta a un’occupazione coloniale in piena regola, ed invece<br />

costretta a forme indirette di domino, di penetrazione finanziaria e missionaria<br />

sulla sua fascia costiera e su alcuni dei fiumi che penetrano all’interno. Ma<br />

nessuno si sognò mai di occupare tutta la Cina e trasformarla in un dominio coloniale<br />

diretto, tout court, come invece, per esempio, avvenne in Kenya o in Algeria.<br />

Gli stessi giapponesi ne occuparono <strong>una</strong> fetta, per quanto ampia e non è affatto<br />

detto che se non avessero incontrato quella forte resistenza dei nazionalisti e dei<br />

comunisti avrebbero mirato a occuparla tutta, perché sarebbe stata un’impresa titanica,<br />

probabilmente senza senso.<br />

E pensate all’India ed alla sua penetrazione da parte britannica. Ci sono molti<br />

libri sul colonialismo britannico in India, ma tutti sottolineano – vuoi da un punto<br />

di vista nostalgico-imperiale alla Ferguson, vuoi da un punto di vista post-colonial<br />

molto critico – che il controllo britannico sull’India fu fortemente indiretto, affidato<br />

ad élites locali coordinate da uno sparuto apparato burocratico britannico, e<br />

che gli interessi britannici vitali furono posizionati in alcune piccole aree cruciali.<br />

E non è casuale che l’India sia il primo paese a rendersi indipendente: non solo<br />

perché ha un leader cruciale come Gandhi, ma anche perché l’Inghilterra non può<br />

ragionevolmente pensare di sostenere <strong>una</strong> lotta militare per l’India. Lo fa, in quei<br />

decenni, per la Malesia e per il Kenya; i francesi lo faranno inutilmente per il Vietnam<br />

e per l’Algeria. Ma per un paese delle dimensioni dell’India è semplicemente<br />

impensabile. Lo spazio in quel caso è sicurezza per gli indiani e la loro indipendenza.<br />

E pensate alla Russia – questo è il caso da libro di testo. Se la Russia fosse stato<br />

un paese che si stendeva da Minsk, Kiev e Odessa fino a Mosca e Pietroburgo<br />

sarebbe stato di gran lunga il paese più grande d’Europa, ma sarebbe probabilmente<br />

stata sconfitta da Napoleone e certamente da Hitler. Con tutte le differenze<br />

che possiamo provare a immaginarci per la storia europea e mondiale. Non fu<br />

sconfitta, in entrambi i casi, perché al di là di Mosca c’è ancora <strong>una</strong> Russia altret-<br />

57


tanto grande che arriva fino agli Urali e, al di là di quelli, ancora un’altra infinitamente<br />

più grande in cui i russi poterono arretrare e ricostituirsi, per poi ricostruire<br />

enormi armate e passare alla controffensiva. Altrimenti come spiegarsi la sconfitta<br />

di un paese altamente sotto il profilo tecnologico-militare come era la Germania<br />

hitleriana, a fronte di un paese enormemente più povero? Lì lo spazio – che in termini<br />

strategici viene chiamato profondità – è vitale. Prima che si arrivi agli armamenti<br />

atomici, ma per molti verso anche dopo, il grande spazio è <strong>una</strong> delle risorse<br />

di potenza cruciali, in alcuni casi decisiva, per la Russia/URSS.<br />

Questo mi porta a due considerazioni sulle quali vorrei concludere. La comparazione<br />

dei processi di formazione e sviluppo delle nazioni, come hanno fatto<br />

diversi studiosi, è molto utile. Ci può consentire di costruire tipologie e misurare<br />

le variazioni dei singoli casi in termini di culture politiche, modalità<br />

dell’industrializzazione come della nazionalizzazione, culture e istituti dello Statebuilding<br />

e quant’altro. Tuttavia questa indagine sulle analogie e le divergenze necessita<br />

di ampie, profonde e sofisticate contestualizzazioni, <strong>una</strong> delle quali può<br />

essere – in taluni casi probabilmente deve essere – quella spaziale. Ce ne devono<br />

ovviamente essere altre, di diversa natura, ma questa mi sembra non irrilevante<br />

per spiegare le divaricazioni su di un lungo arco di tempo.<br />

Lo spazio e la territorialità ci possono dire cose importanti. In primo luogo,<br />

com’è abbastanza palese, in relazione alle differenze comparative di potere e di influenza<br />

internazionale, ma anche per ciò che concerne le concezioni di sé e <strong>qui</strong>ndi<br />

i contorni dell’identità: tra i due estremi di <strong>una</strong> massima vulnerabilità – comune a<br />

molti paesi europei – e di <strong>una</strong> sicurezza pressoché garantita dall’essere non con<strong>qui</strong>stabili,<br />

come nel caso statunitense, c’è <strong>una</strong> gamma di immaginari che differenzia<br />

effettivamente le nazioni ed i loro comportamenti. Siamo abituati a imperniare<br />

l’identità americana intorno alla visione della “città sulla collina”, il mo dello<br />

self-righteous di un futuro universale, ma cosa sarebbe rimasto di quell’utopia<br />

senza l’effettiva, duratura sicurezza della nazione americana garantita dalla sua<br />

ampiezza e dagli oceani ? Una <strong>volta</strong> concluso il conflitto con la Gran Bretagna –<br />

tra la guerra di Indipendenza e il 1812 – bisognerà arrivare ai missili nucleari, un<br />

secolo e mezzo dopo, perché si incrini, e neppure definitivamente, la percezione<br />

degli Stati Uniti come territorio ed esperimento intrinsecamente sicuro. Che tutto<br />

questo condizioni profondamente, se non addirittura plasmi le lenti attraverso cui<br />

gli Stati Uniti leggono e interpretano i loro rapporti con il mondo, e le ambiziose<br />

strategie che ne derivano fondate sulla fiduciosa convinzione di poter guidare <strong>una</strong><br />

modernizzazione e democratizzazione globale, credo sia indiscutibile.<br />

Non meno rilevante, anche se di segno quasi opposto, è il ruolo esercitato dai<br />

dilemmi della spazialità nella storia della Germania e dell’Italia. Il pericolo della<br />

vulnerabilità territoriale, del soffocamento entro confini angusti percepiti come<br />

ingiu sti o illogici, del confronto con concorrenti e rivali dotati di altri spazi e ri-<br />

58


sorse, e delle relative aspettative di sviluppo o declino sono al centro della travagliata<br />

storia dell’<strong>una</strong> come dell’altra nazione. Il nazismo si costruisce – e per fort<strong>una</strong><br />

si autodistrug ge – intorno alla fantasia sterminista di un grande spazio razziale,<br />

economico e territoriale. Per il fascismo italiano la dimensione del dominio e<br />

dell’impero, con la sua fantasmagoria di immagini classicheggianti e moderne,<br />

non è meno rilevante. Ma è evidente che ancor prima di essere peculiarità delle<br />

due ideologie in questione, queste sono risposte estreme ai problemi che definiscono<br />

l’intera storia nazionale, con i quali Germania e Italia si confrontano prima,<br />

dopo e ancora oggi e, presumibilmente, domani.<br />

Queste considerazioni sul problema della spazialità, per quanto rapide e sommarie,<br />

forse inducono anche a conclusioni più sobrie, ma magari più lucide, sul<br />

presente e su quello che da esso possiamo estrapolare per cercare di intravedere il<br />

futuro. Voglio dire che non mi sembra affatto che stiamo assistendo al deperimento,<br />

così spesso preconizzato o auspicato, degli stati nazionali. Semmai siamo di<br />

fronte ad <strong>una</strong> forte (e, per quel poco di futuro che si può ragionevolmente in tuire,<br />

probabilmente inesora- bile) polarizzazione delle<br />

relazioni internazionali intorno ad alcuni megastati<br />

di ampiezza conti-<br />

di territorio, popolazione,<br />

l’India, il Brasile, la Rus-<br />

basso il Messico, la Tur-<br />

domani il Sud Africa. Po-<br />

chissime cose accom<strong>una</strong>no<br />

questi paesi, ma <strong>una</strong><br />

spazi, della popolazione,<br />

Ampiezza <strong>qui</strong>ndi delle ri-<br />

concentrate e convertite<br />

nentale o quasi, in termini<br />

mercato: la Cina, gli USA,<br />

sia, a un livello un po’ più<br />

chia, l’Indonesia e forse<br />

c’è ed è l’ampiezza dei loro<br />

della loro sfera economica.<br />

sorse che possono essere<br />

in grandi progetti: dalla<br />

enorme spesa militare statunitense, che un’economia più piccola non si potrebbe<br />

permettere, alla gigantesca costruzione di infrastrutture in Cina, o la modernizzazione<br />

galoppante dell’economia brasiliana congiunta a cospicui investimenti<br />

in spesa sociale, pur’essi impensabili su <strong>una</strong> scala economica più piccola. O<br />

l’ampiezza che, in congiunzione con i suoi lineamenti culturali e politici, da alla<br />

Turchia la possibilità di ascendere a potenza centrale, forse determinante, nell’area<br />

Mediorientale.<br />

È in atto <strong>una</strong><br />

forte pola rizzazione<br />

delle<br />

relazioni internazionali<br />

attorno<br />

ad alcuni<br />

m e g a - s t a t i<br />

C’è insomma un nesso robusto tra il dinamismo economico, e <strong>qui</strong>ndi<br />

l’accumulazione di potenza finanziaria e commerciale, e la possibilità di proiettare<br />

influenza politico-culturale oltre che forza militare, e questo nesso è decisamente<br />

irrobustito e facilitato da <strong>una</strong> spazialità ampia ed estesa. Perché è evidente<br />

che si può essere molto ricchi e benestanti – pensiamo alla Svezia, alla Svizzera<br />

o, in microcosmo, al Lussemburgo – ma il reddito pro capite e la qualità della vita<br />

non sono l’unica e spesso neppure la principale misura dell’influenza internazio-<br />

59


nale di un paese. Questo mi porta a pensare che il dibattito dell’ultimo decennio<br />

sull’Unione Europea – su cosa vogliamo essere e in particolare sulla UE come<br />

modello di un’aggregazione che porta al superamento degli stati nazionali – sia<br />

<strong>una</strong> riflessione molto introversa, tutta ri<strong>volta</strong> verso l’interno della nostra storia<br />

europea, se non addirittura fissata sul nostro ombelico, ma poco attenta a quello<br />

che succede tutto intorno. Perché è vero che ci sono forme di cooperazione su<br />

scala regionale, per quanto assai diluite e poco istituzionalizzate, come Mercosur,<br />

ASEAN o NAFTA, ma non si tratta affatto di aggregazioni tra stati in chiave postnazionale,<br />

bensì di agglomerazioni abbastanza parziali di spazi economici intorno<br />

a un grande attore con <strong>una</strong> nazionalità e statualità fortemente definita, che in<br />

genere attraverso quelle collaborazioni cerca di accentuare la propria influenza<br />

regionale. La UE non sembra affatto un modello replicabile: al massimo è la forma<br />

peculiare, ed evidentemente assai parziale e imperfetta, assunta dal tentativo<br />

esitante e incompleto di stato medio-piccoli (come sono quelli europei) di scalare<br />

verso l’ampia dimensione che caratterizza il nuovo mondo multipolare. Se la UE<br />

diventerà mai un’unione a tutti gli effetti, salda e in certa misura centralizzata,<br />

potrà forse essere tra i protagonisti di questa nuova geometria mondiale. Se invece<br />

resta l’ibrido pericolante che è adesso, più disunione che unione con i vari litigi su<br />

chi si accolla i rifugiati dalla Libia o il debito greco, la UE potrà forse continuare ad<br />

essere un esperimento unico di post-nazionalità ma – a parte il fatto che rischia<br />

in ogni momento di inciampare su stessa e regredire se non addirittura disintegrarsi<br />

– anche nella più ottimistica delle ipotesi non potrà certo aspirare a divenire<br />

quella potenza con <strong>una</strong> proiezione globale di cui si fantasticava fino a poco tempo<br />

sotto la consolante etichetta di “potenza civile”. E’ evidente infatti che la sua pur<br />

cospicua dimensione economica e demografica è delimitata, e <strong>qui</strong>ndi per molti<br />

aspetti tarpata e spezzettata, dall’assenza di unità decisionale. Ed oggi sembra essere<br />

proprio questa caratteristica – in fondo la più tipica dello stato-nazione – a<br />

definire il connubio dimensione-potenza.<br />

60


Oltre il secolo<br />

americano?<br />

In occasione del decimo anniversario<br />

dell’11 settembre vi presentiamo<br />

il libro Oltre il secolo americano? Gli<br />

Stati Uniti prima e dopo l’11 settembre<br />

(Roma, Carocci editore, 2011), attraverso<br />

l’intervista alle curatrici, Raffaella Baritono<br />

ed Elisabetta Vezzosi. L’intervista è<br />

di Alberto Benvenuti e Chiara Corazziari.<br />

“Oltre il Secolo Americano?” è<br />

<strong>una</strong> raccolta di saggi che ricostruisce<br />

la storia degli Stati Uniti degli ultimi<br />

vent’anni, ponendo l’11 settembre al<br />

centro di un’analisi storica, economica,<br />

politica e culturale che lo definisce non<br />

più come punto di s<strong>volta</strong> storiografico,<br />

ma piuttosto come “momento di concentrazione<br />

delle aporie e delle contraddizioni<br />

che la Guerra fredda e l’ideologia<br />

dell’eccezionalismo americano avevano<br />

tenuto in subordine”. I sedici contributi<br />

raccolti in questo volume offrono <strong>una</strong> riflessione<br />

ampia, utile a farci comprendere<br />

con maggiore chiarezza gli Stati Uniti<br />

di oggi, impegnati a uscire dalla crisi e<br />

a ridefinire e il loro ruolo di potenza in<br />

uno scenario globale in trasformazione.<br />

Dieci anni dopo l’11 settembre ricordiamo, celebriamo e riflettiamo sugli attentati<br />

terroristici che hanno provocato la morte di quasi 3000 persone, trasformato<br />

il volto di New York, sconvolto gli Stati Uniti e ammutolito il mondo. Sono<br />

tante le domande che non hanno ancora trovato risposta e dieci anni non sono<br />

forse sufficienti per <strong>una</strong> comprensione a 360° di quegli avvenimenti, per capirne<br />

tutte le conseguenze e stabilire se queste saranno durature o passeggere. “Oltre il<br />

61


secolo americano” pone gli eventi dell’11 settembre in relazione con la fine della<br />

guerra fredda e esamina quelle che sono le dinamiche successive agli attentati. L’11<br />

settembre cessa di essere un momento astorico, un fulmine a ciel sereno, per essere<br />

inserito in un contesto storico, politico e sociale definito. Allo stesso modo non<br />

viene interpretato necessariamente come l’inizio di <strong>una</strong> nuova epoca, ma parte di<br />

un processo che non inizia e non finisce con il crollo delle torri gemelle. Si può<br />

dire <strong>qui</strong>ndi che il libro va oltre la volontà di rispondere alle tante domande su come<br />

siano cambiati gli Stati Uniti dall’11 settembre? Potrebbe essere definito come il coraggioso<br />

e complesso tentativo di consegnare l’11 settembre alla storia attraverso<br />

un’analisi politica, economica e sociale degli Stati Uniti?<br />

EV. Quando abbiamo cominciato a immaginare il volume, insieme a Claudia<br />

Evangelisti (Carocci Editore), l’idea è stata immediatamente quella di collocare gli<br />

eventi dell’11 settembre in uno spettro temporale molto più ampio, il ventennio<br />

a cavallo di quella data. Ci interessava infatti cercar di capire dinamiche sociali,<br />

politiche, economiche, di politica estera, nel periodo compreso tra la presidenza<br />

Clinton e Obama. In questo contesto il trauma dell’11 settembre è stato visto come<br />

un momento di “snodo” ma non necessariamente come uno spartiacque.<br />

RB. Come ha detto Elisabetta, l’interrogativo che ci siamo poste è stato quello<br />

di considerare l’11 settembre come un momento di “snodo” di fenomeni politici,<br />

economici e sociali le cui premesse spesso risalgono al decennio precedente.<br />

I noltre, non so se il tentativo sia stato “coraggioso”, ma certo il progetto, ambizioso<br />

per certi versi, è stato quello di calare il trauma del crollo delle due torri dentro<br />

un’analisi storica e non semplicemente di inscrivere questo evento solo nel solco<br />

tracciato dalla memoria, come pure mi pare sia emerso – e forse non poteva che<br />

essere così – nelle rievocazioni e nelle celebrazioni pubbliche. D’altra parte, come<br />

mettiamo in evidenza nell’introduzione, negli Stati Uniti la “necessità” della storia<br />

ha caratterizzato immediatamente il bisogno di dare senso, e di elaborare il lutto.<br />

Già nel 2002 lo History News Network della George Mason University pose alla comunità<br />

degli storici la domanda se l’11 settembre aveva modificato il modo stesso<br />

di guardare alla storia. Ed è significativo che il 40% rispondesse con un netto sì,<br />

anche se le posizioni, come sottolineiamo, sarebbero divenute più sfumate negli<br />

anni successivi.<br />

L’<br />

11 settembre ha costretto gli Stati Uniti a ripensare al loro ruolo nel mondo.<br />

L’amministrazione Bush pensò di affrontare la nuova minaccia terrorista in<br />

modo simile a quanto era stato fatto con la minaccia comunista, con l’uso della potenza<br />

militare, iniziando un conflitto potenzialmente senza fine contro un nemico<br />

difficilmente circoscrivibile. Quelle che il giornalista Jeremy Scahill ha chiamato<br />

“guerre ombra” – cioè interventi militari in paesi stranieri di cui l’opinione pubblica<br />

è in larga parte all’oscuro – hanno confermato anche nell’amministrazione Obama<br />

62


un approccio decisamente militarista. Quanto e in che misura le guerre al terrore<br />

hanno contribuito a un ridimensionamento dell’influenza globale americana, sia<br />

da un punto di vista geopolitico, che da un punto di vista ideologico? A questo<br />

proposito, nel decennale dell’11 settembre, possiamo considerare gli attentati come<br />

l’inizio del declino dell’eccezionalismo americano?<br />

EV. Come scrive Federico Romero nel saggio compreso nel volume, il decennio<br />

di fine ’900 è rimasto connotato dall’ottimistica percezione di <strong>una</strong> progressiva<br />

ascesa dell’America verso <strong>una</strong> centralità che ne riconfermava, e forse addirittura<br />

accresceva, un ruolo d’incontestata leadership mondiale. L’autorità americana<br />

era ben visibile anche nella politica mondiale. La guerra nel Golfo aveva evidenziato<br />

<strong>una</strong> schiacciante supremazia tecnologica e militare e <strong>una</strong> forte capacità di<br />

leadership: gli stati del Golfo avevano affidato la propria sicurezza agli USA, molte<br />

nazioni arabe erano confluite nella coalizione anti-irachena e l’assenza di opposizioni<br />

all’ONU aveva fatto intravedere la possibilità di un ordine collettivo a guida<br />

americana. Le guerre al terrore e il loro sostanziale fallimento hanno cambiato la<br />

prospettiva. Sta chiudendosi insomma un lungo ciclo storico, durato quasi un secolo,<br />

in cui gli USA non solo forgiarono e diressero il sistema internazionale, ma lo<br />

fecero grazie a <strong>una</strong> preminenza economica e ideale dalla quale scaturiva la forza<br />

della loro egemonia culturale. Oggi gli Stati Uniti sembrano condannati ad <strong>una</strong><br />

crescente insularità, alla “solitudine”.<br />

RB. Non credo si possa parlare degli attentati come l’inizio del declino<br />

dell’eccezionalismo americano. L’eccezionalismo come convinzione della superiorità<br />

morale degli Stati Uniti, del paese come “città sulla collina”, certo attraversa<br />

l’intera storia americana e si ripresenta ciclicamente. Non dimentichiamo che,<br />

prima che ritrovasse vigore con l’amministrazione Bush, aveva subito non pochi<br />

contraccolpi a partire quanto meno dalla guerra del Vietnam, la prima guerra “non<br />

giusta” (e mai dichiarata) combattuta dagli Stati Uniti. Inoltre, all’indomani della<br />

fine della guerra fredda, nonostante il trionfalismo dominante nel dibattito pubblico,<br />

si aprì, all’interno della comunità scientifica e intellettuale, seppure per un breve<br />

periodo, <strong>una</strong> riflessione sul presunto “declino” statunitense, nella convinzio ne che<br />

la guerra fredda avesse finito per logorare gli Stati Uniti stessi. Si potrebbe dire<br />

che gli attentati non portano a un declino dell’eccezionalismo, ma impongono agli<br />

Stati Uniti di ripensare la loro collocazione all’interno del contesto internazionale.<br />

Dopo il trionfalismo post-guerra fredda, dall’11 settembre e ancora di più dal<br />

2008, l’immagine economica degli USA appare notevolmente ridimensionata.<br />

Al di là delle ragioni ideologiche, religiose e politiche, legate all’emergere del movimento<br />

neoconservatore, la guerra al terrore è stata preceduta da <strong>una</strong> nuova corsa<br />

agli armamenti, iniziata con Clinton, che ha certamente dato linfa allo sviluppo<br />

economico. La guerra è inoltre stata anche <strong>una</strong> guerra per il petrolio. L’11 settembre<br />

63


può allora essere considerata come data simbolo per comprendere la transizione<br />

post-egemonica in corso, non solo dal lato politico-militare, ma anche economico?<br />

In altre parole, possiamo dire che con l’11 settembre è finito il “ciclo economico<br />

americano”?<br />

EV. Se fondiamo la risposta sulle teorie di Giovanni Arrighi l’attuale crisi e<br />

l’inarrestabile processo di finanziarizzazione che le si collega sono interpretati alla<br />

luce dell’intera traiettoria di sviluppo del capitalismo mondiale, dalle città-Stato<br />

italiane rinascimentali all’ascesa degli Stati Uniti alla guida del sistema economico<br />

internazionale. In questa prospettiva, il processo di finanziarizzazione che segna<br />

la nostra epoca deve essere inteso sia come sintomo della decadenza dello Stato<br />

attualmente egemone a livello internazionale, gli Stati Uniti, sia come condizione<br />

della riapertura, in un diverso contesto geografico, di un nuovo ciclo di espansione<br />

economica “materiale” (industriale e commerciale). In questo senso dunque<br />

il “ciclo economico americano si è concluso ben prima dell’11 settembre”.<br />

RB. Al di là della condivisione o meno delle tesi di economisti marxisti come<br />

Arrighi (uno dei suoi ultimi saggi, pubblicati prima della morte, non a caso si intitola<br />

“Adam Smith a Pechino”), mi pare che emerga, per esempio dal saggio di Duccio<br />

Basosi pubblicato nel libro, <strong>una</strong> dialettica anche questa di lungo periodo che<br />

non sembra essere stata modificata dall’11 settembre. Basosi, riprendendo le tesi di<br />

Malcom Sylvers, parla della dinamica economica americana come contraddistinta<br />

dai due termini di “dominio” e “declino” (<strong>una</strong> parola che, come si vede, ricorre spesso).<br />

Certo la crisi economico-finanziaria, emersa con la bolla speculativa dei mutui<br />

subprime, induce a vedere il pendolo oscillare più verso il “declino” – e <strong>qui</strong>ndi apparentemente<br />

certificare la fine del “ciclo americano” –, ma proprio la storia non<br />

lineare degli ultimi venti anni ci dimostra come in realtà sia difficile sposare <strong>una</strong><br />

tesi rispetto all’altra. Riprenderei <strong>qui</strong>ndi le parole di Basosi, quando, in conclusione<br />

afferma “Al di là delle mutevoli previsioni dei futurologi, è oggi possibile affermare<br />

che vari elementi di fragilità dell’economia statunitense, a lungo denunciati dai<br />

declinisti in passato, si sono effettivamente manifestati in tempi recenti, sul piano<br />

interno come su quello globale. Qui, tuttavia, lo storico deve fermarsi. Troppe sono<br />

le variabili in gioco, che in futuro potrebbero dare forma a configurazioni alternative<br />

dell’economia statunitense e del suo ruolo nel mondo: dagli e<strong>qui</strong>libri politici<br />

interni al Paese agli e<strong>qui</strong>libri politici e militari globali, dalle potenzialità delle innovazioni<br />

tecnologiche alle conseguenze dei cambiamenti climatici, dalla psicologia<br />

dei mercati valutari alle molteplici contraddizioni dell’ascesa cinese”.<br />

Se da un lato l’elezione del primo presidente afroamericano è stata indiscutibilmente<br />

un momento storico per la comunità nera americana, dall’altro Obama<br />

ha fatto di tutto per scrollarsi di dosso l’etichetta di presidente nero. Diversi osservatori<br />

hanno evidenziato il fatto che la questione razziale è stata esclusa dall’agenda<br />

64


presidenziale come pochi altri presidenti dal secondo dopoguerra avevano fatto,<br />

mentre con la crisi è aumentato il tasso di povertà degli afroamericani. Quali<br />

politiche dovrebbe adottare Obama per non rischiare di far stagnare <strong>una</strong> situazione<br />

potenzialmente esplosiva – la crisi successiva all’uragano Katrina ci insegna – nascosta<br />

dietro la maschera di un’America post-razziale? E’ ancora possibile parlare<br />

di “cittadinanza di seconda classe” per l’America non bianca?<br />

EV. Come ho scritto nel mio saggio la candidatura di Barack Obama alla presidenza<br />

degli Stati Uniti e il suo successo elettorale, nel 2008, sono stati certo il<br />

frutto di <strong>una</strong> profonda trasformazione negli atteggiamenti razziali dei cittadini<br />

americani. Tuttavia, sebbene Obama abbia ricevuto il 53% dei voti, solo il 43% degli<br />

elettori bianchi lo ha scelto, a fronte di <strong>una</strong> larga maggioranza di consensi da<br />

parte dei gruppi di minoranza: il 67% degli ispanici, il 62% degli asiatici e il 95%<br />

degli a froamericani. Se la narrazione apparentemente prevalente negli Stati Uniti<br />

dell’era Obama parla di <strong>una</strong> società che ha ormai superato le divisioni razziali e<br />

che si presenta, dunque, all’alba del XXI secolo come race-neutral, essa sembra<br />

non tener conto dei dati di realtà che, innegabili, mostrano <strong>una</strong> disuguaglianza<br />

economica e sociale persistente che si acutizza se prendiamo in considerazione la<br />

realtà di molte donne nere. Forse, come scrive Imani Perry, gli Stati Uniti si trovano<br />

oggi non tanto in <strong>una</strong> fase post-razziale quanto in un periodo di razzismo “postintenzionale”,<br />

che non è fondato sulle discriminazioni del passato, né su concezioni<br />

biologiche della razza, ma continua comunque a mettere in atto “pratiche di<br />

disuguaglianza razziale”.<br />

RB. Non credo di poter aggiungere niente di più a quanto ha già detto Elisabetta.<br />

Mi pare difficile poter parlare senza ulteriori specificazioni di un’America<br />

post-razziale. Sulle sottili forme di un razzismo post-intenzionale vorrei rimandare<br />

a un articolo, alquanto controverso, che è stato pubblicato dalla politologa<br />

Melissa Harris-Perry su The Nation del 21 settembre (sarà pubblicato sul numero<br />

che andrà poi in edicola il 10 ottobre) dal titolo “Black President, Double Standard:<br />

Why White Liberals Are Abandoning Obama”, in cui mette il dito nella piaga di un<br />

pregiudizio che sopravvive anche negli stessi liberal bianchi.<br />

L’<br />

11 settembre ha anche riproposto, da <strong>una</strong> parte, un “nuovo maschilismo”<br />

costruito sul nesso terrore-sicurezza, a consolidamento di gerarchie solo apparentemente<br />

superate, dall’altra ha visto emergere non solo <strong>una</strong> nuova retorica<br />

di destra sui diritti delle donne a giustificazione delle guerre, ma anche <strong>una</strong> forte<br />

partecipazione di donne nei movimenti conservatori, come il recente Tea Party. In<br />

questo contesto, come emerge o viene marginalizzata la questione di genere nel<br />

dibattito pubblico e politico americano?<br />

RB. Così come appare difficile parlare di un’America post-razziale, appare altrettanto<br />

complicato, a mio avviso, definire il periodo attuale come caratterizza-<br />

65


to dal post-femminismo, dove il suffisso post in realtà può voler dire molte cose:<br />

dall’andare oltre al superamento del femminismo a molto altro. Dal mio saggio<br />

emerge come proprio negli anni che vanno dall’elezione di Clinton nel 1992 ad<br />

oggi, il contesto politico americano non possa essere letto attraverso la dicotomia<br />

inclusione-esclusione. Anzi, questi anni sono caratterizzati da un grande protagonismo<br />

delle donne nella vita pubblica, come in quella intellettuale e politica,<br />

seppure con modulazioni diverse e oscillazioni nei processi di rappresentazione e<br />

autorappresentazione e con forti elementi di ambivalenza come il caso della presidenza<br />

Bush dimostra. La “mascolinizzazione” del discorso pubblico, all’indomani<br />

dell’11 settembre, legata al nesso sicurezza-vulnerabilità, si accompagnava a<br />

<strong>una</strong> retorica dei diritti delle donne come diritti umani che doveva le gittimare<br />

l’egemonia americana. La campagna di Hillary Clinton da questo punto di vista<br />

ha rappresentato per certi versi <strong>una</strong> summa delle contraddizioni e delle ambiguità<br />

di <strong>una</strong> sfera pubblica e politica statunitense in cui a <strong>una</strong> narrazione spesso poco<br />

rispettosa delle differenze di genere (da questo punto di vista, alcuni media non<br />

solo hanno riprodotto, ma probabilmente rilanciato stereotipi e pregiu dizi di genere)<br />

non sempre corrisponde la realtà dei rapporti di forza e viceversa. Il Tea Party<br />

movement è esemplificativo da questo punto di vista: grande visibilità di alcune<br />

delle protagoniste del nuovo conservatorismo che si accompagna a un’analisi che<br />

vede il movimento espressione di maschi, anziani, middle-class, così come mettono<br />

in luce Theda Skocpol e Vanessa Williamson, nel loro libro The Tea Party and<br />

the Remaking of Republican Conservatism di prossima uscita per la Oxford University<br />

Press.<br />

EV. Mi pare di poter aggiungere che i conservatori repubblicani vedano nella<br />

maternità le radici della cittadinanza femminile e che cerchino di usare il potere<br />

che detengono a livello istituzionale per favorire questa visione. I repubblicani in<br />

Congresso hanno sostenuto con forza, negli ultimi anni, la legislazione antichoice,<br />

<strong>una</strong> scelta che avrà enorme peso sulla vita delle donne americane. Ne è esempio<br />

l’abolizione del finanziamento dei centri Planned Parenthood, che fornivano<br />

un’assistenza medica di base nell’arco del percorso riproduttivo, praticavano test<br />

gratuiti per l’individuazione di malattie sessualmente trasmissibili, prestavano<br />

consulenza sulla contraccezione e organizzavano screening per il cancro al seno<br />

per milioni di donne americane. Un enorme passo indietro insomma.<br />

Elezioni 2012: successi e sconfitte hanno caratterizzato questi primi anni di presidenza<br />

Obama, anni in cui la decisa opposizione dei Tea Parties e l’influenza<br />

che hanno esercitato sul partito repubblicano e – dopo le elezioni di mid-term –<br />

sul Congresso hanno condizionato le riforme e le proposte del presidente. Alla luce<br />

delle più recenti questioni di attualità, dall’uccisione di bin Laden al sofferto accordo<br />

con i repubblicani per evitare il default, quali saranno gli argomenti forti sui<br />

66


quali Obama potrà giocarsi la rielezione nel 2012?<br />

EV. Come noto la campagna elettorale di Barack Obama è molto in salita. Secondo<br />

i sondaggi il presidente detiene solo il 42% dei consensi a fronte del 57%<br />

nei giorni immediatamente seguenti alla cattura e uccisione di bin Laden. Naturalmente<br />

l’amministrazione paga il prezzo di <strong>una</strong> lunga crisi economica che non<br />

trova risoluzione e che vede anzi a tutt’oggi un altissimo tasso di disoccupazione.<br />

Il proseguimento, di fatto, della guerra in Afghanistan, così come le timidissime<br />

politiche sull’ambiente hanno allontanato dal presidente molti suoi sostenitori. La<br />

sua campagna si concentrerà <strong>qui</strong>ndi in gran parte su lavoro e occupazione, come<br />

dimostra l’American Jobs Act, presentato dal presidente ai primi di settembre. E’<br />

un piano per rilanciare l’economia del paese che prevede 450 miliardi di investimenti<br />

in opere pubbliche e incentivi fiscali a famiglie e imprese.<br />

RB. Fermo restando che molto dipenderà anche dal candidato repubblicano<br />

che emergerà dalle primarie, i temi forti, come ha sottolineato Elisabetta, sono<br />

quelli dell’economia e del rilancio della crescita, tanto in termini di assorbimento<br />

della disoccupazione che in quelli di un miglioramento della qualità stessa del<br />

lavoro. Infatti dati anche recenti (v. ad esempio le tabelle riportate in un blog come<br />

America 2012) dimostrano come a partire dal 1979, a fronte di un aumento minimo<br />

dei salari e degli stipendi della classe media, l’1% più ricco abbia visto aumentare<br />

i propri introiti del 240%. Tuttavia un recente sondaggio Gallup ha misurato le<br />

percentuali di gradimento e di insoddisfazione degli americani rispetto al proprio<br />

lavoro, confrontando i dati del 2011 con quelli del 2008 e in alcuni casi del 2001<br />

(http://www.gallup.com/poll/149324/Workers-Unhappy-Health-BenefitsPromotions.aspx).<br />

Ciò che emerge è un quadro di crescente insoddisfazione su <strong>una</strong> varietà<br />

di elementi presi in esame, dai piani sanitari offerti dai datori di lavoro alle<br />

norme di sicurezza, dai piani pensionistici alle relazioni con gli altri lavoratori,<br />

dalla pressione e competizione alla mancanza di prospettive di carriera, per citarne<br />

solo alcuni. Per gli analisti della Gallup la classe politica e in particolare coloro<br />

che si candidano alla leadership del paese dovrebbero prestare attenzione alla percezione<br />

che i lavoratori hanno del proprio lavoro al pari delle questioni relative alla<br />

disoccupazione e alla necessità di creare nuove occupazioni. Il tema della giustizia<br />

sociale si propone <strong>qui</strong>ndi di nuovo come grande spartiacque tra liberal e conservatori.<br />

Per approfondire l’argomento, vi suggeriamo <strong>una</strong> selezione di volumi pubblicati<br />

in Europa e negli Stati Uniti e due progetti di conservazione della memoria.<br />

Marshall Clark M., Bearman P., Ellis C., Drury Smith S., (a cura di), After the fall. New<br />

Yorkers remember September 2001 and the years that followed, New York, The<br />

New Press, 2011. After the fall è <strong>una</strong> selezione delle testimonianze raccolte dal<br />

67


Columbia Oral History Research Office (Columbia University) con il progetto<br />

“9/11 Oral History Project”, basato su centinaia d’interviste in cui i newyorchesi<br />

raccontano la loro esperienza dell’11 settembre. http://library.columbia.<br />

edu/indiv/ccoh/new_projects/9-11.html<br />

Rumsfeld D., Known and unknown: A memoir, New York, Sentinel, 2011. Non solo<br />

<strong>una</strong> raccolta di memorie, ma anche e soprattutto centinaia di documenti inediti<br />

– archiviati sul web – di <strong>una</strong> carriera lunga quasi quarant’anni. In Known<br />

and unknown Rumsfled si racconta e ci racconta la sua vita politica, rivelando<br />

il dietro le <strong>qui</strong>nte dei momenti più critici dell’era G. W. Bush, quando le persone<br />

più vicine al Presidente, nelle parole dell’autore, preferivano l’autodifesa<br />

anticipata a quella preventiva per difendere il Paese dalla minaccia terroristica.<br />

Howell J. Lind, J., (a cura di), Civil society under strain: Counter-terrorism policy,<br />

civil society, and aid post-9/11, Sterling, VA, Kumarian Press, 2010. Il volume<br />

edito da Howell e Lind analizza la convergenza, a partire dall’11 settembre, degli<br />

aiuti umanitari e degli obiettivi di sicurezza non solo negli spazi della socie tà<br />

civile, ma anche per attori e organizzazioni internazionali. Esplorando gli effetti<br />

delle misure e delle pratiche anti-terrorismo in diversi contesti politici, si<br />

sostiene che la securizzazione degli aiuti, benchè già in crescita, abbia subito<br />

<strong>una</strong> forte accelerazione nel mondo post-9/11.<br />

Streatfeild D., A history of the world since 9/11, London: Atlantic Books, 2011. Pubblicato<br />

nel Regno Unito e negli Stati Uniti, il libro del giornalista e autore Dominic<br />

Streatfeild racconta in otto storie l’impatto dell’11 settembre e della<br />

Guerra al Terrore nelle vite di milioni di persone in tutto il mondo. Una combinazione<br />

di storia, biografia e giornalismo investigativo, che descrive il modo<br />

68


in cui la risposta al crollo delle Twin Towers ha colpito la vita di persone comuni<br />

in Afghanistan, Texas o Maiorca.<br />

Summers A., Swan R., The eleventh day: The full story of 9/11, New York, Ballantine<br />

Books, 2011. Grazie a centinaia di documenti ufficiali rilasciati di recente,<br />

alle interviste e a <strong>una</strong> riflessione ormai decennale, Summers e Swan hanno<br />

descritto un primo sguardo panoramico e autorevole sull’11 settembre. Il libro<br />

racconta la sequenza degli avvenimenti e ne disegna i protagonisti: piloti,<br />

passeggeri, persone comuni e terroristi, cercando di capire cosa abbia guidato<br />

questi ultimi nell’attacco e cosa abbia invece motivato le azioni di risposta del<br />

governo Bush.<br />

Malcomson S. L., Generation’s end: A personal memoir of American power after<br />

9/11, Washington, D.C., Potomac Books, c2010. In parte narrativo e in parte<br />

analitico, questo piccolo volume copre il periodo di due anni che comincia<br />

con l’11 settembre, continua con le fasi iniziali della guerra in Afghanistan, e<br />

finisce con il passaggio di Malcomson da editore del New York Times a consigliere<br />

per Nazioni Unite a Ginevra. Intervallando la vita personale e la politica,<br />

l’autore cerca di riproporre il senso di confusione che si diffuse dopo gli attacchi,<br />

senza nascondere la speranza che la generazione dell’11 settembre si<br />

faccia da parte, per lasciare spazio agli Stati Uniti di Obama e ad <strong>una</strong> rinnovata<br />

leadership globale.<br />

Spiegelman A., Sampayo C., Hyman M., Charyn J., Mattotti L., 12 Septembre,<br />

l’Amérique d’après, Bruxelles, Editions Casterman, 2011. Una raccolta che riunisce<br />

testimonianze, immagini e parole di binomi di giornalisti, scrittori, cantanti<br />

e disegnatori delle due coste dell’Atlantico, in cui ciascuno si esprime con<br />

il proprio linguaggio artistico.<br />

Caracciolo L., America vs America. Perché gli Stati Uniti sono in guerra contro se<br />

stessi, Bari-Roma, Laterza, 2011. Lucio Caracciolo rifugge dalla tentazione di<br />

classificare l’11 settembre come l’ora zero di <strong>una</strong> nuova epoca, e pensa piuttosto<br />

che sia stato solo l’inizio <strong>una</strong> fase nuova nella parabola geopolitica aperta<br />

nel biennio 1989–91 dal crollo dell´impero sovietico e della stessa URSS. In<br />

cinque tesi, vengono indagate le ragioni ideologiche, geoeconomiche e strategiche<br />

per cui la “superpotenza unica” è finita in <strong>una</strong> trappola da cui non<br />

riesce a uscire.<br />

“The September 11 Digital Archive”. Archivio digitale con più di 150 mila voci promosso<br />

dalla Alfred P. Sloan Foundation e gestito dall’American Social History<br />

Project alla City University of New York Graduate Center e dal Center for History<br />

and New Media alla George Mason University. http://911digitalarchive.org/<br />

69


“CISPEA Summer<br />

School Network”<br />

su Facebook<br />

Il CISPEA-Summer School Network è ora su Facebook attraverso <strong>una</strong> duplice<br />

i niziativa. In primo luogo è stata creata <strong>una</strong> pagina fan, aperta a tutti, dedicata<br />

alla newsletter (indirizzo: http://www.facebook.com/pages/Cera-<strong>una</strong>-<strong>volta</strong>lAmerica-Newsletter-del-CISPEA-Summer-School-Network/101740516600584).<br />

L’obiettivo è quello di pubblicizzare la newsletter e di segnalare le iniziative patrocinate<br />

dal CISPEA e le nuove pubblicazioni, sia di carattere pubblicistico che<br />

scientifico, relative alla politica e alla storia americane.<br />

Inoltre, è nato il gruppo Facebook “CISPEA-Summer School Network”, riservato<br />

agli ex-alunni della Summer School CISPEA. Il gruppo vuole essere uno spazio<br />

che consenta a chi ha partecipato alle precedenti edizioni della Summer School di<br />

condividere l’interesse per la storia, la cultura e la politica statunitense. Lo scopo è<br />

di creare un luogo di dibattito scientifico e culturale tra gli ex alunni e un’occasione<br />

per condividere il bagaglio di conoscenze accumulate non solo durante la scuola,<br />

ma anche nel corso del proprio percorso di studi e delle proprie esperienze personali<br />

e professionali. In tal senso, il gruppo punta a creare uno spazio virtuale<br />

all’interno del quale presentare le proprie ricerche, condividere informazioni storiografiche<br />

e bibliografiche, discutere dell’attualità politica statunitense e di pubblicazioni<br />

recenti in ambito americanistico.<br />

70


www.cispea.org

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!