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SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI PER L’ETRURIA MERIDIONALE REGIONE LAZIO PROVINCIA DI VITERBO COMUNE DI FARNESE (VT) MUSEO CIVICO “F. RITTATORE VONWILLER” RISERVA NATURALE SELVA DEL LAMONE G.A.R. GRUPPO ARCHEOLOGICO ROMANO COOPERATIVA ZOE GIORNATA DI STUDI IN MEMORIA DI MAURO INCITTI Farnese 2010

SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHEOLOGICI PER L’ETRURIA MERIDIONALE<br />

REGIONE LAZIO<br />

PROVINCIA DI VITERBO<br />

COMUNE DI FARNESE (VT)<br />

MUSEO CIVICO “F. RITTATORE VONWILLER”<br />

RISERVA NATURALE SELVA DEL LAMONE<br />

G.A.R. GRUPPO ARCHEOLOGICO ROMANO<br />

COOPERATIVA ZOE<br />

GIORNATA DI STUDI<br />

IN MEMORIA DI<br />

MAURO INCITTI<br />

Farnese 2010


A cinque anni dalla prematura scomparsa dell’archeologo Mauro Incitti (1954-<br />

2004), presso il Museo civico “Ferrante Rittatore Vonwiller” di Farnese, si è organizzata<br />

una Giornata di Studi per ricordare le stagioni da Lui trascorse a scavare la villa romana<br />

della Selvicciola a Ischia di Castro e l’abitato etrusco di Rofalco a Farnese, quest’ultimo<br />

ancora in corso di scavo da parte del suo Gruppo Archeologico Romano, ma anche<br />

per ricordare l’uomo Mauro.<br />

Fondato il Gruppo Archeologico di Colleferro, suo paese natio, si trasferì a Roma per<br />

approfondire i suoi studi e qui scelse definitivamente il GAR.<br />

Testardo, di carattere chiuso e taciturno, timido e umile, d’acchito non risultava simpatico,<br />

ma poi, una volta conosciute le persone, diventava sorridente e affabile. Sugli<br />

scavi era disponibilissimo nei confronti di tutti, in particolare gli piaceva insegnare ai più<br />

giovani, tenerli a battesimo sullo scavo con pazienza e generosità.<br />

Profondo conoscitore dell’archeologia romana, aveva maturato nel corso degli anni<br />

una grande esperienza nello scavo delle sepolture; esperto di “cocci”, in particolare di<br />

anfore da trasporto e di ceramiche da mensa, si dedicò col massimo impegno anche<br />

all’archeologia subacquea e a quella medievale.<br />

Iniziò a bazzicare il nostro territorio nella seconda metà degli anni ’90, carico di un<br />

notevole bagaglio di esperienze acquisite in campagne di scavo effettuate presso Nola,<br />

Tolfa, Cencelle, tra Monte Romano, Blera e Civitella Cesi, ma soprattutto a Ischia di<br />

Castro, presso la Selvicciola, dove si fece apprezzare sia scientificamente che umanamente.<br />

Ed è proprio dal 1996 che, sotto la direzione di Mauro, il GAR inizia con indagini<br />

sistematiche, effettuate all’interno della Riserva Naturale Selva del Lamone, la “scoperta”<br />

della fortezza etrusca di Rofalco. A lui il merito di aver creduto in quell’ammasso di<br />

pietre laviche e di aver attirato l’attenzione degli archeologi di tutta Italia su quel sito.<br />

La sua prematura scomparsa ha lasciato in tutti coloro che lo hanno conosciuto un<br />

profondo senso di vuoto.<br />

Il Sindaco di Farnese<br />

Alessandro Santi<br />

L’Assessore alla <strong>Cultura</strong><br />

Tiziana Mancini<br />

Gennaio 2010<br />

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Questa giornata di studi se da una parte rappresenta un’importante momento di<br />

approfondimento scientifico sulla storia e la cultura del nostro territorio, dall’altra è un<br />

meritato riconoscimento all’impegno, alla passione, alle capacità professionali, alla vivace<br />

curiosità intellettuale e alla profonda umanità di Mauro Incitti, archeologo “informale”,<br />

tenace e appassionato della sua professione. Oggi, ricordiamo Mauro con stima e<br />

riconoscenza per il lavoro che ha svolto sul e per questo territorio, per la sua profonda<br />

umanità e la sua disponibilità a comunicarci con linguaggio semplice ma sempre puntuale<br />

i suoi studi e per la sua voglia di renderci partecipi delle sue scoperte scientifiche<br />

anche in ambito locale . La nostra presenza qui, oggi, testimonia l’affetto e la stima ed<br />

al tempo stesso è un piccolo omaggio alla memoria di questo studioso appassionato di<br />

archeologia e del nostro territorio. Grazie ancora a Mauro per tutto l’impegno scientifico,<br />

la cultura e l’umanità che ha saputo trasmetterci e che ci ha lasciato.<br />

Cogliamo l’occasione per ringraziare la Regione <strong>Lazio</strong> che ha patrocinato moralmente<br />

e materialmente l’iniziativa, tutti i cittadini che sono presenti, tutti gli archeologi e studiosi<br />

che hanno lavorato e lavorano su questo territorio e in particolare quelli che oggi<br />

sono intervenuti a questo appuntamento: attraverso il loro lavoro ci regalano la riscoperta<br />

delle nostre radici storiche e culturali facendoci capire meglio e apprezzare il nostro<br />

passato con la speranza che si possa vivere meglio nel nostro presente e soprattutto nel<br />

nostro futuro. Grazie al Gruppo Archeologico Romano e a tutti i suoi componenti che in<br />

questi anni, con il loro lavoro lodevole di volontariato, oltre ad aver riportato alla luce,<br />

anche insieme a Mauro, delle parti importanti della città etrusca di “Rofalco”, hanno<br />

rappresentato una piacevole occasione di turismo culturale. Ringraziamo Maurizio<br />

Allegretti per il suo continuo impegno e la sua passione per il nostro Museo e Giovanni<br />

Antonio Baragliu per la sua dedizione allo studio della cultura locale. Un grazie particolare<br />

va al Direttore del nostro Museo, dott. Luciano Frazzoni che ha organizzato questa<br />

iniziativa e soprattutto lo ringraziamo per il suo spirito di sacrifico e per la passione<br />

che vive, ogni giorno, nella direzione del nostro Museo che oggi vedrà, su sua proposta,<br />

una sezione, quella etrusca, dedicata e intitolata al nostro amico e studioso Mauro Incitti.<br />

Il Sindaco<br />

Dario Pomaré<br />

L’Assessore alla <strong>Cultura</strong><br />

Roberto Mancini<br />

Farnese, 22 maggio 2009<br />

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Questo volume presenta gli atti della Giornata di Studi dedicata alla memoria dell’amico<br />

Mauro Incitti, tenutasi il 22 maggio 2009 a Farnese, a cinque anni dalla sua prematura<br />

scomparsa. Per tutti i partecipanti, l’incontro ha offerto l’opportunità di ricordare<br />

con affetto lo studioso, ha rappresentato, inoltre, l’occasione per delinearne la figura<br />

di archeologo, ma soprattutto è stato una valida testimonianza della continuità delle<br />

ricerche da lui avviate nel territorio.<br />

Le relazioni che vengono qui pubblicate, rappresentano in molti casi una summa dei<br />

risultati delle ricerche su molti contesti archeologici oggetto di studio da parte di Mauro.<br />

Mi riferisco ad esempio al sito della Selvicciola, o a quello della chiesa rurale di San<br />

Pantaleo, che purtroppo rappresenta una delle sue ultime “fatiche scientifiche”. Di quest’ultimo<br />

lavoro ho ritenuto opportuno pubblicare la relazione da lui scritta alla fine dello<br />

scavo, come esempio del suo modo di affrontare dal punto di vista prettamente tecnico e<br />

scientifico tutte le problematiche intrinseche a un intervento di scavo e allo studio di un<br />

contesto archeologico, non tralasciando nessun aspetto, perché ognuno di essi era esaminato<br />

con attenzione dal suo spirito critico.<br />

Ho avuto la fortuna di lavorare con Incitti in molte occasioni negli anni 1993-1996,<br />

nell’ambito del progetto "Porti e Approdi nell'Antichità dalla Preistoria all'Alto<br />

Medioevo", diretto dalla Dott.ssa Francisca Pallarés, prima dunque della nostra collaborazione<br />

nel territorio dell’Alto <strong>Lazio</strong>. In quegli anni abbiamo condiviso varie esperienze,<br />

e da lui ho imparato molto. Egli era infatti un archeologo a tutto tondo, che sapeva<br />

affrontare le più disparate situazioni sul campo (anche grazie alla sua formidabile conoscenza<br />

della cultura materiale), ma anche “a tavolino”, compilando schede scientifiche<br />

o interpretando carte archeologiche e fonti documentarie. Inoltre, la sua conoscenza spaziava<br />

dalla preistoria al medioevo, e il suo approccio denotava la compresenza del topografo,<br />

dello studioso di ceramica, e perfino dell’archeologo subacqueo. Credo che questa<br />

sia infatti la caratteristica che più saltava agli occhi di Mauro, la sua versatilità, la sua<br />

poliedricità di studioso, nonché la sua formidabile memoria e la sua estrema disponibilità<br />

a far partecipi gli altri delle sue conoscenze, con una semplicità e un’umiltà difficilmente<br />

riscontrabili. Questo credo sia anche il miglior insegnamento che ci ha lasciato. E<br />

proprio per questo la sua scomparsa ha comportato una enorme perdita per l’archeologia.<br />

Come direttore del museo di Farnese, dove sono conservati molti materiali ritrovati da<br />

Mauro durante le campagne di scavo e le ricognizioni condotte in questo territorio, e<br />

soprattutto come amico, ho sentito dunque il dovere di organizzare una giornata di studi,<br />

che mi auguro possa costituire in futuro un appuntamento a cadenza annuale, e soprattutto<br />

di dedicare alla sua memoria una sezione del museo, quella dedicata al periodo<br />

etrusco-romano, della quale Mauro aveva curato l’allestimento. In tal modo viene mantenuta<br />

viva la testimonianza di uno studioso che tanto ha dato al nostro territorio.<br />

Ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile l’incontro di studi e la pubblicazione<br />

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del presente volume, a cominciare dalla Regione <strong>Lazio</strong>, la Provincia di Viterbo, la<br />

Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria meridionale, la Soprintendenza per i<br />

Beni Archeologici del <strong>Lazio</strong>, il Comune di Farnese, l’Assessorato alla <strong>Cultura</strong> del<br />

Comune di Farnese, la Riserva Naturale Selva del Lamone, la Cooperativa Zoe, il Gruppo<br />

Archeologico Romano, il Centro Anziani di Farnese che ha ospitato il convegno. Un ringraziamento<br />

particolare va inoltre a G. A. Baragliu, A. Stiglitz, G.Vatta e a M. Allegretti<br />

per la loro indispensabile e preziosa collaborazione. Un grazie infine a tutti i relatori, che<br />

con la loro amichevole partecipazione hanno voluto manifestare il loro affettuoso ricordo<br />

di Mauro Incitti.<br />

Luciano Frazzoni<br />

Direttore museo civico<br />

“F.Rittatore Vonwiller” di Farnese<br />

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ATTIVITÀ NELLA RISERVA NATURALE SELVA DEL LAMONE<br />

Giovanni Antonio Baragliu<br />

Anzitutto un ricordo di Mauro Incitti, a cui ero personalmente legato da profonda<br />

amicizia. La opera sua e dei “ragazzi del GAR”, l’attività di scavo a Rofalco, a San<br />

Pantaleo, le ricognizioni sul territorio, le conferenze e tutta la divulgazione, hanno rappresentato<br />

e rappresentano un capitolo importante della Storia della Riserva naturale e<br />

sono fonte di ispirazione per le azioni di conservazione e valorizzazione dei beni culturali<br />

dell’Area protetta. Ricordo di Mauro la robusta preparazione scientifica, l’amore<br />

per l’Alto Medioevo, la precisione e la puntualità nel presentare i programmi ed i rendiconti<br />

delle attività, oltre alla sua grande umanità e cordialità.<br />

Le attività che vengono svolte all’interno della Riserva Naturale Selva del Lamone<br />

concorrono a formare un mosaico variegato di interventi, in cui le azioni prioritarie,<br />

volte alla conservazione della Biodiversità, vengono affiancate, da programmi con essa<br />

compatibili.<br />

Anzi si può dire che la presenza dell’Area protetta, rappresenta per il territorio circostante<br />

un punto di forza, o, se vogliamo, un canale preferenziale per poter attuare programmi<br />

di investimento per la conservazione degli ecosistemi e la valorizzazione del<br />

patrimonio culturale, utilizzando vari strumenti di finanziamenti regionali, nazionali o<br />

comunitari (per es. gli APQ7, i Life natura, I POR).<br />

La stessa legge istitutiva della Riserva naturale: -legge regionale del <strong>Lazio</strong><br />

12.09.1994 n. 45 “Istituzione della Riserva naturale Selva del Lamone”- rimarcava la<br />

forte correlazione con il territorio, focalizzando il proprio interesse, all’articolo 2, oltre<br />

che alle attività di tutela del patrimonio ambientale, la promozione e lo sviluppo della<br />

conoscenza e della fruizione didattico-ricreativa del patrimonio naturale esistente; l’incentivazione<br />

della ricerca scientifica nelle discipline ambientali; lo sviluppo sociale,<br />

culturale ed economico delle comunità locali interessate; il recupero e la valorizzazione<br />

dei beni culturali presenti nel proprio territorio ed in particolare delle preesistenze<br />

archeologiche. L’Area protetta è infatti la risultante di una serie variegata di fattori<br />

ambientali, culturali, sociali ed antropologici, che interagiscono dinamicamente tra<br />

loro.<br />

L’azione di conservazione del patrimonio naturale, svolta in sintonia con le indicazioni<br />

ed i programmi del sistema delle aree naturali protette del <strong>Lazio</strong> e dell’Agenzia<br />

Regionale per i Parchi ARP e, in collegamento con l’Osservatorio della Biodiversità.<br />

Fondamentale, in questa ottica è l’attuazione della Direttiva 92/43/CEE, nota come<br />

direttiva habitat, che prevede la conservazione, in maniera soddisfacente, di vari ecosistemi<br />

naturali, habitat, specie animali e vegetali, all’interno dell’Area protetta e nei<br />

siti della Rete Natura 2000 (Siti di Importanza Comunitaria, o SIC, e Zone di Protezione<br />

Speciale per gli uccelli selvatici, o ZPS).<br />

Da diverso tempo vengono svolti monitoraggi, censimenti, studi e al fine di realiz-<br />

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zare la “Rete regionale di monitoraggio dello stato di conservazione degli habitat e<br />

delle specie della flora e della fauna”. Tutto questo troverà un suo punto di riferimento<br />

nella nuova struttura, in corso definitivo di allestimento, del laboratorio di monitoraggio<br />

ambientale, realizzato a Pian di Sala. Si tratta di uno dei cinque laboratori dei monitoraggio<br />

ambientale, previsti dalla Regione <strong>Lazio</strong> in attuazione della Direttiva Habitat<br />

(Dir. 92/43/CEE), in applicazione della Delibera di Giunta Regionale 3 luglio 2007 n.<br />

497, che rappresenta, oltre che un importate riconoscimento per l’attività svolta in questo<br />

campo dalla Riserva naturale, anche una base logistica di riferimento per i siti<br />

Natura 2000 della Provincia di Viterbo.<br />

Con l’intervento n. 13/a del IV Accordo integrativo dell’APQ7, in collaborazione con<br />

l’ARP, è stato sviluppato il Progetto Atlante Locale “Atlante degli habitat 3170* e 3250’<br />

e relativa fauna e flora”, presenti nei “lacioni”, gli stagni temporanei che presentano una<br />

interessante biodiversità animale e vegetale. Ad iniziare dal 2007 sono state avviate ricerche<br />

pluriennali (per avere dati sulla loro evoluzione nel tempo) su questi particolari ecosistemi,<br />

sulle loro componenti biotiche ed abiotiche, associati a raccolta di dati relativi<br />

alle condizioni meteorologiche e chimico-fisiche delle acque presenti. Con l’introduzione<br />

nell’Allegato II della Direttiva habitat, dell’orchidea spontanea: Himantoglossum<br />

adriaticum Baumann, sono stati identificati e segnalati per la rete natura 2000 i siti di<br />

presenza della specie all’interno dell’Area protetta e nei SIC del territorio.<br />

Di promozione dell’area protetta e del territorio circostante, attraverso la valorizzazione<br />

dei beni culturali e demo antropologici.<br />

E’ stato portato a termine e pubblicato uno studio erpetologico, sui rettili ed anfibi<br />

della Riserva naturale e dell’Area Contigua, con particolare riferimento alla specie di<br />

interesse conservazionistico Elaphe quatuorlineata (localmente: pocciavacche).<br />

Durante lo studio è stata riscontrata la presenza di Salamandrina perspicillata e<br />

Coronella girondica, specie non documentate in precedenza.<br />

Ancora in corso sono i monitoraggi e censimenti, coordinati dall’ARP, per la realizzazione<br />

dell’Atlante regionale dei mammiferi, in particolare: chirotteri; micro mammiferi<br />

terricoli (roditori ed insettivori ed arboricoli (in particolare il moscardino e lo<br />

scoiattolo) e piccoli carnivori come felini e mustelidi. Quest’ultima ricerca ha documentato,<br />

tra l’altro, la presenza del gatto selvatico e della puzzola.<br />

Sempre su coordinazione dell’ARP. Il personale della Riserva ha partecipato al<br />

monitoraggio della Lepre italica (Lepus corsicanus) nel territorio della Riserva naturale<br />

ed in quello circostante, nell’ambito dello studio sullo stato di conservazione e distribuzione<br />

di tale specie.<br />

Sono in corso le procedure attuative per la definizione di uno studio propedeutico<br />

sulla popolazione del cinghiale attraverso il coinvolgimento di personale in organico<br />

che coordinerà il piano (esperto area naturalistica, direzione), del personale di vigilanza<br />

e di professionisti esterni (veterinario esperto). La riserva sta conducendo il monitoraggio<br />

e censimento circa lo status della popolazione del cinghiale attraverso la pianificazione<br />

di interventi di osservazione attuati dal personale di vigilanza e tecnico.<br />

Questo programma è collegato allo sviluppo di un progetto di gestione della specie e di<br />

prevenzione dei danni.<br />

Anche i censimenti degli uccelli sono in fase di svolgimento, in particolare:<br />

Censimenti invernali degli uccelli acquatici svernanti (coordinati dall’ISPRA -<br />

Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ex INFS), nei SIC di com-<br />

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petenza della Riserva naturale, dal Lago di Mezzano al Sistema fluviale Fiora Olpeta,<br />

ai lacioni;<br />

Censimento dei picidi (che tra l’altro ha portato all’individuazione della presenza del<br />

Picchio rosso minore, non documentata in precedenza);<br />

Monitoraggio delle popolazioni di Astore e Sparviero nidificanti all’interno dell’Area<br />

protetta, in collaborazione con l’ARP. Infine è stato fornito il supporto logistico alle<br />

ricerche per la redazione della carta della biodiversità ittica della Regione <strong>Lazio</strong> nel<br />

comprensorio del bacino idrografico del Fiume Fiora.<br />

La riserva naturale collabora con numerose università ed enti di ricerca per es.:<br />

Università della Tuscia : Ricerche di ecologia vegetale sulle dinamiche di ricolonizzazione<br />

delle cenosi forestali su ex coltivi; Utilizzazione Gestione Forestale Sostenibile;<br />

“Progetto crenata”; Collaborazione nell’ambito della conservazione ex situ della Sternbergia<br />

lutea e dell’Ophioglossum vulgatum; Studio sugli insetti della chioma forestale;<br />

Università di Roma 2 – Tor Vergata : Ricerche sui lepidotteri, Ricerche sul miele.<br />

Università degli studi di Milano: Ricerche su Vitis vinifera var. sylvestris; indagini<br />

archeologiche sul sito di Sorgenti della Nova.<br />

A questo si aggiunge la programmazione volta a creare un indotto economico al paese<br />

attraverso la realizzazione di strutture ed infrastrutture necessarie all’attuazione di un<br />

turismo durevole [Ostello; Museo-Centro visite; Rifugi dei Carbonai; Struttura a fini<br />

ricettivi (Casale della Monta Taurina); recupero della chiesa cistercense di Santa Maria<br />

di Sala, i cui resti erano pertinenti ad un’abbazia del XII; punti sosta per ippoturismo;<br />

aree di sosta attrezzate e sentieri natura e culturali; con la realizzazione della via degli<br />

Etruschi e della via delle acque, si potrà sistemare e raccordare i sentieri escursionistici<br />

della Riserva, favorendo la valorizzazione dei siti archeologici di Sorgenti della Nova<br />

(Età del Bronzo finale), Rofalco (periodo etrusco)] e la creazione di modelli gestionali per<br />

ognuna delle dette strutture. Il sistema di fruizione della Riserva naturale è collegato a<br />

due importanti itinerari:<br />

• il sentiero dei Briganti, lungo poco più di cento chilometri, che attraversa il territorio<br />

di vari comuni (da Acquapendente a Montalto di Castro) e che funge da<br />

raccordo tra le due strade consolari e francigene (Cassia ed Aurelia).<br />

• la Strada dei Parchi che collega Roma (da Montemario) con le aree protette a<br />

Nord. La R.N. ha contribuito al progetto fornendo indicazioni, rilievi, testi e logistica<br />

per il tratto tra Tuscanica ed il Lago di Mezzano. E’ stata già realizzata la<br />

segnalata,mentre sono in corso di realizzazione una guida ed un video.<br />

La Riserva naturale si è fatta promotrice per la realizzazione di un geosito che comprende<br />

sia l’area protetta, sia la porzione esterna della selva ricadente nel territorio di<br />

Ischia di Castro, sia in ultimo gli affioramenti travertinosi dei SIC del Lamoncello e<br />

Valle Rosa, ubicati nei pressi dell’area protetta. La proposta ha trovato riscontro nell’ambito<br />

del progetto “Geoparco della Tuscia” sviluppato dall’Amministrazione provinciale<br />

di Viterbo e di fatto quello della Selva del Lamone è diventato il primo polo provinciale<br />

di interesse geologico.<br />

Una delle vocazioni dell’Area naturale protetta e quella agro-silvo-pastorale; per cui<br />

la Riserva opera per la valorizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, sia attraverso<br />

il programma Natura in Campo per la concessione di un marchio di qualità ai prodotti<br />

agricoli provenienti dal territorio di Farnese; sia attraverso l’informazione e l’attuazione<br />

di programmi di valorizzazione delle risorse e gestione sostenibile del territorio.<br />

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Poiché, inoltre, la Riserva naturale, si pone anche come punto di riferimento per l’utilizzo<br />

di fonti energetiche rinnovabili sono in corso di realizzazione impianti fotovoltaici<br />

ad uso delle strutture ricettive e della sede della riserva.<br />

La Selva del Lamone è anche la prima area protetta del <strong>Lazio</strong> ad aver ottenuto la certificazione<br />

forestale PEFC, per la Gestione Forestale Sostenibile.<br />

La Riserva Naturale Selva del Lamone è un vero e proprio “Paesaggio culturale” in<br />

cui compare ed interagisce una notevole e diffusa serie di beni culturali, compresi quelli<br />

immateriali.<br />

La sua stessa geomorfologia, marcata dalle imponenti colate laviche del vulcano di<br />

Latera, col variegato susseguirsi di “murce”, coni di scorie, crateri di collasso, condotti<br />

lavici, caratterizza ed informa il paesaggio, non soltanto dal punto di vista panoramico;<br />

ma anche da quello del suo utilizzo e della percezione che ne hanno avuto ed hanno<br />

le persone, fino a sfociare in racconti che assumono i caratteri del mito.<br />

Gli aspetti vegetazionali, sono frutto sì degli andamenti fitoclimatici e delle attività<br />

umane per cui oggi andiamo a salvaguardare un ambiente in cui l’incidenza del fattore<br />

antropico è stata ed è notevole. Lo stesso vale anche per gli habitat e le specie (spesso<br />

rari e a rischio di scomparsa), in qualche caso ridotti, in altri casi favoriti dalle esigenze<br />

economiche delle popolazioni locali<br />

Di certo è più evidente la miriade di siti archeologici, anche notevoli per dimensione<br />

e monumentalità, che coprono, senza soluzione di continuità, un lunghissimo periodo<br />

che va dal Paleolitico Medio ai giorni nostri. Proprio per la sua pietrosità e la difficoltà<br />

di accesso con mezzi motorizzati, la Selva del Lamone è riuscita a conservare, in<br />

molti casi in buone condizioni, un’infinità di resti archeologici, a testimonianza di quello<br />

che, prima della motorizzazione, si poteva vedere anche nel territorio circostante.<br />

Sempre più spesso si definisce il Lamone come scrigno di Biodiversità. In analogia lo<br />

possiamo definire scrigno di beni storico-archeologici.<br />

Dai ritrovamenti litici di Roppozzo-Cavicchione (35.000-3.500 anni fa circa), alla<br />

necropoli Eneolitica del Palombaro, a quelle del Bronzo Medio di Prato di Frabulino e<br />

Roccoja, agli abitati, spesso fortificati, che coprono tutto l’arco dell’Età del Bronzo (Il<br />

Trocco, la Piantatella, Valderico, Valle Felciosa,Bocche Bietole, Cavon Pamperso,<br />

Murcia Bianca, Prato Pianacquale, Murciarelle, Roccoja, Mandria Buona,<br />

Calanchillaquila, Sorgenti della Nova, per citarne alcuni all’interno della Riserva naturale<br />

e delle sue aree di espansione); alle imponenti fortificazioni etrusche di Rofalco e<br />

a quelle minori dei Crini, Murcia del Prigioniero e Castellari; alla miriade di fattorie<br />

romane distribuite su quasi tutta la Riserva (da Rosceto a Valle Felciosa, A Valderico,<br />

al Campo della Villa, a Semonte, a Roggio Bizzoco, A Roggio Famiano, al Troccolo, al<br />

Pian di Lance, alle Bocche Bietole, al Cancellone, alla Felceta, a Cerverano) servite da<br />

una viabilità di cui ancora oggi restano le tracce, che ne permettono un’attenta ricostruzione;<br />

ai resti medievali con i ruderi delle pievi di Sorgenti della Nova, Campo del<br />

Nocio e San Pantaleo, della chiesa abbaziale cistercense di Santa Maria di Sala e dei<br />

castelli di Sorgenti della Nova, Citignano, Fontanaccio, Valderico, I Casali e Prato di<br />

Frabulino; ci si trova davanti ad una serie infinita di unità e siti archeologici, che coprono<br />

un periodo lungo 35 .000 anni, da quando la fine delle attività vulcaniche, ha permesso<br />

l’insediamento stabile di comunità umane.<br />

Altre tracce evidenti che ricordano le attività dell’uomo (cave, muri a secco, spietramenti,<br />

terrazzamenti, piazze per le carbonaie, resti di abitazioni, mulini, polveriere, for-<br />

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naci, viabilità, piante capitozzate, toponomastica), rappresentano anch’esse un patrimonio<br />

culturale notevole, del quale esiste spesso una documentazione scritta, sia di carattere<br />

archivistico, sia saggistico, sia letterario oltre che, per breve tempo ancora, purtroppo,<br />

orale nella memoria degli anziani della comunità.<br />

Altro campo importante ed interessante è quello della scoperta e conservazione dei<br />

beni immateriali che vanno dall’apparato leggendario, che in qualche modo, per secoli,<br />

ha cercato di spiegare, mitizzandolo, l’origine del paesaggio lavico del Lamone; alle<br />

vicende del brigantaggio di fine Ottocento, con i vari Tiburzi, Biagini e Fioravanti;<br />

all’etnobotanica ed i miti delle piante; alla vita di tutti i giorni vissuta da centinaia di<br />

umili lavoratori, alla documentazione d’archivio relativa agli usi, attività, regole di<br />

gestione del territorio, privilegi e divieti; alla bibliografia con le citazioni e le narrazioni<br />

di vicende relative al Lamone.<br />

Tutti questi beni culturali rappresentano, un patrimonio ineguagliabile che va studiato,<br />

difeso, valorizzato, collegato con le emergenze del territorio circostante e fruito.<br />

Esso rappresenta un pilastro importante della gestione forestale sostenibile in particolare<br />

e della programmazione e gestione dell’area protetta in generale.<br />

In questa ottica si sta muovendo la Riserva naturale Selva del Lamone con una<br />

attenta pianificazione che segue alcune direttrici specifiche:<br />

• L’approfondimento delle conoscenze, attraverso la ricerca, in proprio o tramite<br />

altri enti (tra cui varie università); che va dai monitoraggi e dallo studio di geositi,<br />

habitat e specie, con la creazione di banche dati e documentazione fotografica<br />

e pubblicazione dei dati; al supporto degli scavi archeologici (vedi Sorgenti<br />

della Nova, Rofalco, San Pantaleo, necropoli di Roccoja); alle ricognizioni per<br />

georeferenziare i beni storico-culturali ed ambientali; alle ricerche in archivio,<br />

alla raccolta di oggetti ed attrezzi della civiltà contadina, ecc.<br />

• la didattica, svolta in proprio, tramite il programmi Gens e Giorniverdi, o per mezzo<br />

di altri enti (per esempio i laboratori didattici con le scuole attuati dalla locale<br />

Cooperativa Zoe), per avvicinare le giovani generazioni alle tematiche della salvaguardia<br />

della natura ed ad un incontro interattivo con la cultura di questo territorio,<br />

che va dall’archeologia sperimentale, alla realizzazione del pane, al vulcanesimo,<br />

al brigantaggio e via dicendo.. Essa rappresenta un fattore importante per la<br />

conoscenza dell’ambiente e delle valenze del territorio, di cui la Riserva, attualmente<br />

è il punto di riferimento principale. Proprio per questo si sta provvedendo<br />

alla realizzazione, in località Pian di Sala di un laboratorio didattico ed un campo<br />

catalogo di habitat e specie; mentre è sempre più fruita quest’aula didattica;<br />

• il recupero, la valorizzazione e la fruizione turistica dei beni culturali ed ambientali,<br />

nell’ottica del turismo durevole<br />

• la divulgazione attuata mediante la pubblicazione e distribuzione di guide,<br />

depliant e video, a cui si aggiungeranno a breve i quaderni della Riserva; il sito<br />

web continuamente aggiornato; la realizzazione di conferenze, convegni ed eventi<br />

in proprio e partecipazione ad eventi regionali e nazionali; in questa ottica<br />

alcune esperienze sono state dedicate ad incontri tra letteratura ed ambiente.<br />

• l’aggiornamento costante del personale sulle tematiche specifiche della didattica<br />

e della comunicazione.<br />

Questi sono alcuni esempi delle strategie culturali della Riserva Naturale, attivati<br />

appunto per dare corpo alle finalità espresse nell’articolo 2 della sua legge istitutiva.<br />

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IN RICORDO DEL DOTT. MAURO INCITTI<br />

Antonio Bartoloni<br />

Informato telefonicamente da Luca Pulcinelli di questa Giornata di Studi in ricordo<br />

del carissimo e compianto dott. Mauro Incitti, ben volentieri aderisco all’iniziativa,<br />

esprimendo vivo apprezzamento e sincero plauso a tutti gli Enti promotori, in quanto si<br />

mira ad onorare un valente e insigne studioso di Archeologia e di Storia antica che<br />

quasi in punta di piedi e, forse, anche in maniera un po’ silenziosa, schiva e poco appariscente<br />

ha dato lustro, importanza, conoscenza e rivalutazione al patrimonio storicoarcheologico<br />

e culturale nel suo insieme, che questo territorio di Farnese possiede come<br />

un’immensa ricchezza.<br />

Conobbi il carissimo Mauro, esattamente 25 anni or sono, nella primavera del 1984,<br />

ad Ischia di Castro, al Mulino Bocci, sede del GAR, dove mi fu presentato dal dott.<br />

Gianfranco Gazzetti, funzionario di zona della Soprintendenza per i Beni Archeologici<br />

dell’Etruria Meridionale, della quale sono dipendente come Assistente Tecnico.<br />

Da subito si instaurò una reciproca stima e rispettosa amicizia, che andò crescendo<br />

e maturando con il trascorrere degli anni, mentre a legarci maggiormente contribuì il<br />

fatto di essere coetanei del medesimo anno 1953. Il rapporto ebbe a intensificarsi negli<br />

anni 1999-2004 allorchè come consigliere comunale ricoprii l’incarico di Assessore<br />

alla <strong>Cultura</strong>, così che il contatto divenne più diretto e frequente, ma ancor più ebbe a<br />

crescere la stima e la fiducia, il rispetto e l’amicizia tra entrambi, mentre nei nostri<br />

discorsi ci accomunava la passione per gli eventi della Storia e in particolare ciò che<br />

era connesso con l’Archeologia Cristiana.<br />

A legarci erano non solo il rispetto e l’amicizia, ma anche il costante e attivo impegno<br />

con cui Mauro operava sul territorio come archeologo, specialmente per rivalutare<br />

l’interessante sito di Rofalco, i cui lavori sono tuttora portati avanti dai suoi validi collaboratori<br />

e che visito, possibilmente, ogni anno durante il periodo nel quale si effettua<br />

la solita campagna di esplorazione estiva.<br />

Fui molto contento quando, assessore alla <strong>Cultura</strong>, mi parlò di voler riportare alla<br />

luce nella località di “Cavicchione”, il luogo dove sorgeva l’oratorio campestre dedicato<br />

a San Pantaleo (vissuto tra il III e il IV secolo d.C.), di cui fin da ragazzo avevo sentito<br />

parlare dai miei vicini di casa, i quali avevano degli appezzamenti di terreno nelle<br />

vicinanze di questo luogo.<br />

Quando Mauro riportò alla luce questo sito lo vidi molto soddisfatto, perché con il<br />

suo lavoro, quasi da paziente certosino, era riuscito a riscoprire un luogo del quale<br />

generazioni di farnesani, poiché avevano il bestiame affidato nella Selva del Lamone,<br />

ricordavano l’esistenza e l’ubicazione.<br />

All’apprendere della sua irreversibile malattia che lo colpì, e della morte repentina<br />

che ne seguì, fui molto scosso e addolorato, perché veniva a mancare non solo lo stu-<br />

12


dioso che con tanta passione della sua professionalità, capacità ed esperienza aveva<br />

dato il meglio di sé per questo paese e per il suo territorio, ma per me veniva a mancare<br />

un amico sincero che, devo dire, durante il periodo della permanenza estiva qui a<br />

Farnese, soprattutto nel mese di agosto, prima di recarsi sul sito, mi attendeva al mattino<br />

per comunicarmi ciò che occorreva per Rofalco o San Pantaleo, oppure per il soggiorno<br />

dei collaboratori all’edificio scolastico, ma anche per prendere insieme un caffè<br />

al bar della piazza del Comune.<br />

Voglio ricordare che, se non vado errato, il nostro Mauro ebbe a lasciare questa terra<br />

a fine luglio 2004, proprio nei giorni in cui si ricorda San Pantaleo Martire.<br />

Formulo infine l’auspicio che proprio in nome e nella memoria di Mauro si continui<br />

ad esplorare quello stupendo sito che è Rofalco, del quale ebbe tanto a interessarsi per<br />

la sua scoperta e valorizzazione con tenacia, entusiasmo e rigorosa competenza scientifica,<br />

mentre in pari tempo chiedo all’Amministrazione Comunale di rendergli il dovuto<br />

onore “post mortem” conferendo alla sua benemerita memoria la “Cittadinanza<br />

Onoraria”, la quale sarà certamente un modo concreto e tangibile per farlo sentire presente,<br />

vivo e vicino a Farnese e a tutti noi che oggi lo ricordiamo con gratitudine, riconoscenza,<br />

stima e amicizia.<br />

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PROGETTO DI RECUPERO E VALORIZZAZIONE<br />

DELLA VIA AMERINA:<br />

27 ANNI DI STORIA ASSOCIATIVA<br />

Laura Caretta<br />

Il complesso archeologico comprendente la necropoli meridionale di Falerii Novi e<br />

il tratto di via Amerina che l'attraversa, si sviluppa senza soluzione di continuità per<br />

circa 5 km tra la forra del Rio Purgatorio, immediatamente a sud delle mura della città<br />

e il Fosso dell'Isola, probabile confine amministrativo di epoca romana tra la giurisdizione<br />

di questo centro urbano e quella della vicina Nepi.<br />

Allo stato attuale, il nucleo monumentale con la più alta concentrazione di strutture<br />

– tra cui il basolato intatto della strada e due ponti in opera quadrata – è compreso<br />

nelle località denominate Cavafoce (Castel Sant'Elia), Tre Ponti (Nepi, Castel<br />

Sant'Elia), Cavo degli Zucchi (Fabrica di Roma, Civita Castellana).<br />

Su questo tratto, per la lunghezza di circa 1.5 km, si è concentrato a partire dal 1983<br />

l'impegno di recupero e valorizzazione dei volontari del G.A. Romano in stretta collaborazione<br />

con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale.<br />

Obiettivi, la riscoperta della fisionomia originaria del luogo, la ricostruzione storica,<br />

la sensibilizzazione dei cittadini, la promozione culturale, la valorizzazione di parte di<br />

un più ampio territorio, grosso modo corrispondente all’antico Agro Falisco, in cui<br />

l'Amerina torna a svolgere la sua originaria funzione di collegamento.<br />

Oggi la via attraversa i territori di 8 comuni della provincia di Viterbo (Nepi, Castel<br />

Sant’Elia, Fabrica di Roma, Civita Castellana, Corchiano, Gallese, Vasanello, Orte) e<br />

nel tratto sopra indicato è essa stessa, in parte, linea di confine intercomunale.<br />

Tale condizione, a nostro avviso, ha sostanzialmente impedito per motivi campanilistici<br />

l'elaborazione di una strategia unitaria di recupero da parte degli Enti locali, rappresentando<br />

un limite non ancora del tutto superato dal conferimento della qualifica di<br />

“area omogenea” con Legge Regionale 40/1999.<br />

Tra gli interventi di conservazione, tutela e valorizzazione dei monumenti, particolarmente<br />

impegnativi e onerosi sono stati quelli curati dalla Soprintendenza per i Beni<br />

Archeologici dell’Etruria Meridionale.<br />

Il primo restauro strutturale viene effettuato con fondi regionali del Progetto<br />

Etruschi. Oggetto dell'intervento è il monumento a fregio dorico, una delle strutture più<br />

rappresentative della necropoli.<br />

Con gli stessi fondi vengono realizzati i primi cartelli segnaletici ed alcuni pannelli<br />

esplicativi aggiornati in seguito dai pannelli del progetto MIBAC denominato<br />

“Mirabilia” fino alle sistemazioni con finanziamenti della L.R. 40/1999.<br />

Nel corso del tempo, la Soprintendenza si è fatta carico con fondi propri dell’ancoraggio<br />

della parete della tagliata sovrastante il monumento a fregio dorico, del restauro,<br />

tuttora in corso, dell’imponente ponte in opera quadrata su Fosso Tre Ponti, del<br />

restauro e della protezione di due tombe dipinte; del recupero dei numerosi materiali<br />

14


lapidei rinvenuti e della creazione di un deposito presso il Museo Archeologico del<br />

Forte Sangallo a Civita Castellana che accoglie tutti i reperti provenienti dagli scavi<br />

condotti dai volontari; dello scavo d'emergenza in località Cavafoce, in seguito al quale<br />

è stato possibile aprire un nuovo fronte di lavoro nel 1990.<br />

Per quanto riguarda la collaborazione con i comuni più direttamente interessati<br />

(Nepi, Castel Sant’Elia, Civita Castellana, Fabrica di Roma), se da un lato ha mancato<br />

della continuità necessaria, dall’altro ha rappresentato, comunque, un sostegno alla<br />

creazione della prima base logistica locale del G.A. Romano che dal 1993 al 2007 ha<br />

ospitato i campi di lavoro permettendo a centinaia di volontari da ogni parte del mondo<br />

di conoscere il patrimonio storico e naturalistico di un territorio tra i meno noti.<br />

La presenza dei volontari è stata di stimolo per le comunità locali che hanno “scoperto”<br />

l'esistenza di testimonianze del proprio passato assolutamente sconosciute per<br />

quanto a due passi da casa.<br />

Per sensibilizzare l'opinione pubblica sono state proposte conferenze, mostre documentarie,<br />

visite guidate alle quali si è affiancata l’attività didattica per i ragazzi delle<br />

scuole che hanno potuto partecipare ai campi junior estivi.<br />

Tra le iniziative per adulti hanno suscitato un notevole interesse i corsi di archeologia<br />

e di aggiornamento per insegnanti organizzati in collaborazione con il comune di<br />

Civita Castellana.<br />

Iniziative di grande richiamo sono state proposte con altre Associazioni presenti sul<br />

territorio, come la mostra sull'Agro Falisco dalla preistoria al medioevo realizzata con<br />

Lega Ambiente di Civita Castellana e il Concorso Fotografico Regionale realizzato in<br />

collaborazione con il Circolo Artistico Fotografico di Fabrica di Roma.<br />

Più recentemente, particolarmente significativa sia in termini di impegno scientifico<br />

sia per il proficuo e maturo rapporto di collaborazione con la Soprintendenza, è stata<br />

la realizzazione della mostra “La via Amerina (1881-2003). Breve storia di un paesaggio<br />

per immagini” in occasione della VI Settimana della <strong>Cultura</strong> (Civita Castellana –<br />

Forte Sangallo, maggio 2004).<br />

Alla luce di quanto esposto, è di grande incoraggiamento il protocollo d’intesa sottoscritto<br />

nel 2008 e rinnovato a luglio 2009 con la Provincia di Viterbo e il Comune di<br />

Corchiano alla cui disponibilità si devono anche gli ampi spazi della nuova sede operativa.<br />

Proprio dal 2008 il progetto prevede un secondo cantiere di recupero della via<br />

Amerina che, con un percorso attrezzato, collegherà due aree naturalistiche protette del<br />

territorio corchianese, il Parco delle Forre e il Monumento Naturale WWF di Pian<br />

Sant’Angelo.<br />

La proposta originaria per un parco comprensoriale in area falisca, pubblicata sulla<br />

rivista Archeologia (mag.-giu.1996), è cresciuta grazie ad una lunga, costante, elaborazione,<br />

non solo dal punto di vista della ricerca ma anche, vorremmo dire soprattutto, dal<br />

punto di vista della maturazione di uno stretto rapporto tra i volontari, gli Enti, i luoghi<br />

e le comunità locali.<br />

Obiettivo primario è la valorizzazione di un bacino territoriale che conserva ancora<br />

tante testimonianze storiche parcellizzate, disperse, diversamente da altre aree privilegiate<br />

che possono vantare "aggregati" di sicuro impatto come Tarquinia, Cerveteri,<br />

Vulci o i centri dell'Etruria Interna.<br />

Prese singolarmente, nelle attuali condizioni, poche di queste evidenze emergono<br />

15


come cattedrali nel deserto, sempre più avulse dall'originario contesto storico-culturale<br />

del quale si stanno perdendo i contorni.<br />

Il tracciato della via Amerina rappresenta per la sua stessa origine e per la sua lunga<br />

storia l'asse portante di un sistema di aree, immediatamente adiacenti ad essa o comunque<br />

facilmente raggiungibili, caratterizzate da una spiccata valenza storico-archeologica<br />

o naturalistica. Per ciascuna di queste aree può essere sviluppato un diverso tema di<br />

interesse culturale (la vita quotidiana in una città romana, la viabilità, gli insediamenti<br />

monastici, gli insediamenti medievali, l'archeologia industriale, etc.) realizzando itinerari<br />

attrezzati che darebbero vita, gradualmente, ad un polo di rilevante interesse<br />

turistico con solide basi culturali.<br />

La proposta, inviata a suo tempo a tutti gli Enti territoriali interessati, ha avuto<br />

numerosi riconoscimenti tra i quali il Premio Henry Ford Conservation Awards 1996-<br />

97 come miglior progetto italiano con menzione d'onore per la dimensione europea, la<br />

firma della convenzione con il Ministero per i Beni e le Attività <strong>Cultura</strong>li nel 2000 e il<br />

già ricordato protocollo d’intesa con la Provincia di Viterbo e il Comune di Corchiano.<br />

Tra le altre, l’iniziativa più direttamente ispirata alla proposta di parco è stata quella<br />

delle giornate di apertura al pubblico negli anni 1999-2005 nell’ambito delle attività<br />

del campo di lavoro estivo e che hanno previsto la musealizzazione del percorso Cava<br />

Foce - Tre Ponti - Cavo degli Zucchi.<br />

Come si è detto, l'area in oggetto è caratterizzata dal tracciato viario dell'Amerina e<br />

dalla necropoli meridionale di Falerii Novi che la fiancheggia. Tale conformazione definisce<br />

obbligatoriamente il percorso secondo direttrici in senso nord-sud e sud-nord, con<br />

due diversi accessi presso cui è stato realizzato un punto accoglienza dove i visitatori<br />

hanno ricevuto le informazioni generali riguardanti la visita anche sotto l’aspetto della<br />

sicurezza personale e del rispetto dei luoghi.<br />

Le visite sono state organizzate con piccoli gruppi accompagnati da due volontari<br />

che hanno fornito anche l’aiuto pratico necessario alle persone svantaggiate.<br />

All'interno del percorso sono state segnalate 7 zone topografiche e 30 punti notevoli<br />

che, per le caratteristiche rappresentate dalla specifica evidenza archeologica (via<br />

basolata, ponte, tomba a camera, colombario, area di cava, etc.), hanno offerto lo spunto<br />

per “leggere” il monumento sotto vari aspetti.<br />

Ciascun punto è stato segnalato da pannelli realizzati dai volontari, studiati nella<br />

forma, nei contenuti, nel linguaggio.<br />

Alle schede tecniche è stata affidata la descrizione analitica del monumento in una<br />

sorta di ampia tipologia; le schede monografiche hanno sviluppato argomenti generali<br />

riferiti a tecniche di costruzione, tecnologia e vita quotidiana nel mondo romano proponendo<br />

ricostruzioni grafiche.<br />

Con particolare attenzione è stato affrontato il problema dell’allestimento lungo<br />

quelle parti più o meno lunghe del percorso identificabili con il sentiero campestre che<br />

si è sovrapposto alla via Amerina.<br />

Questi tratti, destinati ad una percorrenza frettolosa e disattenta, sono stati volutamente<br />

enfatizzati mediante dispositivi bidimensionali a grandezza naturale.<br />

Vale a dire le “sagome” di soggetti umani, animali o di oggetti in una sorta di ricostruzione<br />

d’ambiente, allo scopo di mantenere alto il livello di attenzione evocando nel<br />

visitatore quelle presenze, oggi invisibili, che hanno plasmato la morfologia del luogo.<br />

Chiudiamo queste breve contributo con un cenno ai risultati della ricerca archeolo-<br />

16


gica di cui con maggiore ampiezza si è dato conto in numerosi scritti di carattere scientifico<br />

e divulgativo, curati da quanti partecipano al progetto.<br />

Quanto emerso fino ad oggi ha dimostrato che anche un contesto archeologico noto<br />

e molto degradato, se indagato sistematicamente, può restituire informazioni e testimonianze<br />

preziose per una ricostruzione storica.<br />

Tali risultati sono stati ottenuti grazie all’indagine estensiva che ha permesso di<br />

recuperare, attraverso una documentazione puntuale, ogni piccolo o grande rinvenimento.<br />

I lavori di scavo e ripulitura hanno recuperato 196 tombe, tra le quali 19 monumenti<br />

funerari precedentemente non conosciuti oltre a due lunghissimi tratti della via<br />

Amerina in ottimo stato di conservazione.<br />

Più recentemente, la ricerca si è spostata in un settore della necropoli situato lungo<br />

un asse viario ortogonale alla via Amerina e corrispondente ad un percorso preromano<br />

che da Falerii Veteres (attuale Civita Castellana) raggiungeva i territori propriamente<br />

etruschi.<br />

L’area, nota per la presenza di tombe rupestri a portico, sta evidenziando le fasi più<br />

antiche di frequentazione della necropoli oltre a strutture ipogee e in opera quadrata di<br />

cui è tuttora in corso lo scavo.<br />

Diversamente, i lavori lungo la via Amerina di Corchiano sono ancora agli esordi<br />

sebbene, dopo due sole campagne di scavo, siano già visibili i primi concreti risultati<br />

in termini di leggibilità e comprensione delle evidenze archeologiche, purtroppo, molto<br />

danneggiate dagli impianti agricoli.<br />

17


INDAGINE TERRITORIALE NELLA SELVA DEL LAMONE:<br />

MATERIALI ENEOLITICI DA VALLE DELLA CHIESA (FARNESE,VT)<br />

CARLO CASI*<br />

Il sito di Valle della Chiesa (fig. 1, A) è stato scoperto nell’ambito delle ricerche condotte,<br />

negli anni compresi tra il 1990 e il 1994, dal Museo Civico “F. Rittatore<br />

Vonwiller” di Farnese ed è stata data notizia del rinvenimento in occasione del III<br />

Incontro di Studi sulla Preistoria e Protostoria d’Etruria 1 . In quella sede si evidenziò la<br />

probabile presenza di una necropoli eneolitica, posta sul pendio meridionale della collina<br />

che domina la vallecola eponima, ma non vennero presentati i materiali in quanto,<br />

al momento, erano ancora in corso di studio da parte dello scrivente. In questa sede si<br />

presenta un campionamento degli oggetti rinvenuti all’epoca, seppur non abbondanti<br />

ma comunque preziosi, per lo studio dell’Eneolitico della Valle del Fiora.<br />

Catalogo<br />

1. Vasetto miniaturistico<br />

Forma troncoconica irregolare e asimmetrica, con orlo indistinto, bordo in parte appiattito<br />

e in parte arrotondato, fondo piatto, mancante di una parte della vasca; impasto<br />

grossolano, superficie abrasa, colore dal bruno chiaro al bruno scuro.<br />

Misure: h 4 cm; d orlo 4,3 cm; d fondo 3,2 cm; s 0,7 cm. (fig. 2, 1).<br />

2. Frammento di orlo di probabile vaso a fiasco<br />

Basso collo troncoconico, orlo indistinto e bordo arrotondato; impasto fine, superficie<br />

lisciata, colore bruno scuro.<br />

Misure: h 3,5 cm; l 4,1 cm; s 0,4 cm. (fig. 2, 2).<br />

3. Frammento di orlo di probabile vaso a fiasco<br />

Collo cilindrico, orlo indistinto e bordo arrotondato; impasto medio, superficie lisciata,<br />

colore dal bruno scuro al bruno.<br />

Misure: h 5,6 cm; l 6,3 cm; s 0,7 cm. (fig. 2, 3).<br />

4. Frammento di ciotola carenata<br />

Orlo ingrossato, bordo arrotondato, alta carena a spigolo vivo, vasca superiore a profilo<br />

rettilineo; impasto medio-fine, superficie lisciata, colore bruno scuro.<br />

Misure: h 3,4 cm; l 4,8 cm; s 0,6 cm. (fig. 2, 4).<br />

5. Frammento di ciotola carenata<br />

Orlo indistinto, bordo arrotondato e assottigliato, carena a spigolo arrotondato, vasca<br />

1<br />

CASI et al. 1998.<br />

18


superiore a profilo rettilneo; impasto medio, superficie abrasa, colore nero.<br />

Misure: h 3,5 cm; l 4,3 cm; s 0,7 cm. (fig. 2, 5).<br />

6. Frammento di ciotola carenata<br />

Breve orlo diritto, bordo arrotondato, alta carena a spigolo vivo; impasto medio-fine,<br />

superficie lisciata, colore nero.<br />

Misure: h 2,8 cm; l 3,4 cm; s 0,8 cm. (fig. 2, 6).<br />

7. Frammento di scodella troncoconica<br />

Orlo indistinto, bordo arrotondato, bassa e ampia vasca a profilo leggermente concavo,<br />

mancante del fondo del quale però si riconosce l’attacco; impasto medio, superficie<br />

lisciata, colore bruno.<br />

Misure: h 4,5 cm; l 5,4 cm; s orlo 0,7 cm. (fig. 2, 7).<br />

8. Frammento di orlo di probabile olla a colletto<br />

Orlo leggermente rientrante e distinto dal corpo da una risega, bordo arrotondato; impasto<br />

medio-grossolano, superficie lisciata, colore rosso.<br />

Misure: h 6,5 cm; l 7,5 cm; s orlo 1,1 cm. (fig. 2, 8).<br />

9. Frammento di orlo di probabile olla<br />

Orlo indistinto, bordo arrotondato, con una presa obliqua sotto l’orlo; impasto medio,<br />

superficie lisciata, colore bruno chiaro.<br />

Misure: h 4,5 cm; l 5,1 cm; s orlo 0,7 cm. (fig. 3, 9).<br />

10. Frammento di orlo<br />

Orlo appena distinto, bordo arrotondato, parete a profilo convesso; impasto medio,<br />

superficie lisciata, colore nero.<br />

Misure: h 3,1 cm; l 3,1 cm; s parete 0,7 cm. (fig. 3, 10).<br />

11. Frammento di ansa verticale a nastro<br />

Attacco inferiore dell’ansa, sezione subrettangolare, con leggero gomito, parete a profilo<br />

convesso, probabilmente impostata sulla massima espansione del vaso; impasto<br />

medio-grossolano, superficie lisciata, colore bruno.<br />

Misure: h 4,9 cm; l 9,1 cm; s ansa 1,3 cm. (fig. 3, 11).<br />

12. Frammento di ansa verticale a nastro<br />

Sezione subrettangolare, con leggera insellatura centrale; impasto medio-grossolano,<br />

superficie lisciata, colore rosso.<br />

Misure: h 4,2 cm; l 4,1 cm; s 1,4 cm. (fig. 3., 12).<br />

13. Frammento di parete<br />

Profilo leggermente convesso, con bugna circolare appena rilevata; impasto medio,<br />

superficie lisciata, colore rosso.<br />

Misure: h 5 cm; l 3,1 cm; s 0,8 cm. (fig. 3, 13).<br />

14. Lametta di ossidiana<br />

Sezione triangolare, mancante della parte superiore.<br />

Misure: h 1,6 cm; l 0,9 cm; s 0,2 cm. (fig. 3, 14).<br />

19


INQUADRAMENTO STORICO-CULTURALE<br />

Il nucleo di materiali presentati sembra indicare un quadro cronologico piuttosto<br />

omogeneo, da riconoscere all’interno della facies di Rinaldone.<br />

Difatti i due frammenti di vaso a fiasco risultano tra gli elementi peculiari del periodo<br />

e trovano confronti in vari contesti, soprattutto funerari. Ad esempio il fr. n. 2, caratterizzato<br />

da un basso collo può essere riferito ad esemplari analoghi rinvenuti nelle<br />

necropoli della Porcareccia – tombe 1 e 4 2 , del Naviglione – tomba 6, di Ponte S. Pietro<br />

– tombe 9, 10bis e 19 3 , Poggialti 4 , Bandita S. Pantaleo 5 e di Le Calle – tombe 17 e 18 6 ;<br />

mentre il fr. n. 3 risulta diffuso in quasi tutti i complessi rinaldoniani.<br />

Anche i 3 frammenti di ciotola, con diametro minore all’orlo che alla carena, risultano<br />

ascrivibili ad un tipo ben attestato nel periodo in questione e trovano confronti<br />

oltre che a Le Calle – tombe 17 e 18 7 , al Palombaro – tomba 2 8 , alla Porcareccia –<br />

tombe 1 e 4 9 e a Ponte S. Pietro 10 , anche in contesti esterni all’area “nucleare” di<br />

Rinaldone, come ad Anagni e Grottaferrata 11 e risulta ben diffuso nei giacimenti eneolitici<br />

toscani ed in particolare nella Grotta del Fontino 12 .<br />

Il frammento dell’ampia scodella troncoconica con probabile fondo a tacco (n. 7)<br />

trova conforto in un pezzo proveniente dalla necropoli di Ponte S. Pietro 13 .<br />

Raro appare invece il tipo di olla a colletto (n. 8), ben diffuso nel Bronzo Antico, ma<br />

comunque attestato anche in una tomba di Casamari 14 ; mentre l’olla con la presa sotto<br />

l’orlo si ritrova negli strati eneolitici di Poggio Olivastro 15 .<br />

Le anse verticali a nastro si segnalano soprattutto impostate dalla spalla al collo di<br />

brocche, riconducibili per forma ai vasi a fiasco, come a Ponte S. Pietro – tombe 1, 2,<br />

6, 24 16 , alla Porcareccia 17 , al Botro del Pelagone 18 , ma anche su alcune olle di Ponte S.<br />

Pietro – tomba 1 19 e della Porcareccia 20 .<br />

2<br />

NEGRONI CATACCHIO 1992, p. 199, 2 e fig. 2b, 2; p. 203, 14 e fig. 4, 14.<br />

3<br />

MIARI 1993, figg. 4, A; 6, 2; 16, 4.<br />

4<br />

FALCHETTI 1982, fig. 9.<br />

5<br />

BARICH et al. 1968, fig. 7.<br />

6<br />

CATALOGO MANCIANO, tav. 93, A 1 e B 1; inoltre recenti indagini, effettuate nella necropoli di Le Calle<br />

dal Museo Civico per la Preistoria e Protostoria della valle del Fiora di Manciano in collaborazione<br />

con la Soprintendenza Archeologica della Toscana, hanno portato al rinvenimento di un altro vaso del<br />

tipo in questione (CASI c.s).<br />

7<br />

CATALOGO MANCIANO, tav. 93, A 2-3 e B 2-3.<br />

8<br />

RITTATORE VONWILLER 1969, tav. XXXV Tomba 2; quest’esemplare presenta in più una fila di bugne<br />

coniche sulla massima espansione.<br />

9<br />

NEGRONI CATACCHIO 1992, figg. 2b, 3; 4, 18-20.<br />

10<br />

MIARI 1993, figg. 14, 2; 15, 6 e 8.<br />

11<br />

GUIDI-PASCUCCI 1993 fig. 1, 6 e 7.<br />

12<br />

VIGLIARDI-MIARI 1993, fig. 1, 2 e 4 e 5-6.<br />

13<br />

MIARI 1993, fig. 14, 3.<br />

14<br />

GUIDI-PASCUCCI 1993, fig. 2, 4.<br />

15<br />

BULGARELLI et al. 1993, fig. 3, 18.<br />

16<br />

MIARI 1993 figg. 2B, 1-2; 3B; 12, 4 e 7.<br />

17<br />

NEGRONI CATACCHIO 1992, fig. 5, 22-23.<br />

18<br />

NEGRONI CATACCHIO-PASSONI-SORDI 1993, fig. 2, 3-4.<br />

19<br />

MIARI 1993, fig. 2,1.<br />

20<br />

NEGRONI CATACCHIO 1992, fig. 5, 21.<br />

20


Estremamente diffusa è la bugna circolare poco rilevata che compare nei principali<br />

contesti di questo periodo, come a Le Calle, a Ponte S. Pietro, alla Porcareccia.<br />

Più difficile da inquadrare è il vasetto miniaturistico (n. 1), che trova numerosi confronti<br />

con rinvenimenti effettuati soprattutto in grotta e attribuiti alla sfera cultuale per<br />

periodi più recenti, ma che nel nostro caso, viste forma e dimensioni, potrebbe forse<br />

essere ricondotto più ad un crogiuolo che ad un vaso rituale.<br />

L’ulteriore presenza di ossidiana potrebbe invece testimoniare una frequentazione<br />

più antica dell’area di Valle della Chiesa, anche se non è da escludere a priori un qualche<br />

utilizzo dell’oggetto nel periodo eneolitico.<br />

Cronologicamente, i reperti di Valle della Chiesa, sembrano contemporanei alle<br />

tombe 17 e 18 di Le Calle, le quali presentano un’analoga associazione di vaso a fiasco<br />

con basso collo, ciotola carenata con dimensioni all’orlo minori che alla carena e la<br />

bugna circolare poco rilevata; analogie possono comunque riscontrarsi anche con le<br />

tombe 1 e 4 della Porcareccia 21 , con la tomba 6 del Naviglione e con la tomba 9 di Ponte<br />

S. Pietro.<br />

Tutto ciò porta quindi ad inserire i materiali di Valle della Chiesa nella prima fase<br />

di Rinaldone.<br />

I dati ricavabili dai materiali sembrano confermare la loro pertinenza ad alcune<br />

sepolture, anche se solamente attraverso un’attività di scavo si potrà avere l’effettiva<br />

certezza in tal senso.<br />

Comunque, in attesa di tale conferma, possiamo notare quanto la posizione del rinvenimento<br />

di Valle della Chiesa (fig. 1, A) sia simile a quella presunta per il Palombaro<br />

(fig. 1, C) e si trovi orientata allo stesso modo della vicina necropoli del Naviglione (fig.<br />

1, B), ben inserita, quindi, in quel contesto generale che sembra caratterizzare la Selva<br />

del Lamone e che vede i numerosi nuclei abitativi posti sul bordo del plateau lavico e<br />

le rispettive necropoli localizzate nell’area contigua, esterna agli affioramenti vulcanici<br />

più recenti 22 .<br />

Note<br />

* Musei Civici di Manciano (GR); i disegni dei materiali sono di Leila Lotti.<br />

21<br />

I materiali con i quali si hanno le analogie maggiori sono quelli frammentari della tomba 4 che<br />

potrebbero corrispondere alla sepoltura più antica.<br />

22<br />

CASI et al. 1998, p. 421, nt. 2.<br />

21


BIBLIOGRAFIA<br />

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della Grotta del Fontino, in “PPE” Atti I, pp. 107-115<br />

22


QUATTRODICI ANNI DI RICERCHE NELLA FORTEZZA-TARDO ETRUSCA DI<br />

ROFALCO<br />

O. Cerasuolo<br />

Dopo quattrodici anni di ricerche sistematiche a Rofalco è opportuno ricostruire la<br />

storia delle ricerche compiute sul sito, dalle prime indagini occasionali e di superficie<br />

fino agli scavi intrapresi dal compianto Mauro Incitti e portati avanti fino ad oggi.<br />

Ripercorrere lo sviluppo delle ricerche, facendo rivivere la passione e le difficoltà che<br />

hanno caratterizzato lo scavo di Rofalco vuole essere un modo di ricordare l’opera di chi<br />

nei suoi ultimi anni ci ha insegnato tanto, come archeologo e come uomo.<br />

Prima degli scavi sistematici<br />

Il sito di Rofalco con le sue imponenti mura e i reperti in superficie dovette essere<br />

noto, come è ovvio, alle persone che frequentavano le campagne di Farnese nei tempi<br />

moderni 1 . Il ritrovamento di ceramica e altri manufatti può aver provocato curiosità e<br />

interesse da parte dei locali, ma per lungo tempo il sito non venne alla conoscenza di<br />

nessun studioso.<br />

Notizie al momento non verificabili raccolte tra gli anziani di Farnese riferiscono di<br />

ritrovamenti Ottocenteschi di grandi doli, che avrebbero attratto a Rofalco alcuni nobili<br />

di Viterbo. I doli sarebbero stati quindi caricati su dei muli e portati via, forse per far<br />

bella mostra in ville e residenze aristocratiche. Alcuni doli, inoltre, pare fossero utilizzati<br />

dai pastori della zona per conservare l’acqua piovana.<br />

Ferrante Rittatore Vonwiller, a partire dalla fine degli anni Trenta del secolo scorso,<br />

dedicò molte delle sue attività ai territori del Fiora e di Castro, in occasione della compilazione<br />

del foglio di Tuscania della Carta Archeologica d’Italia. Si colmava così un vuoto<br />

di ricerche archeologiche che si era protratto fino ad allora a causa della mancanza di<br />

collegamenti viari 2 .<br />

Nella vasta produzione bibliografica del Rittatore non sono noti documenti certi che<br />

testimonino sue ricerche effettuate a Rofalco 3 , pur se questi dovette sin da subito coltivare<br />

interessi anche verso gli insediamenti fortificati della zona 4 . Possediamo però una<br />

1<br />

La frequentazione occasionale del sito, probabilmente a carattere agricolo o pastorale, è documentata<br />

tra XVI e XVII secolo.<br />

2<br />

“Questo abbandono scientifico deriva certamente dall’abbandono civile in cui la contrada in esame<br />

è rimasta per molto tempo: poche strade; una volta ve ne era una sola che legava a Valentano, Ischia<br />

e Farnese, per il resto non vi erano che sentieri e mulattiere; ora invece due nuove strade tagliano la<br />

regione: da Farnese a Pitigliano ed a Manciano” (LOTTI-RITTATORE VONWILLER 1941, p. 299). Ibidem,<br />

pp. 303-305 si pone per altro in evidenza la grande diffusione di siti “etruco-romani” nella zona.<br />

3<br />

Nulla infatti è emerso dallo spoglio della “Bibliografia degli scritti di Ferrante Rittatore Vonwiller”<br />

presentato negli Studi Rittatore, p. XXV-XXXV.<br />

4<br />

Ad esempio in RITTATORE VONWILLER 1959, p. 319 sappiamo di un sopralluogo a “resti di cinte in<br />

pietra […] sui poggi verso la Campigliola, in comune di Manciano”.<br />

23


serie di indicazioni riguardo sue ricerche rimaste inedite condotte a Rofalco 5 : in particolare<br />

un sopralluogo e un saggio eseguiti negli anni in cui il Rittatore era impegnato<br />

nello scavo della “capanna protovillanoviana di Crostoletto del Lamone” 6 . Per poter<br />

definire meglio il periodo in cui il Rittatore eseguì questi scavi è necessario analizzare<br />

bene le notizie disponibili. Allo stato attuale è noto come il sito di Crostoletto del<br />

Lamone sia stato indagato in due diversi periodi: tra il 1966 e il 1967 e tra il 1970 e il<br />

1975 7 . Accenni riguardo lo scavo di una “grande capanna circolare” nell’area dell’abitato<br />

di Crostoletto mi pare si abbiano per la prima volta in RITTATORE VONWILLER 1974 8 .<br />

Secondo R. Poggiani Keller e P. Figura nello scavo del 1972-1973 venne esplorato “un<br />

fondo di capanna di forma ovale” 9 . E’ probabile che in questi anni il Rittatore decise di<br />

indagare anche Rofalco 10 .<br />

Incrociando le fonti orali e le recenti indagini del Gruppo Archeologico Romano è<br />

possibile ricostruire alcuni dettagli dello scavo del Rittatore. Sappiamo infatti che il<br />

saggio venne eseguito nella zona della Porta est (a quei tempi definita “porta nord”)<br />

dove, in corrispondenza di uno scavo clandestino e dell’affioramento di alcuni blocchi<br />

di tufo, venne raggiunto il lastricato pavimentale. I risultati non furono giudicati soddisfacenti,<br />

dal punto di vista di un preistorico, e non vennero raccolti materiali né venne<br />

redatto un giornale di scavo 11 . L’indagine della Porta est condotta nel 2008-2009 ha<br />

consentito di individuare una serie di tracce relative a precedenti interventi di scavo,<br />

che possono essere agevolmente riconosciute come l’opera dei clandestini e l’intervento<br />

del Rittatore di cui si è detto.<br />

Forse in seguito all’interesse mostrato da un archeologo affermato, forse nel quadro<br />

di sciagurati costumi sociali che hanno portato alla razzia delle antichità delle nostre<br />

terre, nella seconda metà del Novecento si intensificarono occasionali e ripetuti scavi<br />

clandestini, che solo in anni recenti siamo riusciti a debellare. Tali scavi -a detta degli<br />

abitanti di Farnese- pare abbiano restituito soltanto materiale di poco pregio, soprattutto<br />

pesi da telaio e oggettini in metallo con un valore economico relativamente scarso 12 .<br />

5<br />

Alcune notizie in questo senso sono state raccolte da Incitti (si veda anche INCITTI 1999, p. 5).<br />

6<br />

Devo queste notizie a Franco Livi, assistente di zona della Soprintendenza. In quegli anni si occupava<br />

di vigilare sulle ricerche condotte nel territorio dall’Università di Milano e assistette agli scavi<br />

di Rofalco.<br />

7<br />

Si veda la bibliografia del Rittatore; inoltre NEGRONI CATACCHIO 1977, pp. 135-137; POGGIANI<br />

KELLER-FIGURA 1979, pp. 346-349 e da ultimo la scheda di Patrizia Petitti in Repertorio 2007, pp.<br />

296-297.<br />

8<br />

In particolare si veda RITTATORE VONWILLER 1974, p. 253.<br />

9<br />

POGGIANI KELLER-FIGURA 1979, pp. 346-349. Inoltre osservando i numeri di inventario della ceramica<br />

proveniente dall’abitato di Crostoletto del Lamone, pubblicata in UBOLDI 1981, l’anno 1973 è<br />

quello relativo al maggior numero dei reperti.<br />

10<br />

Dopo l’esperienza dello scavo di Crostoletto, con i suoi numerosi e imponenti “muraglioni”, l’interesse<br />

del Rittatore dovette ricadere su Rofalco. Non è difficile immaginare la curiosità di fronte alle<br />

imponenti mura difensive del nostro sito, forse allora attribuite erroneamente ad un insediamento fortificato<br />

dell’età del Bronzo.<br />

11<br />

Sappiamo in realtà dell’esistenza di “diari di scavo” del Rittatore (POGGIANI KELLER-FIGURA 1979,<br />

p. 346, nota 3), in cui forse potrebbero trovarsi utili indicazioni anche riguardo il primo scavo condotto<br />

a Rofalco.<br />

12<br />

Sono da attribuire a questi interventi di scavo, oppure alle sitemazioni ad orto di epoca rinascimentale<br />

e moderna, i numerosi cumuli di spietramento che sono presenti su buona parte del sito.<br />

24


Una nuova stagione delle ricerche iniziò con la vasta e accurata campagna di ricognizione<br />

dell’entroterra vulcente, condotta ad opera dei volontari del GAR tra il 1979 e<br />

il 1984 13 . In quelle occasioni Rofalco venne “riscoperto”: furono rilevate schematicamente<br />

le mura e alcune strutture visibili all’interno, si posizionarono alcuni scavi clandestini<br />

e vennero raccolti reperti che consentivano per la prima volta di fornire un<br />

inquadramento cronologico del sito 14 .<br />

Grazie ai sopralluoghi condotti tra la seconda metà degli anni Ottanta e gli inizi<br />

degli anni Novanta da C. Casi e A. Baragliu 15 la conoscenza di Rofalco si ampliò ulteriormente.<br />

Queste ricerche di superficie fornirono inoltre un primo lotto di reperti che<br />

vennero esposti nel Museo Civico di Farnese.<br />

La conoscenza del sito nella letteratura scientifica<br />

Se come si è detto la conoscenza di Rofalco rimase a lungo limitata a poche persone<br />

e agli studiosi che lavoravano nelle zone di Ischia di Castro e Farnese, un contributo<br />

fondamentale alla notorietà del sito si è avuta a partire dalla seconda metà degli anni<br />

Ottanta grazie agli studi di M. Rendeli.<br />

Il Rendeli presenta in quattro articoli i risultati delle suddette ricognizioni del GAR,<br />

dando particolare risalto al sito di Rofalco 16 . Nei Papers in Italian Archaeology Rofalco<br />

viene ancora definito come il “sito 193”, riprendendo la nomenclatura della carta<br />

archeologica delle ricognizione. Subito viene chiarito come Rofalco sia uno dei siti più<br />

complessi dell’area, con un’ottima posizione tra la Selva del Lamone e la valle<br />

dell’Olpeta. Viene per la prima volta pubblicata una planimetria schematica del sito<br />

(fig. 1) in cui sono posizionate tutte le strutture scoperte e le aree dove si concentravano<br />

gli scavi clandestini (nn. 9, 10 e 11). Si riconoscevano allora tre accessi all’abitato -<br />

di cui quello orientale (n. 1) con resti di blocchi di tufo -, due “torrette” lungo le mura<br />

(nn. 8), una cisterna (n. 5) e alcune “fondazioni” di edifici 17 (nn. 3 e 4) 18 . Nella scheda<br />

pubblicata dal Rendeli nel volume Romanizzazione d’Etruria del 1985, vengono fornite<br />

alcune misure relative alle mura: 350 metri di lunghezza, 4 di larghezza e 2,5 di<br />

altezza; le due “torrette” sono definite “rettangolari” e si riconosce la probabile presenza<br />

di una terza 19 .<br />

13<br />

Le ricerche vennero condotte da R. Selmi. Per un’analisi dei risultati: NASO-RENDELI-ZIFFERERO<br />

1989; GAZZETTI 2002; da ultimo CERASUOLO-PULCINELLI 2009. Si veda inoltre il contributo di<br />

Pulcinelli in questo volume.<br />

14<br />

La scheda di ricognizione relativa a Rofalco (scheda B5/193, agosto 1981) è conservata presso l’archivio<br />

del GAR in Roma.<br />

15<br />

Alcuni dei risultati sono noti da dattiloscritti conservati nella biblioteca comunale di Farnese.<br />

16<br />

RENDELI 1985a, pp. 269-270, figg. 14.2 e 14.3; RENDELI 1985b; NASO et al. 1989, pp. 545-546;<br />

RENDELI 1993, pp. 214-219 e 404. Si veda anche RENDELI 1988, p. 104.<br />

17<br />

Il Rendeli, alla fig. 14.3, mostra anche una pianta di dettaglio di una zona, in cui la disposizione<br />

delle pietre induce a riconoscere due ambienti affiancati. Tali strutture non sono ancora state riconosciute<br />

sul campo; dovrebbero tuttavia collocarsi nella parte settentrionale del sito (RENDELI 1985, fig.<br />

14.2, n. 3).<br />

18<br />

Del “recupero SAEM” indicato col n. 2 in RENDELI 1985, fig. 14.2, non è finora stato trovato riscontro<br />

negli archivi della Soprintendenza.<br />

19<br />

In RENDELI 1989 si propone inoltre un’estensione del sito di 2 ettari. In RENDELI 1993 la lunghezza<br />

delle mura è di 280 metri e lo spessore è 4,80.<br />

25


Il Rendeli in questi contributi ricorda la ceramica raccolta sul sito in grande abbondanza,<br />

che era stata messa in luce dagli scavi illeciti e quindi sempre fuori contesto.<br />

Nel primo contributo vengono ricordati “jugs and bowls of impasto rosso” e frammenti<br />

di internal slip ware, impasto chiaro sabbioso (un collo di anfora), ceramica sovradipinta<br />

e vernice nera. Nel secondo articolo si riporta anche la presenza di bucchero e impasto<br />

“rosso crema” e si segnala la minore attestazione delle classi fini rispetto ai medi e<br />

grandi contenitori in impasto. In un successivo intervento del 1993 il Rendeli chiarisce<br />

come i frammenti di bucchero siano “quasi esclusivamente di argilla grigia e pertinenti<br />

a ciotole”, e aggiunge ancora la presenza di un frammento di ceramica etrusco-corinzia<br />

e di un altro forse di ceramica attica a figure nere. In base a queste attestazioni il<br />

Rendeli definisce una continuità di vita del sito dalla fine del VI agli inizi del III secolo<br />

a.C.; inoltre le opere difensive vengono attribuite all’età arcaica.<br />

Se da un lato il riconoscimento del carattere difensivo e di immagazzinamento di<br />

Rofalco da parte del Rendeli ha avuto il merito di proporre da subito un’interpretazione<br />

fondamentalmente ancora valida del sito, dall’altro l’attribuzione cronologica<br />

allora proposta deve essere ricalibrata. Come più volte segnalato, nei quattrodici<br />

anni di scavo sistematico a Rofalco sono sempre stati trovati frammenti ceramici<br />

databili esclusivamente tra la metà del IV e gli inizi del III secolo a.C. Uniche eccezioni<br />

sono pochi frammenti non torniti, databili all’età del Bronzo, e rara ceramica<br />

rinascimentale. Una fase di VI-V secolo, pertanto, deve essere per lo meno messa in<br />

dubbio 20 ; tanto più risulta difficile sostenere una datazione dell’impianto difensivo<br />

precedente l’epoca tardo-etrusca.<br />

Purtroppo i nuovi dati disponibili grazie agli scavi che stiamo portando avanti non<br />

sono ancora noti come dovrebbero e la letteratura scientifica spesso utilizza ancora una<br />

cronologia ampia, con il rischio di deformare la ricostruzione storica del popolamento<br />

etrusco nell’entroterra vulcente. Rofalco gode comunque di una certa popolarità tra gli<br />

studiosi, dovuta ai punti di interesse del sito e al suo valore storico.<br />

Il professor Colonna da subito ha messo in evidenza l’importanza del “campo fortificato”<br />

di Rofalco nel quadro del fenomeno di “colonizzazione interna” dell’Etruria<br />

meridionale 21 . Anche Maggiani 22 e Berlingò 23 sono tornati in tempi diversi sul ruolo di<br />

Rofalco come indicatore di particolari cambiamenti nella società e nella politica vulcente.<br />

Altri studiosi 24 hanno messo in evidenza la funzione di presidio del confine settentrionale<br />

vulcente e la sostituzione del ruolo di Castro come centro di controllo dell’area,<br />

altri ancora la funzione di immagazzinamento e difesa della fortezza 25 . Per altri<br />

versi il sito è stato motivo di interessi specifici legati agli aspetti militari e architettoni-<br />

20<br />

Da notare come per la maggior parte dei reperti citati dal Rendeli sia perfettamente compatibile una<br />

datazione al IV-III secolo, scarsissimi e incerti sono gli elementi che giustificherebbero una datazione più<br />

antica (la questione è segnalata per la prima volta in INCITTI 1999, p. 18). Sfortunatamente i reperti raccolti<br />

durante le ricognizioni GAR a Rofalco non sono attualmente reperibili.<br />

21<br />

COLONNA 1986, p. 462 e COLONNA 1990, p. 17.<br />

22<br />

MAGGIANI 1995, p. 40.<br />

23<br />

BERLINGÒ 2005, p. 564.<br />

24<br />

BUONAMICI 1990, p. 376-377; MARTINEZ-PINNA 1994, pp. 20 e 25; PERKINS 1999, p. 21; IZZET 2007,<br />

p. 191.<br />

25<br />

TIMPERI-BERLINGÒ 1994, pp. 134, 137-138; CARDOSA 2005, p. 554.<br />

26


ci, come le caratteristiche delle mura e delle torri 26 , la presenza di un ambiente pavimentato<br />

in lastre di tufo 27 o l’impiego dell’opera a scacchiera 28 . Quasi non ci sono studi<br />

archeologici del territorio vulcente che non tengano in considerazione Rofalco 29 , anche<br />

se purtroppo si utilizzano spesso dati non aggiornati.<br />

Gli scavi sitematici (1996-2009) 30<br />

Poco dopo la creazione della Riserva Naturale della Selva del Lamone 31 , a seguito di<br />

una serie di ricognizioni preventive e su indicazione di U. De Carolis, allora direttore<br />

del Museo Civico di Farnese, e di G. Gazzetti, funzionario di zona della Soprintendenza,<br />

venne decisa la realizzazione di un primo intervento di sistemazione dei numerosi scavi<br />

illeciti che si trovavano all’interno della cinta muraria di Rofalco 32 . Tutte le attività sul<br />

campo vennero dirette da Mauro Incitti con l’impegno di un gruppo di soci del Gruppo<br />

Archeologico Romano. E’ chiaro che l’intervento dei volontari garantiva la tutela e la<br />

salvaguardia del sito, ma pochi si aspettavano i risultati di grande interesse scientifico<br />

che si sono raggiunti.<br />

Nell’estate del 1996 il primo intervento di scavo regolare e documentato interessò<br />

26<br />

FONTAINE 1994, p. 77 (per la presenza di torri/bastioni); MILLER 1995, p. 335 (in cui le fortificazioni<br />

vengono attribuite al IV-III secolo a.C.; BECKER 2003-2004, p. 90. Da notare come le mura siano<br />

relativamente ben conservate dal lato verso la Selva, mentre dal lato opposto, verso la valle<br />

dell’Olpeta, si trovino solo alcuni tratti di fondazioni nei pressi della Porta est.<br />

27<br />

In particolare RENDINI 1998, p. 112 e RENDINI 2003, p. 139 (che utilizza anche i risultati presentati<br />

nei primi articoli divulgativi di Mauro Incitti sugli scavi di Rofalco, nella rivista Archeologia).<br />

28<br />

BERLINGÒ-D’ATRI 2003, p. 250.<br />

29<br />

Altre citazioni si trovano ad esempio in: STODDART 1990, p. 51; SÖDERLIND 2000-2001, p. 98; CIFANI<br />

2001, p. 117; GAZZETTI 2002, p. 353; BERLINGÒ-D’ATRI 2005, p. 274.<br />

30<br />

Vengono qui brevemente riassunti i risultati delle campagne di scavo eseguite dal GAR tutte le<br />

estati tra il 1996 e il 2009; relazioni analitiche annuali sono conservate nella sede dell’Associazione.<br />

Negli anni si sono avvicendati oltre 450 volontari, archeologi e appassionati, italiani e stranieri: senza<br />

il loro prezioso contributo sarebbe stato impensabile realizzare quanto è stato fatto. E’ doveroso ricordare<br />

la significativa partecipazione di soci dei Gruppi Archeologici Torinese, Milanese e Subalpino.<br />

In particolare voglio ricordare chi ha affiancato M. Incitti nei primi anni del Campo di Rofalco: M.<br />

Contini, I. Di Nardo, A. Giacummo, G. Granero, M. Morandi, A Padovani, R. Pratavera, M. Regno,<br />

C. Tronci, G. Vendetti. Negli ultimi anni la gestione logistica del Campo -senza la quale nessuna attività<br />

scientifica sarebbe possibile- è stata portata avanti da A. Arbore , F. Dalmasso, A. Della Siria, L.<br />

Di Gregorio, M. Gattamorta e F. Rubino,<br />

Si ringrazia inoltre il settore Restauro del GAR per la cortesia e la professionalità del lavoro svolto<br />

sui reperti più significativi recuperati dallo scavo.<br />

La sede del Campo di Ricerca è stata dal 1996 al 2004 la Scuola elementare di Farnese; dal 2005 il<br />

Campo è ospitato al Centro Gar di Ischia di Castro, presso il Mulino Bocci. Ogni anno viene organizzato<br />

anche un Campo invernale di pulizia e catalogo dei reperti, durante il quale si sistema la documentazione<br />

e si completano i rilievi.<br />

Le attività di scavo sono state seguite per conto della Soprintendenza per l’Etruria Meridionale dai<br />

dott. V. D’Atri, G. Gazzetti e P. Petitti e dagli assistenti di zona F. Livi e A. Bartoloni. Dal 2000 viene<br />

stipulata una convenzione annuale tra GAR e Soprintendenza, per la realizzazione degli scavi e del<br />

progetto di valorizzazione.<br />

31<br />

Per una recente presentazione della Riserva Naturale si veda MANTERO 2007.<br />

32<br />

Prima dell’inizio dello scavo venne fatta eseguire una battuta a strumento del sito. L’incarico fu eseguito<br />

da Errardo Gasseau per lo Studio Groma.<br />

27


due punti limitati. Nella zona centrale, la cosiddetta Area 0 33 (figg. 2.A, 3 e 6), vennero<br />

individuati i muri di quattro ambienti e una serie di allineamenti di pietre a quote<br />

digradanti. Lo scavo venne realizzato nei vani 1/B e 1/A. Il primo, di limitate dimensioni,<br />

era sconvolto da una fossa di scavo clandestino che aveva comunque risparmiato<br />

lacerti di una sequenza di crolli piuttosto coerente (disfacimento dei muri > tegole ><br />

strato di bruciato > piano pavimentale). La funzione dell’ambiente non è ancora certa.<br />

Il vano 1/A presenta maggiori punti di interesse in quanto un largo bancone occupa un<br />

angolo della camera e una ventina di pesi da telaio si trovavano sparsi o per gruppi sul<br />

pavimento. Almeno per questo ambiente l’identificazione della funzione sembra agevole:<br />

si deve trattare di un ambiente adibito alla lavorazione dei tessuti, come sembrerebbe<br />

indicare la presenza del bancone, o di un deposito prevalentemente destinato ai<br />

telai. Qui vennero raggiunti alcuni affioramenti del banco i quali presentano limitate<br />

tracce di lavorazione e, in alcuni casi, delle fessure naturali i cui riempimenti possono<br />

datare le fasi di costruzione dell’impianto. Altri elementi di cronologia provengono dagli<br />

strati di bruciato e di crollo, tutti sono stati accuratamente descritti da Incitti 34 .<br />

Poco più a sud (area 1000, figg. 2.B e 6) 35 venne ripulito il fianco del pianoro in corrispondenza<br />

di un salto e di un allineamento di pietre. Venne quindi parzialmente esposto<br />

una sorta di muro di terrazzamento, fondato direttamente sul banco e realizzato con<br />

massi poligonali, in cui è ricavata una nicchia. Ai piedi della nicchia venne trovata<br />

un’anfora a decoro lineare in frammenti, alcuni dei quali con incrostazioni di ossa combuste<br />

e carboni, pure si conservavano tracce dell’opercolo in argilla cruda: per tutto il<br />

contesto è stata ipotizzata una natura sacrificale 36 .<br />

I ritrovamenti permisero da subito la definizione della cronologia tra la metà del IV<br />

e l’inizio del III secolo 37 .<br />

Oltre allo scavo si procedette ad una pulizia parziale e ad una prima indagine dettagliata<br />

del sito. Si veniva quindi a conoscere meglio la porta orientale, dove si riconobbe<br />

la presenza di blocchi di tufo, sia in crollo che in posto.<br />

Le prime indagini portarono inoltre a mettere in dubbio la presenza delle altre due<br />

porte citate dal Rendeli: quella al centro delle mura sembra possa essere in realtà il<br />

risultato di uno spietramento, comunque si tratta di un punto in cui ci sono stati abbondanti<br />

smottamenti e interventi successivi; quella occidentale - dove passa l’attuale sentiero<br />

- è molto irregolare e non presenta alcun tipo di sistemazione o struttura visibile.<br />

Si individuò anche una seconda cisterna, nella zona centrale del sito (fig. 2.C), parzialmente<br />

scavata dai clandestini.<br />

La frequentazione assidua del sito, in varie stagioni e condizioni di tempo, consentì<br />

infine di cominciare a percepire, sotto la vegetazione e parzialmente coperti dai crolli<br />

33<br />

Corrispondente al punto n. 4 della carta del Rendeli, in cui sono indicati due muri formanti un<br />

angolo.<br />

34<br />

INCITTI 1999, pp. 13-18. L’ambiente 2 corrisponde all’1/B, l’ambiente 3 all’1/A.<br />

35<br />

In corrispondenza degli scavi clandestini indicati col punto n. 9 della carta del Rendeli, per altro<br />

molto vicino dalla cisterna indicata con il n. 5.<br />

36<br />

Per i risultati dello scavo di quest’area e l’inquadramento cronologico del deposito si veda INCITTI<br />

1999, pp. 8-11. L’anfora è attualmente esposta nel Museo Civico “F. Rittatore Vonwiller” di Farnese.<br />

37<br />

Inoltre si raccolsero frammenti in impasto non tornito dell’età del Bronzo, tutti in giacitura secondaria.<br />

28


antichi e dagli spietramenti, la presenza di gradoni e l’organizzazione interna dell’abitato<br />

38 . L’anno seguente venne proseguita l’indagine nelle due aree già note, 0 e 1000, e<br />

si tastò una zona alcune decine di metri più a nord (area 2000, figg. 2.D e 5), dove ampi<br />

scassi illeciti avevano portato alla luce molti frammenti di doli. Lo scavo mostrò parte<br />

di un ambiente (amb. 2) adibito a magazzino di doli 39 e - con grande sorpresa - un<br />

ambiente pavimentato in lastre di tufo, con muri in opera a scacchiera (amb. 1, fig. 4) 40 .<br />

Entrambi i contesti fornirono nuovi motivi di interesse che spingevano a portare avanti<br />

lo studio di Rofalco.<br />

Per impostare sin da subito una seria gestione degli aspetti logistici e per assicurare<br />

uno studio dei ritrovamenti si decise di dedicare la campagna del 1998 alla sistemazione<br />

e alla catalogazione di tutti i reperti delle prime due annate. Se pure lo scavo<br />

rimase fermo, in quell’estate si operò una pulizia selettiva della vegetazione infestante<br />

su una parte dell’insediamento e in particolare sulla cinta muraria, consentendo per la<br />

prima volta di percorrere per intero l’arco delle mura. Vennero anche allestiti dei passaggi<br />

di visita che integravano il sentiero della Riserva Naturale che congiunge Rofalco<br />

alle località di Roccoia e I Crini. Una prima mostra fotografica e una conferenza pubblica<br />

celebrarono con la popolazione di Farnese il fortunato inizio delle ricerche.<br />

Nel 1999 è stato pubblicato il primo contributo scientifico su Rofalco ad opera di<br />

chi aveva intrapreso lo scavo e aveva gettato le basi per un lungo progetto di valorizzazione<br />

del sito e per una proficua collaborazione tra le istituzioni. La presentazione dei<br />

risultati di scavo e la precisa analisi dei ritrovamenti furono l’occasione per formulare<br />

una serie di ipotesi sul sito, inquadrandolo in una chiara cornice storica. Venne allora<br />

per la prima volta messa in dubbio la possibilità di una fase arcaica, mentre grande<br />

peso si dava alla stretta forcella cronologica, attestata tra la metà del IV e i primi decenni<br />

del III secolo a.C. 41 Inoltre veniva chiaramente collegato l’incendio e l’abbandono del<br />

sito alla vittoria romana su Vulci del 280 a.C. Questi tre aspetti sono ancora validi, e<br />

nel complesso l’analisi del sito formulata allora viene sostenuta dalle ricerche condotte<br />

sino ad oggi.<br />

38<br />

Sulle pareti del pendio a sud-est del sito vennero individuate almeno tre piccole grotticelle di origine<br />

naturale, quasi interamente ricolme di detriti, da cui provengono alcuni frammenti ceramici non<br />

databili.<br />

Dalle ricerche del primo anno eseguite nei dintorni del sito si individuò anche un’altra importante<br />

presenza, lungo la via, naturale ma in parte regolarizzata in antico, che mette in comunicazione la<br />

Porta est con il fondovalle e la strada bianca attuale. Su un ripiano a mezza costa vennero individuati<br />

dei frammenti di tegole simili a quelle dell’abitato e alcuni allineamenti di pietre. Sarebbe interessante<br />

poter indagare anche questa zona per chiarire il rapporto tra Rofalco, il fiume Olpeta e la viabilità<br />

di fondovalle.<br />

39<br />

Per una immagine dello stato di conservazione di questo deposito si veda INCITTI 1999, foto 4. Sul<br />

pavimento si trovò anche una moneta di bronzo di zecca siculo-punica, della serie del Petaso, attestata<br />

in diversi siti dell’Etruria.<br />

40<br />

Tale pavimentazione trova i migliori confronti, come già aveva notato Incitti, con l’edificio ‘alfa’ di<br />

Saturnia e la Casa del Pescatore a Vulci, cui si aggiunge il pavimento trovato sotto la Chiesa di<br />

Sant’Andrea a Orvieto, tutti di IV-III secolo a.C. (RENDINI 2003, pp. 139). Nel 2000 l’area è stata<br />

oggetto di una nuova ripulitura, finalizzata a chiarire la natura dei depositi stratigrafici che coprono<br />

le lastre di tufo. La pavimentazione richiede urgentemente un intervento di consolidamento.<br />

41<br />

Incitti, da ottimo ceramologo, aveva ben chiaro il valore dello scavo di un insediamento “monofase”<br />

per gli studi di seriazione delle produzioni ceramiche.<br />

29


Nello stesso anno si proseguì lo scavo nell’area 2000 e vennero aperte due nuove<br />

aree, 2500 42 e 3000 (figg. 2.E, 2.F e 5), che restituirono rispettivamente i resti di un<br />

magazzino analogo a quello dell’area 2000, dal lato opposto di una strada, e parte di un<br />

porticato (amb. 1) compreso tra un edificio (amb. 2) e la strada stessa. Nell’area 3000<br />

venne nuovamente individuato un muro in opera a scacchiera, che quindi risulta essere<br />

una tecnica costruttiva ben attestata a Rofalco, assieme all’impiego a secco di massi<br />

e scaglie di trachite locale e all’opera quadrata in blocchi di tufo.<br />

Nel 2000 43 e nel 2001 le attività vennero concentrare esclusivamente nell’area 3000.<br />

Eccezionale fu il ritrovamento di un peso in trachite con X incisa 44 . Nelle due stagioni<br />

seguenti 45 l’indagine dell’area 3000 venne portata a compimento regolarizzando il saggio<br />

e scavando gli ultimi strati di crollo che ingombravano la strada 46 .<br />

Nello stesso anno in seguito a uno scavo irregolare - fortunatamente l’ultimo eseguito<br />

a Rofalco - si indagò un nuovo ambiente nell’area 2000 47 (amb. 3, fig. 5). Questo vano<br />

mostra lo stesso allineamento e le dimensioni dei primi due ambienti noti nell’area. E’<br />

verosimile che appartengano tutti ad uno stesso edificio affacciato su una strada 48 .<br />

Anche in questo caso la presenza significativa di doli sembra indiziare una funzione<br />

prevalente di immagazzinamento, in cui trovano posto anche produzioni fini, come vernice<br />

nera e piattelli tipo Genucilia, od oggetti particolari come un frammento di lingotto<br />

segnato 49 .<br />

Nel dicembre di quell’anno realizzammo, con l’amico Pulcinelli, la prima planimetria<br />

complessiva, che permetteva di iniziare a studiare gli aspetti urbanistici del sito e di programmare<br />

con efficacia i futuri interventi di scavo. Parallelamente venne effettuata la<br />

42<br />

Corrispondente grossomodo al n. 10 della carta del Rendeli. I muri dell’area 2500 segnati in Fig.<br />

5 sono riportati in alcuni schizzi dei primi anni di scavo ma al momento non sono chiaramente riconoscibili.<br />

43<br />

Nell’ottobre del 2000, nell’ambito dell’inventario dei reperti conservati per conto del Museo Civico<br />

di Farnese, venne realizzato da A. Giacummo un nuovo elenco dei reperti provenienti dalle campagne<br />

di scavo 1996-2000.<br />

44<br />

Il peso proviene dagli strati di crollo che obliterano la strada. Viene così documentato nelle attività<br />

quotidiane svolte nella fortezza l’impiego di un’unità ponderale di 3284 grammi. Si veda ora<br />

CERASUOLO-PULCINELLI in “StEtr” c.s.<br />

45<br />

Alcuni dei risultati di queste campagne vennero presentati nei Papers in Italian Archaeology, si<br />

veda INCITTI-CERASUOLO-PULCINELLI 2005.<br />

46<br />

Responsabile di area: L. Pulcinelli.<br />

47<br />

Responsabile di Area: L. Bracciotti.<br />

48<br />

Affioramenti di pietre indicano la presenza di altri ambienti analoghi a nord-est di quelli indagati.<br />

49<br />

Ad una prima analisi si tratterebbe di un esemplare inseribile nella linea evolutiva dei noti lingotti<br />

con il “ramo secco” di V secolo a.C., documentata con alcune variazioni anche nel IV-III secolo<br />

a.C. Il frammento da Rofalco mostra anche affinità con i lingotti a “fishbone”, pur distinguendosi nei<br />

tratti caratteristici. Per la classe dei lingotti col “ramo secco” si veda: HAEBERLIN 1910; THOMSEN<br />

1961; da ultimo PELLEGRINI-MACELLARI 2002. La produzione di IV-III secolo con il segno che ripropone<br />

il “ramo secco” può essere divisa in due gruppi: quello in “bronzo patinato” - a cui appartiene<br />

il nostro esemplare -: Vulci-Campo Scala, 300-212 a.C. (PELLEGRINI-MACELLARI 2002, pp. 140-141)<br />

e forse un altro dalla collezione Haberlin (HAEBERLIN 1910, p. 21, gruppo IV, n. 2, tav. 8.5); e quello<br />

in “bronzo ferruginoso”: Via Tiberina-Precoio, deposito votivo databile al 211-208 a.C. (PELLEGRINI-<br />

MACELLARI 2002, pp. 142-143); Tivoli-Acquoria, deposito votivo di seconda metà IV -inizi III sec.<br />

a.C. (THOMSEN 1961, pp. 119, 203).<br />

30


ipulitura della torre ovest (fig. 2.G), con la rimozione del crollo fino al raggiungimento<br />

del piano di spiccato.<br />

Dal 2003 al 2005 è stato ripreso e completato lo scavo dell’area 1000 50 permettendo<br />

di riconoscere un piccolo edificio di servizio impostato sul muro di terrazzamento già<br />

individuato nel 1996-1997. L’edificio (figg. 2.B e 6) doveva avere un recinto (amb. 1) e<br />

un ambiente (amb. 2) con tetto a due falde - di cui è stato rinvenuto parte del crollo -<br />

,entro cui si trovava la cisterna. In una fase precedente la stessa funzione è attestata in<br />

un gradone del banco geologico in cui era alloggiato un dolio 51 , poi obliterato e danneggiato<br />

dagli edifici. Entrambe le fasi edilizie riscontrate in quest’area sono inquadrabili<br />

alla seconda metà del IV – inizi del III secolo e testimoniano modifiche strutturali<br />

anche impegnative nel corso del breve periodo di vita dell’insediamento.<br />

L’edificio dell’area 1000 è separato dal più complesso edificio dell’area 0 tramite<br />

una stradina in ghiaia, che è stata in parte indagata tramite una serie di saggi. A partire<br />

dal 2003 è ripreso anche lo scavo dell’area 0 52 , tuttora in corso. Qui è stato possibile<br />

riconoscere progressivamente i limiti di un grande edificio a più ambienti, almeno<br />

sei, probabilmente con un piccolo cortile quadrato in posizione centrale (figg. 2.A e 6).<br />

Oltre all’ambiente dei telai di cui si è detto 53 , sono ora abbastanza ben studiati un<br />

ambiente forse legato alla preparazione dei cibi (amb. 2/C), un ambiente con doli coperti<br />

da una tettoia (amb. 2/D), un piccolo cortile (amb. 1/C) e un ambiente - fortunatamente<br />

non disturbato - con pilastro centrale (amb. 2/B). Quest’ultimo ha recentemente restituito<br />

un interessante servizio di vasi da dispensa, costituito tra l’altro da tre o quattro<br />

gliraria, un “vaso da miele”, un dolio di medie dimensioni con iscrizione di possesso,<br />

alcuni bacini e una serie di oggetti domestici come pesi da bilancia, coltelli, etc.<br />

Sempre da questo ambiente provengono due votivi di terracotta: una coppia di piedi,<br />

pieni, realizzati con grande cura 54 . In quasi tutti gli ambienti di questo edificio sono presenti<br />

bassi banconi di muratura che potevano servire come base di scaffalature 55 o di<br />

scale; i pavimenti sono in semplice battuto di terra e sono spesso riconoscibili le porte<br />

di passaggio tra i diversi vani. Gli elementi di arredo e la ceramica si rinvengono sempre<br />

al di sotto degli strati di crollo del tetto e dei muri.<br />

Nel 2006 si è aperta una nuova area di scavo, la 4000, per indagare la Porta est 56<br />

(figg. 2.H e 7). Con un paziente quanto faticoso intervento di rimozione di blocchi anche<br />

grandi crollati dal bastione e di altri strati di crollo, è stata portata alla luce una struttura<br />

imponente e di buona fattura. La porta era realizzata con un ambiente (amb. 1), di<br />

50<br />

Responsabile di area: O. Cerasuolo.<br />

51<br />

Il dolio, ancora oggi visibile in situ, presenta graffito sulla spalla il prenome Cae. Dalla fossa all’interno<br />

dell’ambiente con la cisterna proviene invece il peso da telaio con l’iscrizione di Vipia Lucles.<br />

Per entrambi i documenti epigrafici si veda CERASUOLO-PULCINELLI in “StEtr” c.s.<br />

52<br />

Responsabili di area: ambb. 1/A e 2/A, F. Rubat Borel; ambb. 1/D,1/C e 2/D, L. Pulcinelli; amb.<br />

2/B, F. Rubat Borel (2007) e M. Sabbatini (2008-2009); amb. 2/C, C. Attanasio Ghezzi, inizialmente<br />

affiancata da T. Latini.<br />

53<br />

Da segnalare il ritrovamento di un votivo frammentario con due offerenti, proveniente dal riempimento<br />

di un’ampia fessura nel banco geologico, coperto dai piani pavimentali.<br />

54<br />

Un confronto piuttosto stretto proviene da Ghiaccioforte (DEL CHIARO 1976, tav. X.33).<br />

55<br />

Per un’idea della struttura si veda la ricostruzione proposta per la “Casa dei Pithoi” di Serra di<br />

Vaglio in GRECO 1991, fig. 131.<br />

56<br />

Rensponsabili di area: O. Cerasuolo (2006-2007) e L. Somma (2008-2009).<br />

31


cui restano tre lati con pareti in blocchi di tufo; all’interno, verso l’abitato, una seconda<br />

camera (amb. 2) si apriva su una sorta di piazzale che abbiamo iniziato a scavare<br />

proprio quest’anno. Entrambi gli ambienti mostrano una straordinaria pavimentazione<br />

in selci di trachite, interrotta soltanto dall’alloggiamento della soglia, evidentemente in<br />

materiale deperibile. La porta trova particolari paralleli negli allestimenti del sito di<br />

Ghiaccioforte, sottolineando ancora una volta l’uniformità che caratterizza le fortezze<br />

tardo-etrusche del territorio vulcente 57 . L’intervento presso la porta ha anche permesso<br />

di ripulire il grande bastione che la domina, mettendo in luce quello che sembra essere<br />

un sistema di rampe per il raggiungimento della sommità. La lettura del bastione è<br />

tuttavia ancora incerta a causa dei numerosi crolli e degli ammassi di pietrame.<br />

Nelle campagne 2008-2009 è iniziata l’indagine di una nuova area, la 5000 58 (Fig.<br />

2.I, 6), che occupa la sommità centrale dell’insediamento. Nella zona in cui erano visibili<br />

i resti di un ambiente si è proceduto prima alla pulizia dalla vegetazione, poi alla<br />

definizione della struttura e delle stratigrafie presenti. Per l’ambiente, fortemente danneggiato<br />

da una serie di scavi illeciti, non è ancora possibile avanzare un’interpretazione,<br />

si segnala tuttavia il ritrovamento di uno spillone di bronzo e di uno scarabeo in corniola.<br />

Prospettive di ricerca e divulgazione<br />

Lo scavo e le altre questioni scientifiche connesse sono state in questi anni affiancate<br />

da numerose altre attività che assieme definiscono l’intervento di valorizzazione del sito.<br />

Da un lato infatti vengono portate avanti la manutenzione della fortezza e gli allestimenti<br />

della sentieristica e dei supporti didattici; dall’altro vengono periodicamente realizzate<br />

visite guidate, conferenze pubbliche e stand informativi durante gli eventi culturali della<br />

Tuscia, al fine di far conoscere questo importante sito 59 . La necessaria divulgazione delle<br />

scoperte viene inoltre regolarmente garantita da articoli scientifici e resoconti di scavo 60 .<br />

Stiamo ora preparando una mostra, che verrà ospitata nel locale Museo Civico, per<br />

mostrare i numerosi reperti - in alcuni casi in ottimo stato di conservazione - provenienti<br />

dalle ricerche delle ultime campagne.<br />

La prosecuzione dello scavo, lo studio dei reperti, e la realizzazione di un percorso<br />

di visita completo del sito sono i settori in cui si concentrerà l’attività del Campo di<br />

Rofalco nei prossimi anni. Come è facile immaginare sono inoltre necessari interventi<br />

di consolidamento di alcune strutture e un allestimento completo del sito. E’ per poter<br />

realizzare a pieno questi ambiti che abbiamo elaborato, in armonia con le istituzioni<br />

locali, un progetto di valorizzazione che richiede lo stanziamento di appositi finanziamenti.<br />

57<br />

Sui caratteri delle fortificazioni nel vulcente si vedano i vari contributi presentati al IV Convegno<br />

Nazionale sulle Mura Poligonali, svoltosi ad Alatri nel 2009. L’area della Porta est, assieme all’area<br />

1000, ha restituito molti proiettili da fionda in ceramica, eloquente traccia degli eventi bellici che<br />

hanno segnato la fine della fortezza.<br />

58<br />

Responsabile di area: C. Attanasio Ghezzi.<br />

59<br />

Il coordinamento delle iniziative promozionali è affidato dal 2009 a M. Valerio.<br />

60<br />

CERASUOLO-PULCINELLI 2007; CERASUOLO-PULCINELLI-RUBAT BOREL 2008; CERASUOLO-PULCINELLI<br />

2009; CERASUOLO-PULCINELLI in “StEtr” c.s; CERASUOLO-PULCINELLI c.s. Inoltre dal 2003 viene realizzato<br />

un progetto di rivista denominata Quaderni di Archeologia Tardo-Etrusca (QATE), regolarmente<br />

depositata presso la SIAE (vedi bibliografia allegata).<br />

32


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A. MAGGIANI, Scavi nel centro storico di Sovana, in M. MICHELUCCI (a cura di), Sovana. Ricerche<br />

e scavi nell’area urbana, Pitigliano, pp. 30-40<br />

MANTERO 2007<br />

D. MANTERO, La Riserva Naturale della Selva del Lamone, in N. NEGRONI CATACCHIO, M.<br />

CARDOSA (a cura di), Sorgenti della Nova. Un abitato tra Protostoria e Medioevo, Milano, pp.<br />

142-145<br />

MARTÍNEZ-PINNA 1994<br />

J. MARTÍNEZ-PINNA, Poblamiento y sociedad en la Etruria arcaica, in M. SORDI (a cura di),<br />

Emigrazione e immigrazione nel mondo antico, Milano, pp. 11-38<br />

MILLER 1995<br />

M. MILLER, Befestigungsanlagen in Italien vom 8. bis 3. Jahrhundert vor Christus, Hamburg<br />

NASO-RENDELI-ZIFFERERO 1989<br />

A. NASO-M. RENDELI-A. ZIFFERERO, Note sul popolamento e sull’economia etrusca in due zone<br />

campione degli entroterra vulcente e ceretano, in Atti del II Congresso Internazionale Etrusco<br />

(Firenze 1985), Roma, pp. 537-572<br />

NEGRONI CATACCHIO 1977<br />

N. NEGRONI CATACCHIO, La tarda età del Bronzo, in RITTATORE VONWILLER et al. 1977, pp. 135-<br />

137<br />

PELLEGRINI-MACELLARI 2002<br />

34


E. PELLEGRINI, R. MACELLARI, I lingotti con segno del ramo secco. Considerazioni su alcuni aspetti<br />

socio-economici nell’area etrusco-italica durante il periodo arcaico, Pisa-Roma<br />

PERKINS 1999<br />

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R. POGGIANI KELLER, P. FIGURA, I tumuli e l’abitato di Crostoletto di Lamone (Prov. Di Viterbo):<br />

nuovi risultati e precisazioni, in Atti della XXI Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di<br />

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QATE 1<br />

Progetto Quaderni di archeologia tardo-etrusca, 1, 2003<br />

QATE 2<br />

Progetto Quaderni di archeologia tardo-etrusca, 2, 2003<br />

QATE 3<br />

Progetto Quaderni di archeologia tardo-etrusca, 3, 2004<br />

RENDELI 1985a<br />

M. RENDELI, Settlement patterns in the Castro area (Viterbo), in Papers in Italian Archaeology,<br />

IV.1, Oxford, pp. 261-273<br />

RENDELI 1985b<br />

M. RENDELI, L’oppidum di Rofalco nella Selva del Lamone, in A. CARANDINI (a cura di), La romanizzazione<br />

dell’Etruria: il territorio di Vulci, Catalogo della mostra (Orbetello, 1985), Milano, pp.<br />

60-61<br />

RENDELI 1988<br />

M. RENDELI, intervento alla discussione in Etruria meridionale: conoscenza, conservazione, fruizione.<br />

Atti del Congresso, Roma<br />

RENDELI 1993<br />

M. RENDELI, Città aperte. Ambiente e paesaggio rurale organizzato nell’Etruria meridionale<br />

costiera durante l’età orientalizzante e arcaica, Roma<br />

RENDINI 1998<br />

P. RENDINI, L’urbanistica di Saturnia. Un aggiornamento, in Città e monumenti dell’Italia antica<br />

(Atlante Tematico di Topografia Antica, 7), pp. 97-118<br />

RENDINI 2003<br />

P. RENDINI, Saturnia: un territorio di frontiera tra Vulci e Volsinii, in G. M. Della Fina (a cura di),<br />

Tra Orvieto e Vulci, Atti del X Convegno Internazionale di Studi sulla Storia e l’Archeologia<br />

dell’Etruria, Orvieto, pp. 133-152<br />

REPERTORIO 2007<br />

C. BELARDELLI, M. ANGLE, F. DI GENNARO, F. TRUCCO (a cura di), Repertorio dei siti protostorici<br />

del <strong>Lazio</strong>. Provincie di Roma, Viterbo e Frosinone, Firenze<br />

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F. RITTATORE VONWILLER, Ischia di Castro (Viterbo) (notiziario), in “RScPreist”, XIV, p. 319<br />

RITTATORE VONWILLER 1974<br />

F. RITTATORE VONWILLER, Ischia di Castro (Com. di Viterbo), Località Crostoletto di Lamone (notiziario),<br />

in “RScPreist”, XXIX, pp. 252-253<br />

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F. RITTATORE VONWILLER et al, Preistoria e protostoria della valle del Fiora, in La civiltà arcaica<br />

di Vulci e la sua espansione, Atti del X Convegno di Studi Etruschi ed Italici, Firenze, pp. 99-<br />

165<br />

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M. SÖDERLIND, Romanization and the Use of Votive Offernigs in the Eastern Ager Vulcentis, in<br />

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STODDART 1990<br />

35


S. STODDART, The Political Landscape of Etruria, in “Accordia Research Papers”, 1, p. 39-51<br />

STUDI RITTATORE<br />

Studi in onore di Ferrante Rittatore Vonwiller, Como<br />

THOMSEN 1961<br />

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TIMPERI-BERLINGÒ 1994<br />

TIMPERI, I. BERLINGÒ, Bolsena e il suo lago, Roma<br />

UBOLDI 1981<br />

A. UBOLDI, Crostoletto di Lamone (Ischia di Castro – Viterbo), in N. NEGRONI CATACCHIO (a cura<br />

di), Sorgenti della Nova. Una comunità protostorica ed il suo territorio nell’Etruria meridionale,<br />

catalogo della mostra (Milano 1981), Roma, pp. 397-406<br />

36


STORIA DELLA FOTOGRAFIA ARCHEOLOGICA:<br />

CATEGORIE ICONOGRAFICHE<br />

Massimo Cutrupi<br />

Nell’edizione del 6 gennaio 1839 il quotidiano “Gazette de France”, riportando la<br />

notizia della scoperta della fotografia, metteva in risalto la fedeltà dell’immagine riprodotta<br />

in camera oscura e rilevava l’importanza che il nuovo procedimento avrebbe avuto<br />

nel riprendere immagini di monumenti e panorami del mondo intero.<br />

Nella storica riunione congiunta dell’Accademia delle Scienze e dell’Accademia<br />

delle Belle Arti di Parigi del 19 agosto del 1839, Jean François Dominique Arago, nell’illustrare<br />

il procedimento del dagherrotipo 1 sottolineò come questa nuova invenzione<br />

avrebbe potuto essere strumento utile a studiosi e scienziati.<br />

La nuova invenzione affiancherà da subito alcune discipline scientifiche per la sua<br />

capacità di riprodurre fedelmente la realtà. E’ in questo ambito, dove la fotografia è<br />

usata soprattutto come mezzo di riproduzione, che può essere inserita la fotografia<br />

archeologica.<br />

I primi dagherrotipi, che richiedevano tempi di esposizione molto lunghi, raffiguravano<br />

soprattutto soggetti statici; è per questo che alcune delle migliori immagini del<br />

periodo iniziale della fotografia furono realizzate proprio su siti archeologici.<br />

La storia della fotografia archeologica è quindi lunga quanto la storia della fotografia<br />

stessa ed è genericamente suddivisa in due categorie iconografiche precise, “ […]<br />

quella turistica, tesa a documentare scavi e monumenti a uso del grande pubblico, e<br />

quella scientifica, a uso di archeologi e di studiosi che documentano i lavori di scavo e<br />

di rinvenimento, le opere riscoperte, le varie modalità del restauro degli oggetti e dei<br />

monumenti. […] Esiste inoltre una fotografia delle singole opere che serve a mettere in<br />

luce anche i dettagli 2 ”.<br />

Partendo da quest’ultima affermazione possiamo inserire, nell’analisi delle categorie<br />

iconografiche, anche quelle immagini più attente al dettaglio del soggetto. Una fotografia<br />

più scientifica, che da molti anni è prassi consolidata in ambito archeologico e<br />

che si avvale anche delle nuove tecnologie. Inoltre, ad un’attenta lettura della storia<br />

della fotografia possiamo sostenere, pur mantenendo fermi per sintesi divulgativa i due<br />

grandi gruppi sopra citati, che sono almeno quattro le categorie iconografiche nelle<br />

1<br />

Il dagherrotipo era un immagine fotografica realizzata su una lastra di rame argentata sensibilizzata<br />

ai vapori di iodio. Dopo l’esposizione la lastra veniva trattata con vapori di mercurio, il quale si<br />

combinava con ioduro d‘argento formando l’immagine che veniva poi stabilizzata in una soluzione di<br />

cloruro di sodio. Il procedimento fotografico nacque dalla collaborazione tra J.Nicéphore Niépce e<br />

L.J. Mandé Daguerre. Il dagherrotipo era in copia unica e si presentava allo stesso tempo come immagine<br />

negativa e positiva.<br />

2<br />

MADESANI 2005, p. 16.<br />

37


quali è possibile leggere la funzione della fotografia in campo archeologico; tipologie<br />

fotografiche che possono benissimo compenetrarsi.<br />

La prima categoria, che chiameremo conoscitiva, inizia proprio nel periodo del<br />

dagherrotipo, e comprende tutte quelle fotografie che avevano come funzione principale<br />

quella di soddisfare la curiosità del grande pubblico e quella di messa a punto sperimentale<br />

verso la nuova invenzione.<br />

Immagini vincolate dai limiti tecnici dell’epoca che risentivano ancora dell’impostazione<br />

pittorica, utili però a documentare, con ampie vedute, monumenti e luoghi di antiche<br />

civiltà come quelle realizzate dal canadese Pierre-Gustave Joly de Lotbinière, che<br />

“nell’ottobre del 1839 era in Grecia, dove riprese diverse vedute dell’Acropoli di<br />

Atene” 3 (fig. 1).<br />

Il dagherrotipo fu accolto con entusiasmo anche in Italia, che divenne presto una<br />

delle principali mete turistiche per i suoi siti archeologici e le sue città storiche.<br />

Fra il 1840 e il 1844 l’editore milanese Ferdinando Artaria realizza in modo sistematico<br />

una serie di vedute al dagherrotipo. Le prime località rappresentate sono<br />

Milano, Monza, Pavia e i laghi lombardi e di seguito destinazioni più turistiche come<br />

Venezia, Roma, Firenze e Napoli.<br />

“Oggi la maggior parte dei dagherrotipi originali sono andati perduti e i nomi dei<br />

loro autori sono dimenticati: indubbiamente furono distrutti al momento dell’incisione.”<br />

4<br />

Il dagherrotipo, che era un’immagine unica, non permetteva la riproduzione seriale,<br />

quindi si utilizzò presto l’incisione, generalmente in acquatinta, per trasformare l’immagine<br />

ottenuta con la lastra di rame in stampa, in modo tale da soddisfare le richieste<br />

del pubblico e mantenere alta la funzione conoscitiva di questa nuova invenzione.<br />

“Allo Science Museum di Londra è invece conservato il corpus più consistente di<br />

vedute italiane al dagherrotipo, in tutto 158 di cui 103 riguardano soggetti romani, 15<br />

raffigurano Venezia, 11 Paestum, 9 Napoli, 8 Pompei, 7 Pisa, 3 Firenze e 2 Pozzuoli.” 5<br />

Queste immagini, raccolte e in parte realizzate dall’inglese Alexander John Ellis,<br />

sono una testimonianza unica e presentano molte delle caratteristiche della prima categoria<br />

iconografica in questione, tra cui il desiderio d’informare il grande pubblico.<br />

Queste immagini documentano senza pretese scientifiche, sperimentano la tecnica del<br />

dagherrotipo, raffigurano monumenti, ampi spazi urbani e non entrano nel dettaglio<br />

mantenendo inquadrature panoramiche. Alcune di queste vedute, raccolte da Ellis,<br />

sono firmate da due pionieri della fotografia italiana: i romani Achille Morelli e<br />

Lorenzo Suscipj (fig. 2).<br />

Nel 1841 l’inglese William Henry Fox Talbot brevettò il calotipo, il primo procedimento<br />

di negativo su carta usato in fotografia, che permetteva, al contrario del dagherrotipo,<br />

di stampare positivi in più copie. Il procedimento è stato, nel corso degli anni,<br />

più volte perfezionato e fondamentali furono le modifiche apportate da Louis-Désiré<br />

Blanquart-Evrard, che progettò una carta per la stampa che riduceva notevolmente i<br />

tempi di lavoro.<br />

3<br />

NEWHALL 1984, p. 38.<br />

4<br />

Ibidem, pp. 38-39.<br />

5<br />

GERNSHEIM 1981, p. 160.<br />

38


Il nuovo procedimento permetteva di stampare su larga scala e furono quindi pubblicati<br />

molti libri illustrati con immagini a soggetto archeologico.<br />

“La più nota delle opere francesi illustrate con fotografie è indubbiamente Egypte,<br />

Nubie, Palestine et Syrie di Maxime Du Camp, di cui Blanquart-Evrard stampò i 125<br />

calotipi” 6 .<br />

Nel 1849, Du Camp convinse il Ministero dell’Istruzione francese ad inviarlo in<br />

Medio Oriente con una spedizione archeologica. Con lui partì anche Gustave Flaubert<br />

e al loro ritorno, dopo quasi due anni, avevano raccolto 220 calotipi quasi tutti a soggetto<br />

archeologico. Fra le immagini più belle di questo importante lavoro c’è il famoso<br />

Colosso di Ramses II ripreso nel tempio di Abu – Simbel (fig. 3).<br />

Sull’entusiasmo del nuovo procedimento di Evrard, molti studiosi e fotografi, secondo<br />

un itinerario divenuto ormai consuetudine, iniziarono negli anni seguenti i grandi<br />

viaggi in Oriente e nel Mediterraneo. Tra i tanti, attratti dal viaggio esotico e dai luoghi<br />

delle antiche civiltà, solo per citarne alcuni ricordiamo: Antonio e Felice Beato,<br />

Giacomo Brogi, Pierre Trémaux, George Bridges, Gustave Le Gray, James Graham,<br />

Carlo Naya, Joseph-Philibert Girault de Prangey, Louis De Clercq. Durante questi viaggi<br />

si produsse un repertorio d’immagini inedite con una visione molto personale, quindi<br />

poco scientifica, ma che tuttavia stimolò l’immaginario collettivo. Per molti anni i<br />

soggetti preferiti dai viaggiatori-fotografi furono soprattutto le rovine archeologiche e<br />

l’architettura monumentale. Nel 1851 Eugéne Piot realizzò la prima parte del libro illustrato,<br />

Italia monumentale, che conteneva 225 immagini. Evrard stampò 180 calotipi<br />

per l’opera, in due volumi, di Auguste Salzmann intitolata Jerusalem, pubblicata tra il<br />

1855 e il 1856. Importante fu anche l’opera di Felix Teynard, assistente tecnico civile<br />

che senza l’apporto di archeologi realizzò in Egitto circa 160 fotografie di stampo<br />

archeologico tra il 1851 e il 1852.<br />

Nel 1854 il giovane archeologo inglese John Buckley Greene pubblicò un album con<br />

94 calotipi, dal titolo: Le Nil, Monuments, Paysages, Explorations Photographiques.<br />

Mentre sono all’origine di una larga diffusione iconografica i lavori del francese<br />

Félix Bonfils, che realizzò un sistematico censimento durato oltre dieci anni, ottenendo<br />

circa 500 negativi di paesi come l’Egitto, la Palestina, la Siria e la Grecia.<br />

Tra i calotipisti troviamo anche John Shaw Smith, che viaggiò per oltre due anni in<br />

Europa e nel Medio Oriente a partire dal 1850. Avvicinando molto l’apparecchio ai soggetti,<br />

Smith, otteneva una visione più dettagliata e precisa dei monumenti e per questo<br />

realizzò immagini tecnicamente superiori ai suoi colleghi viaggiatori. L’irlandese produsse<br />

circa trecento vedute di formato 22,8 x 17,8 su carta cerata.<br />

Alla calotipia si era dedicato anche Giacomo Caneva, uno dei grandi protagonisti<br />

dell’antica fotografia italiana. Nato a Padova nel 1813 e giunto a Roma nei primi mesi<br />

del 1847, fu tra i partecipanti, in gran parte stranieri, della Scuola romana di Fotografia.<br />

Questa associazione fotografica fu fondata prima del 1850 ed era animata da intellettuali<br />

e artisti che si riunivano al Caffè Greco dove svolsero un’importante opera di<br />

divulgazione a favore della calotipia e del mezzo fotografico. L’attività fotografica di<br />

Caneva, al di là della tecnica utilizzata, fu rivolta essenzialmente a riprendere elementi<br />

architettonici e testimonianze archeologiche (fig.4). Nel 1855 eseguì una serie di foto-<br />

6<br />

Ibidem, pp. 224-225.<br />

39


grafie, quasi un moderno reportage nella campagna romana, che insieme alla vicina<br />

Tivoli fu tra i suoi soggetti preferiti.<br />

“Il suo grande interesse per i dintorni di Roma è confermato dalla sua attività svolta<br />

a Tivoli che sembra, dopo Roma, essere la sua città prediletta. Fanno testimonianza<br />

le numerose vedute della città tiburtina che viene ripresa capillarmente anche nei suoi<br />

dintorni” 7 .<br />

Caneva realizzò anche una serie di vedute a Napoli, Pompei e Sorrento, interpretando<br />

monumenti e resti archeologici alla maniera dei pittori paesaggisti.<br />

L’introduzione del processo al collodio umido da parte di Frederick Scott Archer, nel<br />

1851, migliorò nel tono medio l’immagine e soprattutto permise di ottenere negativi con<br />

tempi d’esposizione più brevi, cambiando profondamente la fotografia.<br />

Fino al 1880 il collodio ebbe un assoluto predominio in ogni campo d’applicazione<br />

della fotografia. L’inglese Francis Frith, che viaggiò in Egitto, Nubia, Palestina e Siria<br />

tra il 1856 e il 1860, fu uno dei maggiori specialisti di vedute nel periodo del collodio.<br />

Il frutto dei suoi viaggi apparve in molti libri fotografici. Nel 1860 circa pubblicò uno<br />

tra i primi e più grandi libri illustrati fotograficamente, Egypt, Sinai and Jerusalem.<br />

Alle tematiche dell’antichità si appassionò anche Lodovico Tuminello, abile sperimentatore<br />

di tutti i processi fotografici. Tuminello, nato a Roma nel 1824, fu un precoce<br />

fotografo italiano, attivo già dal 1842 quando ancora si usava il dagherrotipo o la<br />

calotipia. Tuminello realizzò in ambito archeologico alcune tra le più importanti campagne<br />

fotografiche dell’epoca. Dopo una spedizione in Tunisia nel 1875, dove fotografò<br />

i luoghi più interessanti delle civiltà cartaginesi e romane, il fotografo si dedicò ai<br />

monumenti del Foro Romano, del Palatino e delle Terme di Caracalla. Sempre di questi<br />

anni sono le immagini degli scavi della Villa di Livia, di Ostia Antica e di Villa<br />

Adriana a Tivoli.<br />

Nel 1840 era giunto a Roma, da Edimburgo, Robert MacPherson, che amava perfezionare<br />

continuamente i procedimenti fotografici e che ottenne negli anni a seguire<br />

risultati eccellenti dal punto di vista tecnico. MacPherson iniziò i suoi lavori con il procedimento<br />

all’albume, ma nel 1856 passò a quello abbinato del collodio-albume, che<br />

permetteva di preparare le lastre in anticipo per svilupparle con maggiore calma in<br />

seguito. Tra le sue opere più importanti vanno segnalate oltre 300 fotografie di sculture<br />

ai Musei Vaticani.<br />

Questi artisti, ed altri non citati in questo breve excursus, hanno avuto un ruolo<br />

importante nella diffusione della prima categoria iconografica, composta da immagini<br />

a soggetto archeologico prodotte dal 1839 fino agli ultimi anni del XIX secolo e realizzate<br />

prevalentemente in Italia, Egitto e Medio Oriente.<br />

Una fotografia spesso definita “turistica” che però, all’epoca, aveva una definizione<br />

più nobile, veniva chiamata fotografia di “mondi lontani” o dei “Gran Tour”.<br />

Immagini paesaggistiche, panoramiche e monumentali, che non mettevano in luce i<br />

dettagli, fotografie non scientifiche, anche se la presenza di persone vicino ai monumenti,<br />

che animavano spesso le riprese, serviva come parametro per visualizzare le<br />

dimensioni dei monumenti, dimostrando altresì velleità scientifiche da parte degli autori.<br />

Una categoria iconografica che è una preziosa fonte storica del mondo antico ancora<br />

oggi utile per gli studi di comparazione nei vari ambiti scientifici.<br />

7<br />

BECCHETTI 1994, p. 20.<br />

40


La fotografia come supporto all’indagine archeologica apre alla seconda categoria<br />

iconografica che chiameremo dimostrativa. Queste immagini hanno come funzione principale<br />

quella di documentare in modo sistematico il lavoro di scavo e ricognizione. Una<br />

fotografia che non è più solo elemento di conoscenza, ma diventa anche strumento utile<br />

alla tutela del patrimonio.<br />

“A cavallo dei due secoli per merito di tre archeologi, John Henry Parker, Thomas<br />

Ashby e Esther B. Van Deman, si realizzano grandi archivi di fotografie archeologiche,<br />

che danno un’impronta notevole allo stile e all’utilizzazione del mezzo fotografico nell’ambito<br />

della ricerca archeologica” 8 .<br />

L’inglese John Henry Parker, pur non essendo un fotografo, utilizzò costantemente la<br />

fotografia per il suo lavoro e fu promotore di una delle campagne fotografiche più vaste<br />

nel periodo del collodio. Per realizzare il suo ambizioso progetto, che durò oltre un<br />

decennio, questo illustre studioso, utilizzò molti professionisti locali dell’epoca come:<br />

Filippo Spina, Francesco Sidoli, Filippo Lais, Giovanni Battista Colamedici e Carlo<br />

Baldassarre Simelli.<br />

Van Deman arrivò a Roma nel 1901 come studiosa presso l’American Academy e,<br />

salvo brevi intervalli, passò il resto della sua vita in Italia assistendo ad alcuni tra i<br />

maggiori avvenimenti archeologici dell’epoca: seguì in quegli anni gli scavi al Foro<br />

Romano diretti da Giacomo Boni, ottenendo il permesso di studiare in modo approfondito<br />

l’Atrium Vestae (fig. 5).<br />

“Dei primi venti anni della sua permanenza romana, Esther Van Deman ha lasciato<br />

un’impressionante e preziosa testimonianza in quasi 3.000 fotografie e negativi donati<br />

alla Accademia Americana […]” 9 .<br />

L’inglese Thomas Ashby utilizzò sistematicamente l’immagine fotografica come strumento<br />

durante i lavori di scavo; l’archeologo-fotografo fu nel 1906 il primo allievo della<br />

British School a Roma. Le sue fotografie ritraggono le fasi di lavoro in diverse aree<br />

archeologiche e costituiscono, probabilmente, la documentazione più attenta e dettagliata<br />

di quell’epoca. Ashby fotografò anche i primi scavi che furono eseguiti tra il 1899<br />

e il 1904 al Foro Romano sempre sotto la guida di Giacomo Boni.<br />

Le immagini di questa seconda categoria iconografica, che trova in Ashby il maggiore<br />

esponente, tentano, riuscendoci in parte, di liberarsi del tutto dal sentimentalismo<br />

pittorico e dall’esotico presente nella prima categoria. La loro funzione primaria, è quella<br />

di documentare in modo completo le attività lavorative e le strutture archeologiche<br />

nella loro globalità, sono documentazioni dettagliate, ma raramente entrano nel dettaglio<br />

dell’oggetto ripreso. Quasi tutte queste fotografie mantengono ampie inquadrature<br />

e quindi assolvono soltanto una funzione dimostrativa complessiva. In alcune immagini<br />

di queste collezioni, ancora oggi utili strumenti per la ricerca archeologica, si intravede,<br />

attraverso composizioni che eliminano gli elementi figurativi superflui e che presentano<br />

una prospettiva più naturale, il tentativo di spostare il risultato della ripresa su<br />

di una piano più scientifico, quello del tutto escluso nella prima categoria, ma che ritroviamo<br />

realmente presente nella terza categoria e che chiameremo di prova.<br />

Soltanto dopo la Seconda guerra mondiale la fotografia archeologica è divenuta prassi<br />

scientifica e negli anni a seguire sono stati definiti e messi a punto metodi di ripre-<br />

8<br />

NECCI 1992, p. 21.<br />

9<br />

FOTOGRAFIA ARCHEOLOGICA, pp. 14-15.<br />

41


sa fotografica, volti a garantire uno standard qualitativo che permette una lettura oggettiva<br />

anche a livello morfologico. La fotografia archeologica deve fornire oggettività ed<br />

essenzialità e deve rappresentare la realtà in funzione di un uso scientifico. Tutte le<br />

immagini, sia a livello di semplice documentazione, ricognizione, precatalogazione o<br />

catalogazione, sono realizzate per servire ad un’analisi scientifica e sono parte integrante<br />

del risultato finale dell’oggetto di studio.<br />

La documentazione di reperti, per esempio, deve fornire più informazioni possibili,<br />

evitare distorsioni e preferire inquadrature che consentano la migliore leggibilità. È<br />

necessario comporre la fotografia corredandola, in particolare, di riferimenti metrici per<br />

favorire l’analisi dei reperti anche tramite la sola immagine fotografica (fig. 6).<br />

Nel fotografare la statuaria, ci si deve attenere a regole precise: la scelta del punto<br />

di ripresa, che deve essere parallelo alla statua, e un’illuminazione calibrata, che permetta<br />

di visualizzare eventuali rilievi senza creare ombre eccessive. Per una statua intera,<br />

ove possibile, sono previste almeno quattro riprese: una frontale, una posteriore e<br />

due laterali, inoltre, lo stesso numero di riprese, vanno ripetute per la sola testa o in<br />

presenza di singole teste o di un singolo busto. È importante anche decontestualizzare<br />

la statua, isolandola da ciò che la circonda, con l’uso di fondali adeguati che garantiscono<br />

un buon rapporto figura-sfondo.<br />

Il criterio dell’oggettività deve essere vettore fondamentale in tutte le riprese inerenti<br />

monumenti, scavi, siti, elementi architettonici, opere d’arte, ritrovamenti subacquei;<br />

tutto ciò, in sintesi, che rientra in ambito archeologico. È necessario che ogni campagna<br />

fotografica, relativa per esempio a un sito o a un monumento archeologico, sia<br />

oggetto di una specifica progettazione. Si procede con una ricognizione preliminare per<br />

acquisire un quadro completo delle condizioni operative e stabilire tempi e modi delle<br />

attività di ripresa. Completata questa fase preparatoria si realizzeranno immagini generali,<br />

che illustrino l’oggetto della ripresa fotografica in rapporto all’ambiente che lo circonda.<br />

Il lavoro va sempre concordato con il responsabile scientifico che fornirà indicazioni<br />

sulle specifiche e diverse riprese da effettuare.<br />

C’è infine una quarta categoria, che chiameremo illustrativa, utilizzata soprattutto in<br />

campo editoriale e che possiamo ammirare in mostre, riviste, cataloghi e libri specializzati.<br />

Immagini dove le strutture del linguaggio fotografico sono motivate più dal<br />

mondo interiore del fotografo che da elementi realistici. Una fotografia poco praticata,<br />

ma che gratifica e libera i fotografi perché lascia spazio alla loro creatività.<br />

“Queste fotografie riguarderanno gli oggetti più belli trovati durante lo scavo o vedute<br />

d’insieme” 10 .<br />

In queste riprese l’operatore interpreta l’oggetto e attraverso un uso personale della<br />

luce e dell’inquadratura, può creare volumi, modificare la morfologia ed evidenziare dei<br />

particolari piuttosto che altri (fig. 7).<br />

Immagini dove l’indice della fotografia oscilla tra ciò che sta al di là del visibile e<br />

ciò che è materia, generando così un significato secondo.<br />

Solo per fare un esempio di fotografia che rientra in questa quarta categoria iconografica,<br />

ci piace ricordare la poetica di Mimmo Jodice e nello specifico le immagini realizzate<br />

al Museo Nazionale di Napoli nel 1982.<br />

10<br />

CHÉNÉ - EOLIOT-RÉVEILLAC 1999, p. 14.<br />

42


“La fotografia di Jodice prende atto della contraddizione tra occhio e sguardo, tra<br />

apparenza e altro dall’apparenza e della necessità di tener conto di entrambi i termini<br />

del binomio” 11 .<br />

In questa categoria la fotografia esercita su un piano estetico, ed è usata come mezzo<br />

di comunicazione e non come mezzo di riproduzione, le immagini prodotte mostrano un<br />

vigore espressivo che non può essere presente in una fotografia che deve mantenere<br />

oggettività scientifica.<br />

Le quattro categorie iconografiche prese in esame, conoscitiva, dimostrativa, di<br />

prova e illustrativa, possono fondersi tra loro e presentano tutte un elemento comune:<br />

sono composte da fotografie utili allo studio nell’ ambito della ricerca archeologica.<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

BECCHETTI 1994<br />

P. BECCHETTI, L’opera fotografica di Giacomo Caneva, di Lodovico Tuminello e di John Henry<br />

Parker in un prestigioso fondo romano, in S. ROMANO (a cura di), L’immagine di Roma 1848-<br />

1895. La città, l’archeologia, il medioevo nei calotipi del fondo Tuminello. Catalogo della collezione<br />

di Piero Becchetti, Napoli, pp. 17-31<br />

CHÉNÉ- FOLIOT – RÉVEILLAC 1999<br />

A. CHÉNÉ, P. FOLIOT, G. RÉVEILLAC, La fotografia in archeologia, Milano<br />

FOTOGRAFIA ARCHEOLOGICA<br />

K. BULL-SIMONSEN EINAUDI (a cura di), Fotografia archeologica 1865-1914, catalogo della<br />

mostra (Accademia Americana a Roma, 5-26 febbraio 1979), Roma<br />

GERNSHEIM 1981<br />

H. GERNSHEIM, Storia della fotografia, le origini, Milano<br />

MADESANI 2005<br />

A. MADESANI, Storia della fotografia, Milano<br />

MENNA 1983<br />

F. MENNA, Tra occhio e sguardo, in Mimmo Jodice, “I grandi fotografi” II, p. 5<br />

NECCI 1992<br />

M. NECCI, La fotografia archeologica, Roma<br />

NEWHALL 1984<br />

B. NEWHALL, Storia della Fotografia, Torino<br />

11<br />

MENNA 1983, p. 5.<br />

43


CHIESE RURALI E CENTRI FORTIFICATI: STUDIO PRELIMINARE SULLE<br />

STRUTTURE INSEDIATIVE DEL TERRITORIO<br />

DI FARNESE IN EPOCA MEDIEVALE *<br />

Luciano Frazzoni<br />

Nel territorio del comune di Farnese sono presenti numerosi edifici religiosi di<br />

epoca medievale, attualmente diruti o abbandonati. Lo studio di tali strutture è, allo<br />

stato attuale, ancora a livello preliminare, sia per la scarsità di fonti documentali che<br />

per la mancanza di indagini archeologiche approfondite 1 . In questa sede se ne traccerà<br />

comunque una breve panoramica, tentando anche di offrire alcuni spunti sull’organizzazione<br />

delle strutture insediative durante questo periodo (figg. 1-2).<br />

I documenti<br />

In epoca medievale questo territorio faceva parte della diocesi di Castro, dopo il trasferimento<br />

della sede episcopale da Vulci 2 . Come riportato dal Kehr e dal Petrucci 3 , i<br />

documenti relativi alla diocesi castrense sono in gran parte andati perduti. Disponiamo<br />

pertanto di pochissime fonti scritte per poter identificare molti dei centri religiosi che<br />

ne facevano parte. Uno dei documenti più importanti è una bolla di Leone IX al vescovo<br />

di Castro Ottone del 14 aprile 1053, nota però da un transunto di Paolo II del 14<br />

novembre 1465 4 , nella quale vengono elencati i beni della diocesi.<br />

Altra fonte è un diploma di infeudazione rilasciato dall’imperatore Ottone IV nel<br />

1210 a Ildebrandino Aldobrandeschi, conservato presso l’Archivio di Stato di Siena, nel<br />

quale vengono confermate le terre con i castelli appartenute precedentemente al conte<br />

∗ Il presente contributo prende spunto dallo scavo condotto da Mauro Incitti presso la chiesa di San<br />

Pantaleo, realizzato in collaborazione con il Museo Civico “Ferrante Rittatore Vonwiller”, la<br />

Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria meridionale, la Riserva Naturale Selva del<br />

Lamone, il Comune di Farnese e il Gruppo Archeologico Romano. A tutti va la mia gratitudine.<br />

Desidero ringraziare in particolare il dott. G. Gazzetti, il dott. G .A.Baragliu la dott.ssa G.Vatta.<br />

Ringrazio il dott. M. Germani per il prezioso aiuto nella realizzazione del rilievo della chiesa di San<br />

Pantaleo. Questo studio non sarebbe stato possibile senza le fondamentali ricerche condotte da Mauro<br />

Incitti sul territorio.<br />

1<br />

Gli unici edifici oggetto di scavo sono la chiesa dell’abitato di Castiglione e quella di San Pantaleo,<br />

anche se le indagini archeologiche richiederebbero ulteriori approfondimenti. Si veda ultra.<br />

2<br />

ITALIA PONTIFICIA, p. 217; per la questione del trasferimento della diocesi da Vulci a Castro si veda<br />

quanto detto in questo stesso volume da Incitti, appendice 1, nota 2. Benchè le chiese presenti nei<br />

castelli di Sala e Castiglione non figurino nelle Rationes Decimarum, è da ritenere che anch’esse fossero<br />

comprese nella diocesi di Castro; cfr. BIONDI 1984, p. 7, nota 26.<br />

3<br />

PETRUCCI 1984, p. 912.<br />

4<br />

KEHR 1901, pp.144-146; KEHR 1977, II, p. 326, n. 4; per uno stralcio del documento si veda ultra<br />

appendice 2. Tale documento ha, tra l’altro, permesso di identificare la chiesa di San Pantaleo, di cui<br />

parleremo in seguito. Si veda ultra e quanto riportato da Mauro Incitti, in appendice 1.<br />

44


Ranieri di Bartolomeo 5 , sottomesse nel 1168 al Comune di Orvieto e passate già nel<br />

1203 agli Aldobrandeschi; tale feudo, chiamato “Terra Guiniccesca”, comprendeva un<br />

vasto territorio posto lungo gli affluenti del fiume Fiora (cioè il Lente, la Nova, l’Olpeta<br />

e l’Arsa), tra l’alto <strong>Lazio</strong> e la Toscana, e del quale facevano parte Pitigliano, Sorano,<br />

Vitozza, Sala, Ischia, Farnese, Castiglione, Petrella, Morrano e Castellarsa 6 .<br />

CASTIGLIONE – SORGENTI DELLA NOVA<br />

Il dott. Baragliu ha definitivamente identificato Castiglione con l’insediamento di<br />

Sorgenti della Nova 7 , contrariamente a quanto ritenuto da altri studiosi, che lo identificavano<br />

nel castello di Citignano 8 . Il sito, già abitato nell’età del Bronzo finale 9 , in epoca<br />

medievale era costituito da strutture abitative in grotta – che sfruttavano in parte le abitazioni<br />

protostoriche - e in elevato 10 , una chiesa, un castello, del quale si conserva soltanto<br />

la torre principale, e un fossato con la porta d’accesso (fig. 3).<br />

La chiesa<br />

La chiesa, della quale non conosciamo il titolo, è stata oggetto di scavi condotti dall’<br />

Università di Göttingen 11 negli anni ’80 del secolo scorso. L’edificio presenta una pianta<br />

a navata unica terminante in un abside, con la scala d’ingresso (fig. 4) costituita da<br />

otto gradini di tufo e nenfro 12 . Misura m 20 x 8 (rapporto circa 1:3) ed è orientato estovest,<br />

con l’abside rivolta ad est.<br />

La fase più antica dell’edificio, databile forse tra l’ XI e la metà del XII secolo, presenta<br />

una struttura costituita da due paramenti di blocchi squadrati di tufo grigio-rosato<br />

con un riempimento interno di scaglie 13 , cui successivamente furono addossati - probabilmente<br />

nell’ambito del XIII secolo – muri di rinforzo costituiti da blocchi squadrati di tufo<br />

giallo sulla fronte e un muro a scarpa sul lato sud. A questa seconda fase appartengono<br />

anche la scalinata d’accesso e la pavimentazione in blocchi regolari, con la sopraelevazione<br />

della zona presbiteriale, dove è rilevabile l’uso dello stesso tufo giallo.<br />

5<br />

SILVESTRELLI 1970, p. 806; per uno studio approfondito sulla Terra Guiniccesca si veda soprattutto<br />

BIONDI 1984, che riporta in appendice il diploma di Ottone IV.<br />

6<br />

Sala e Castiglione, insieme a Valentano, Latera, Farnese, Capodimonte, Mezzano, Cellere e<br />

Pianiano, divenuti successivamente di proprietà della famiglia Farnese, il 1 aprile 1416 vengono sottomessi<br />

a Siena da Ranuccio Farnese per conto anche di suo padre Pietro e dello zio Pietro Bertoldo.<br />

Nel testamento di Ranuccio Farnese del 1450 egli destina al fratello Meo, insieme ad altre terre, le<br />

tenute di Castiglione e Sala.<br />

7<br />

BARAGLIU 1993; il sito era già stato identificato dal Biondi, il quale riporta tra l’altro che un fosso<br />

vicino all’insediamento è chiamato “fosso di Castiglione”: BIONDI 1984, p. 6, nota 15<br />

8<br />

POLLMANN 1986; POLLMANN 1989<br />

9<br />

NEGRONI CATACCHIO 1981; SORGENTI DELLA NOVA 2007<br />

10<br />

GARDNER MC TAGGART 1984; GARDNER MC TAGGART – GESCHWINDE – POLLMANN 1985; POLLMANN<br />

1986; POLLMANN 1989<br />

11<br />

GARDNER MC TAGGART – GESCHWINDE – POLLMANN 1985; POLLMANN 1989; SORGENTI DELLA NOVA 2007<br />

12<br />

L’aula è separata dal presbiterio da una barriera con un passaggio largo 80 cm, in allineamento con<br />

il portale d’ingresso; nell’ angolo nord è il fonte battesimale, purtroppo in cattivo stato di conservazione.<br />

I piani pavimentali dell’aula, del presbiterio e dell’abside si trovano a livelli differenti, come<br />

si riscontra nella chiesa di San Pantaleo. Per una descrizione dettagliata si rimanda da ultimo a<br />

SORGENTI DELLA NOVA 2007, pp. 116-119<br />

13<br />

Lo stesso tipo di paramento si riscontra nell’abside della chiesa di San Pantaleo; si veda ultra<br />

45


Davanti alla scala sono state scavate sei tombe a fossa 14 , mentre dietro l’abside è<br />

stata rinvenuta una grande fossa-ossario scavata nel banco di tufo per circa un metro e<br />

mezzo e ricoperta da lastre di pietra, di forma quadrangolare 15 . L’utilizzo dell’ossario<br />

sembra essere collocabile tra il XIII e il XIV secolo.<br />

In base allo studio dei materiali ceramici rinvenuti nel corso degli scavi, si può supporre<br />

che l’abitato, e con esso la chiesa, sia stato abbandonato nella seconda metà del<br />

XIV secolo, forse a causa di alcuni eventi traumatici, di cui la fossa-ossario sembra<br />

costituire la testimonianza 16 .<br />

SANTA MARIA DI SALA<br />

Il sito di Sala, localizzato in prossimità del fiume Olpeta al margine della Selva del<br />

Lamone, presenta un complesso di evidenze archeologiche comprendenti una necropoli<br />

etrusca, una villa rustica di epoca romana, e un abitato medievale con un castello, un<br />

ponte e la chiesa di Santa Maria 17 . Il toponimo denuncia l’origine longobarda del sito;<br />

il termine “Sala” indica infatti la struttura politico-amministrativa longobarda della piccola<br />

proprietà terriera, dove si raccoglievano i tributi 18 .<br />

Il Castello di Sala 19 , come si è detto, faceva parte dei territori posseduti originaria-<br />

14<br />

Per le tombe a fossa rinvenute davanti alla scala di accesso, si veda da ultimo SORGENTI DELLA NOVA<br />

2007, pp. 118-119<br />

15<br />

Ibidem; i crani rinvenuti nella fossa-ossario appartengono a circa 250 individui, prevalentemente<br />

donne, vecchi e bambini; alcuni di questi presentano tracce di meningite, il che fa supporre che in<br />

un determinato momento della vita dell’abitato, fosse in atto una guerra (data l’assenza di uomini<br />

adulti) e una epidemia. Per lo studio osteologico e delle patologie si veda TEEGEN- KREUTZ- SCHULTZ<br />

1999<br />

16<br />

Per lo studio dei materiali si veda FRAZZONI-VATTA 1994, p. 83; anche se eventi traumatici come<br />

una guerra e un’epidemia forse non sono sufficienti a spiegare il totale abbandono dell’abitato; si veda<br />

a tal proposito KLAPISCH-ZUBER 1973, pp. 315-316. E’ probabile che, come per gli altri centri rurali<br />

oggetto di questo studio, intorno alla metà del XIV secolo sia prevalsa la tendenza a raggruppare<br />

gli abitanti in un unico abitato, dove vennero concentrandosi anche le funzioni amministrative e militari,<br />

secondo un fenomeno abbastanza diffuso ad esempio in Toscana tra XIII e XIV secolo; ibidem,<br />

pp. 326-327.<br />

17<br />

Il materiale raccolto durante le ricognizioni effettuate sul sito dal Gruppo Archeologico Romano, e<br />

più di recente dallo scrivente insieme al dott. Baragliu e alla dott.ssa Vatta, ha permesso di stabilire<br />

una continuità di vita per quanto riguarda l’insediamento di età romana dal periodo tardo-repubblicano<br />

al II-III secolo d.C. Si veda a tal proposito CERASUOLO-PULCINELLI 2009, p. 410, n. 46. Le tombe<br />

rupestri di epoca etrusca sono state riutilizzate in epoca medievale e probabilmente anche successivamente<br />

come stalle, forse in funzione dell’insediamento cistercense della chiesa di S. Maria di Sala.<br />

18<br />

CONTI 1980, pp. 86-87, in part. nota 52 per il termine longobardo Sala; PELLEGRINI 1990, p. 272-<br />

273.; NARCISI 1994, p. 64. Nel territorio di Farnese sono presenti diversi toponimi che testimoniano<br />

la presenza longobarda: Salabrone, Poggio Salone, Valderico, Poggio del Gaggio (dal termine gahagi,<br />

recinto, luogo o bosco recintato; si veda MASTRELLI 1978, p. 42; PELLEGRINI 1990, p. 274) e Fontanile<br />

di Pantalla (halla; si veda MASTRELLI 1978, p. 38). E’ probabile che l’occupazione longobarda della<br />

zona sia da collocare tra il 597, anno in cui si ha notizia dell’assedio longobardo di Sovana, ed il 607,<br />

quando dopo un breve periodo di rioccupazione bizantina, Agilulfo occupa Orvieto, Bagnoregio (605)<br />

e probabilmente l’area castrense; INCITTI 2002a, p. 368.<br />

19<br />

Il Silvestrelli identifica il castello di Sala, citato nel Codice Diplomatico Orvietano, con i ruderi presenti<br />

tra Farnese e il Voltone, invece di un altro castello situato vicino Ficulle presso Orvieto:<br />

SILVESTRELLI 1970, p. 820<br />

46


mente dal conte Ranieri di Bartolomeo e divenuti, prima del 1203, proprietà dei conti<br />

Aldobrandeschi 20 .<br />

La prima notizia riguardante la chiesa di Santa Maria di Sala risale al 1189, quando<br />

vi si insediano i monaci Cistercensi dell’abbazia di Staffarda in Piemonte, chiamati<br />

dal vescovo di Castro 21 , per far prendere sviluppo alla piccola comunità monastica qui<br />

già presente (fig. 5). Benchè manchino notizie prima di questa data, la chiesa è stata in<br />

via ipotetica identificata con la Sala citata nel Privilegio di Leone IV della metà del IX<br />

secolo, dove vengono specificati i beni e i confini della diocesi di Tuscania.<br />

Le caratteristiche architettoniche dell’edificio fanno pensare all’opera di maestranze<br />

romaniche senesi, con influenze lombarde, databile alla metà del XII secolo, piuttosto<br />

che all’architettura cistercense. E’ probabile che a Sala esistesse già una chiesa<br />

prima dell’arrivo dei Cistercensi, e che questi ultimi non ne abbiano costruita una<br />

nuova dopo il 1189 22 .<br />

SAN PANTALEO<br />

L’edificio è stato scavato nel settembre del 2003 da Mauro Incitti in collaborazione<br />

con la Soprintendenza dei Beni Archeologici dell’Etruria meridionale, il museo di<br />

Farnese e la riserva Naturale Selva del Lamone 23 . La chiesa si trova in prossimità della<br />

località i Casali, non lontano da una vasta radura chiamata Campo della Villa, dove è<br />

segnalata la presenza anche di una villa rustica di epoca romana e di un abitato fortificato<br />

medievale. Campo della Villa compare in un atto di donazione al convento di S.<br />

Colombano 24 da parte dei proprietari Gerardo ed Ermengarda del 1030, dove però non<br />

viene citata la cappella di San Pantaleo, che si trova menzionata invece nel privilegio<br />

di Leone IX del 1053 al vescovo di Castro Ottone 25 . Quest’ultimo documento, insieme<br />

al toponimo “casale di San Pantaleo” ancora in uso presso i contadini fino a pochi<br />

decenni or sono per questa zona, ha permesso a Mauro Incitti di identificare la chiesa<br />

(citata nel documento come capellam) con il titolo di San Pantaleo. Dallo scavo è emerso<br />

scarso materiale ceramico compreso tra il X e la prima metà del XIV secolo, che<br />

non consente di proporre una datazione precisa, ma dai confronti con gli altri edifici<br />

chiesastici presenti nel territorio, si può collocare la chiesa nell’XI-XII secolo 26 .<br />

Secondo Incitti la cappella di S. Pantaleo venne eretta negli anni compresi tra l’atto di<br />

donazione di Campo della Villa a S. Colombano del 1030 27 e la redazione del privilegio<br />

20<br />

BIONDI 1984, p. 8<br />

21<br />

Per le notizie storiche e la descrizione della chiesa si rimanda a NARCISI 1994; per alcuni esempi<br />

sulle tecniche murarie romaniche, con le quali si possono istituire confronti con la chiesa di S.Maria<br />

di Sala si veda CITTER 1996, pp. 159-161<br />

22<br />

NARCISI 1994, p. 66: il motivo della ghiera circolare, presente a S.Maria di Sala, trova infatti riscontro<br />

nelle pievi di Rapolano e Sarteano e soprattutto nel duomo di Sovana, quest’ultimo della metà del<br />

XII secolo.<br />

23<br />

Si veda la relazione di scavo di M. Incitti, in appendice 1.<br />

24<br />

Il convento benedettino di S.Colombano si trovava nel territorio di Castro presso il fiume Fiora,<br />

come riportato in ITALIA PONTIFICIA, 2, p. 218. Del convento non rimangono attualmente tracce.<br />

25<br />

KEHR 1901, pp. 144-146; KEHR 1977, p. 326, n. 4; si veda a tal proposito PETRUCCI 1984, p. 911,<br />

nota 43.<br />

26<br />

Si veda quanto detto per la chiesa di Castiglione.<br />

27<br />

GATTOLA 1733, pp. 417-418; si veda quanto detto da Incitti, appendice 1.<br />

47


di Leone IX del 1053. Si tratta anche in questo caso di una chiesa ad aula unica, con<br />

abside, realizzata in blocchi squadrati di tufo nella zona dell’abside e da muri costruiti<br />

in modo irregolare con ciottoli e pietra lavica del Lamone per la parte della navata (fig.<br />

6). La struttura misura m 10 x 5,70, con un rapporto tra lati lunghi e quelli corti in questo<br />

caso di 1:2 circa. All’interno presenta una divisione degli spazi: la navata è separata<br />

dal presbiterio da una balaustra costituita da una doppia fila di blocchi di tufo disposti<br />

di taglio con un riempimento di scaglie e da alcuni gradini; un muro in blocchi di tufo,<br />

del quale si conserva soltanto la parte sul lato est, separa anche il presbiterio dall’abside<br />

(figg. 7-8). Il piano pavimentale, posto su tre livelli differenti, è costituito da grosse<br />

scaglie irregolari di arenaria per la navata, e da blocchi squadrati di tufo disposti in modo<br />

irregolare per il presbiterio, mentre l’abside era forse pavimentato con lastre irregolari di<br />

travertino 28 . Ulteriori scavi potrebbero accertare se, come ipotizzato da Incitti, accanto<br />

alla chiesa vi fossero anche altri ambienti, forse la sacrestia o una foresteria.<br />

CHIUSA DEL TEMPIO<br />

Nel 1880 l’Helbig eseguì dei saggi di scavo in un altipiano in località Voltoncino o<br />

Chiusa del Tempio, dove già nel 1856 Campanari aveva supposto, sulla base del toponimo<br />

Voltone, dovesse trovarsi il famoso Fanum Voltumnae 29 . Il sito si trovava infatti<br />

nella tenuta del Voltone, fattoria di proprietà del principe Torlonia, a circa un chilometro<br />

di distanza da questa. Helbig riferisce di aver trovato dei frammenti di crustae in<br />

porfido rosso e, alla profondità di meno di un metro, un muro, che lui identifica come<br />

sostruzione del supposto tempio del Fanum Voltumnae, realizzato in blocchi squadrati<br />

di “murcio”, probabilmente la pietra vulcanica del Lamone, unita ad abbondante malta.<br />

Inoltre riferisce di aver trovato un frammento di rilievo arcaico in nenfro raffigurante<br />

una pantera o un leone, che già risulta perduto, secondo quanto riferisce Pellegrini, nel<br />

1898 30 . Oltre al toponimo Chiusa del Tempio e Fosso del Tempio con il quale viene<br />

denominato un torrente lì vicino, Helbig adduce a sostegno della sua tesi per l’identificazione<br />

del santuario etrusco la presenza di assi stradali antichi che conducevano<br />

verso l’altipiano, e che secondo il suo accompagnatore, tal Marcelliani, erano visibili in<br />

numero maggiore prima che il territorio fosse coperto da colture per ordine del principe<br />

Torlonia. Helbig comunque, per la presenza del porfido che riporterebbe ad epoca<br />

romana, non arrischia nella sua identificazione. Nel 1898 furono eseguiti sullo stesso<br />

luogo altri saggi ad opera di Luigi Milani direttore del museo di Firenze, proseguiti da<br />

Pellegrini, durante i quali fu rinvenuto l’angolo di un edificio, identificato come cristiano,<br />

realizzato in blocchi di tufo e pietra vulcanica con spessi strati di malta mista a<br />

frammenti di tegole e mattoni 31 . In realtà Pellegrini trovò la prosecuzione del muro rinvenuto<br />

da Helbig, che formava un angolo con un altro muro. All’esterno del lato lungo<br />

furono rinvenute due tombe a cassone formate da lastroni in nenfro, una delle quali<br />

28<br />

Numerose le analogie con la chiesa di Castiglione: a parte il rapporto tra lato lungo e lato breve (1:3<br />

nel caso di Castiglione), i due edifici presentano lo stesso orientamento in senso nord-est/sud-ovest e<br />

i piani pavimentali dei diversi ambienti posti a livelli differenti.<br />

29<br />

HELBIG 1880, pp. 242-247; si veda anche il contributo di L.Pulcinelli in questo stesso volume.<br />

30<br />

PELLEGRINI 1898<br />

31<br />

Ibidem<br />

48


aveva il fondo costituito da un altro lastrone con incisa una croce greca patente 32 (fig.<br />

9). Secondo Pellegrini le due tombe e il muro sono contemporanei o quasi; da quanto è<br />

possibile dedurre osservando il disegno eseguito durante gli scavi, è ipotizzabile invece<br />

che le sepolture siano posteriori. Si può supporre che la tomba posta più a nord si<br />

appoggiasse al muro 33 , e che la deposizione con la croce greca abbia tagliato in parte la<br />

struttura muraria. Le tombe erano state già depredate in antico, poiché contenevano soltanto<br />

pochi frammenti di ossa, oltre a frammenti di cipollino e marmo bianco e un lacerto<br />

di pavimento in travertino, che Pellegrini ritiene essere stati riutilizzati da edifici<br />

romani. Ritenendo inutile proseguire le indagini perché l’edificio rinvenuto non era<br />

chiaramente identificabile con il Fanum Voltumnae, lo scavo fu sospeso.<br />

Dalla pianta e dal prospetto dell’edificio eseguito durante gli scavi, si può ritenere<br />

che si tratti anche in questo caso di una chiesa a navata unica forse absidata, databile<br />

tra l’XI e il XIII secolo 34 .<br />

VALDERICO - PIAN DI LANCINO<br />

Il toponimo Valderico denuncia chiaramente una origine germanica; il termine wald<br />

significa originariamente bosco o brughiera; in seguito viene usato per indicare un insieme<br />

di terreni coltivati o incolti, con o senza alberi, o anche terra del fisco, che costituisce una<br />

unità amministrativa concessa in usufrutto a una comunità, a un ente ecclesiastico o a un<br />

dignitario 35 . Il termine Valderico può essere così tradotto come “Signore del Bosco”, e probabilmente<br />

deriva dall’indicazione del proprietario del terreno o del fundus.<br />

Nel sito si conservano i resti di una fattoria e una necropoli di epoca romana, di un<br />

abitato fortificato e di una piccola chiesa con tombe di epoca medievale (figg.10-11). I<br />

frammenti ceramici affioranti dal terreno indicano un’occupazione dell’insediamento in<br />

particolare tra il IX ed il XII secolo 36 .<br />

32<br />

Ibidem, p. 61; fig. 1<br />

33<br />

Come sembra dedursi dalla pianta e soprattutto dal prospetto del muro, eseguito dopo che la tomba<br />

era stata rimossa, il quale non presenta tracce di tagli o sconvolgimenti; si veda fig. 13.<br />

34<br />

Ibidem; Pellegrini riferisce inoltre che a fior di terra si rinvennero anche moltissime sepolture terragne<br />

senza corredo, che attribuisce ai soldati morti nella battaglia del 23 ottobre 1643 avvenuta<br />

presso Pitigliano tra le truppe Barberini e quelle toscane, e della quale esiste una relazione a stampa<br />

nella biblioteca di Pitigliano. E’ invece probabile che le numerose ossa rinvenute siano pertinenti<br />

a inumazioni di epoca precedente. Altri cadaveri riferiti alla stessa battaglia vennero rinvenuti in<br />

un casale vicino denominato La Sconfitta. Si veda a tal proposito il contributo di Pulcinelli in questo<br />

volume. In località Ripantone, Pian di Lance e Fontanile di Valderico Pellegrini rinvenne altre sepolture<br />

a lastroni e a cappuccina, mentre riferisce che un contadino rinvenne a Fontanile di Valderico<br />

molti ex voto in terracotta, e a pian di Lance una lancia in ferro a foglia d’alloro. Tale punta di lancia<br />

fu donata al parroco di Farnese don Tommaso Bigelli, il quale a sua volta la donò al collegio francese<br />

di San Giuseppe a Roma; ibidem, p. 63; notizie riportate anche in BIANCHI BANDINELLI 1929, p. 16;<br />

ANSELMI 1992, p. 585. Di tale reperto non si ha attualmente notizia, sarebbe interessante effettuare<br />

una ricerca presso il suddetto collegio di San Giuseppe. L’edificio chiesastico scavato da Pellegrini<br />

venne individuato durante le ricognizioni effettuate dal Gruppo Archeologico Romano nel 1998 tra i<br />

casali del Voltoncino e della Cantinaccia, purtroppo interamente distrutto dai lavori agricoli; si veda<br />

quanto riportato nel contributo di Pulcinelli in questo stesso volume, nota 45.<br />

35<br />

PELLEGRINI 1990, p. 276<br />

36<br />

Si veda quanto riportato nel contributo di Pulcinelli in questo stesso volume, in part. nota 45<br />

49


LA BOTTE<br />

In località La Botte, è stata individuata in seguito a ricognizione la presenza di un’altra<br />

chiesa (fig. 12), nel luogo dove sono visibili anche tracce di una villa rustica di epoca<br />

romana, e alcune lastre di travertino forse riferibili ad una necropoli medievale. Allo<br />

stato attuale, l’edificio religioso sembra appartenere anch’esso al tipo a navata unica con<br />

abside, secondo l’impianto tipico delle chiese rurali fin qui esaminate. Ulteriori indagini<br />

potranno chiarire meglio sia le caratteristiche del sito che la sua cronologia.<br />

TIPOLOGIA DELLE CHIESE<br />

Il tipo di pianta adottato per tutti gli edifici presi in esame è quello a navata unica<br />

con abside semicircolare, con rapporto tra lati brevi e lati lunghi di 1:2 (San Pantaleo)<br />

o 1:3 (Santa Maria di Sala, chiesa di Castiglione). Questo modello è prevalente anche<br />

nelle chiese medievali presenti nella provincia di Grosseto, che presentano spesso lo<br />

stesso orientamento 37 . L’impianto è quello romanico, che soprattutto nella Maremma ha<br />

conosciuto un notevole fervore edilizio tra l’XI e il XIII secolo 38 , ad opera di maestranze<br />

senesi.<br />

Tali edifici chiesastici, secondo un fenomeno abbastanza diffuso nella Tuscia e<br />

nella Bassa Toscana, si impiantano sui centri romani, costituiti da ville rustiche e vici,<br />

svolgendo una funzione di aggregazione delle popolazioni rurali e di controllo del territorio<br />

nel passaggio tra il periodo tardo antico e il medioevo 39 , con un incremento a partire<br />

dai secoli dopo il Mille, in concomitanza con la riorganizzazione del territorio da<br />

parte della Chiesa.<br />

La caratteristica delle chiese presenti nel territorio di Farnese, è inoltre quella di trovarsi<br />

tutte nei pressi di castelli o abitati fortificati. Come osservato dal Petrucci, il fenomeno<br />

dell’incastellamento ha determinato un adattamento delle circoscrizioni plebane al<br />

nuovo tipo di habitat, determinando l’abbandono dei siti di pianura o la nascita di nuovi<br />

abitati presso siti fortificati in alture meglio difendibili, con la conseguente edificazione<br />

37<br />

CITTER 1996, pp. 139-141; si vedano in particolare i grafici alle pp. 140-141. Lo stesso orientamento<br />

in senso nord-est/sud-ovest si riscontra nella chiesa di San Biagio di Gravilona e nella pieve<br />

di San Lorenzo; ibidem, p. 58; p. 61<br />

38<br />

Ibidem, p. 140<br />

39<br />

Tale fenomeno di rioccupazione del territorio comincia già in epoca altomedievale, come risulta da<br />

alcuni esempi nella Tuscia: emblematico, per il territorio castrense, quello della Selvicciola, dove<br />

nell’area della villa romana si insedia una necropoli longobarda e un edificio religioso a unica navata<br />

con abside semicircolare; per la villa si vedano TOIATI-PONTACOLONE 1985; GAZZETTI 1994;<br />

GAZZETTI 1995; GAZZETTI 1997; GAZZETTI 2009 e i contributi di G.Gazzetti e G.Ghini in questo stesso<br />

volume; per la necropoli longobarda INCITTI 1992; INCITTI 2002b. Altro esempio è fornito da Mola<br />

di Monte Gelato, presso Nepi, per cui si veda POTTER 1993. E’ probabile che, come nel caso delle<br />

chiese presenti nel territorio di Farnese, le profonde ristrutturazioni romaniche abbiano compromesso<br />

o obliterato le fasi altomedievali delle pievi, che dovevano impiantarsi direttamente sui livelli<br />

d’uso romani; si veda a tal proposito CITTER 1996, p. 146; CIAMPOLTRINI 1995, secondo il quale “…le<br />

pievi sembrano formarsi su edifici residenziali e produttivi di evidente carattere privato, sopravvissuti<br />

alla crisi della media età imperiale, e rimasti – o divenuti – nella Tarda Antichità punti di riferimento<br />

soprattutto della vita economica del territorio…”; secondo lo studioso “…la rete delle pievi<br />

altomedievali parrebbe ereditare il sistema di insediamento produttivo rurale tardoantico, imperniato<br />

su una serie di impianti “centrali” – definibili con termine lato ville – e insediamenti sparsi, spesso<br />

modeste capanne…”, ibidem, p. 561.<br />

50


di chiese 40 . Infatti, benché le fonti documentarie siano scarse per avere indicazioni precise<br />

sull’incastellamento, i castra esercitano un potente impulso aggregativo nelle popolazioni<br />

rurali, e assumono una crescente importanza come centri di organizzazione economica<br />

e di inquadramento civile. Questo modello di organizzazione territoriale si rivela il<br />

più idoneo anche per l’organizzazione della cura delle anime, determinando una profonda<br />

ristrutturazione delle antiche circoscrizioni plebane. Anche se nel privilegio rilasciato<br />

da Leone IX al vescovo Ottone di Castro il 14 aprile 1053 41 la diocesi di Castro è percepita<br />

ancora come un aggregato di pievi rurali e l’organizzazione ecclesiastica minore era<br />

ancora strutturata secondo il sistema plebano, dal documento si evince che alcuni castelli<br />

erano sorti attorno o presso un’antica pieve 42 . Tali castelli e i loro territori vennero assunti<br />

come i nuovi ambiti di inquadramento dei fedeli, in sostituzione dell’antica circoscrizione<br />

plebana rurale, superata dal nuovo tipo di insediamento umano e di organizzazione<br />

sociale, civile ed economico, senza però per questo distruggere la struttura religiosa di<br />

base di tipo plebano. Questa modificazione delle antiche circoscrizioni plebane apportata<br />

dall’incastellamento risulta chiaramente nel XIII secolo dalle Rationes Decimarum,<br />

dove le riscossioni non avvengono più da parte dei collettori pontifici secondo gli antichi<br />

pivieri, ma per singole chiese facenti capo ai castelli e attraverso le persone ad esse addette<br />

(arcipreti, rettori, preti, cappellani). 43<br />

Nell’ambito del territorio di Farnese si può riscontrare un’occupazione a partire dall’epoca<br />

romana secondo la sequenza villa o vicus – necropoli - chiesa, quest’ultima da<br />

considerare spesso come pieve rurale (plebs), luogo di culto a carattere presbiteriale<br />

dove si svolgevano le principali funzioni per il contado, come il battesimo 44 , la cresima<br />

e la messa di Pasqua, facente riferimento ad un abitato fortificato e/o un castello. Dalla<br />

scarsa documentazione sembrerebbe invece da escludere in questo ambito un sistema<br />

di occupazione di tipo curtense, anche se nel privilegio di Leone IX vengono citate<br />

almeno due curtes 45 .<br />

40<br />

PETRUCCI 1984, p. 907; pp. 910-911; secondo lo studioso nel <strong>Lazio</strong> settentrionale si sarebbe verificato<br />

lo stesso fenomeno dell’incastellamento, rilevato per la Sabina e il <strong>Lazio</strong> meridionale dal<br />

Toubert (TOUBERT 1973; si veda quanto detto da Incitti in questo stesso volume, appendice 1, nota<br />

9). Come sottolineato giustamente dal Petrucci, tale fenomeno andrebbe letto anche da un altro punto<br />

di vista, verificando cioè se l’esistenza di una pieve abbia condizionato la scelta di un determinato<br />

sito per la creazione di un castello: PETRUCCI 1984, p. 907.<br />

41<br />

Si veda il documento in appendice 2; nel privilegio, per indicare molti dei luoghi pertinenti alla<br />

diocesi viene infatti usato il termine plebem; nel caso della chiesa di San Pantaleo, che si trova<br />

anch’essa in un’area dove sono presenti un castello e più in basso resti di un abitato, viene invece<br />

utilizzato il termine capellam. La mancanza di tracce relative al fonte battesimale farebbe pensare<br />

per questo edificio a una dipendenza da una pieve vicina (S.Maria di Sala?).<br />

42<br />

Il fenomeno dell’incastellamento sembra da collocarsi, come avviene per la Toscana, nell’ambito<br />

dei secoli XI e XII, e si può supporre che anche nel territorio altolaziale, all’inizio di tale processo,<br />

i castelli coesistessero con insediamenti rurali indipendenti sparsi nel territorio; si veda WICKHAM<br />

2002, p. 264.<br />

43<br />

PETRUCCI 1984, p. 914<br />

44<br />

La presenza di fonti battesimali è accertata nella chiesa di Castiglione e in quella di S.Maria di<br />

Sala, la cui edificazione è stata proprio condizionata dalla presenza di una vicina sorgente d’acqua.<br />

45<br />

“…et curtem de Aquaviva cum ecclesia Sancte Marie ibidem posita. Insuper confirmamus tibi curtem<br />

de Marsiana cum capella sancti Bartholomei ibidem posita et villam de Piccianello...”; si veda ultra<br />

appendice 2.<br />

51


Molti di questi edifici sacri, insieme ai castelli, sembrano però non avere una vita<br />

molto duratura, in quanto per la maggior parte si presentano in stato di rudere e di completo<br />

abbandono già nell’ambito del XIV- inizi del XV secolo, forse a causa di una precisa<br />

volontà da parte dei feudatari di accentrare le piccole comunità rurali in un unico<br />

sito, che in questo caso può essere individuato proprio in quello di Farnese. Anche qui<br />

il nucleo più antico dell’abitato medievale sembra essersi sviluppato intorno ad una<br />

piccola chiesa, quella di Santa Maria della Neve. Tale accentramento, da collocare<br />

intorno all’ultimo quarto del XIII secolo, sarebbe da imputare ad un maggior controllo<br />

delle popolazioni rurali da parte della famiglia Farnese, nel momento in cui, staccatasi<br />

dalla dipendenza con gli Aldobrandeschi, vede accrescere notevolmente il suo potere,<br />

e rivolge i propri interessi verso la parte altolaziale di quella che era la Terra<br />

Guiniccesca 46 . La scelta di Farnese è forse dovuta alla sua posizione sullo sperone tufaceo,<br />

che permetteva una migliore difesa, e anche alla vicinanza con gli altri centri del<br />

feudo.<br />

46<br />

Farnese compare infatti nella Decima sessennale degli anni 1274-1280, secondo termine del quarto<br />

anno: “a presbitero Grogia de Franneto X sol. cort” (con le varianti Glergio de Frasneto e Forneto):<br />

RDI, Latium, Castro, p. 320, e nella Decima triennale degli anni 1295-1298, secondo pagamento del<br />

secondo anno: “Ecclesie de Farnese lib. II”: RDI, Latium, Castro, p. 322. E’ significativa la presenza<br />

del presbitero Grogia, che denota dunque un’organizzazione plebana incentrata su una chiesa archipresbiteriale;<br />

inoltre il fatto che nell’elenco delle decime della diocesi di Castro di questi anni non<br />

siano citate le chiese oggetto di questo studio, induce a pensare che già alla fine del XIII secolo esse<br />

fossero, se non ancora abbandonate, comunque divenute chiese minori, dipendenti probabilmente<br />

dalla chiesa presbiteriale di Farnese, dove tra l’altro risiedevano i signori del feudo. Si veda per questo<br />

tipo di organizzazione plebana PETRUCCI 1984, p. 907. Per la questione degli abitati rurali abbandonati,<br />

si veda KLAPISCH-ZUBER 1973, in part. pp. 314-315.<br />

52


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55


Si pubblica in questa sede la relazione dello scavo di San Pantaleo, scritta da Mauro<br />

Incitti e consegnata alla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria meridionale e al<br />

museo di Farnese. Come si può rilevare dallo scritto, il testo va ben al di là della sterile<br />

relazione tecnica, offrendo molteplici spunti di riflessione supportati da un rigoroso<br />

apparato documentario e bibliografico e un lucido spirito critico. Ci sembra opportuno<br />

offrire questo testo, come testimonianza diretta del metodo di ricerca scientifica che ha<br />

sempre caratterizzato l’operato di Mauro Incitti, e che speriamo sia di insegnamento e<br />

di stimolo per le future generazioni di archeologi.<br />

APPENDICE 1<br />

FARNESE – SELVA DEL LAMONE - S. PANTALEO. RIPULITURA DELLA CHIE-<br />

SA DA UNO SCAVO CLANDESTINO.<br />

Mauro Incitti<br />

Dall’8 al 19 settembre 2003 volontari del Gruppo Archeologico Romano, in collaborazione<br />

con la Riserva Naturale della Selva del Lamone, del Museo Civico di Farnese F.<br />

Rittatore Von Willer e con la supervisione del dott. G. Gazzetti, funzionario della<br />

Soprintendenza competente, hanno eseguito la rimozione del terreno e materiali di risulta,<br />

sconvolti da un vecchio scavo clandestino, dall’interno di una piccola chiesa posta in<br />

località “ i Casali” all’interno della Selva del Lamone, nel territorio del comune di Farnese<br />

(Vt). L’identificazione dell’edificio sacro con la cappella di S.Pantaleo, nota in una bolla<br />

di Paolo II recante l’elenco dei beni della diocesi di Castro del 1465 1 , è stata possibile<br />

grazie ad una ricerca delle fonti orali che volevano in questa zona (i Casali) l’esistenza di<br />

un “casale di S.Pantaleo” dove fino a pochi decenni or sono erano ancora officiati piccoli<br />

culti devozionali da parte di abitanti di Farnese. Il toponimo S.Pantaleo si ritrova inoltre<br />

a poche centinaia di metri, al confine tra le località Cavicchione e Roppozzo, dove non<br />

molti anni or sono fu recuperata un’epigrafe funeraria romana di età imperiale ed oggi<br />

conservata nel museo civico di Farnese. Sul luogo, posto sul limite tra il bosco e la vasta<br />

radura di Campo della Villa, si riscontrano ancor oggi affioranti sul terreno frammenti di<br />

laterizi e di ceramica genericamente databili tra l’ellenismo e la tarda antichità. Sono evidenti<br />

anche schegge di tufo e di travertino, sicuramente provenienti da aree geologicamente<br />

diverse. All’interno del bosco si osservano degli allineamenti di blocchi in pietra<br />

lavica, mentre all’esterno, durante la costruzione di un capannone in muratura, fu incidentalmente<br />

intercettato un cunicolo ipogeo o una cisterna. Creste di murature affioranti<br />

sul terreno sono poi state osservate in località Roppozzo associate a qualche scarso frammento<br />

di laterizio difficilmente databile se non molto genericamente prima del medioevo.<br />

Qui, all’interno del bosco, sono poi evidenti dei terrazzamenti artificiali lungo i declivi che<br />

delimitano la vasta radura sottostante. Sempre sul margine del bosco in località<br />

Cavicchione, posta immediatamente al disotto di “i Casali” si riscontrano altri affioramenti<br />

di scarsi materiali ceramici molto fluitati e difficilmente databili. Va in ogni caso rile-<br />

1<br />

P. F. KEHR, Nachrichten von der Könige. Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen, Göttingen<br />

1901, pp.144-146. La bolla di Paolo II consiste in un transunto del 14 novembre del 1465 del privilegio<br />

di Leone IX al vescovo Ottone di Castro del 14 aprile del 1053.<br />

56


vato che si è avuto notizia di vecchi scavi clandestini in questa zona relativi al saccheggio<br />

di tombe alla cappuccina, quindi sempre inquadrabili tra l’ellenismo e l’altomedioevo.<br />

In quest’area sul limite del bosco, all’altezza dell’imbocco del sentiero che conduce a<br />

“i Casali” e che quindi procede sino a Roccoia, riverso su di un fianco è presente un grande<br />

blocco di pietra lavica, sagomato a forma troncopiramidale 2 . Potrebbe trattarsi di un<br />

cippo o di un’ara di età ellenistica o romana. Quindi appare evidente che, tra Roppozzo e<br />

Cavicchione, sul limite del bosco senza una netta soluzione di continuità esisteva un insediamento,<br />

databile genericamente tra l’ellenismo e la tarda antichità-altomedioevo, di ragguardevoli<br />

dimensioni tali da far supporre che si tratti del nucleo insediativo principale<br />

di età antica nella vasta radura di Campo della Villa 3 . Vale a dire il centro del fundus che<br />

molto probabilmente è alla base del toponimo 4 : potrebbe confortare tale ipotesi la donazione<br />

dell’omonima proprietà, avvenuta nel 1030, da parte dei coniugi Gerardo ed<br />

Ermengarda al convento di S. Colombano 5 . Nella donazione non è comunque citata la cappella<br />

di S. Pantaleo, così come non è citato S. Colombano nella conferma dei beni della<br />

diocesi di Castro di Paolo II. Tenendo conto che tra l’atto di donazione di Campo della<br />

Villa e la prima redazione dell’elenco dei beni diocesani di Castro intercorrono soltanto<br />

23 anni e che allo stato attuale della ricerca l’unico insediamento medioevale di una certa<br />

rilevanza, posto nell’area in esame, è quello dei Casali, è possibile dar adito a varie ipotesi.<br />

E’ comunque da rilevare che il documento più recente relativo all’abbazia di S.<br />

Colombano è una bolla di Alessandro IV del 1257 6 e ricognizioni effettuate sul sito, devastato<br />

da profonde e continue arature, non hanno restituito materiali databili con certezza<br />

oltre tale data. E’ quindi possibile che al momento della redazione del transunto di Paolo<br />

II, nel 1465, essendo decaduto il monastero anche come entità patrimoniale, non aveva<br />

più ragione di essere citato nella bolla.<br />

Il blocco in pietra lavica troncopiramidale precedentemente illustrato, è posto a lato<br />

dell’imbocco di una depressione del terreno che procede costantemente verso nord-ovest<br />

per alcune decine di metri, con molta probabilità si tratta della traccia dell’antica via d’ac-<br />

2<br />

Il blocco è lungo (o alto) 68 cm; la faccia minore (o superiore) misura cm. 30 X 40; la maggiore (o<br />

inferiore) cm. 40 X 49.<br />

3<br />

A Campo della Villa sono state riscontrati altri affioramenti di materiali databili in età romana, ma<br />

tutti relativi ad aree più limitate rispetto a quella in esame. In base ai materiali raccolti ed ora conservati<br />

presso i depositi del museo civico di Farnese, almeno uno di questi siti, nato già in età tardo<br />

repubblicana, parrebbe conoscere una continuità di vita sino all’altomedioevo. E’ quindi possibile<br />

che il territorio in esame fosse organizzato con un centro principale (Cavicchione-S.Pantaleo-<br />

Roppozzo) intorno al quale orbitavano entità insediative minori, delle dipendenze, volte allo sfruttamento<br />

razionale dell’agro a disposizione.<br />

4<br />

Il fenomeno è abbastanza diffuso in Italia, cfr. G. B. PELLEGRINI, Toponomastica Italiana, Milano<br />

1990 (ed. 1994), per “campo” pp. 172-173, per “villa” pp. 235-236.<br />

5<br />

E.GATTOLA, Historia Abbatiae Cassinensis, I, Venezia 1733, pp. 417-418. Va rilevata la vicinanza di<br />

Campo della Villa a Murranum, residenza di Gerardo ed Ermengarda, identificabile con il castello<br />

oggi diruto del Morranaccio attualmente posto in Toscana, in prossimità del confine con il territorio<br />

di Farnese. Il convento di S.Colombano, ormai quasi completamente distrutto si pone molto più lontano<br />

in località ” i Colli” nel territorio del comune di Ischia di Castro.<br />

6<br />

Ibidem, pp. 420-421. Va rilevato che lo stato di crisi e di degrado del convento intorno alla metà del<br />

XIII secolo, forse ridotto a sola entità patrimoniale o frequentato ormai da pochi monaci, è già deducibile<br />

dalle richieste del canonico Capitanio di Orvieto in T. LECCISOTTI, Abbazia di Montecassino. I<br />

Registri dell’Archivio, X, Roma 1975, doc. n°11, p. 156.<br />

57


cesso all’abitato medievale relativo alla chiesa di S. Pantaleo. Tale percorso parrebbe proseguire<br />

costeggiando un’area di terreno meno ricco di pietrame, una sorta di basso canalone,<br />

posto entro una depressione tra due balze di blocchi lavici e murce. Dopo aver aggirato<br />

una grande murcia dalla sommità appiattita forse artificialmente, il sentiero parrebbe<br />

entrare da ovest nell’area dell’abitato. E’ possibile che questa murcia avesse avuto funzioni<br />

difensive controllando dall’alto e sul lato destro chi volesse accedere all’abitato. Il basso<br />

canalone è interrotto da una serie di terrazzamenti in grandi blocchi lavici orientati estovest,<br />

non si esclude una funzione difensiva di questi muraglioni. Tra un terrazzamento e<br />

l’altro sono evidenti aree spietrate con tracce di fondi di capanne poste sui margini: di non<br />

facile lettura dato lo stato di conservazione e la presenza di abbondante vegetazione, parrebbero<br />

generalmente quadrangolari e di ridotte dimensioni, all’incirca m. 3,50 x 2, hanno<br />

il perimetro realizzato in muratura a secco con blocchi di varie dimensioni di pietra locale.<br />

Ognuna di queste capanne sembrerebbe avere un suo spazio spietrato intorno. Questa<br />

situazione sembrerebbe estendersi anche verso est per almeno 100-200 m. oltre la piccola<br />

chiesa oggetto dello scavo. Presso l’estremità settentrionale dell’abitato sul culmine del<br />

canalone l’ultimo dei terrazzamenti, il più alto e conservato è preceduto da una depressione<br />

del terreno simile ad un vallum; depressione analoga si riscontra sul lato opposto del<br />

muro. A nord della struttura il terreno appare più pianeggiante e al suo interno si riscontrano<br />

ancora altre aree spietrate; tutto questo spazio, delimitato a sud dal muraglione con<br />

fossato, sugli altri lati è marginato da strutture realizzate in blocchi di pietra lavica inseriti<br />

tra sporgenze naturali dello stesso materiale sfruttando ed adattando la natura geologica<br />

del suolo. Affioranti su tutta l’area dell’abitato sono stati rinvenuti scarsi frammenti di ceramica<br />

acroma ed uno di testo, databili antecedentemente al basso medioevo ed uno soltanto<br />

relativo ad un piatto di terraglia databile tra il XVIII secolo ed i primi decenni del XX.<br />

Purtroppo la zona venne infatti utilizzata per coltivazione ed allevamento sino a pochi<br />

decenni or sono ed il bosco si è qui espanso soltanto dopo l’abbandono definitivo.<br />

Conclusioni preliminari<br />

Dalla ripulitura del solo interno e parte del perimetro dell’edificio sacro è così emerso<br />

che questo misurava circa m. 5,50 x 11, quindi lunga il doppio della larghezza.<br />

Presenta una sola navata ed il presbiterio, delimitato da una balaustra, rialzato rispetto<br />

al piano pavimentale dello spazio riservato ai fedeli. Anche il piano interno all’abside,<br />

dove doveva collocarsi l’altare, era rialzato rispetto al piano del presbiterio mediante<br />

tre gradini. Le murature degli alzati dell’abside e della facciata erano in blocchi<br />

squadrati di tufo dalle diverse dimensioni tra loro, mentre quelle delle pareti laterali in<br />

blocchi irregolari di pietra lavica tipica del luogo. Le pavimentazioni appaiono così<br />

distribuite: nello spazio destinato ai fedeli in lastre irregolari di arenaria con altre più<br />

rare di pietra lavica, una in travertino e frammenti di laterizi di minori dimensioni utilizzati<br />

per riempire gli spazi vuoti insieme a rare schegge di scisto e travertino ed una<br />

sola di marmo bianco a grana fine per colmare gli spazi maggiori tra una lastra e l’altra.<br />

Il presbiterio era pavimentato in lastre squadrate di tufo e l’abside forse in lastre<br />

irregolari di travertino 7 . Tra i materiali rinvenuti nello strato di sconvolgimento dovuto<br />

7<br />

Si preferisce la forma ipotetica per la pavimentazione dell’abside poiché tutte le lastre di travertino<br />

sono state rinvenute nello strato sconvolto dallo scavo clandestino in ogni caso entro l’abside o nel<br />

presbiterio.<br />

58


allo scavo clandestino va rilevata la presenza di due blocchi in tufo con gli angoli smussati<br />

relativi a due differenti pilastri posti nell’area del presbiterio, siccome tutti i quattro<br />

spigoli risultano smussati ne consegue che originariamente non erano forse addossati<br />

alle pareti. Nella stessa area e nello stesso strato di sconvolgimento sono stati recuperati<br />

anche dei blocchi di nenfro. Infine a breve distanza dalla parete della facciata<br />

sono stati rinvenuti due frammenti relativi ad uno spigolo di vaschetta in travertino<br />

estremamente calcinata e decorata con una voluta in rilievo, probabilmente un’acquasantiera.<br />

Purtroppo l’assenza di elementi litici decorati dovuta forse non esclusivamente<br />

alla sobrietà dell’edificio, ma ad antiche asportazioni e moderni saccheggi, non permette<br />

una datazione puntuale dell’edificio. Anche le caratteristiche architettoniche non<br />

offrono particolari elementi che permettano di meglio puntualizzarne la cronologia o<br />

comunque andrebbe fatta una lunga e puntale ricerca per trovare confronti molto puntuali<br />

nel vasto panorama delle chiese medievali, absidate, ad una sola navata, con presbiterio<br />

rialzato e distinto da balaustra. Gli scarsi materiali ceramici rinvenuti parrebbero<br />

comunque compresi tra il X e, al massimo, il XIII-prima metà del XIV secolo; si<br />

attende poi di poter analizzare i vetri rinvenuti in frammenti nell’area del presbiterio,<br />

spesso negli interstizi tra le lastre di tufo della pavimentazione.<br />

Le motivazioni storiche che possono aver determinato la nascita dell’abitato, e quindi<br />

della chiesa di S. Pantaleo, vanno forse ricercate nel fenomeno di abbandono degli<br />

abitati di pianura e del conseguente arroccamento in siti sommitali meglio difendibili<br />

già ampiamente dimostrato per il <strong>Lazio</strong> meridionale e la Sabina 8 e più recentemente<br />

ipotizzato anche per il <strong>Lazio</strong> settentrionale 9 . Sintomo di questa crisi nel territorio<br />

potrebbe essere indicata dal trasferimento della diocesi vulcente a Castro, probabilmente<br />

nel 964, con il vescovo Bernardo o Berardo 10 . Si potrebbe anche ipotizzare che<br />

8<br />

P. TOUBERT, Les Structures du Latium Mèdieval. Le Latium meridional et la Sabine du IX siècle à la<br />

fin du XII siècle, Rome 1973, p. 86 e in genere il cap. IV.<br />

9<br />

E. PETRUCCI, Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (secc. XIII-XIV), in Atti del VI Convegno<br />

di Storia della Chiesa in Italia, Roma 1984, n.31, p.907.<br />

10<br />

F. UGHELLI, Italia Sacra, I, Venezia 1717, p. 579. Si è preferito utilizzare la forma ipotetica per la<br />

datazione al 964 poiché l’Ughelli riferisce che l’episodio avvenne sotto il pontificato di Leone IV che<br />

fu Papa dall’847 all’855 mentre nel 964 si ebbero ben tre papi: Giovanni XII, Leone VIII e Benedetto<br />

V; con molta probabilità l’Ughelli, confondendo, si riferiva a Leone VIII e non IV. Va in ogni modo<br />

rilevato che Leone IV operò una politica di riorganizzazione del territorio e questo potrebbe anche<br />

volgere a favore della datazione del trasferimento della diocesi nel IX secolo a Castro. Leone IV indisse<br />

anche due concili, uno nell’850 ed un altro nell’853: in quest’ultimo era presente un vescovo di<br />

Castro, Jordanes, citato dall’Ughelli stesso (ibidem). Al concilio dell’850 invece non si rileva la presenza<br />

di alcun vescovo castrense, mentre alcuni dei territori che in seguito compariranno nelle proprietà<br />

dell’episcopato castrense, immediatamente prima dell’attestazione di Jordanes al concilio<br />

dell’853, risultano tra i beni della diocesi di Tuscania (F. A. TURIOZZI, Memorie Istoriche della città<br />

di Tuscania che Ora Dicesi Volgarmente Toscanella, Roma 1778, pp. 105-111); tali concomitanze<br />

potrebbero indicare che nel IX secolo, prima di Jordanes Castro non ebbe vescovi. L’unico vescovo<br />

di Castro documentato dalle fonti nel IX secolo parrebbe quindi Jordanes. Il Gams, successivamente,<br />

ha pensato di attribuire un vescovo Bernardo al IX secolo ed un Berardo al 964 (P. F. GAMS, Series<br />

Episcoporum Ecclesiae Catholicae, Graz 1957, p. 559). Con molta probabilità la confusione fu generata<br />

in realtà nel 1630 dallo Zucchi (B. ZUCCHI, Informazione e cronica della Città di Castro e di tutto<br />

lo stato suo…in G. BAFFIONI, P. MATTIANGELI, Dominici Angeli Castrensis. De Depraedatione<br />

Castrensium et Suae Patriae Historia, Roma 1981, pp. 104-105).<br />

59


la cappella di S. Pantaleo venne eretta negli anni compresi tra l’atto di donazione di<br />

Campo della Villa a S. Colombano nel 1030 11 e la redazione del privilegio di Leone IX<br />

del 1053, noto però nel transunto del 1465 12 , giacché la cappella non viene nominata<br />

nel documento più antico. Va altresì rilevato che si tratta di un argomento ex silentio<br />

quindi va considerato con estrema cautela. Nemmeno è possibile stabilire se l’abitato<br />

intorno al piccolo edificio di culto già esistesse al momento della redazione del documento,<br />

anche se è assai probabile che gli abitati di pianura di Campo della Villa fossero<br />

ormai abbandonati da tempo intorno alla metà dell’XI secolo in base ai materiali<br />

riscontrati in superficie. Va inoltre rilevato che il fenomeno “dell’incastellamento” nell’area<br />

della Selva del Lamone sembrerebbe riscontrabile anche altrove. E’ ad esempio<br />

il caso di Fontanile di Valderico dove una villa romana conosce una frequentazione perdurata<br />

almeno sino a conoscere una frequentazione longobarda. In un momento successivo,<br />

forse a partire dal X-XI secolo, o poco prima, lungo il margine settentrionale del<br />

bosco, in posizione dominante al disopra della villa romana, si sviluppa un vasto abitato<br />

con strutture e materiali molto simili a quanto osservato ai Casali. L’unica differenza<br />

è data dalla presenza della chiesa costruita nei pressi della villa e non all’interno dell’abitato.<br />

Un fenomeno analogo potrebbe anche essersi verificato a S.Maria di Sala e a<br />

Sorgenti della Nova il cui sito più antico dovrebbe ricercarsi nell’insediamento posto<br />

immediatamente ad ovest delle pendici occidentali di Montefiore e che conosce frequentazioni<br />

dall’ellenismo all’età longobarda, mentre il sito medievale, già oggetto di<br />

trascorse indagini si colloca in posizione dominante al disopra del ben noto abitato protostorico.<br />

A questo punto sarebbe interessante effettuare ricerche in prossimità degli<br />

altri siti medievali posti lungo il margine della Selva del Lamone, quali Prato Frabulino,<br />

Fontanaccio, la Botte, solo per citarne alcuni. Per quanto concerne l’abitato dei Casali<br />

le indagini possono considerarsi appena iniziate, anche la chiesa risulta ripulita soltanto<br />

all’interno, andrebbero infatti rimossi i riporti generati dallo scavo clandestino sui<br />

lati dell’edificio. Andrebbero poi ripuliti e rettificati altri scavi della stessa origine<br />

immediatamente ad est della struttura sacra. Va poi considerato che le strutture messe<br />

in luce andranno, se non proprio restaurate, quantomeno consolidate e protette dagli<br />

agenti atmosferici e dall’azione disgregante della vegetazione spontanea.<br />

11<br />

E. GATTOLA, Historia Abbatiae Cassinensis, I, Venezia 1733, pp.417-418.<br />

12<br />

P. F. KEHR, Nachrichten von der Könige. Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen, Göttingen<br />

1901, pp. 144-146.<br />

60


APPENDICE 2<br />

Transunto di Paolo II del 14 novembre 1465 della bolla di Leone IX al<br />

vescovo di Castro Ottone del 14 aprile 1053 (da P. F. Kehr, Nachrichten von der<br />

Könige. Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen, Göttingen 1901, pp.144-146);<br />

estratto comprendente le proprietà citate:<br />

...Quantinus loca, quae in eodem venerabili episcopatu Sancti Savini martiris Christi<br />

santique Pancratii martiris……episcopatu confirmamus, videlicet ecclesiam Sancti<br />

Pancratii, ubi episcopalis sedes est, et plebem sancti Petri in Bulxi cum suis pertinentiis,<br />

plebem sancti Andreae in Garfiniano cum suis pertinentiis et diocia videlicet Ponticulum<br />

et Monte Altum, plebem sancti Genesii in Piscia cum suis pertnentiis, plebem in<br />

Musignano, plebem sancti Stephani iuxta castellum Ardonis, plebem in Murrano, plebem<br />

de Pulineo, plebem sancti Agapiti, plebem in Galliano, plebem in Laterano et plebem in<br />

Fig(l)ini, plebem in Turri, plebem in Rupiliano, plebem in Piccianello atque plebem in<br />

Talona, medietatem plebis in Tripillia, abbatiam etiam sancti Mamiliani iuxta pontem<br />

posita in integrum, portum de Riga et silvam que vocatur Gavis cum campo de<br />

Armentarica, eclesiam sancte Marie in Ausulario et ecclesiam sancti Clementis in<br />

Turalla, medietatem ecclesia sancte Marie in Piscia, ecclesiam sancte Christine, ecclesiam<br />

sancti Silvestri in Pauperi, ecclesiam sancti Donati et ecclesiam sancti Petri in<br />

Flumine cum suis pertinentiis, ecclesiam sancti Mauritii ubi nunc baptisimum celebrantur,<br />

ecclesiam sancti Quirici iuxta Murranum, et capellam aliam sancti Quirici in<br />

Morano, ecclesiam sancte Romanae cum earum pertinentiis, ecclesiam sancti Hermetis...<br />

et capellam sancti Anastasii, capellam etiam sancti Pantaleonis et capellam sancte Lucie<br />

in Galliano, capellam sancti Stephani in Critoso, ecclesiam sancti Iulii cum suis pertinentiis,<br />

ecclesiam sancti Angeli in Parti et curtem de Aquaviva cum ecclesia Sancte Marie<br />

ibidem posita.<br />

Insuper confirmamus tibi curtem de Marsiana cum capella sancti Bartholomei ibidem<br />

posita et villam de Piccianello, Turricellam etiam sancti Vincentii et illud etiam quod tua<br />

iam dicta ecclesia habet infra castrum de Iuliano seu foris, et terram cum vineis et silvis<br />

de Murrano...<br />

Tibi tiisque successoribus episcopis in perpetuum concedimus detinendas...<br />

61


LA VILLA ROMANA IN LOCALITÀ SELVICCIOLA<br />

(ISCHIA DI CASTRO-VT.): LA RIPRESA DELLE RICERCHE<br />

Gianfranco Gazzetti<br />

Lo scavo in località Selvicciola ha avuto inizio nel 1982, in seguito ad una segnalazione<br />

della Guardia di Finanza che aveva fermato il proprietario del lotto di terreno<br />

mentre con alcuni amici stava scavando una cisterna romana affiorante in parte sul terreno.<br />

Il primo intervento d’emergenza eseguito dalla Soprintendenza Archeologica per<br />

l’Etruria Meridionale nel maggio dello stesso anno, rivelò l’esistenza di un vasto complesso<br />

rurale romano e di una necropoli longobarda. Dall’agosto 1982 iniziò la campagna<br />

di scavo stratigrafico sistematica eseguita sotto la direzione di Funzionari della<br />

Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, da volontari del Gruppo<br />

Archeologico Romano e dei Gruppi Archeologici d’Italia (fig.1). Tale campagna di<br />

scavo, interrotta nel 1999 e ripresa nel 2005, (fig.2) ha dimostrato la validità della collaborazione<br />

tra Associazioni di volontariato ed Enti preposti anche nella ricerca scientifica,<br />

realizzando quel fondamentale rapporto tra interventi sul territorio e coinvolgimento<br />

di chi lo abita essenziale alla tutela dei beni culturali; le modalità con cui si è<br />

svolta questa attività di ricerca hanno infatti favorito e promosso interventi del Comune<br />

di Ischia di Castro e della Regione <strong>Lazio</strong> sia nel parziale finanziamento di alcune attività<br />

connesse allo scavo come i restauri delle murature e delle pavimentazioni venute<br />

alla luce, sia nell’organizzazione di mostre sulle attività di ricerca in corso nel territorio<br />

comunale e nel locale Museo Civico dove nella ristrutturazione del 2005 è stato possibile<br />

esporre una significativa quantità del materiale archeologico più rappresentativo<br />

rinvenuto, rispondendo al dovere di divulgazione che dovrebbe sempre essere presente<br />

a tutti gli studiosi. La ripresa dello scavo nel 2005 si è concentrata sull’area del giardino<br />

della villa impostatosi su una necropoli eneolitica in corso di scavo da parte della<br />

SBAEM sotto la direzione della collega Patrizia Petitti e dal 2009 anche nel settore settentrionale<br />

del complesso dove negli anni 1996-1998 erano emerse le tracce di un peristilio<br />

con annessi ambienti pavimentati in “opus punicum” In questa sede si presenta<br />

una sintesi dei nuovi dati emersi dagli scavi 2005-2009 a livello del tutto preliminare.<br />

L’area del giardino adiacente la “basis villae”<br />

In quest’area negli scavi 2005-2008 sono emersi un pozzo scavato solo parzialmente<br />

relativo alla sistemazione idrica della fase tardo etrusca e repubblicana (III-II sec. a.C.)<br />

,e strati sotto pavimentali di II sec. a.C. probabilmente relativi alla fase tardo repubblicana<br />

della villa; impossibile allo stato attuale delle ricerche individuare la natura degli<br />

ambienti comunque connessi con la parte produttiva d’età repubblicana. Il settore meridionale<br />

dell’area con banco di tufite aveva già restituito negli scavi precedenti (1982-<br />

1999) tracce murarie e ambienti scavati relativi a questa fase. Si tratta di due serie di<br />

ambienti separati da un corridoio di cui al momento non è ancora possibile dare una precisa<br />

identificazione, di una vasca di raccolta del frantoio oleario, di dolii probabilmente<br />

62


ad esso relativi, di un dolio e di una vasca con pavimento in tessellato fittile e rivestimento<br />

in signinum e di un pozzo collegato ad una cisterna a cunicoli cui fa riferimento con<br />

ogni probabilità anche il pozzo rinvenuto nella campagna 2005. Lo scavo del 2009 è ripreso<br />

nell’area dell’acquedotto evidenziato negli anni precedenti nel settore del giardino<br />

della villa. Attribuito all’età augustea l’acquedotto di alimentazione della villa era stato<br />

scavato in parte negli anni 1987/91. Erano apparsi tre tratti in direzioni diverse; quello<br />

orientale si collegava al grande acquedotto che serviva l’area della centuriazione in cui<br />

era collocata la villa e che attraversava su arcata il torrente Strozzavolpe a oriente del<br />

complesso. L’acquedotto proveniva come quello di Vulci dai vicini Monti di Canino. Lo<br />

scavo del 2009 ha messo in luce parte di una grande vasca rivestita in signinum forse<br />

attribuibile alla “mostra “dell’acquedotto verso il giardino parzialmente danneggiata dai<br />

lavori agricoli; lo scavo del riempimento verrà intrapreso nella campagna di scavo 2010<br />

L’area del peristilio settentrionale<br />

Le tracce più evidenti erano finora quelle restituite dagli scavi degli anni 1996-1997.<br />

Sul terrazzo settentrionale del poggio a picco sulla forra del torrente Strozzavolpe erano<br />

stati infatti rinvenuti resti di un grande peristilio su cui affacciavano ambienti pavimentati<br />

in opus punicum con pareti affrescate; un primo esame delle murature e soprattutto<br />

dei pavimenti sembravano collocare l’impianto di tale settore della villa tra la fine del II<br />

e gli inizi del I sec. a.C. Nel 2009 lo scavo è ripreso dove era stato interrotto e sono stati<br />

di nuovo portati in luce alcuni degli ambienti pavimentati per eseguire il rilievo planimetrico<br />

dell’intero settore. Il peristilio prosegue verso ovest e verso sud e sono state evidenziate<br />

le basi delle colonne e il canale di scolo delle acque del displuvio del tetto a<br />

uno spiovente. Al di sotto del pavimento dell’ambiente B (forse un triclinio estivo) è<br />

emerso un fognolo che gettava le acque nel sottostante torrente Strozzavolpe, riempito<br />

con materiale ceramico di fine II-I sec. a.C. che farebbe pensare alla ristrutturazione<br />

augustea di questo settore della villa. I lavori agricoli degli anni ‘60 e ’70 avevano tagliato<br />

trasversalmente gli ambienti e asportato parte dei pavimenti come è chiaro dalla documentazione<br />

grafica (tav.4) e fotografica (fig.5 e 6). Nel riempimento è stato trovato un<br />

frammento di embrice con bollo in cartiglio rettangolare L.MINU. Nei riempimenti della<br />

fase augustea erano stati rinvenuti gia nel settore residenziale della villa due embrici con<br />

bolli in cartiglio rettangolare MINUCIUS.C.F, MINUCI e L.MINUC(I) che potrebbero<br />

essere relativi ai proprietari della villa. La Gens Minucia, di antica origine, presente in<br />

Senato già dal IV secolo a.C., è attestata in Italia centro meridionale; non si conoscono<br />

Minucii nell’Etruria Meridionale e in particolare nel Vulcente.<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

P. TOIATI, L. PONTACOLONE, La Villa della Selvicciola, in A.CARANDINI (a cura di), La<br />

romanizzazione dell’Etruria. Il territorio di Vulci, catalogo della mostra (Orbetello<br />

1985), Milano, pp. 149-151.<br />

G.GAZZETTI, La villa romana in località Selvicciola (Ischia di Castro VT) in “Papers of<br />

the Fifth Conference of Italian Archaeology”, Oxford 1992, pp. 297-302<br />

G.GAZZETTI, La villa romana in località Selvicciola (Ischia di Castro VT) in<br />

“Archeologia”, ns ,0, 2009, pp. 11-20<br />

63


LA VILLA ROMANA DELLA SELVICCIOLA E IL TERRITORIO<br />

STATONIENSE: INQUADRAMENTO STORICO E TOPOGRAFICO<br />

Giuseppina Ghini<br />

La villa romana in località Selvicciola rientra nel territorio amministrativo di<br />

Statonia, divenuta prefettura insieme a Saturnia dopo il 280 a.C., anno della presa di<br />

Vulci da parte di Roma.<br />

L’identificazione del centro urbano è tuttora materia di dibattito, tra chi ritiene che<br />

l’antico sito sia da porre in corrispondenza di Castro (MAGGIANI 1981), chi lo identifica<br />

con Poggio Buco (PALLOTTINO 1968, SCULLARD 1969, HARRIS 1971) e chi ritiene poco<br />

attendibile qualsiasi identificazione (TORELLI 1981; STEINGRÄBER 1983).<br />

In realtà ritrovamenti troppo generici e fonti troppo brevi non permettono di prendere<br />

posizione in un senso o nell’altro. Tra le citazioni antiche, Vitruvio (de arch. 2,7,3),<br />

Plinio (nat.hist., 2, 209; 36, 168), Seneca (nat.quaest., 3, 58,8) nominano l’ager statoniensis<br />

in relazione al lacus Volsiniensis (lago di Bolsena) e ad un secondo lacus, forse<br />

identificabile con quello di Mezzano (GAZZETTI 1985, pp. 78-79).<br />

Comunque le praefecturae di Saturnia e di Statonia dovevano occupare rispettivamente<br />

la zona interna settentrionale e quella meridionale del territorio già appartenuto<br />

a Vulci; la linea di confine si trovava verosimilmente tra la riva occidentale del lago<br />

di Bolsena e il fiume Fiora, mentre a sud l’Arrone (già confine tra Vulci e Tarquinia)<br />

doveva costituire il limite meridionale dell’ager statoniensis verso Tarquinia. Se prima<br />

della guerra sociale del 90 a.C. quest’ultimo poteva contenere anche il lacus<br />

Volsiniensis, nel corso del I sec.a.C. la creazione dei municipia di Visentium, Vulci e<br />

Suana dovette sottrarre territori a Statonia, che probabilmente con la Lex Iulia in età<br />

augustea dovette perdere il suo status di prefettura.<br />

Del resto anche il centro urbano non doveva essere particolarmente grande; infatti<br />

già nella Carta Peutingeriana non compare, mentre viene indicata Saturnia.<br />

Da un punto di vista amministrativo l’ager statoniensis era organizzato per piccoli<br />

insediamenti abitati (pagi) e fattorie, probabilmente assegnate ai precedenti proprietari<br />

dopo l’occupazione romana del 280 a.C. con la qualifica di possessori (occupatores).<br />

La situazione dovette cambiare sensibilmente in età graccana (seconda metà del II<br />

sec.a.C.), con una nuova divisione dei territori, verosimilmente legata ad una centuriazione<br />

di questi e un infittirsi delle piccole proprietà.<br />

L’analisi del territorio, sia a livello di ricognizioni che di studi delle foto aeree, ha<br />

evidenziato la presenza di “segni” ancora presenti (macere, fossati, vie campestri) che<br />

probabilmente ricalcano assi di una centuriazione orientata a partire dalla via Clodia,<br />

come proverebbe la loro distanza costante basata sui multipli dell’actus (= m. 35) e l’orientamento<br />

parallelo nord-ovest/sud-est (STANCO 1985, pp.79-80) (fig.1). Con gli inizi<br />

del I sec.a.C., in concomitanza con gli sconvolgimenti dovuti alla guerra sociale, in cui<br />

l’Etruria si schiera con Mario e i suoi seguaci contro Silla, avviene una contrazione dell’ager<br />

Statoniensis, a favore di Visentium, iscritta alla tribù Sabatina; sembrano cambia-<br />

64


e anche i proprietari o occupatores, con una sostituzione di gentes romane a quelle locali<br />

(STANCO 1985, p. 79; TOIATI 2002, pp. 352-354).<br />

Troviamo attestati a partire da questo periodo fino al primo periodo imperiale gentilizi<br />

come i Furii (CIL XI, 7395), i Caesii (CIL XI, 2914a, 6705), produttori di ceramiche,<br />

i Minicii o Minucii (CIL XI, 2925), originari di Brixia, i Septunii e i Sempronii (CIL<br />

XI, 2930), entrambi di Vulci.<br />

Nel corso del I sec.d.C. il territorio sembra cambiare il suo status da prefettura a<br />

municipio; infatti Plinio (nat.hist., 3,5,8) lo cita come populus.<br />

In mancanza di dati più precisi, possiamo basarci per similitudine su quanto sappiamo<br />

di Visentium, organizzata in municipio con duoviri iure dicundo (CIL XI, 2910,<br />

2911, 2912) al posto del precedente praefectus, a cui faceva capo una rete di pagi,<br />

amministrati da magistri, che forse successivamente scomparvero (CIL XI, 2921).<br />

I pagi individuati o la cui esistenza già nota è stata confermata dall’attività di ricerca<br />

condotta dal Gruppo Archeologico Romano agli inizi degli anni ’80 dello scorso<br />

secolo, assommano a circa quindici e rientrano tutti nell’area che si presume corrisponda<br />

all’ ager statoniensis. (ROSSINI-SPERANDIO 1985, pp. 80-84). Sono facilmente raggiungibili<br />

dalla viabilità antica (assi Valentano-Cellere, Tuscania-Cellere, Visentium-Vulci,<br />

Piansano-Pitigliano, facenti capo alla via Clodia) e di alcuni di essi sono ancora visibili<br />

sul terreno tracce consistenti, come resti di cinte murarie, edifici termali, necropoli,<br />

nonostante non vi siano mai stati condotti scavi, se si esclude il sito di Rofalco,<br />

oggetto di un intervento in questa stessa sede. Alcuni di questi insediamenti hanno una<br />

fase già in età arcaica (Monte Becco, Rofalco, Lacetina-Chiusa Farina); la maggior parte<br />

testimonia una frequentazione in età medio e tardo-repubblicana (III-II sec.a.C.), in<br />

sintonia con gli avvenimenti sopra citati.<br />

Tranne scarse eccezioni, la maggior parte di questi pagi scompare in età augustea,<br />

talvolta con l’insediarsi di ville rustiche, come per il sito del Pontone, dove all’abitato<br />

si sostituisce una villa che perdura fino all’epoca tardo-antica. Solo in alcuni casi, come<br />

a Castellardo (il Castrum Ardonis medievale) l’insediamento ha un arco cronologico<br />

molto lungo, che dall’età arcaica arriva al periodo rinascimentale; longevità dovuta al<br />

luogo particolare e alla morfologia del terreno, che ne rendeva un posto strategico.<br />

Per quanto riguarda gli insediamenti rustici, le ricognizioni e l’analisi delle foto<br />

aeree (in particolare quelle della RAF del 1944) con riscontri sul terreno condotte tra<br />

il 1979 e il 1984 da parte del GAR hanno portato nell’area centrale della zona corrispondente<br />

alla prefettura statoniense (ovvero tra il Fosso Timone, il Fiora e la Selva del<br />

Lamone) all’individuazione di 152 siti, di cui ne sono stati campionati circa metà (72).<br />

Di questi, 51 si datano già alla metà del III sec.a.C., ossia in relazione alla conquista<br />

romana del territorio (fig.2). Verso la metà del II sec.a.C., alcuni di questi insediamenti<br />

(7) spariscono, mentre ne nascono altri 14, per un totale di 58; a questo periodo risale<br />

la centuriazione del territorio, ma la situazione cambia già pochi decenni dopo, in<br />

relazione alle guerre sociali e nel I sec.a.C. terminano ben 11 insediamenti, mentre ne<br />

nascono solo 2 nuovi (TOIATI 2002, pp. 354-356) (fig.3).<br />

Tra la fine della repubblica e l’età augustea si assiste ad una ripresa economica del<br />

territorio, con un incremento dei siti, alcuni dei quali sopravvivono almeno fino alla<br />

metà del II sec.d.C. (GHINI 2002, pp. 357-359).<br />

Nel corso del III sec.d.C. le fattorie scendono a 28, per arrivare a 15 nel IV e a sole<br />

7 in età tardo-antica, queste ultime concentrate nella zona di Ischia di Castro e della<br />

65


onifica di Canino (GAZZETTI 2002, pp. 359-362) (fig.4). Sopravvivono solo le ville più<br />

grandi e ricche, come prova la presenza di decorazioni pittoriche e pavimentali, oltre che<br />

di ceramiche fini, basate su un’economia latifondistica; situazione peraltro testimoniata<br />

anche in altre zone dell’Italia (si pensi alla Villa di Settefinestre e all’ ager cosanus:<br />

CARANDINI 1985, REGOLI 2002). Nel corso del IV sec.d.C., accanto all’abbandono di<br />

alcuni insediamenti, si assiste anche alla nascita, seppure contenuta, di nuovi, situati in<br />

aree interne, generalmente collinari, e più lontane dalla viabilità principale; si tratta in<br />

genere di piccoli insediamenti rustici, in cui, tranne per alcuni casi, non sembra attestata<br />

una pars dominica. Diversa la situazione per quei siti che invece attestano una continuità<br />

abitativa, come nel caso della villa della Selvicciola, in cui sono presenti anche<br />

materiali di lusso, che testimoniano l’utilizzazione della parte residenziale anche in questo<br />

secolo e nel successivo (FONTANA 2002, pp. 362-364) (fig.5).<br />

Nel corso del VI sec.d.C. si assiste ad una drastica diminuzione degli insediamenti,<br />

verosimilmente da porsi in relazione alle guerre greco-gotiche, che, tra gli effetti collaterali,<br />

causarono carestia e pestilenze (Proc., B.P., II, 22-23); alcuni siti attestati in questo<br />

periodo sembra possano ricollegarsi al centro di Castro e a percorsi costeggianti<br />

l’Olpeta e lo Strozzavolpe, presso cui si trova anche la villa della Selvicciola<br />

(PONTACOLONE 2002, pp. 365-368).<br />

La frequentazione del territorio nel VII sec.d.C., anche se molto ridotta, è attestata<br />

sia da insediamenti, sia prevalentemente da necropoli (Pianetto, Castro, Chiusa del<br />

Serafino), la cui dislocazione lascia ipotizzare un allineamento che da nord a sud collega<br />

Castro con Sovana e con abitati disposti lungo lo Strozzavolpe (INCITTI 2002, p. 368).<br />

Tra la fine del VI e gli inizi del VII sec.d.C. il territorio viene conquistato dai<br />

Longobardi (Paolo Diacono, hist.Lang., IV,8, 32; MELUCCO VACCARO 1982), con cambiamenti<br />

riscontrabili sia nell’occupazione dei siti abitativi, sia nei toponimi e nello stesso<br />

centro di Vulci, dove complessi residenziali, come la domus del criptoportico, vengono<br />

rioccupati con funzione funeraria (GAZZETTI 1985, p. 73). Alcuni abitati, come<br />

Castellardo, mostrano continuità di vita, così come gli insediamenti di Poggio Olivastro,<br />

della Selvicciola, di S. Colombano e S. Maria di Sala, che, insieme al sito del Voltone,<br />

testimoniano la presenza di luoghi di culto e necropoli (INCITTI 2002, pp. 368- 369). In<br />

particolare la villa della Selvicciola continua ad essere frequentata, anche se per una<br />

superficie notevolmente ridotta, e viene occupata in parte da una vasta necropoli longobarda<br />

e da una chiesa (INCITTI 2002, pp. 372-374).<br />

Come già esposto in precedenti contributi (GAZZETTI 1995; GAZZETTI 1997; GAZZETTI<br />

2002; INCITTI 1990; INCITTI 2002; TOIATI 2002; PONTACOLONE 2002), la villa in località<br />

Selvicciola, oggetto di indagini e studi a partire dal 1982 fino al 2009 da parte della<br />

Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale con la collaborazione del Gruppo<br />

Archeologico Romano e dei Gruppi Archeologici d’Italia, ha avuto un arco cronologico<br />

molto lungo, durato dal periodo tardo-etrusco all’età tardo-antica.<br />

La villa, situata su un banco di travertino che ricopre in parte uno strato di tufiti<br />

giallastre tenere, si dispone su tre terrazzamenti, di cui quello meridionale, corrispondente<br />

alla pars dominica, sostenuto a sud-est da un imponente muro in opera pseudopoligonale,<br />

che costituisce la basis villae. Questa zona è incentrata su un peristilio, circondato<br />

da una serie di ambienti, di cui quelli orientali sono in parte franati nel vicino<br />

Fosso Strozzavolpe (figg. 6-7).<br />

Il secondo livello del banco travertinoso è costituito dalla pars rustica: un atrio con<br />

66


cisterna e vasca-serbatoio e vari ambienti di lavorazione, tra cui il frantoio oleario e il<br />

doliarium, vicino ai quali si trovano gli immondezzai, i purgatoria, la concimaia, i depositi<br />

e l’aia; in questa zona, dove si è impostata la prima fase medio-repubblicana della<br />

villa, si è successivamente insediata la necropoli longobarda, che ha notevolmente alterato<br />

le strutture abitative. Ad ovest e a sud-ovest di quest’area doveva estendersi la zona<br />

agricola (fig.8).<br />

Sul terzo terrazzamento, a nord, era situata una seconda zona residenziale, di età<br />

medio-repubblicana, articolata anch’essa attorno a un peristilio.<br />

Le ricerche condotte hanno permesso di individuare sei fasi di vita del complesso<br />

residenziale, sorto su un insediamento tardo-etrusco, testimoniato unicamente dalla<br />

presenza di un deposito scavato nel banco di tufite, un “butto” e tre pozzi di captazione<br />

dell’acqua, profondi in media 6/7 m., con pedarole per la discesa, all’interno<br />

dei quali si è rinvenuta ceramica databile tra la fine del IV la seconda metà del III<br />

sec. a.C.<br />

Insieme a questi materiali negli strati di riempimento si è rinvenuto anche vasellame<br />

protostorico e arcaico, che testimonia una frequentazione del sito anche in questi<br />

periodi, forse proprio in relazione alla presenza di falde idriche sotterranee.<br />

I tre pozzi vennero messi fuori uso già in epoca medio-repubblicana, evidentemente<br />

sostituiti da altre forme di rifornimento, quali le cisterne.<br />

La fase medio-repubblicana dell’insediamento non è attestata da vere e proprie<br />

strutture, ma da tracce “in negativo”: alloggiamenti per dolia effossa, buchi di palo per<br />

strutture lignee, cunicoli di drenaggio; il rinvenimento tuttavia di ceramica fine da<br />

mensa, tra cui un askòs a vernice nera del gruppo Ruvfies 1 con bollo in cartiglio rettangolare<br />

[ATRAN]E databile alla seconda metà del III sec. a.C. provano la presenza di<br />

un’area abitativa localizzata nell’area centro-meridionale della villa successivamente<br />

ingranditasi (fig.9).<br />

L’ampliamento dell’insediamento avviene nella seconda metà del II sec. a.C., periodo<br />

in cui sulla terrazza settentrionale si impianta un peristilio su cui affacciano ambienti<br />

con pavimento in opus punicum e pareti affrescate. Nel settore meridionale, che insiste<br />

sul banco di tufite, si impianta la pars rustica, con una serie di ambienti separati da<br />

un corridoio, il frantoio oleario, il doliarium, una vasca pavimentata in tessellato e rivestita<br />

in opus signinum, un pozzo collegato ad una cisterna a cunicoli; anche il settore<br />

occidentale appartiene alla pars rustica, con due vasche comunicanti disposte a quote<br />

diverse (una concimaia?), tre purgatoria e depositi per immagazzinamento di derrate<br />

alimentari scavati nel terreno.<br />

In età augustea gli ambienti di questa fase vengono coperti da uno strato di detriti e<br />

ceramica di II-I sec.a.C., tra cui vasellame a vernice nera, un denario argenteo di<br />

L.Flaminio Cybo del 108 a.C. e alcuni assi in bronzo della serie sestantaria della prora.<br />

Tra i materiali di questa fase rinvenuti negli strati sottopavimentali, riveste particolare<br />

interesse un vassoio in ardesia per medicinali 2 con l’iscrizione di L. Apuleio Saturnino,<br />

1<br />

A.CAMILLI, Una attestazione del Gruppo Ruvfies dal territorio vulcente, in “Archeologia Uomo<br />

Territorio”, 13, 1994, pp. 251-252.<br />

2<br />

L’iscrizione è stata studiata da Enrico Stanco, che ritiene che nel personaggio si possa identificare<br />

uno dei proprietari, probabilmente il primo, della villa. Gli Apulei erano una nota famiglia di origine<br />

plebea, attestata a Roma dalla seconda metà del II sec.a.C. In particolare proprio L. Apuleio<br />

67


in cui forse possiamo individuare il primo proprietario, nella fase repubblicana, della<br />

villa, che in questo periodo raggiunge la sua massima estensione, su tutte e tre le terrazze<br />

del pianoro (fig.10a-b). Nella zona residenziale della villa i riempimenti della<br />

fase augustea hanno restituito i bolli in cartiglio rettangolare Minucius.C.F., Minuci e<br />

L.Minuc(i), in cui possiamo identificare i proprietari della villa in questo periodo. La<br />

gens Minucia, di antica origine senatoria, è attestata fin dal IV sec.a.C. Un L.Minicius<br />

Natalis, ufficiale di Traiano, nel 108 d.C. dedica un altare ad Apollo a Maternum, sui<br />

monti di Canino (CIL XI, 2925).<br />

A Roma nel 107 a.C. un membro della gens Minucia, Minucio Rufo, dopo la vittoria<br />

sul popolo trace degli Scordisci, realizza la porticus Minucia vetus, utilizzata per le<br />

distribuzioni gratuite di grano, a cui in età claudia si viene ad aggiungere la Minucia<br />

frumentaria , che, dall’età costantiniana, sarà sede del curator aquarum et Minuciae 3 .<br />

In età augustea la villa viene ristrutturata; viene realizzato l’acquedotto che, attraversato<br />

lo Strozzavolpe, alimenterà l’area termale e le vicine cucine, situate nella terrazza<br />

meridionale. Viene realizzato l’atrio con la cisterna e la vasca-serbatoio, il frantoio<br />

oleario (di cui si sono rinvenute le vasche di lavorazione), il doliarium e il peristilio<br />

meridionale Anche il peristilio repubblicano della terrazza settentrionale viene<br />

ristrutturato, rinnovando i pavimenti degli ambienti circostanti.<br />

Tali rifacimenti sigillano una colmata costituita da materiali ceramici databili non<br />

oltre la prima età augustea, che costituisce quindi il terminus post quem.<br />

In questo periodo l’atrio della pars dominica viene abbellito con un puteal in travertino<br />

e un trapezoforo marmoreo, i cui frammenti verranno successivamente gettati all’interno<br />

della cisterna, a seguito dell’abbandono della villa.<br />

Tra la seconda metà del II e la prima del III sec.d.C. avviene una parziale ristrutturazione<br />

di alcuni settori della villa, sia nel settore residenziale meridionale, sia nell’atrio,<br />

dove la cisterna viene rialzata, che nella pars rustica del frantoio oleario, delimitata<br />

da un nuovo muro di recinzione.<br />

Nel V sec.d.C. la villa viene abbandonata, come indicano i materiali rinvenuti all’interno<br />

dei cunicoli di drenaggio e nel riempimento della cisterna. Tra questi rivestono<br />

particolare interesse undici brocche fittili in ceramica comune da mensa dipinte in<br />

rosso e cinque in rozza terracotta, oltre a vasellame in sigillata chiara africana dei tipi<br />

C3 e D (coppe e piatti) (fig.11).<br />

Le particolari condizioni ambientali e in particolare la presenza di un sedimento<br />

Saturnino, personaggio dalla vita politica piuttosto turbolenta, alleato di Mario, morto nel 100 a.C.<br />

durante una sommossa popolare, come questore nel 104 a.C. ebbe l’incarico di sovrintendere alle<br />

importazioni di grano a Ostia, in qualità di tribuno della plebe fu promotore di una legge agraria che,<br />

sulla scia di quelle graccane, prevedeva la distribuzione di terre ai cittadini indigenti fuori dall’Italia<br />

e di una lex frumentaria che poneva limiti al prezzo del grano (per la figura di L. Apuleio Saturnino<br />

si veda: F. CAVAGGIONI, L. Apuleio Saturnino, Tribunus plebis seditiosus in “Istituto Veneto di scienze,<br />

lettere ed arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti”, IX, 1998). Per quanto riguarda il vassoio,<br />

questo rientra tra i signacula oculariorum e trova stringenti confronti con altri esemplari, tra cui quello<br />

andato perduto rinvenuto in Inghilterra, a Littleborough (CIL XV, 204) e quello con il nome Tulius<br />

rinvenuto a Thedenatum (CIL XV, p. 601).<br />

3<br />

F. COARELLI, s.v. Porticus Minucia vetus in “LTUR”, Roma 1999, pp. 137-138; D. MANACORDA, s.v.<br />

Porticus Minucia Frumentaria in “LTUR”, Roma 1999, pp, 132-136 (entrambi con bibliografia precedente).<br />

68


limoso hanno permesso la conservazione di vegetali, come ad esempio il contenuto di<br />

alcuni dei recipienti, quali i capperi di una brocca, le visciole di una brocca in bronzo<br />

e i ceci di una pentola bronzea (fig.12).<br />

Lo studio di questi resti di cibo, insieme a quello dei legni 4 ha confermato la datazione<br />

dell’abbandono della villa nella prima metà del V sec. d.C.<br />

Al di sopra di questo strato si è rinvenuto un riempimento contenente, tra gli altri<br />

oggetti, frammenti del puteal e del trapezoforo augustei (fig.13) che decoravano l’atrio e<br />

che probabilmente vennero gettati nella cisterna nella fase longobarda o poco prima,<br />

forse in relazione agli effetti distruttivi causati dalla guerra greco-gotica.<br />

Tra la fine del VI e gli inizi del VII sec. d.C. su una parte della villa limitata all’area<br />

centrale e a quella meridionale si impostò un piccolo insediamento, le cui tracce<br />

sono riscontrabili in buchi di palo dei pavimenti dell’impianto termale, in incassi rinvenuti<br />

nel peristilio inferiore e nei riempimenti delle vasche del frantoio e dell’atrio,<br />

all’interno dei quali si sono rinvenuti materiali ceramici di V sec.d.C. e ceramica africana<br />

del tipo D2.<br />

Su questi strati tra il primo quarto e la metà del VII sec.d.C. si impianta, oltre all’insediamento<br />

abitativo, anche la chiesa cimiteriale e la vasta necropoli longobarda, che<br />

si sviluppa fino al IX secolo (INCITTI 1990, pp. 213-217; INCITTI 2002, pp. 372-374).<br />

La villa della Selvicciola, con il suo lunghissimo arco cronologico e l’importanza dei<br />

rinvenimenti, soprattutto per l’età longobarda, si pone tra quegli insediamenti più<br />

importanti dell’ ager statoniensis, che sopravvissero alla crisi del II sec.a.C., a seguito<br />

delle guerre puniche, e successivamente del II sec. d.C.; si trattava evidentemente di<br />

un insediamento basato su un’economia latifondista, di notevoli dimensioni (oltre due<br />

ettari), per il quale non appare azzardato ipotizzare l’appartenenza proposta prima alla<br />

gens Apuleia poi alla Minucia, entrambe legate, come si è visto, all’economia agricola.<br />

4<br />

I materiali vegetali sono stati studiati dalla Facoltà di Botanica dell’Università di Roma “Sapienza”;<br />

mentre quelli lignei e bronzei si trovano presso i laboratori di restauro della Soprintendenza<br />

Archeologica dell’Etruria Meridionale a Civitavecchia e Viterbo.<br />

69


BIBLIOGRAFIA<br />

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70


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TORELLI 1981<br />

M. TORELLI, Storia degli Etruschi, Roma-Bari<br />

71


NUOVE CONSIDERAZIONI SU ALCUNI RINVENIMENTI IN VIA DELL’ACQUA<br />

BULLICANTE A ROMA<br />

Roberto Manigrasso<br />

Ho accolto con entusiasmo l’iniziativa promossa dal Museo civico “Ferrante<br />

Rittatore Vonwiller” di Farnese (VT) per ricordare Mauro Incitti, al quale ero legato da<br />

profonda stima e sincera amicizia. Lui è stato ed è per noi archeologi della “vecchia<br />

guardia” un punto di riferimento in termini di onestà intellettuale e correttezza metodologica.<br />

Ho pensato quindi di riproporre in questa sede, alla luce delle nuove acquisizioni,<br />

l’analisi di due contesti rinvenuti nell’ormai lontano 2000 in via dell’Acqua Bullicante<br />

a Roma, perché è stata quella una delle ultime occasioni in cui ho incontrato Mauro “in<br />

trincea”.<br />

Tali contesti, emersi fortuitamente durante la posa di cavi telefonici, testimoniano<br />

dell’occupazione in antico della zona compresa tra le vie Prenestina e Labicana subito<br />

fuori Porta Maggiore, in un periodo che va dal III sec. a.C. ad almeno la seconda metà<br />

del II sec. d.C. 1<br />

L’INSEDIAMENTO RURALE D’EPOCA MEDIO TARDO-REPUBBLICANA 2<br />

In corrispondenza dei resti archeologici che andrò a illustrare, uno strato preparatorio<br />

della moderna massicciata stradale giaceva sui consistenti accumuli di materiale di<br />

riporto, risalenti alla più recente urbanizzazione della zona, ovvero sugli affioramenti<br />

tufacei preventivamente livellati. Per quanto riguarda questi ultimi, si tratta di una formazione<br />

tipica del distretto vulcanico dei Colli Albani, nota come Tufo lionato (Pleistocene).<br />

Il tratto di via dell’Acqua Bullicante interessato dalla presenza di strutture antiche<br />

è quello compreso tra via Atripalda e via Policastro. Nonostante la limitata porzione<br />

indagata, a causa dei precedenti interventi condotti su entrambi i lati della trincea aperta,<br />

i dati raccolti consentono di definire una serie di fasi.<br />

1<br />

Come già in occasione della prima notizia in Fasti on line documents&research (MANIGRASSO 2004 a<br />

e MANIGRASSO 2004 b ), desidero anche qui ringraziare Anna Buccellato, funzionario responsabile per<br />

la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Sono riconoscente, inoltre, all’assistente<br />

della stessa Soprintendenza, Massimo Todini, alla Società concessionaria, WIND Telecomunicazioni<br />

S.p.a. e alla Società appaltatrice, SIRTI S.p.a. L’analisi geologica è stata curata da Maria<br />

Bruno, quella antropologica da Giuseppina Colonnelli. La documentazione grafica e quella fotografica<br />

sono opera dello scrivente.<br />

2<br />

41°51’58.43”N/12°32’35.89”E MANIGRASSO 2004 a . Una sintesi dei risultati delle stesse indagini è<br />

in BUCCELLATO 2008 a .<br />

72


L’area di scavo è stata convenzionalmente suddivisa in quattro settori per agevolarne<br />

la descrizione.<br />

PRIMA FASE COSTRUTTIVA (TAV. IB)<br />

Risale a questa buona parte dei resti archeologici emersi, relativi ad almeno due<br />

ambienti.<br />

Nel settore I, si è rinvenuta una struttura muraria (n. 19) in blocchi di tufo lionato,<br />

disposti di taglio su un unico filare conservato, e orientata NO/SE (figg. 1 e 4). Tale struttura<br />

insiste direttamente sul livello di pozzolane superiori (n. 34) che, sul lato esterno<br />

della nostra, è tagliato (n. 26) fino all’interfaccia della sottostante formazione tufacea (n.<br />

27). Sembra trattarsi della fondazione in opera quadrata di una muratura a secco di tufo,<br />

in considerazione di un deposito di scapoli di tale materiale che era subito a SSO.<br />

Un sistema di canalizzazioni, anch’esso allestito nello stesso livello pozzolanico,<br />

garantiva il drenaggio all’interno dell’ambiente 1 che, almeno in parte, potrebbe essere<br />

stato a cielo aperto. L’imbocco di una prima canaletta (n. 39, fig. 4) è nell’angolo ENE<br />

del vano; con un dislivello di circa cm 11, essa si raccorda a una seconda (n. 22) che<br />

taglia ortogonalmente la fondazione della muratura n. 19 e prosegue all’esterno del<br />

medesimo ambiente.<br />

A conferma della necessità di uno smaltimento idrico in questa parte del complesso,<br />

vi è una sorta di crepidine (n. 24), risparmiata nel banco di pozzolana, che corre<br />

lungo il lato interno della muratura n. 19 e probabilmente anche in corrispondenza del<br />

limite ESE dell’ambiente 1 (n. 25). La struttura n. 24 presenta un rivestimento in tritume<br />

di tufo battuto, come quello utilizzato per la pavimentazione del medesimo ambiente<br />

(n. 17). Un residuo di questo particolare rivestimento è presente anche in corrispondenza<br />

della copertura della canaletta n. 39.<br />

Il profilo del pavimento n. 17 è a doppia pendenza verso la canaletta n. 22 e, in<br />

misura minore, in direzione dell’ambiente 2. Il punto più alto corrisponde a un taglio<br />

pressoché circolare (n. 5, fig. 5) riferibile all’alloggiamento di un contenitore di grandi<br />

dimensioni, forse un dolium; i due spezzoni di tegole (n. 7/E), rinvenuti in situ e disposti<br />

simmetricamente a mo’ di zeppe, testimoniano di una simile destinazione d’uso.<br />

A ridosso del lato ESE del taglio n. 5 vi è quello n. 5/A, forse pertinente all’utilizzo<br />

del contenitore sopradetto; nell’angolo NE dello stesso, ben costipata nel battuto n. 17,<br />

una coppetta integra in ceramica a vernice nera del tipo Morel 2783f 1 (305-265 a.C.) 3<br />

che, quasi certamente in posto, fornisce un’indicazione cronologica circa l’allestimento<br />

del pavimento.<br />

Un grattatoio litico con margine ritoccato ad arco di cerchio, per quanto sporadico,<br />

potrebbe rappresentare a sua volta l’indicatore di una frequentazione ben più antica<br />

dell’area.<br />

In corrispondenza del condotto fognario moderno (n. 41) è affiorata la fondazione del<br />

setto divisorio tra gli ambienti 1 e 2 (n. 28), realizzata a sacco direttamente nel banco<br />

di pozzolane superiori (fig. 2). Il saggio A, aperto a ridosso di tale struttura, ha rivelato<br />

un altro taglio nella formazione naturale, ortogonale alla muratura n. 28 e riempito con<br />

lo stesso materiale di cui è composto il rivestimento pavimentale.<br />

Dell’ambiente 2 si sono trovate le murature sui lati ESE e SSO, oltre a quella in<br />

3<br />

MOREL 1981, p. 223, tav. 72.<br />

73


comune con l’ambiente 1 (figg. 2 e 3). Della prima (n. 29) si conserva lo spiccato dell’alzato<br />

in opera a secco di tufo e la relativa fondazione a sacco (nn. 15/42). Una struttura<br />

in spezzoni di tegole (n. 43) è allestita, in questa fase o nella successiva, nell’angolo<br />

NE dello stesso ambiente.<br />

Sul lato SSO un esiguo brano di muratura a secco (n. 44) s’imposta anch’esso su una<br />

fondazione a sacco (nn. 16/30).<br />

La pavimentazione (n. 18) è realizzata nella stessa tecnica che nell’ambiente 1 ma<br />

in modo più accurato, o forse è solo meglio conservata non essendo originariamente<br />

esposta agli agenti atmosferici.<br />

SECONDA FASE COSTRUTTIVA (TAV. IB)<br />

A una fase ulteriore si riferisce una serie d’interventi sulle strutture fin qui descritte.<br />

Nel settore I, a ridosso del lato esterno della muratura n. 19, sembra essersi addossata<br />

una struttura in blocchi di tufo (n. 20), previo rialzamento del livello di calpestio<br />

con materiale di riporto (fig. 4). Probabilmente un sopraggiunto dissesto della stessa<br />

muratura n. 19 richiese, oltre al suo consolidamento statico, anche l’abbandono dell’articolato<br />

sistema di drenaggio di prima fase.<br />

Nell’ambiente 2 sono documentati tre incassi quadrangolari (nn. 10-12) ricavati nel<br />

pavimento a ridosso della muratura n. 29 e forse funzionali all’alloggiamento di una<br />

struttura mobile.<br />

PRIMA FASE DI SPOLIAZIONE, ABBANDONO E CROLLO DELLE STRUTTURE (TAV. IA)<br />

Al momento precedente l’abbandono del complesso medio-repubblicano va riferito<br />

il recupero del dolium; tale intervento non dovette giungere a buon fine, stando alla presenza<br />

di alcuni frammenti dello stesso contenitore nelle immediate vicinanze della<br />

fossa che probabilmente lo conteneva.<br />

Là dove la fase di abbandono del contesto è documentabile solo in corrispondenza<br />

del taglio n. 5 (nn. 7-7/D), quella di crollo è ampiamente attestata su quasi tutta l’area<br />

di scavo, come si evince dai livelli di tegole e coppi delle coperture (nn. 3 e 8) e da<br />

quelli di scapoli di tufo delle murature a secco (nn. 2 e 9).<br />

SECONDA FASE DI SPOLIAZIONE (TAV. IB)<br />

Nell’ambiente 2 la pavimentazione n. 18, che appariva sgombra dal materiale di<br />

crollo, è stata oggetto di spoliazione sistematica forse già in antico; chiaramente riconoscibili<br />

lungo il bordo del taglio n. 13, le tracce dello strumento utilizzato, probabilmente<br />

un bidente (figg. 2 e 3).<br />

Altrettanto sistematico sembra essere stato il recupero dei blocchi di tufo del muro<br />

n. 19 nell’ambiente 1; essi mostrano chiaramente le tracce di rilavorazione condotta sul<br />

posto (n. 33, fig. 4) e finalizzata, almeno in parte, alla produzione di cubilia (fig. 6).<br />

Un consistente strato di materiale di riporto ricopriva l’area indagata in corrispondenza<br />

dei settori I-III; i reperti all’interno di tale colmata risalgono a epoca mediorepubblicana.<br />

TERZA FASE COSTRUTTIVA (TAV. IB)<br />

Presso il limite ESE dell’area è emersa una struttura assai compromessa ma ancora<br />

abbastanza leggibile (n. 31); si tratta di una muratura contenente alcuni cubilia (fig. 7),<br />

74


la cui fondazione a sacco (n. 32) è allestita direttamente nella colmata sopradetta.<br />

Pertanto, la sua realizzazione può essere ascritta a un periodo compreso tra il I secolo<br />

a.C. e il successivo 4 .<br />

Insediamenti analoghi, più ampiamente indagati, sono noti in quasi tutto l’Agro<br />

romano 5 . Quello orientale, in particolare, conosce radicali trasformazioni proprio nel<br />

corso del III sec. a.C., nell’ambito di un più ampio processo d’organizzazione territoriale<br />

culminante con la realizzazione dell’acquedotto dell’Anio Vetus (272 a.C.) 6 .<br />

L’occupazione del sito potrebbe ricollegarsi alla presenza del vicino fosso La<br />

Marranella. Quest’affluente del fiume Aniene, ancora attivo alla metà degli anni Trenta<br />

del secolo scorso 7 , già in antico assicurava l’approvvigionamento idrico all’impianto<br />

rurale che si trova, certo non a caso, in posizione riparata rispetto alle piene documentate<br />

più a valle 8 . La vocazione agricola dell’insediamento di via dell’Acqua Bullicante<br />

troverebbe conferma nell’impianto di coltivazione specializzata individuato nelle immediate<br />

vicinanze 9 e suo probabile fundus 10 .<br />

Tra la metà del III e la fine del II sec. a.C., anche in questa parte del suburbio, l’opera<br />

quadrata rappresenta la tecnica muraria maggiormente impiegata, così come nelle<br />

ristrutturazioni del secolo successivo diventa preminente l’uso di quella reticolata. Al<br />

pari di altri contesti non lontani, quali per esempio la cd. villa di via Lizzani 11 e la cd.<br />

villa del Casale di Torre Spaccata 12 , anche nel nostro è possibile seguire la medesima<br />

evoluzione tecnico-costruttiva, seppur nei limiti oggettivi dell’indagine condotta.<br />

LE SEPOLTURE DI ETÀ IMPERIALE 13<br />

All’altezza dell’incrocio della stessa via dell’Acqua Bullicante con via Portici, si<br />

sono rinvenute due tombe del tipo a fossa con copertura di tegole “alla cappuccina”,<br />

allestite nel banco di tufo lionato, a circa m 1 l’una dall’altra (fig. 8).<br />

Come nel caso dell’insediamento rurale, entrambe le sepolture sono state interessate<br />

da pregressi interventi per l’adeguamento dei servizi di pubblica utilità. Pertanto non<br />

è stata possibile l’ispezione completa della tomba n. 1, la cui porzione SSO prosegue al<br />

disotto di un’infrastruttura dell’alta tensione. Quanto alla n. 2, essa manca delle estremità<br />

dell’inumato, sacrificate durante i predetti interventi.<br />

4<br />

Anche durante l’ultima fase costruttiva della cd. villa dell’Auditorium, una struttura muraria in<br />

opera quasi reticolata, com’era forse la nostra n. 31, serviva a separare il complesso edilizio dai campi<br />

(DI SANTO 2006, p. 281, figg. 167-168).<br />

Topograficamente più vicino è l’esempio della cd. villa A204; sorta in età tardo-repubblicana<br />

anch’essa è caratterizzata da un recinto in reticolato (si veda da ultimo CICERONI 2008 a , p. 188).<br />

5<br />

Per una panoramica degli insediamenti rustici suburbani nel periodo medio-repubblicano si veda<br />

DE FRANCESCHINI 2005, pp. 295-300.<br />

6<br />

Cfr. MUSCO-ZACCAGNI 1985.<br />

7<br />

Cfr. FRUTAZ 1962, p. 293, tav. 623.<br />

8<br />

VENTRIGLIA 2002, pp. 76-77, f. 6.<br />

9<br />

Si tratta di “un sistema di porcae o lirae (fosse a sezione concava, larghe m 0,60-0,90 = 2-3 piedi<br />

romani, delimitate da cordoli spessi cm 10 ca.), con orientamento NordEst-SudOvest, conforme alla<br />

pendenza del terreno” (BUCCELLATO 2008 b , p. 357, n. 386).<br />

10<br />

Cfr. BUCCELLATO 2008 c .<br />

11<br />

12<br />

13<br />

Da ultimo CAMILLI 2008.<br />

Da ultimo CICERONI 2008 b .<br />

41°53’14.04”N / 12°32’34.96”E. MANIGRASSO 2004 b .<br />

75


TOMBA N. 1<br />

La prima sepoltura si presentava ricoperta dello stesso materiale di risulta della<br />

fossa. Si trattava, infatti, di pezzame informe di tufo accumulato direttamente sulla<br />

copertura di tegole (tav. II). Queste ultime erano disposte a spioventi nel senso della<br />

lunghezza; di forma trapezoidale esse rientrano nello standard ostiense (m 0,43x0,58) e<br />

sono databili all’età imperiale; il colmo era a m 1,33 al disotto del piano stradale.<br />

Sebbene si presentasse abbastanza conservata, la copertura ha subito uno schiacciamento<br />

con la conseguente caduta di frammenti di tegole all’interno della tomba. Il taglio<br />

della fossa, orientato ENE/OSO, è di forma rettangolare con gli angoli piuttosto arrotondati;<br />

i margini sono irregolari, il profilo delle pareti è leggermente concavo e lo stacco,<br />

tra la superficie della parete e quella del margine superiore, graduale; il profilo del<br />

fondo è piatto e le pareti sono appena inclinate (tav. IV).<br />

La parte più profonda, in cui erano i resti ossei, è più stretta (m 0,45/34); una risega<br />

in corrispondenza di tale variazione forniva il necessario appoggio alla copertura.<br />

La tomba era, almeno nella porzione indagata, priva di corredo. Dall’analisi antropologica<br />

l’inumato è risultato d’età giovanile e di sesso indeterminato a causa dell’incompleto<br />

recupero (tav. III) 14 .<br />

TOMBA N. 2<br />

La seconda sepoltura era allestita grossomodo come la precedente. La copertura di<br />

tegole, qui disposte a spioventi nel senso della larghezza, presentava il colmo a solo m<br />

0,65 di profondità rispetto al piano stradale (tav. II). Tutte di forma trapezoidale, due di<br />

quelle recano impresso il marchio di fabbrica. Sulla terza tegola da ENE, lungo il lato<br />

NNO della fossa, è il bollo di Ulpius Anicetianus, databile al 154 e già documentato nel<br />

luogo detto Acqua bollicante 15 . Quella corrispondente sul lato opposto, è contraddistinta<br />

dal bollo ex fig(linis) Fulvian(is) Port(u) Licini, del 140, a sua volta documentato a Roma<br />

- all’Esquilino e sulla via Latina - a Ostia, Grottaferrata e Monte Albano 16 .<br />

Il taglio della fossa, orientato ENE/OSO come nell’altra, è di forma rettangolare con<br />

gli angoli piuttosto arrotondati; i margini sono regolari, il profilo delle pareti è leggermente<br />

concavo e lo stacco tra la superficie della parete e quella del margine superiore è<br />

graduale. Entrambe le pareti sono appena inclinate verso il fondo piatto (tav. IV). Un<br />

approfondimento in corrispondenza dell’angolo ONO della tomba, colmato con materiale<br />

di risulta prima di deporvi il defunto, testimonierebbe del tentativo di proseguire lo<br />

scavo, forse fino alla stessa quota della sepoltura vicina. A conferma di ciò sono ben riconoscibili<br />

sul fondo della fossa, presso l’angolo SSO, le tracce della piccozza utilizzata.<br />

La sepoltura era anch’essa, almeno nella porzione indagata, priva di qualsiasi elemento<br />

di corredo. L’inumato era d’età adulta (24-30 anni) e di sesso femminile; esso<br />

14<br />

“Deposizione primaria. L’inumato giace in posizione supina. Sono presenti: frammenti di cranio,<br />

frammenti di mandibola, le clavicole, frammenti delle scapole, frammenti degli omeri, frammento di<br />

ulna sin, frammenti di costole e frammenti di vertebre. Lo stato di conservazione è mediocre. Il cranio<br />

è leggermente ruotato a dx e connesso alle vertebre cervicali. La clavicola sin è verticalizzata.<br />

L’omero sin è ruotato medialmente. Il torace è appiattito. (...) Misure: omero sin=28,5” (dalla relativa<br />

scheda tafonomica redatta da G. Colonnelli il 17.02.2000).<br />

15<br />

CIL, XV, 1086.<br />

16<br />

CIL, XV, 226.<br />

76


mostrava gli avambracci flessi al disotto del bacino 17 , probabilmente per adattarlo allo<br />

spazio disponibile non sufficientemente adeguato (tav. III, fig. 14) 18 .<br />

Le due tombe rinvenute, forse più che l’insediamento, potrebbero rappresentare un<br />

nuovo indizio circa l’esistenza di un antico asse viario quasi corrispondente all’odierna<br />

via dell’Acqua Bullicante (tav. V/15, n. 168) 19 , sul bordo del quale sarebbero state allestite.<br />

La strada avrebbe garantito il collegamento della via Labicana con la Prenestina<br />

e la Tiburtina a Nord e, attraverso il tracciato corrispondente all’attuale via del<br />

Mandrione (tav. V/15, n. 266) 20 , con la Tuscolana a Sud.<br />

L’odierna via del Pigneto ricalcherebbe a sua volta una preesistenza viaria (tav.<br />

V/15, n. 248; 16, n. 395) 21 , ai lati della quale vi erano altre tombe 22 . Quest’antico percorso<br />

è considerato certo solo in parte, ma si è propensi a ritenere che esso tagliasse il<br />

presunto asse di via dell’Acqua Bullicante per poi unirsi più a Est a quello corrispondente<br />

all’attuale via Labico (tav. V/24 n. 16; 25 n. 1; 16, n. 405) 23 .<br />

Lo Ashby per primo notò che il vicolo dei Carbonari - percorso ottocentesco ricalcato<br />

nel tratto iniziale dalla stessa via Labico - si troverebbe sul medesimo asse del tracciato<br />

di via del Pigneto, del quale poteva rappresentare l’ideale prolungamento (tav.<br />

VIII/16, n. 395). Inoltre, egli ipotizzò un bivio nello stesso tracciato di via del Pigneto<br />

all’altezza di Vigna Pulini; il braccio sinistro di quello, corrispondente all’odierna viabilità,<br />

andrebbe proprio a lambire il nucleo di necropoli di via dell’Acqua Bullicante,<br />

come per altro si evince dalla Carta dell’Agro (tav. V/15) 24 .<br />

Ma la posizione così decentrata del contesto rinvenuto rispetto alla vasta area funeraria<br />

formatasi dall’età repubblicana a ridosso della via Labicana 25 , troverebbe una sua<br />

ragion d’essere nei pressi di un crocevia d’indubbia valenza topografica.<br />

17<br />

“Deposizione primaria rimaneggiata. L’inumato giace in posizione supina. Sono presenti: frammenti di<br />

cranio, di mandibola, di clavicola sin, delle scapole, degli omeri, degli avambracci, le mani, frammenti<br />

di costole, vertebre, lo sterno, frammenti di bacino, l’osso sacro, i femori, le rotule e frammenti delle tibie.<br />

Lo stato di conservazione è mediocre. L’unico frammento di cranio rimaneggiato (mascellare) è posto in<br />

prossimità delle costole. Gli avambracci sono flessi al disotto del bacino. Alcune costole sono rimaneggiate.<br />

La colonna vertebrale è parzialmente disconnessa. La clavicola sin è verticalizzata. Le falangi delle<br />

mani sono poste intorno al bacino e accanto ai femori. Dall’appiattimento del torace e delle ossa coxali è<br />

possibile dedurre una decomposizione del corpo in uno spazio vuoto. Gli arti inferiori sono distesi. (...)<br />

Misure: femore sin=42; femore dx=42” (dalla relativa scheda tafonomica redatta da G. Colonnelli il<br />

17.02.2000).<br />

18<br />

Una tale posizione del defunto è piuttosto ricorrente anche in contesti non lontani. Tra gli altri, si veda<br />

il caso di alcune sepolture di V-VI sec. presso la cd. villa delle Terme (BARTOLONI 2007); nella tomba n.<br />

4, all’interno di un sarcofago di III sec., un individuo di sesso maschile giaceva proprio con gli avambracci<br />

composti dietro la schiena.<br />

19<br />

Carta dell’Agro, 15, n. 168. Sul probabile tracciato viario si veda Nibby 1837, p.7 e, da ultimo,<br />

ARMELLIN 2004, p. 91, n. 26.<br />

20<br />

CARTA DELL’AGRO, 15, n. 266; 24, nn. 5, 13; ARMELLIN 2004, pp. 83-84, n. 12.<br />

21<br />

CARTA DELL’AGRO, 15, n. 248; 16, n. 395. Sull’antico tracciato stradale si veda da ultimo Armellin 2004,<br />

p. 78, n. 4.<br />

22<br />

Nel 1891 il Lanciani diede notizia di due cippi uno dei quali, rinvenuto a ridosso di via del Pigneto,<br />

indicherebbe oltre alla “posizione esatta dell’area sepolcrale degli Annii e dei Remmii” anche “l’antichità”<br />

della medesima via (LANCIANI 1891, pp. 321-322). Anche in questo caso per l’esame puntuale dei<br />

dati bibliografici e archivistici si rimanda ad ARMELLIN 2004, p. 80, n. 9.<br />

23<br />

CARTA DELL’AGRO, 16, n. 405; 24, n. 16; 25, n. 1; ARMELLIN 2004, p. 95, n. 35.<br />

24<br />

ASHBY 1902, pp. 151-152, 221, tav. I.<br />

25<br />

ARMELLIN 2004, p. 90 e sgg.<br />

77


BIBLIOGRAFIA<br />

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P. ARMELLIN, Le evidenze archeologiche dai dati bibliografici ed archivistici, in Centocelle I, pp.<br />

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ASHBY 1902<br />

T. ASHBY, The Classical Topography of the Roman Campagna I, in “BSR” I, pp. 127-285.<br />

BARTOLONI 2007<br />

V. BARTOLONI, La villa delle terme: le sepolture tardoantiche, in Centocelle II.Roma S.D.O. Le indagini<br />

archeologiche, a cura di R. VOLPE, Roma, pp. 275-281.<br />

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385<br />

BUCCELLATO 2008 b<br />

A. BUCCELLATO, Impianto agricolo in via Policastro, in Torre Spaccata, p. 357, n. 386.<br />

BUCCELLATO 2008 c<br />

A. BUCCELLATO, Antichi contesti rurali nel VI Municipio, in Torre Spaccata, pp. 355-356.<br />

CAMILLI 2008<br />

A. CAMILLI, La villa di via Lizzani, in Torre Spaccata, pp. 167-168, n. 220.<br />

CARTA DELL’AGRO<br />

Carta Storica Archeologica Monumentale e Paesistica del Suburbio e dell’Agro Romano, Roma<br />

1990<br />

CENTOCELLE I<br />

Centocelle I. Roma S.D.O. Le indagini archeologiche, a cura di P. GIOIA, R. VOLPE, Roma 2004.<br />

CICERONI 2008 a<br />

M. CICERONI, La villa di A204, in Torre Spaccata, pp. 173-241, n. 226.<br />

CICERONI 2008 b<br />

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DE FRANCESCHINI 2005<br />

M. DE FRANCESCHINI, Ville dell’Agro Romano, Roma.<br />

DI SANTO 2006<br />

S. DI SANTO, Periodo 5. L’ultima villa (80 a.C.-150 d.C.), in La fattoria e la villa dell’Auditorium<br />

nel quartiere Flaminio di Roma, a cura di A. CARANDINI, M. T. D’ALESSIO, H. DI GIUSEPPE<br />

(“BullCom” Suppl. 14), Roma, pp. 281-300.<br />

FRUTAZ 1962<br />

A. P. FRUTAZ, Le piante di Roma, Roma.<br />

LANCIANI 1891<br />

R. LANCIANI, Miscellanea topografica, in “BullCom”, pp. 305-329.<br />

MANIGRASSO 2004 a<br />

R. MANIGRASSO, Un insediamento rurale in via dell’Acqua Bullicante a Roma, in “Fold&r” 9.<br />

MANIGRASSO 2004 b<br />

R. MANIGRASSO, Due tombe d’età imperiale rinvenute in via dell’Acqua Bullicante a Roma,<br />

“Fold&r” 22.<br />

MOREL 1981<br />

J. P. MOREL, Céramique campanienne. Le formes, Roma.<br />

MUSCO-ZACCAGNI 1985<br />

78


S. MUSCO, P. ZACCAGNI, Caratteri e forme di insediamenti rustici e residenziali nel suburbio orientale<br />

tra il IV ed il I secolo a.C., in Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano.<br />

Città, agricoltura, commercio: materiali da Roma e dal suburbio, a cura di S. SETTIS, Modena,<br />

pp. 90-106.<br />

NIBBY 1848<br />

A. NIBBY, Analisi storico-topografica-antiquaria della carta de’ dintorni di Roma (1837), Roma.<br />

TORRE SPACCATA<br />

Torre Spaccata. Roma S.D.O. Le indagini archeologiche, a cura di P. GIOIA, Roma 2008.<br />

VENTRIGLIA 2002<br />

U. VENTRIGLIA, Geologia del territorio del Comune di Roma, Roma.<br />

79


ETRUSCHI E ROMANI NEL LAMONE:<br />

RICERCHE DI TOPOGRAFIA ANTICA IN TERRITORIO CASTRENSE<br />

Luca Pulcinelli<br />

«Ho percorso una parte dell’antica Etruria, ch’è di rado o non mai visitata dagli<br />

archeologi...»: la considerazione di G. Dennis riguardo al territorio castrense è rimasta<br />

sostanzialmente valida per quasi un secolo dopo le esplorazioni dello studioso.<br />

Complice la difficoltà delle comunicazioni, la ricchezza delle testimonianze archeologiche<br />

del nostro territorio è rimasta pressoché sconosciuta agli studiosi fino circa alla<br />

metà del XX secolo, lasciando spazio a ricostruzioni erudite e poco interessate alla<br />

reale consistenza dei resti antichi. Solo con gli studi di F. Rittatore Vonwiller prima e<br />

con l’impegno delle équipes del Gruppo Archeologico Romano poi è stato possibile iniziare<br />

a tratteggiare un quadro storico e topografico completo di questa parte dell’antico<br />

territorio vulcente. In queste poche pagine si cercherà di raccogliere, senza pretese di<br />

completezza, una rapida sintesi dei molti lavori che hanno contribuito, in maniera più<br />

o meno consistente, a smentire dopo oltre centocinquant’anni le parole del grande viaggiatore<br />

inglese.<br />

George Dennis e le prime ricerche erudite<br />

Uno dei primi viaggiatori a percorrere il territorio con interessi topografici ed<br />

archeologici fu come noto G. Dennis, già nei suoi viaggi nel 1842-1847 1 . Giungendo ad<br />

Ischia di Castro ne notò il carattere etrusco, anche se non riconobbe la presenza di resti<br />

specifici, se non numerose tombe sui costoni circostanti, tutte riutilizzate e trasformate.<br />

Nella trattazione generale vengono ricordate di sfuggita le ricerche compiute alcuni<br />

anni prima dal Campanari di Tuscania 2 , nonché alcune più interessanti emergenze della<br />

zona, tra cui quelle di Piansano. Il viaggiatore inglese lasciò inoltre, come suo solito,<br />

diverse acute testimonianze della vita quotidiana nei due villaggi all’epoca minuscoli di<br />

Ischia e Farnese. A proposito di quest’ultimo non mancò di ricordare le antiche ipotesi<br />

topografiche che vi volevano identificare la stazione itineraria di Maternum (eventualmente<br />

identificata anche con l’oscuro centro di Sudertum ricordato da Tolomeo)<br />

sulla Via Clodia, anche se giunse onestamente alla conclusione che non vi fossero ele-<br />

1<br />

Le prime notizie sono pubblicate in G. DENNIS, Monumenti etruschi, in « BdI », 1845, pp. 139-140, poi<br />

cfr. soprattutto G. DENNIS, The Cities and Cemeteries of Etruria, London 1883 (terza ed.), vol. I, pp. 489-<br />

496. Il testo in questa parte riprende senza modifiche la prima edizione dell’opera (London 1848).<br />

2<br />

Vengono ricordati degli scavi condotti «qualche anno addietro» dal Campanari, senza purtroppo altre<br />

indicazioni. Una possibile testimonianza di altre ricerche occasionali nella zona di Ischia di Castro (o<br />

piuttosto nelle necropoli di Castro) è data da F. ORIOLI, Antichità etrusche, in “BdI”, 1849, pp. 179-180:<br />

sul ritrovamento della tomba etrusca con iscrizione CIE 11260, databile probabilmente agli inizi del VI<br />

secolo a.C., cfr. anche G. COLONNA, Ager Volsiniensis: Grotte di Castro, in “StEtr”, XXXV, pp. 566-567 e<br />

G. COLONNA, Ricerche sull’Etruria interna volsiniese, in “StEtr”, XLI, 1973, p. 61, nota 94.<br />

80


menti per comprovare tali teorie 3 . Visitò poi Castro, spinto anche da racconti di gente<br />

del luogo che parlava di antichi resti etruschi 4 , lasciando del sito una descrizione<br />

alquanto romantica ed orrorifica 5 . Ritenendo, sulla base del nome, che il centro avesse<br />

origini romane, riportò la teoria del Cluverio che identificava Castro con l’antica<br />

Statonia, ma anche in questo caso obiettò che non vi fossero elementi per arrivare ad<br />

una identificazione. Ancora, parlando della vicina Valentano, ebbe modo di confutare<br />

l’identificazione del sito con il Fanum Voltumnae fatta da L. Canina, notando la totale<br />

assenza di tracce antiche in tale luogo 6 . Muovendo infine da Valentano verso Pitigliano,<br />

lungo una via che al tempo era solo un sentiero e che al giorno d’oggi non esiste più,<br />

vide anche il solitario Lago di Mezzano, che identificò senza dubbio con il Lacus<br />

Statoniensis ricordato dalle fonti antiche 7 .<br />

L’interesse per il Voltone<br />

L’ipotesi che collegava il moderno toponimo della tenuta del Voltone con il remoto<br />

ed introvabile Fanum Voltumnae sembra essere stata espressa per la prima volta dall’erudito<br />

e scavatore tuscanese S. Campanari, nella sua opera uscita postuma nel 1856.<br />

L’identificazione, basata principalmente sulla somiglianza toponomastica, si appoggiava<br />

per quanto si sa anche su alcune osservazioni dirette del terreno 8 .<br />

La questione venne ripresa nel 1880 da W. Helbig, venuto casualmente a conoscenza<br />

del luogo grazie a delle «antichità etrusche» da esso provenienti, notate presso un<br />

3<br />

Anche qui vengono ricordati scavi «superficiali» fatti dal Campanari nella piana intorno all’abitato.<br />

Come di consueto, anche intorno a Farnese viene segnalata la presenza di antiche tombe rupestri, tutte<br />

riutilizzate e trasformate per usi agricoli.<br />

4<br />

Per raggiungere Castro da Farnese, il viaggiatore percorse un sentiero accidentato, attraverso una gola<br />

boscosa, oltrepassando anche un rilievo che attirò al sua attenzione per essere interamente «dalla base<br />

alla sommità, cosparso di grandi blocchi di lava». La singolare visione rammentò all’inglese alcuni evocativi<br />

versi del The Lady of the Lake di W. Scott: «Crags, knolls, and mounds confusedly hurl’d / The<br />

fragments of an earlier world». L’indicazione, per quanto vaga, sembra chiaramente essere un riferimento<br />

al caratteristico paesaggio del Lamone. Il percorso, passante per il Piano della Galeazza e per il Ponte<br />

di Stenzano, seguiva la valle dell’Olpeta costeggiando il margine meridionale della Selva: tale tracciato<br />

è chiaramente riconoscibile nella dettagliata carta topografica dell’Istituto Geografico Militare di Vienna<br />

(1851), F. 14 (cfr. A. P. FRUTAZ, Le carte del <strong>Lazio</strong>, Roma 1972, tavv. 284 e 286).<br />

5<br />

«... uno dei [luoghi] più lugubri che ricordo in Etruria», «... in nessuna località il passato oscura lo spirito<br />

con più profondo terrore». I passi sono tratti dalla traduzione italiana fatta da D. Mantovani in G.<br />

DENNIS, Vulci, Canino, Ischia , Farnese (a cura di F. CAMBI), Siena 1993.<br />

6<br />

L. CANINA, L’antica Etruria marittima compresa nella dizione pontificia, Roma 1846-1851, vol. II, p.<br />

131, che parla comunque in maniera assai generica di una località nei dintorni di Valentano. La presenza<br />

di «sepolcri presso Valentano» sembrerebbe però indicata dall’iscrizione etrusca CIE 11261, su<br />

un piattello dello Spurinas Group (fine VI – inizi V secolo a.C.) visto dal Gamurrini ad Orvieto nel 1876,<br />

nella collezione Mancini (D. BRIQUEL, Origines incertae, n. 45, pp. 334-335).<br />

7<br />

Il ricordo di scavi e resti di tombe etrusche presso Ponte San Pietro (DENNIS, op. cit., vol. I, p. 498, nota<br />

3) è in realtà da riferire con certezza al sito di Poggio Buco, come si ricava più chiaramente dal precedente<br />

DENNIS, art. cit., p. 140.<br />

8<br />

S. CAMPANARI, Tuscania e i suoi monumenti, Montefiascone 1856, p. 13. Non si fa menzione però dei<br />

differenti saggi condotti nel territorio di Ischia e Farnese, di cui brevemente ci informa il Dennis, forse<br />

perchè i risultati, evidentemente scarsi, non dovettero essere particolarmente esaltanti per lo scavatore.<br />

81


antiquario di Civitavecchia 9 . Anche lo Helbig collegò il toponimo al nome del celebre<br />

santuario etrusco e ritenne l’identificazione proposta dal Campanari, pure ipotetica,<br />

come la più credibile fra quelle avanzate fino ad allora 10 . L’archeologo tedesco ispezionò<br />

quindi brevemente il sito in compagnia di F. Marcelliani, esperto conoscitore dei luoghi,<br />

che già per proprio conto aveva cercato di seguire le orme del Campanari: l’attenzione<br />

dei due si appuntò sul pianoro del Voltoncino, o Chiusa del Tempio, dove l’affiorare<br />

di blocchi di pietra lavorati e materiale ceramico, come anche certe irregolarità del<br />

terreno, indiziavano la presenza di antiche strutture. Nei punti più promettenti vennero<br />

anche eseguiti dei limitati sondaggi superficiali, che fecero intravedere la presenza<br />

di alcune murature. Se la presenza di strutture venne giudicata un elemento favorevole,<br />

si riconobbe però che la datazione apparentemente recente delle stesse non consentiva<br />

di giungere ad alcuna certezza.<br />

Solo nel 1898, sollecitata «più volte e da varie parti», venne intrapresa una regolare<br />

campagna di scavi su iniziativa di L. A. Milani, allora direttore del Museo archeologico<br />

di Firenze, che ne affidò la direzione all’archeologo G. Pellegrini. L’intervento fu<br />

assai rapido ma permise comunque di portare in luce e rilevare una discreta porzione<br />

delle strutture, che vennero correttamente identificate con un edificio di culto cristiano<br />

di età medievale, con annesse alcune tombe a cassone realizzate in materiali di recupero<br />

11 . L’esistenza di resti archeologici e presenze di epoca romana nei dintorni venne<br />

comunque ipotizzata in base all’abbondanza dei materiali antichi di reimpiego presenti<br />

nelle murature 12 . Anche se le scoperte sostanzialmente smentivano le ipotesi dello<br />

Helbig, l’idea che il Fanum Voltumnae fosse da ricercare nella zona non venne del tutto<br />

abbandonata: il principale candidato all’identificazione divenne così, nell’opinione del<br />

Milani e del Pellegrini, il vicino Monte Becco.<br />

Nella breve campagna, il Pellegrini ebbe modo inoltre di raccogliere una ricca serie<br />

di informazioni sulle presenze archeologiche del territorio circostante, anche compiendo<br />

alcuni sopralluoghi e sondaggi. Venne così indagata sommariamente una cospicua<br />

9<br />

W. HELBIG, Il Voltone, in “BdI”, 1880, pp. 242-247. È interessante (ma anche drammatico, se si<br />

pensa alla difficoltà di risalire alle originarie provenienze di tanti materiali conservati in musei e collezioni)<br />

notare che lo studioso ebbe modo successivamente di riconoscere gli stessi reperti presso un<br />

altro antiquario di Roma, con la falsa indicazione di provenienza da Vulci, evidentemente più prestigiosa<br />

e dunque di maggior valore commerciale!<br />

10<br />

Lo studioso si riferiva in primo luogo alle teorie del Dennis, che proponeva di cercare il santuario<br />

sul colle di Montefiascone (DENNIS, op. cit., vol. II, pp. 33-35), e del Canina che, come si è visto, lo<br />

posizionava nella zona di Valentano, nonché con quelle di quanti richiamavano l’attenzione sul nome<br />

dell’antica chiesa viterbese di S. Maria in Volturna (L. LANZI, Saggio di lingua etrusca, Firenze 1822-<br />

1825, vol. II, pp. 107-109; G. AMBROSCH, Osservazioni, in “Memorie dell’Instituto di Corrispondenza<br />

Archeologica”, I, 1832, p. 149; F. ORIOLI, Viterbo e il suo territorio, Roma 1849, pp. 80-93).<br />

11<br />

G. PELLEGRINI, Pitigliano. Antichità etrusche e romane del territorio pitiglianese e Scavi nella tenuta<br />

del Voltone, in “NSc”, 1898, pp. 50-63. Appena si riconobbe la vera natura dei resti lo scavo venne<br />

purtroppo sospeso, avendo perso nell’ottica del tempo qualsiasi interesse archeologico.<br />

12<br />

Oltre all’abbondante ceramica post-antica, viene ricordata la singolare presenza di un grandissimo<br />

numero di ossa umane, che viene ricollegata ad un sanguinoso fatto d’arme avvenuto nel 1643 in questa<br />

zona, ma forse da collegare piuttosto con l’edificio stesso. Da citare anche il rinvenimento casuale<br />

di uno statere aureo del re Filippo II di Macedonia, che attesta una certa frequentazione di età<br />

tardo-classica ed ellenistica (G. F. GAMURRINI, Pitigliano. Di uno statere di oro di Filippo II trovato<br />

nella tenuta del Voltone, in “NSc” , 1898, pp. 140-141).<br />

82


necropoli romana della prima età imperiale, con tombe a cassone ed alla cappuccina,<br />

in località Rimpantone a nord del Voltone, mentre un secondo gruppo di tombe simili<br />

venne rinvenuto presso il Fontanile di Valderico, ai margini della Selva del Lamone 13 .<br />

Altri resti riferibili a strutture e necropoli di età romana vennero visti anche alla<br />

Roccaccia, da cui dovrebbe provenire la nota iscrizione funeraria del quattuorviro vulcente<br />

M. Furius Restitutus (CIL XI 7395), lungo la valle del Rio Maggiore, presso il<br />

Podere della Grascia, al Pian di Lance ed in altri luoghi.<br />

Gli studi di Ferrante Rittatore Vonwiller e Turiddo Lotti<br />

A cavallo tra gli anni trenta e quaranta del Novecento, F. Rittatore Vonwiller, all’epoca<br />

giovanissimo, era impegnato nel nostro territorio ed in quello vicino di Pitigliano<br />

per i lavori preparatori alla stesura del relativo foglio della Carta Archeologica d’Italia 14 .<br />

In un primo contributo che risale al 1939 prese in considerazione la zona compresa tra<br />

Pitigliano ed i margini settentrionali della Selva del Lamone 15 . Nel testo è possibile<br />

ritrovare dunque una prima descrizione degli antichi pagi della Roccaccia, del<br />

Morranaccio, di Castelfranco, del Podere La Grascia, nonché il ricordo di ritrovamenti<br />

di frammenti ceramici e tombe romane alla cappuccina al Voltoncino, al Fontanile di<br />

Valderico, al Pian di Lance, a Monte Fiore, a Poggio Luccio, al Fontanile di Pantalla,<br />

al Pian di Morrano. Successivamente, nel 1941 pubblicò insieme a T. Lotti, attento ed<br />

appassionato conoscitore dei luoghi, un secondo importante contributo, purtroppo assai<br />

sintetico e preliminare, che costituì in un certo senso un primo tentativo di trattazione<br />

complessiva sul territorio, funzionale anch’esso nelle intenzioni degli autori alla redazione<br />

della Carta Archeologica 16 . Abbiamo così, oltre ad una prima descrizione delle<br />

tombe e dei materiali provenienti dalla necropoli arcaica di Castro, successivamente<br />

indagata dagli archeologi belgi, interessanti informazioni sulla presenza di tarde sepolture<br />

di epoca romana, a loculo e a nicchia rupestre, collegate prevalentemente con alcune<br />

tagliate stradali visibili a nord della chiesa del Crocifisso, insieme ad altre a camera<br />

con loculi e fosse. Nel territorio vennero individuati diversi nuclei di sepolture ellenistiche<br />

e romane nelle località di Valle del Serafino, Poggio Falcone, Pietra Pinzuta e<br />

13<br />

Al Fontanile di Valderico, oltre alla necropoli romana, venne anche riconosciuta la presenza di una<br />

stipe con ex-voto fittili e figure panneggiate (riferibile probabilmente, come gli altri complessi votivi<br />

noti nel territorio, alla fase etrusco-romana), purtroppo dispersa brutalmente al momento stesso della<br />

scoperta dall’autore del ritrovamento, un certo Titinello, pastore farnesano.<br />

14<br />

Lo studioso di preistoria, appena ventenne, era ancora uno studente universitario: questo infatti è<br />

uno dei suoi primi contributi scientifici. All’inizio della sua ricca carriera di studioso, il Rittatore si<br />

occupò in più occasioni di archeologia dell’Etruria e di questioni topografiche, pubblicando anche<br />

alcuni fogli della Carta Archeologica d’Italia (cfr. R. PERONI et al., Ferrante Rittatore Vonwiller, in<br />

Studi in onore di Ferrante Rittatore Vonwiller, vol. I, Como 1982, pp. XIV-XXXV e di recente R. PERONI<br />

et al. (a cura di), Ferrante Rittatore Vonwiller e la Maremma: 1936-1976. Paesaggi naturali, umani,<br />

archeologici, Ischia di Castro 1999). La regione esaminata, come si è visto, era all’epoca ancora<br />

sostanzialmente priva di studi archeologici e assai isolata (solo in quegli stessi anni venivano infatti<br />

sistemate le strade carreggiabili che ancora oggi sono in uso).<br />

15<br />

F. RITTATORE, Esplorazioni archeologiche in Etruria. Il territorio a sud di Pitigliano, in “StEtr”, XIII,<br />

1939, pp. 377-383.<br />

16<br />

T. LOTTI, F. RITTATORE, Castro e il suo territorio, in “StEtr” , XV, 1941, pp. 299-305.<br />

83


Valle dell’Oro, sui lati della all’epoca nuova strada per Manciano passante per Ponte<br />

San Pietro. Altre tombe a camera, a fossa e a loculo, sia etrusche che romane, vennero<br />

in luce poco più a nord lungo il Fosso delle Fontanelle, durante i lavori per la costruzione<br />

della strada Farnese-Pitigliano. Due tombe etrusche a camera, purtroppo già violate,<br />

vennero invece individuate in località I Colli, presso le Grotte del Bagnolo.<br />

Avvicinandosi a Farnese, i due studiosi notarono la presenza di altri gruppi di tombe<br />

etrusche a camera nelle località di Chiusa la Gobba (o Sant’Anastasia) e Valle Cupa,<br />

mentre nei dintorni di Ischia di Castro, a Valle Renaccio, Poggio San Giovanni e La<br />

Selva videro altre tombe, che per la presenza di loculi laterali si possono attribuire ad<br />

età romana. Ancora più distante, alla Macchia presso il Casale Vepre venne individuata<br />

una tomba a camera etrusca con materiali di età ellenistica, mentre più a sud venne<br />

segnalato il rinvenimento di una piccola necropoli di tombe romane alla cappuccina<br />

nella zona della Banditella di Chiovano.<br />

Lo scavo mancato dell’École Française de Rome<br />

Subito dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, l’allora direttore generale delle<br />

Antichità e Belle Arti, R. Bianchi Bandinelli aveva invitato l’École Française de Rome<br />

ad aprire uno scavo in Italia, lasciando completa libertà sulla scelta del luogo più opportuno<br />

17 . Gli archeologi francesi, prima di intraprendere le loro pluridecennali ricerche sul<br />

sito di Bolsena, esplorarono varie possibilità, relative anche ad ambiti cronologici assai<br />

diversi. È interessante infatti che le prime due ipotesi, lo scavo di un monastero altomedievale<br />

presso Squillace in Calabria, e dell’importante santuario italico identificato<br />

presso il Fondo Patturelli a Capua, vennero scartate solamente a causa delle difficoltà<br />

operative dovute alle disastrate condizioni dell’immediato dopoguerra. Il primo approccio<br />

con il territorio di Bolsena e con il problema dell’identificazione dell’antico centro<br />

etrusco di Volsinii, in realtà deludente, avvenne proprio nelle nostre zone: guidati da P.<br />

Raveggi, creatore dell’antiquarium di Orbetello, gli archeologi della missione francese<br />

visitarono i dintorni del Lago di Mezzano e l’altura di Monte Becco, dove l’erudito toscano<br />

riteneva possibile identificare la sede del Fanum Voltumnae. In realtà durante la<br />

breve ricognizione non venne notato nulla di particolarmente significativo nella zona, se<br />

non alcune modeste strutture identificate con presenze agricole antiche e la notizia, raccolta<br />

sul posto, della scoperta di un’iscrizione latina sulla cima del vicino Monte Rosso.<br />

Si scava a Monte Becco<br />

Solo nel 1948 nel sito di Monte Becco vennero finalmente tentati alcuni saggi di<br />

scavo. L’intervento, guidato da U. Ciotti, portò alla luce sulla sommità del rilievo alcuni<br />

resti di edifici in blocchi di tufo di incerta interpretazione e parte di una costruzione<br />

circolare in seguito identificata con una cisterna; gli scavi vennero però presto interrotti<br />

e rimasero del tutto inediti 18 . Successivamente nella zona vennero condotte da<br />

17<br />

Tutta la sorprendente vicenda è narrata in A. GRENIER, Les Fouilles de Bolsena, in “MEFRA”, LVIII,<br />

1941-1946, pp. 267-271.<br />

18<br />

Qualche notizia in G. BRUNETTI NARDI, Repertorio degli scavi e delle scoperte archeologiche<br />

nell’Etruria Meridionale, II, Roma 1972, p. 94 e P. KRARUP, Lago di Mezzano (e Monte Becco), in<br />

“StEtr”, XLI, 1973, pp. 543-545.<br />

84


parte dell’Accademia di Danimarca alcune ricerche territoriali, che si conclusero nel<br />

1970 con una campagna di prospezioni elettriche e magnetiche nell’area dell’insediamento,<br />

in previsione di un intervento più organico di scavo 19 .<br />

Visto l’esito positivo delle prospezioni, che indicavano la presenza di resti antichi<br />

nella parte meridionale dell’area indagata, nel 1971 l’Accademia di Danimarca avviò<br />

l’esplorazione del sito, in collaborazione con l’Università di Odense e sotto la direzione<br />

di I. Strøm e J. Isager. Nel primo anno venne realizzato un solo saggio, che portò al riconoscimento<br />

di alcune strutture etrusche; nello stesso tempo vennero anche individuati<br />

dei fossati. Nella campagna successiva l’indagine venne ampliata, portando alla scoperta<br />

di due cisterne. Un’ultima campagna, rimasta completamente inedita, venne realizzata<br />

nel 1976 20 . Le poche notizie disponibili, in mancanza di una pubblicazione definitiva,<br />

sono state raccolte in alcune opere di sintesi 21 , mentre lo scarno ma importante<br />

dato cronologico dell’esistenza dell’insediamento è stato comunque preso in considerazione<br />

in diversi studi a carattere territoriale 22 .<br />

Le ricerche belghe a Castro<br />

Diversi fortunati scavi, purtroppo mai giunti ad un’edizione definitiva, vennero compiuti<br />

tra il 1964 ed il 1967 nell’area della necropoli etrusca di Castro dal Centre belge de<br />

recherches étrusques et italiques 23 . Successivamente, una nuova missione organizzata<br />

dall’Université Catholique de Louvain intraprese lo studio delle iscrizioni etrusche della<br />

Cava di Castro, affrontando anche, di conseguenza, problemi di ordine topografico 24 .<br />

In particolare venne affrontato il problema della fitta rete di antichi tracciati stradali<br />

riscontrabile intorno a Castro, con la ricostruzione del tracciato antico che uscendo<br />

dalla grande Cava attraversava l’Olpeta su un ponte romano in opera quadrata, con<br />

19<br />

BRUNETTI NARDI, op. cit., p. 94. Le indagini geofisiche vennero realizzate dalla Fondazione Lerici sotto<br />

la direzione di R. Linington.<br />

20 KRARUP, art. cit., pp. 543-544; G. BRUNETTI NARDI, Repertorio degli scavi e delle scoperte archeologiche<br />

nell’Etruria Meridionale, III, Roma 1981, pp. 188-189. Interessante notare che dagli scavi proviene<br />

una tegola con iscrizione etrusca frammentaria. Da documentazione esistente nell’archivio GAR si ricava<br />

che il sito venne ricontrollato più volte in ricognizioni del 1979 (schede B6/60 MB e B6/62 ME).<br />

21<br />

I. BERLINGÒ, Il versante sud-est del Lago di Bolsena, in A. TIMPERI, I. BERLINGÒ (a cura di), Bolsena e il<br />

suo lago, Roma 1994, p. 140; P. TAMBURINI, Un Museo e il suo territorio. Il Museo Territoriale del Lago di<br />

Bolsena. I. Dalle origini al periodo etrusco, Bolsena 1998, p. 92. Per le opere di fortificazione M. MILLER,<br />

Befestigungsanlagen in Italien vom 8. bis 3. Jahrhundert vor Christus, Hamburg 1995, p. 321.<br />

22<br />

G. COLONNA, Urbanistica e architettura, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Milano 1986, p. 499,<br />

che pone l’attenzione sulla rivitalizzazione dell’insediamento fortificato nel IV secolo a.C.; I. BERLINGÒ,<br />

V. D’ATRI, Piana del Lago. Un santuario di frontiera tra Orvieto e Vulci, in “AnnFaina”, X, 2003, pp. 249-<br />

251; I. BERLINGÒ, Vulci, Bisenzio e il Lago di Bolsena, in Dinamiche di sviluppo delle città nell’Etruria<br />

meridionale. Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Atti del XXIII Convegno di Studi Etruschi ed Italici, Roma-<br />

Veio-Cerveteri/Pyrgi-Tarquinia-Tuscania-Vulci-Viterbo 2001, Pisa-Roma 2005, p. 564.<br />

23<br />

Per una bibliografia completa ed una sintesi aggiornata della questione si rimanda a A. M. MORETTI<br />

SGUBINI, M. A. DE LUCIA BROLLI, Castro: un centro dell’entroterra vulcente, in “AnnFaina”, X, 2003, pp.<br />

363-405.<br />

24<br />

Sull’argomento si veda principalmente CL. DE RUYT, La Cava di Castro, route étrusque et tronçon probable<br />

de la Via Clodia à l’ouest du Lac de Bolsena, in R. LAMBRECHTS (a cura di), Mélanges d’étruscologie,<br />

Louvain-la-neuve 1978, pp. 32-59 (con ampia bibliografia precedente).<br />

85


numerosi restauri, di cui restano alcune tracce, saliva verso nord sul piano dell’abitato<br />

e della necropoli, con ripidi tornanti, e procedeva poi ancora verso settentrione oltre il<br />

Fosso delle Monache. Alla risalita verso il Pianetto si presentava quindi come una<br />

tagliata contornata da loculi 25 . Il percorso attraversava dunque il pianoro dei Pianetti e<br />

quello di Castelfranco, in direzione nord-ovest: presso Castelfranco venne anzi notata<br />

ancora una tagliata contornata da tombe etrusche 26 . La direzione della via indica chiaramente<br />

che essa doveva raggiungere Poggio Buco, non lontano dal quale si trovano i<br />

resti di un ponte romano sul Fiora. Un diverticolo di questa via, ancora in parte visibile<br />

al tempo, si staccava dalla principale ai Pianetti e doveva condurre a Ponte S.<br />

Pietro 27 : destinazione finale di tale percorso doveva essere probabilmente la zona costiera,<br />

verso Cosa ed il Monte Argentario. A sud della Cava di Castro furono individuati<br />

diversi itinerari. Uno diretto verso sud in direzione di Vulci venne seguito per oltre un<br />

chilometro: subito al di là della Valle Farinata il tracciato presentava una seconda<br />

tagliata, profonda circa una decina di metri, che mostrava anch’essa, come la grande<br />

Cava, tracce di un successivo approfondimento. Più oltre, il tracciato proseguiva a lungo<br />

con la medesima direzione, per lunghi tratti incassato nel banco di tufo, ben visibile<br />

nelle fotografie aeree. Alcune presenze come una tomba a camera etrusca ne attestano<br />

l’antichità. Il prolungamento della via già identificata a nord della Cava venne però riconosciuto<br />

in un secondo tracciato diretto verso sud-est in direzione di Canino, in parte<br />

ancora riscontrabile sul terreno 28 . Venne ricostruita infine una terza strada «di epoca<br />

etrusca» diretta verso est, che si staccava dalle altre subito all’uscita della Cava e seguiva<br />

la valle dell’Olpeta in direzione di Farnese e Ischia, entrambi ritenuti insediamenti<br />

di antica origine. Anche questo itinerario, che probabilmente proseguiva oltre in direzione<br />

del Lago di Bolsena, risultava marcato da tratti in trincea scavati nel tufo e dalla<br />

presenza di diversi nuclei di tombe etrusche. La ricerca, sempre nell’ottica della ricostruzione<br />

della rete viaria antica, affrontò anche le testimonianze di epoca successiva,<br />

soprattutto quelle contemporanee all’assedio e distruzione della città rinascimentale.<br />

Merito principale delle ricerche è comunque l’aver formulato un’ipotesi ragionevole e<br />

finalmente basata sull’osservazione diretta del terreno riguardo all’annoso problema del<br />

tracciato della Via Clodia romana, identificata con buona approssimazione con il principale<br />

dei percorsi antichi passanti per la Cava di Castro 29 . All’interno del quadro così delinea-<br />

25<br />

Già segnalati e descritti da Lotti e Rittatore (v. supra).<br />

26<br />

Nel testo vengono riportate diverse segnalazioni di T. Lotti, secondo il quale durante la costruzione della<br />

strada moderna tra Farnese e Pitigliano vennero scoperti, lungo il tracciato antico, diversi resti romani tra<br />

cui tombe alla cappuccina in loc. Pietra Pinzuta e «statuette in terracotta» in loc. Fontana Matta (DE<br />

RUYT, art. cit., p. 44).<br />

27<br />

Come si è detto, già Lotti e Rittatore avevano visto diversi resti romani lungo tale tracciato, soprattutto<br />

in località Valle del Serafino (v. supra).<br />

28<br />

Anche in questo caso la presenza di resti di epoca romana, inediti, lungo il percorso era stata segnalata<br />

dal Lotti.<br />

29<br />

Il lavoro costituisce infatti un notevolissimo progresso rispetto alle teorie esistenti al tempo, ferme in<br />

buona sostanza a quelle molto ipotetiche di K. MILLER, Itineraria romana, Stuttgart 1916, c. 296 (riprese<br />

successivamente da E. WETTER, Studies and Strolls in Southern Etruria, in Etruscan Culture. Land and<br />

People, New York-Malmö 1962, map I ed in parte da M. POULSEN et al., Ancient road systems near<br />

Tuscania, in “AnalRom”, VIII, 1977, p. 27), che prevedevano un passaggio molto ad oriente, per<br />

Piansano – Valentano, ed a quelle di M. LOPES PEGNA, Itinera Etruriae II, in “StEtr”, XXII, 1952-1953,<br />

pp. 406-407, che proponeva un itinerario Arlena – Cellere – Ischia – Farnese – Selva del Lamone –<br />

86


to, la stazione di Maternum ricordata dagli antichi itinerari venne convincentemente posizionata<br />

all’altezza dei Monti di Canino, riprendendo una vecchia osservazione<br />

dell’Holstenio 30 .<br />

Le ricognizioni del Gruppo Archeologico Romano<br />

Tra il 1979 ed il 1984 il Gruppo Archeologico Romano, in accordo con la<br />

Soprintendenza archeologica dell’Etruria meridionale, si è impegnato profondamente in<br />

un ampio progetto di ricognizione mirante a documentare le presenze archeologiche<br />

nella porzione meridionale dell’antico territorio vulcente, quella che al giorno d’oggi<br />

ricade all’interno della provincia di Viterbo, in un’ampia area compresa tra il corso del<br />

Fiora ed il Lago di Bolsena e tra la Selva del Lamone ed i Monti di Canino.<br />

Successivamente al lavoro di ricerca sul campo svolto dai volontari 31 , diretto da L.<br />

Farricella e R. Selmi, una équipe di studio guidata da G. Gazzetti ha analizzato i dati e<br />

catalogato i numerosi materiali raccolti, al fine di identificare le diverse fasi cronologiche<br />

del popolamento. Tale lavoro ha portato alla realizzazione di ben dieci carte di fase,<br />

che restituiscono l’immagine del popolamento nei momenti più significativi delle varie<br />

epoche. I limiti delle aree indagate si sono basati quasi esclusivamente su criteri geografici<br />

e naturali, mentre le presenze individuate sono state divise secondo categorie<br />

interpretative desunte dalle fonti antiche: villae e fattorie, vici o pagi, necropoli e tombe<br />

isolate, strade maggiori e diverticoli. Mentre i dati relativi alle fasi più antiche, in particolare<br />

quelli di epoca etrusca arcaica, sono stati studiati e presentati in diverse occasioni<br />

soprattutto ad opera di M. Rendeli 32 , la cospicua mole della documentazione relativa<br />

alle fasi successive, e in particolare all’età romana (circa centoquindici siti individuati),<br />

è rimasta poi sostanzialmente inedita, almeno nei suoi dettagli.<br />

Per quanto riguarda le fasi di età orientalizzante ed arcaica, l’indagine ha approfon-<br />

Poggio Buco. L’attendibilità della prima ipotesi era stata già confutata da TH. ASHBY, La rete stradale<br />

romana nell’Etruria meridionale in relazione a quella del periodo etrusco, in “StEtr”, III, 1929, p. 182,<br />

nota 3, mentre la scarsa verosimiglianza del passaggio della strada per l’impervio Lamone era già stata<br />

sottolineata da R. BIANCHI BANDINELLI, Sovana, Firenze 1929, pp. 27-29. Nella stessa direzione delle<br />

ricerche belghe si era mossa già in parte S. QUILICI GIGLI, Tuscania, Roma 1970, p. 22.<br />

30<br />

L. HOLSTENI, Annotationes ad Italiam antiquam Cluverii, Romae 1666, pp. 41 e 47. Collocava Maternum<br />

a Canino anche E. MARTINORI, Via Cassia e sue derivazioni, Roma 1930, p. 192. Nelle precedenti ricostruzioni<br />

la stazione itineraria veniva identificata rispettivamente con Valentano o con Ischia di Castro.<br />

31<br />

La metodologia seguita nell’organizzazione del lavoro si può considerare, in un certo senso, un interessante<br />

e ragionevole tentativo di mediazione fra l’impostazione tradizionale degli studi topografici, che prevede<br />

l’esplorazione il più possibile sistematica e completa del territorio in esame, ed i nuovi metodi di<br />

analisi ispirati alla «archeologia dei paesaggi» di derivazione anglosassone, all’interno di un dibattito in<br />

quegli anni assai sentito, ma forse anche troppo ideologizzato (cfr. M. RENDELI, Città aperte, Roma 1993,<br />

in particolare p. 56).<br />

32<br />

M. RENDELI, Settlement patterns in the Castro area (Viterbo), in C. MALONE, S. STODDART (a cura di),<br />

Papers in Italian Archaeology IV: the Cambridge Conference, Oxford 1985, pp. 261-273; ID., Intervento in<br />

discussione, in Etruria meridionale. Conoscenza, conservazione, fruizione, Roma 1988, pp. 103-104; A.<br />

NASO et al., Note sul popolamento e sull’economia etrusca in due zone campione degli entroterra vulcente e<br />

ceretano, in Atti del II Congresso Internazionale Etrusco, Roma 1989, pp. 538-546; RENDELI, Città, cit.,<br />

pp. 157-220 e 377-407 (interessante repertorio dei siti, con circa cento presenze schedate, sia edite che<br />

inedite.).<br />

87


dito il ruolo dell’abitato di Castro 33 ed i suoi rapporti con il territorio circostante, cercando<br />

di mettere a fuoco in particolare, in maniera piuttosto innovativa, gli aspetti e<br />

l’organizzazione del popolamento rurale 34 . Riguardo alla disposizione ed alle caratteristiche<br />

degli insediamenti agricoli, sono stati individuati almeno due modelli collegati<br />

con i caratteri geo-morfologici del territorio, cui doveva corrispondere verosimilmente<br />

anche una certa diversificazione nelle colture: uno nella parte orientale, tufacea e collinare,<br />

ed un secondo nella parte occidentale, pianeggiante caratterizzata da formazioni<br />

travertinose. In tale quadro, una posizione particolare era occupata dagli insediamenti<br />

della zona del Lamone, in particolare Rofalco: considerato attivo a partire già<br />

dalla metà del VI secolo a.C. come centro di difesa e di raccolta della produzione agricola,<br />

il suo sviluppo veniva in qualche modo collegato con la decadenza di Castro e con<br />

le trasformazioni sociali ed economiche che caratterizzarono la fase tardo-arcaica e<br />

classica 35 .<br />

Per quanto riguarda invece le fasi successive alla conquista romana del territorio,<br />

nei primi decenni del III secolo a.C., un primo ampio contributo preliminare è stato presentato<br />

nel 1985 all’interno del catalogo dell’importante mostra sulla romanizzazione<br />

dell’Etruria, ad opera di G. Gazzetti, E. Stanco, M. Incitti ed altri 36 . Nell’analisi topografica<br />

l’attenzione venne posta prevalentemente sulle forme del popolamento rurale<br />

nelle varie aree geografiche in cui si poteva distinguere il territorio, e soprattutto sui<br />

33<br />

L’abitato, fiorito dalla fine dell’VIII secolo a.C. a tutta l’età arcaica, si presenta come il centro principale<br />

del territorio, con probabile funzione di tramite verso la metropoli di Vulci. Il centro decade visibilmente<br />

dopo gli inizi del V secolo a.C., apparentemente senza ulteriori fasi di sviluppo urbano. Tale ricostruzione<br />

sembra in parte divergere rispetto a quella offerta in diverse occasioni, limitatamente alle fasi<br />

di età romana, da G. Gazzetti e da E. Stanco (v. infra).<br />

34<br />

La formazione degli insediamenti rurali viene fatta risalire nella maggior parte dei casi ai decenni centrali<br />

del VI secolo a.C., con pochi siti di grandi dimensioni ben distanziati tra di loro. Negli ultimi decenni<br />

del VI secolo si assiste ad un notevole incremento, con le presenze che si infittiscono e vanno ad occupare<br />

nuove aree. Lo sfruttamento del territorio, poco dopo aver toccato l’apogeo, subisce apparentemente<br />

un notevole tracollo corrispondente alle fasi classica ed ellenistica, da cui si salvano solamente alcuni<br />

siti di dimensioni maggiori. Nelle sue linee generali il quadro ricostruttivo concorda con quello presentato<br />

diversi anni prima da G. COLONNA, La presenza di Vulci nelle valli del Fiora e dell’Albegna prima<br />

del IV secolo a.C., in La civiltà arcaica di Vulci e la sua espansione, Firenze 1977, pp. 189-210. Da notare<br />

infine che, rispetto ai contributi precedenti, in RENDELI, Città, cit., pp. 157-220 si propone una cronologia<br />

sensibilmente più alta per il fenomeno.<br />

35<br />

In questo senso COLONNA, Urbanistica, cit., p. 462; G. COLONNA, Città e territorio nell’Etruria meridionale<br />

del V secolo, in Crises et transformation des sociétés archaïques au Vème siècle av. J.-C., Roma 1990,<br />

p. 17 e di recente BERLINGÒ, Vulci, cit., p. 564. Per una bibliografia completa su Rofalco si rimanda al<br />

contributo di O. Cerasuolo in questa stessa sede.<br />

36<br />

In particolare G. GAZZETTI, Statonia. La città e il suo territorio, E. A. STANCO, L’organizzazione della prefettura,<br />

F. ROSSINI, A. SPERANDIO, Il popolamento, G. GAZZETTI, La via Clodia e la viabilità secondaria, in<br />

A. CARANDINI (a cura di), La romanizzazione dell’Etruria: il territorio di Vulci, Milano 1985, pp. 78-84 e<br />

88-90. In questa occasione M. Incitti, studioso di ceramiche e in particolare attento conoscitore delle<br />

anfore romane, si occupò di tracciare un quadro delle produzioni e dei commerci di Vulci e del territorio<br />

al tempo della romanizzazione, sottolineando il crollo dell’esportazione di vini locali, la contrazione economica<br />

intorno alla prima metà del III secolo a.C. e le profonde modificazioni economiche e sociali, che<br />

hanno investito anche il territorio e le campagne, seguiti alla conquista romana ed alla precoce scomparsa<br />

della componente etrusca della popolazione, particolarmente evidente nelle necropoli vulcenti (M.<br />

INCITTI, La città e il territorio dopo la conquista. Le produzioni e i commerci, ivi, pp. 75-76).<br />

88


pagi, o insediamenti rurali di maggior estensione. Dato il tema dell’opera, l’analisi storico-topografica<br />

privilegiò in particolar modo il delicato momento della conquista e<br />

della progressiva trasformazione del territorio da parte dei romani, tra la metà del III<br />

secolo a.C. e la fine dell’età repubblicana. Delle dieci zone geograficamente coerenti in<br />

cui è stato suddiviso il territorio analizzato, che comprendeva l’intero vulcente meridionale,<br />

solo le prime quattro interessano l’area in esame. Grande attenzione venne posta<br />

anche nell’individuazione e ricostruzione del sistema stradale antico, da riferire prevalentemente<br />

alla fase romana, ma con significativi antecedenti etruschi; oltre all’itinerario<br />

principale della Via Clodia 37 , vengono descritti altri dieci tracciati minori che costituiscono<br />

una fitta rete di comunicazioni tra i vari insediamenti. Inoltre, sulla base delle<br />

informazioni raccolte sembrò allora possibile proporre l’identificazione del centro di<br />

Castro con la praefectura romana di Statonia, in contrasto con la tesi al tempo ancora<br />

prevalente della sua identificazione con Poggio Buco, in Toscana 38 .<br />

Nel 2002 infine, a quasi vent’anni di distanza ha finalmente visto la luce l’edizione<br />

definitiva dei risultati dell’ampio progetto di ricognizione italo-britannico nel territorio<br />

di Cosa e nella valle dell’Albegna, curato da A. Carandini e F. Cambi. Il lavoro parallelo<br />

svolto, anche se con metodologie, come si è visto, in parte differenti, dall’équipe del<br />

Gruppo Archeologico Romano nel vulcente meridionale ha trovato in questa sede spazio<br />

in una lunga appendice 39 . Nell’analisi topografica è stata posta in questa sede maggiore<br />

attenzione all’evoluzione cronologica del popolamento, dando risalto anche alle<br />

interessanti fasi tardo-antiche 40 . La ricostruzione topografica è risultata inoltre profondamente<br />

mutata anche dalla ormai definitiva soluzione all’annoso problema dell’identificazione<br />

di Statonia, offerta nel 1994 da E. A. Stanco. Il centro antico viene ora correttamente<br />

posto, in base ad una attenta ed innovativa rilettura delle fonti, molto lontano<br />

da qui, nei pressi di Bomarzo nella valle del Tevere, al termine di itinerari controllati<br />

non dalla città di Vulci ma dalla vicina e potente Tarquinia 41 .<br />

Per quanto riguarda la cruciale fase della romanizzazione, nell’intero territorio campionato<br />

vengono individuati 32 siti minori e 5 insediamenti maggiori, attivi nel periodo<br />

immediatamente precedente la conquista romana, dunque tra la fine del IV ed i primi<br />

decenni del III secolo a.C. Notevole anche qui appare la contrazione del popolamento, con<br />

solo 20 dei siti ricordati che continuano a vivere dopo il 275 a.C., e l’abbandono del ter-<br />

37<br />

Il percorso, ricostruito con grande minuzia sul terreno, sulle fotografie aeree e sulla cartografia storica,<br />

coincide sostanzialmente con quello proposto alcuni anni prima dagli archeologi belgi.<br />

38<br />

Su tale identificazione cfr. di recente G. BARTOLONI, Staties/Statonia, in N. CHRISTIE (a cura di) Settlement<br />

and Economy in Italy 1500 BC to AD 1500, Oxford 1995, pp. 477-482 (con bibliografia precedente).<br />

39<br />

G. GAZZETTI et al., La ricognizione del territorio vulcente meridionale, in A. CARANDINI, F. CAMBI (a<br />

cura di), Paesaggi d’Etruria, Roma 2002, pp. 345-374.<br />

40<br />

I contributi offerti da M. Incitti in questa sede riflettono bene un altro dei suoi molteplici interessi:<br />

quello per la tarda antichità e per il periodo longobardo. Nell’analizzare le forme di popolamento<br />

intorno alla metà del VII secolo individua, incrociando dati d’archivio, di ricognizione e toponomastica,<br />

un nuovo asse di sviluppo e percorrenza nord – sud, parallelo alla riva orientale del Fiora, mentre<br />

nota la scomparsa dei siti disposti lungo la valle dell’Olpeta, ad oriente di Castro. Attiva risulta<br />

inoltre anche la zona del Lamone, con il centro di S. Maria di Sala.<br />

41<br />

E. A. STANCO, La localizzazione di Statonia: nuove considerazioni in base alle antiche fonti, in<br />

“MEFRA”, CVI, 1994, pp. 247-258. Ulteriori informazioni in M. MUNZI, La nuova Statonia, in<br />

“Ostraka”, IV, 1995, pp. 285-299.<br />

89


itorio da parte dell’elemento autoctono, sensibile soprattutto negli agglomerati maggiori,<br />

come Rofalco. Tale flessione risulta decisamente compensata dall’entità dei siti di nuova<br />

fondazione, che aumentano ulteriormente in maniera sensibile nel corso del II secolo a.C.,<br />

per poi subire una drastica contrazione nel corso del I secolo a.C., probabilmente in concomitanza<br />

con le guerre civili. Ad una ulteriore fase di espansione del popolamento che<br />

coincide con l’età augustea e si prolunga per tutto il I secolo d.C., si contrappone a partire<br />

dal secolo successivo una progressiva diminuzione degli insediamenti, che sembra privilegiare<br />

le villae o siti di maggior estensione. Tale contrazione prosegue con costanza per<br />

i successivi secoli dell’età imperiale, con una parziale e per certi versi anomala inversione<br />

di tendenza nel corso del IV secolo: lo spopolamento tocca il suo apice nel VI secolo,<br />

in concomitanza con le guerre greco-gotiche, per assestarsi apparentemente nel corso del<br />

secolo successivo, quando ormai il territorio è quasi certamente divenuto longobardo.<br />

Oltre all’interessante ed ampia lettura storica del territorio, in questa sede sono presenti<br />

anche diversi approfondimenti ed aggiornamenti rispetto a quanto proposto in precedenza:<br />

i dati disponibili per il sito di Castro vengono arricchiti dalla presentazione di<br />

alcuni corredi funerari di età tardo-etrusca e repubblicana, viene presentata una sintesi<br />

sui luoghi di culto e sugli aspetti della vita religiosa testimoniati dai ritrovamenti archeologici,<br />

vengono infine presentati i primi importanti risultati di una campagna di ricognizioni<br />

e rilievi organizzati dalla Soprintendenza nel sito delle Centocamere presso<br />

Musignano, impianto termale e centro abitato di una certa entità, che sembra possibile<br />

identificare con la Maternum ricordata dalle fonti.<br />

Gli studi più recenti<br />

Una nuova serie di ricerche, specialmente indirizzate alla conoscenza dell’impervio<br />

territorio del Lamone, è stata effettuata negli anni 1990-1991 e successivi su iniziativa<br />

del Comune di Farnese, nell’ambito di un ampio progetto di conoscenza e valorizzazione<br />

delle testimonianze archeologiche ed ambientali, propedeutico alla creazione della<br />

Riserva Naturale, istituita nel 1994 42 . Scopo principale delle ricognizioni, che non seguirono<br />

comunque un piano di sistematica copertura del territorio, era il censimento e la<br />

documentazione delle emergenze archeologiche individuate, ed il ricontrollo delle molte<br />

già note grazie a precedenti segnalazioni 43 . Nonostante le difficoltà dell’ambiente, è stato<br />

possibile schedare così novantasette siti appartenenti a tutte le fasce cronologiche, dalla<br />

preistoria al medioevo, disposti in prevalenza nella parte meridionale della Selva e sui<br />

42<br />

Le ricerche vennero dirette da C. Casi, al tempo direttore del locale Museo Civico, con la collaborazione<br />

di A. A. Stoppiello e di altri. Diverse informazioni e risultati, limitatamente alle fasi più antiche<br />

del popolamento, sono state pubblicate in A. A. STOPPIELLO, C. CASI, Indagine territoriale nella<br />

Selva del Lamone: le evidenze pre- protostoriche, in N. NEGRONI CATACCHIO (a cura di), Preistoria e protostoria<br />

in Etruria I, Milano 1993, pp. 253-260; C. CASI et al., Indagine territoriale nella Selva del<br />

Lamone: lo scavo dell’abitato preistorico di Piano Pianacquale, in N. NEGRONI CATACCHIO (a cura di),<br />

Preistoria e protostoria in Etruria III, Firenze 1998, pp. 421-432. Cfr. inoltre C. CASI (a cura di),<br />

Guida della Selva del Lamone, Siena 1996. A questo proposito si deve ricordare anche l’importante<br />

contributo offerto, soprattutto per le fasi pre- e protostoriche, dall’Università di Milano, che parallelamente<br />

allo scavo di Sorgenti della Nova porta avanti negli anni un programma di ricerche territoriali<br />

soprattutto nel settore settentrionale della Selva del Lamone.<br />

43<br />

Ricognizioni di G. A. Baragliu.<br />

90


costoni che affacciano sulla Valle dell’Olpeta, dove per il periodo etrusco è stata riconosciuta<br />

la presenza di un interessante sistema di siti facente capo all’insediamento di<br />

Rofalco 44 .<br />

A partire dal 1996, l’inizio delle regolari campagne di scavi all’interno dell’abitato<br />

di Rofalco ha portato ad una nuova e regolare presenza di volontari dei Gruppi<br />

Archeologici d’Italia nel territorio di Farnese. Sotto la direzione di M. Incitti, nei primi<br />

anni di attività vennero realizzati diversi sopralluoghi e ricognizioni, sia a scopo didattico<br />

che per integrare le conoscenze relative al territorio circostante, nelle fasi etrusche<br />

e romane ma anche nella successiva ed assai interessante epoca medievale. Così, tra il<br />

1996 ed il 1998 venne approfondita la topografia degli immediati dintorni di Rofalco,<br />

con l’esplorazione delle presenze archeologiche della vicina località di Roccoia, delle<br />

varie grotte e cavità presenti nel costone al di sotto dell’abitato e dei diversi sentieri e<br />

vie di accesso antiche. Una serie di sopralluoghi più sistematici venne dedicata, nel<br />

1998, alla serie di insediamenti medievali che si addensano lungo il limite settentrionale<br />

della Selva del Lamone: Pianacce, Fontanaccio, Fontanile di Valderico,<br />

Morranaccio 45 . L’anno seguente il sito del vicus alto-medievale del Fontanile di<br />

Valderico venne nuovamente esplorato in maniera approfondita: fu possibile riconoscere<br />

che l’insediamento era in qualche modo erede di una villa romana situata presso la<br />

vicina Mandriola, a sua volta preceduta da una presenza minore ascrivibile alla fase<br />

tardo-etrusca. Inoltre venne ricostruito un importante tracciato viario antico passante<br />

per il Lamone ed al giorno d’oggi interamente scomparso, passante per le località di<br />

Valderico, Mandriola, Semonte, Muro della Crocetta, Castellare, Valgiovana e<br />

Saltarello, attestato da diverse tracce e tagliate viarie. Grande attenzione venne dedicata<br />

anche all’esplorazione della Valle dell’Olpeta e dei costoni meridionali del Lamone,<br />

tra Santa Maria di Sala e la Valgiovana, dove vennero osservate diverse presenze di<br />

epoca etrusca, in parte già note. Tracce di una probabile fattoria tardo-etrusca venero<br />

individuate in località Poggio del Crognolo, dove si raccolsero materiali analoghi a<br />

quelli di Rofalco e di Valderico 46 .<br />

44<br />

Nel sistema degli insediamenti legati alla Valle dell’Olpeta spiccano i siti de I Casali, I Crini, della<br />

Murcia del Prigioniero e de Le Castellare, alcuni con evidenti tracce di fortificazioni, di assai difficile<br />

datazione. I risultati della campagna sono purtroppo rimasti in buona parte inediti: una copia dattiloscritta<br />

della relazione finale, con l’elenco dei siti, è conservata comunque nella Biblioteca comunale<br />

di Farnese. Si ringrazia la cortesia di G. A. Baragliu, che in più occasioni ci ha fornito utili informazioni<br />

e consigli in proposito.<br />

45<br />

All’interno dell’abitato del Fontanile di Valderico venne osservata la presenza di strutture, dei resti di<br />

una chiesa e dell’annessa necropoli: la ceramica raccolta, oltre ad alcuni frammenti di vernice nera, si<br />

data a partire dalla tarda antichità e indica un’occupazione dell’insediamento in particolare tra il IX ed<br />

il XII secolo. Nella zona compresa tra i vicini casali del Voltoncino e della Cantinaccia venne riconosciuta<br />

la localizzazione degli scavi Pellegrini (1898): l’edificio apparve completamente distrutto dai<br />

lavori agricoli, anche se fu possibile rinvenire ancora ossa e frammenti ceramici. Oltre ai siti indicati,<br />

negli anni 1996-1998 vennero effettuate ricognizioni e raccolti materiali anche nelle seguenti località:<br />

Castellare (Valgiovana), Castelfranco, I Crini, Murcia del Prigioniero, Semonte, San Pantaleo, Pian di<br />

Sala, Chiusa del Belli, Pian Guaiano, Campo della Villa, Castelletto di Prato Frabulino, La Botte.<br />

46<br />

Una ulteriore serie di esplorazioni, condotte da F. Rubat Borel e da G. A. Baragliu, ha interessato<br />

nel gennaio del 2005 i siti e le tracce di antichi percorsi stradali visibili lungo il margine meridionale<br />

della Selva del Lamone e la Valle dell’Olpeta, ad oriente di Rofalco.<br />

91


L’insieme dei dati raccolti nelle diverse campagne di ricognizione che hanno affiancato<br />

lo scavo di Rofalco è rimasto anch’esso sostanzialmente inedito ed ancora attende<br />

una sistemazione definitiva 47 : un contributo del tutto parziale relativo al sito protostorico<br />

de La Botte è stato comunque pubblicato di recente 48 .<br />

Verso una carta archeologica del territorio<br />

In questi ultimi anni è stata intrapreso, ad opera di O. Cerasuolo e di chi scrive, un<br />

ampio progetto di revisione e pubblicazione dell’abbondante e notevole documentazione<br />

relativa alle ricognizioni degli anni 1979-1984 conservata nell’archivio del Gruppo<br />

Archeologico Romano, rimasta finora in buona parte inedita. Un primo saggio di edizione,<br />

relativo al territorio della Selva del Lamone ed alle zone adiacenti, è apparso recentemente<br />

49 . La possibilità di ricontrollare i materiali allora rinvenuti alla luce delle nuove<br />

indicazioni tipologiche e cronologiche offerte dagli scavi di Rofalco ha permesso di individuare<br />

nel territorio una interessante e ricca fase tardo-etrusca, con un popolamento<br />

rurale particolarmente fitto nella media Valle dell’Olpeta. Il riconoscimento di tale fase,<br />

precedentemente sotto-stimata a causa della scarsità di elementi «diagnostici» tipici<br />

facilmente riconoscibili, potrà apportare in futuro, una volta ultimata la revisione di tutto<br />

il materiale relativo all’area vulcente meridionale, alcune significative correzioni al quadro<br />

dello sviluppo storico e topografico del territorio finora delineato 50 .<br />

47<br />

Tuttavia una sintesi dei risultati è presente nelle varie relazioni di attività (curate sempre da M.<br />

Incitti) inviate annualmente alla Soprintendenza competente ed al Museo Civico di Farnese: una<br />

copia di esse è conservata a Roma, nell’archivio della sede del Gruppo Archeologico Romano.<br />

48<br />

O. CERASUOLO, L. PULCINELLI, Il sito de La Botte e l’attraversamento del Lamone, in N. NEGRONI<br />

CATACCHIO (a cura di), Preistoria e protostoria in Etruria VIII, Milano 2008, pp. 317-320.<br />

49<br />

O. CERASUOLO, L. PULCINELLI, Contributi per la Carta Archeologica del territorio vulcente. Selva del<br />

Lamone, Valle dell’Olpeta e zone adiacenti, in C. MARANGIO, G. LAUDIZI (a cura di), Παλαια Φιλίa.<br />

Studi di topografia antica in onore di Giovanni Uggeri, Galatina 2009, pp. 397-416.<br />

50<br />

A titolo di esempio si riportano alcuni semplici dati quantitativi relativi ai siti di epoca etrusca,<br />

databili tra l’età orientalizzante e la conquista romana, per cui è stato possibile proporre una datazione:<br />

nel periodo VII-VI secolo a.C. si contano solo 4 siti, tra cui l’importante abitato di Castro; nel successivo<br />

periodo V-IV secolo a.C. i siti salgono a 6, tra i quali vi è sempre Castro; infine nel periodo<br />

IV-III secolo a.C. il numero dei siti sale addirittura a 21, con un’occupazione del territorio solo di<br />

poco inferiore a quella delle successive fasi romane.<br />

92


Premessa<br />

LO SCAVO ARCHEOLOGICO DELLA CHIESA DI S. MARIA INTUS<br />

CIVITATEM SUL SITO DELLA ANTICA CITTÀ DI CASTRO:<br />

ASPETTI E PROBLEMI STORICO-ARTISTICI<br />

Fulvio Ricci<br />

Nei primi mesi del 1997, la segnalazione di uno scavo clandestino sul sito della antica<br />

città di Castro -uno degli innumerevoli che stanno rapidamente depauperando in<br />

maniera irreversibile l’area- che aveva posto in luce un breve tratto di muro con tracce<br />

di affreschi medioevali, ha fornito l’impulso virtuoso per portare alla collaborazione enti<br />

ed istituzioni diversi con l’organizzazione di una campagna di scavo che si è avvalsa<br />

della felice collaborazione degli Uffici periferici dello Stato: Soprintendenza per i Beni<br />

Storico-Artistici di Roma e del <strong>Lazio</strong> (d.ssa Livia Carloni); Soprintendenza per i Beni<br />

Architettonici di Roma e del <strong>Lazio</strong> (arch. Giovannino Fatica); Soprintendenza<br />

Archeologica per l’Etruria Meridionale (dr. Gianfranco Gazzetti). Il dr. Gazzetti si è<br />

assunto per competenza specifica anche l’onere della direzione scientifica del cantiere<br />

di scavo che per la parte archeologica era coordinata sul cantiere dal dott. Mauro Incitti<br />

-amico sfortunato cui sono dedicate queste righe-.<br />

Al finanziamento ed alla organizzazione pratica dello scavo hanno partecipato con<br />

un impegno concreto e fattivo l’Amministrazione Comunale di Ischia di Castro che ha<br />

assunto l’onere della recinzione e copertura del sito, oltre che mettere a disposizione<br />

le competenze tecniche della d.ssa Anna Laura, archeologa medioevalista; e<br />

l’Amministrazione Provinciale di Viterbo che dal capitolo di finanziamento del<br />

“Progetto Pilota” inserito nel programma del “Parco Storico-Archeologico-Ambientale<br />

d’Europa” per il recupero del sito di Castro, ha stralciato un primo finanziamento per<br />

la realizzazione dello scavo e ha messo a disposizione del gruppo di lavoro tecnicoscientifico<br />

lo scrivente, storico dell’Arte, all’epoca responsabile della Sezione “Storia<br />

dell’Arte” del Centro di Catalogazione dei Beni <strong>Cultura</strong>li della Provincia di Viterbo.<br />

La campagna di scavo si è protratta dal 15 Luglio al 1 Agosto del 1997 ed ha comportato<br />

lo sgombero dall’interro di un vano di circa 32 mq., corrispondente al braccio<br />

destro del transetto di una chiesa di proporzioni notevolmente più ampie, articolata su<br />

una icnografia a croce latina. In anni recenti sono stati proseguiti gli scavi che hanno<br />

interessato la rimanente parte dell’edificio non interessata dall’intervento del 1997.<br />

L’edificio:<br />

La chiesa di S. Maria, oggetto dello scavo archeologico, è ubicata nelle propaggini<br />

O del cuneo tufaceo su cui era stata fondata l’antica città di Castro; la costruzione è<br />

stata identificata -grazie alle citazioni della una cronaca cinquecentesca di Domenico<br />

93


Angeli 1 - con la fondazione medioevale di Sanctae Mariae intus civitatem. La medesima<br />

fonte riporta in appendice la relazione della Sacra Visita effettuata nel Maggio 1603 dal<br />

vescovo Giovanni Ambrogio Caccia; nella citata relazione è richiamata una antica tradizione<br />

locale che afferma come questa chiesa fosse stata la prima cattedrale di Castro<br />

(forse avanti alla costruzione della chiesa cattedrale di S. Savino). In una pianta disegnata<br />

nel 1640-41 dall’ingegnere militare al servizio del duca Orazio Farnese, Carlo<br />

Soldati, essa è identificabile con il sito contraddistinto dal numero 9 nel lato S della<br />

città (tav.I).<br />

Nella succitata Sacra Visita del vescovo Caccia l’edificio è descritto con un impianto<br />

icnografico a “T”: «Accessit ad ecclesiam sanctae Mariae intus civitatem, quae est<br />

veluti figura T...», pur permanendo qualche perplessità sulla completa attendibilità<br />

delle misure riportate, la descrizione sembra trovare piena conferma nello scavo eseguito,<br />

localizzato nella parte destra del transetto: un vano rettangolare che misura m.<br />

4,45 di larghezza e m. 8,05 di profondità che si completa sul lato E in una abside semicircolare,<br />

la cui semicalotta è formata dal regolare, progressivo restringimento di conci<br />

sagomati (tavv. II-III); nel setto di muro che conclude il vano sul lato opposto all’abside<br />

si apriva una porta d’accesso che immetteva nel vano tramite due bassi scalini; della<br />

porta rimane in opera solo lo stipite destro formato da conci di dimensioni superiori a<br />

quelli della muratura (fig.1). La tipologia dell’impianto icnografico, l’organizzazione<br />

della zona presbiteriale conclusa in tre absidi e, in particolare, la ricercata eleganza<br />

dell’ordito murario, composto da conci perfettamente squadrati e lavorati a cuneo nella<br />

parte posteriore, formante una compatta cortina di ricorsi regolari di cm. 30 di altezza,<br />

permettono di collocare cronologicamente l’erezione dell’edificio sullo scorcio del XIII<br />

secolo. Quello descritto è un modulo costruttivo che trova riscontro frequentemente<br />

negli edifici di vari centri storici dell’Alto Viterbese, anche se l’unico finora indagato<br />

nel suo complesso in maniera più articolata è quello di Acquapendente dove edifici<br />

costruiti a filari isometrici nel rispetto di tale modulo confermano ad evidenza la datazione<br />

al XIII secolo. Una collocazione cronologica che trova puntuale conferma in alcuni<br />

frammenti architettonici non più in opera, rinvenuti nella massa dell’interro all’interno<br />

del vano scavato, quali i blocchi parallelepipedi lavorati in testa in forma cuspidata<br />

con tre facce ben rifinite ed una lasciata grezza con tracce di malta -la faccia innestata<br />

nella muratura- atti a ricevere ad incastro altri blocchi tronco-piramidali a base rettangolare,<br />

così da formare sulla parete una serie di nicchie che alleggerivano la compatta<br />

muralità della chiesa con la creazione di una forte scansione chiaroscurale; oppure<br />

il frammento di colonnina liscia pertinente ad un portale (quello principale?), probabilmente<br />

del tipo a strombo con archi concentrici le cui cordonature erano ricevute<br />

dalle colonnine alloggiate nei progressivi rincassi della muratura, tipologia ampiamente<br />

diffusa in zona e alla quale rispondeva anche il portale del quasi coevo duomo di S.<br />

Savino 2 .<br />

Ai lati dell’absidiola, nel punto di innesto tra la parete di fondo con quella laterale<br />

1<br />

DOMINICI ANGELI CASTRENSIS, De Depraedatione castrensium et suae patriae historia, scritta nel 1575,<br />

tradotto e commentato da Giovanni Baffioni e Paola Mattiangeli con il titolo Il sacco di Castro e la storia<br />

della sua patria, Roma 1981.<br />

2<br />

P. AIMO, R. CLEMENTI, Castro: Struttura urbana e architetture dal Medioevo alla sua distruzione. in<br />

“Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, ns., 11, 1988, pp. 5-50.<br />

94


e nel setto murario che divide l’abside laterale da quella centrale, sono collocati due<br />

peducci pensili in pietra lavica locale che fungevano da appoggio alla costolatura di<br />

sostegno di una copertura a volte a vela (fig.2) con profili costolonati. Sul lato più interno<br />

della chiesa il peduccio è affiancato da una piattaforma, formata da due ordini<br />

sovrapposti di barbacani divisi da un blocco parallelepipedo, atta a ricevere la ricaduta<br />

di un arco longitudinale che qualificava la zona presbiteriale differenziandola da<br />

quella delle navate, probabilmente coperte da tetto con capriate a vista.<br />

Sul tessuto delle strutture medioevali della chiesa di S. Maria, analogamente a quanto<br />

riscontrato nei più importanti monumenti della città come, tra gli altri, il duomo di S.<br />

Savino 3 , viene ad inserirsi una fase di ristrutturazione tardo-rinascimentale qui documentata<br />

dalla tamponatura dell’absidiola e da una nuova organizzazione dell’area presbiteriale<br />

della cappella, monumentalizzata da un imponente altare in travertino composto<br />

dalla mensa, formata da due lastre con bordo modanato, su questa poggiano due<br />

colonnine a sostegno di una mensola modanata di sapore antiquariale nel cui fascione<br />

è incisa in caratteri capitali una iscrizione con il nome del donatore: HIERONIM<br />

SPONT NI 4<br />

; il medesimo denominativo onomastico compare anche nella forma GEROLI-<br />

MU SPON. in un graffito a lato dell’altare presumibilmente di mano dello stesso<br />

Gerolamo (figg.3-4). I caratteri stilistici della struttura dell’altare desunti dai parametri<br />

della reviviscenza del linguaggio classico nel Rinascimento e la tipologia paleografica<br />

dell’iscrizione -di cui è da notare come i caratteri capitali arricchiti di grazie apicali sono<br />

disposti con una certa trasandatezza nell’allineamento nel primo membro onomastico e<br />

con maggiore ordine, sia nell’allineamento che nelle proporzioni delle lettere, nel secondo-<br />

collocano questa fase di rifacimento all’interno della chiesa (o almeno nel braccio<br />

destro del transetto) agli inizi del XVI secolo. Peraltro se, come sopra ipotizzato, questo<br />

committente è lo stesso Gerolamo citato nella cronaca di Domenico Angeli, l’altare di S.<br />

Maria non può essere stato realizzato che entro la prima metà del secolo.<br />

La datazione al secolo XIII della chiesa di S. Maria viene nuovamente a proporre il<br />

problema della organizzazione urbanistica della Castro medioevale, la forma urbis di<br />

una città così importante da essere fin dal X secolo sede di diocesi 5 -facies malamente<br />

documentata da qualche frammento di pluteo, oggi conservato nella chiesa parrocchiale<br />

di Ischia di Castro, sfuggito al sistematico, incredibile saccheggio cui è stata sottoposta<br />

l’area archeologica di Castro 6 - che rimane a tutt’oggi completamente sconosciuta,<br />

3<br />

Ibidem.<br />

4<br />

Il nome di questo eminente cittadino di Castro avanti alla erezione della città a capitale del ducato<br />

farnesiano, compare nella cronaca di Domenico Angeli dove tra le sentinelle che vigilavano la città<br />

al momento del sacco perpetrato da Pierluigi Farnese nel 1527, è citato un Julius Hieronimi Spontonis<br />

(v. DOMINICI ANGELI CASTRENSIS, cit., p. 32).<br />

5<br />

La tradizione vuole che Castro divenisse sede di diocesi nel X secolo quando il beato Bernardo da<br />

Bagnoregio, vescovo della diocesi di Vulci fu costretto per le scorrerie dei saraceni a lasciare quest’ultima<br />

sede ed a trasferirsi nella più munita Castro, dove trasportò anche le reliquie del patrono<br />

vulcente s. Pancrazio (v. la relazione del podestà di Capodimonte Benedetto Zucchi inviata al duca<br />

Odoardo Farnese nel 1630 pubblicata in F. M. ANNIBALI, Notizie storiche della casa Farnese,<br />

Montefiascone 1818).<br />

6<br />

Nel 1960 l’ingegner Scipione Tadolini iniziò una campagna di scavo sul sito dell’antica città all’altezza<br />

della Piazza Maggiore, della piazza del Vescovado e del duomo di S. Savino, ripresi nel 1967<br />

dal prof. G. De Angelis d’Ossat, le due campagne di scavo destarono allora per la loro eccezionalià<br />

95


se si eccettua la sua raffigurazione su un sigillo pubblicato da G. A. Zanetti 7 , replicato<br />

su un anello di bronzo proveniente da Valentano 8 , dove compare una porta fortificata<br />

con due torri e un coronamento a merlatura guelfa. Non è ozioso sottolineare come lo<br />

stesso poleonimo risenta di una grave ed insuperata cesura storica che lo ha bloccato<br />

sul generico riconoscimento di “piccolo sito fortificato”, Castro, ufficializzato, poi, a<br />

nome proprio della città al momento della sua erezione a capitale del Ducato farnesiano.<br />

Appena qualche notizia in più è tramandata in una cronaca di anonimo riportata in<br />

uno scritto di M. Ghezzi 9 , dove sembra che il centro, intorno al X secolo, fosse conosciuto<br />

come Castello di Madonna Felicita e che il borgo fortificato aveva quattro porte<br />

d’accesso denominate Porta di Castello, Porta Forella, Porta Lamberta e Porta di S.<br />

Maria; quest’ultima ubicata nei pressi della nostra chiesa, documenta indirettamente<br />

come già ad una datazione così alta esisteva un fondazione chiesastica dedicata alla<br />

Vergine precedente a quella oggetto dell’attuale campagna di scavo.<br />

La chiesa di S. Maria fu per lungo tempo in uso ai frati francescani, in seguito alla<br />

costruzione del nuovo grande convento di S. Francesco; la chiesa rimase ancora saltuariamente<br />

nella disponibilità dei francescani che l’abbandonarono definitivamente solo nel<br />

1600, conseguentemente al crollo del tetto. Dopo l’abbandono dei frati francescani, la chiesa,<br />

come si apprende dalla relazione della più volte citata visita pastorale del vescovo<br />

Caccia, divenne sede della Società degli Artigiani che ne curarono anche i restauri 10 .<br />

Gli Affreschi:<br />

L’intera superficie della chiesa era decorata da pitture ad affresco pertinenti ad epoche<br />

diverse; ormai la ricca e varia decorazione pittorica è ridotta a pochi lacerti, estremamente<br />

utili, però, alla ricostruzione, almeno parziale, delle vicende storiche dell’edificio<br />

e di uno spaccato di vita sociale e religiosa della Castro del XIV/XV secolo.<br />

Sul lato destro, in prossimità della porta d’accesso è visibile un frammento di un pregevole<br />

affresco che raffigura un santo vescovo tra due giovani santi a lui rivolti, le iscrizioni<br />

in caratteri capitali gotici con accentuate grazie: S(anctus)/SA/VIN(us) e S(anctus)<br />

PLA(n)/CATIUS -il primo dei due nomi è disposto su tre righe ed ha la desinenza “US”<br />

resa con un segno di abbrevazione, il secondo, invece si estende su due righe e presenta<br />

il segno di elisione sulla prima “A” e un elegante nesso “AT”-, identificano il vescovo<br />

con il santo patrono di Castro s. Savino, il giovane santo alla sua destra con il copaun<br />

enorme interesse, purtroppo le carenze di sorveglianza inficiarono in gran parte l’eccezionale<br />

evento perché molti dei reperti architettonici furono asportati il giorno stesso del rinvenimento e fu<br />

impedito un corretto studio della giacitura dei crolli per l’incredibile, criminale frequenza dei furti<br />

notturni. L’ingegner Tadolini illustrò i risultati del suo lavoro in S. TADOLINI, Una città ritrovata:<br />

Castro, in «Atti dell’Accademia di S. Luca», V, 1961, pp. 85-97.<br />

7<br />

G. A. ZANETTI, Nuova raccolta delle monete e zecche d’Italia, Bologna 1789, tomo V, p. 358.<br />

8<br />

R. LUZI, Lo stemma di Castro, in «Biblioteca e Società», periodico del Consorzio Biblioteche della<br />

Provincia di Viterbo, 4, 1980, p. 39.<br />

9<br />

Le incerte notizie sono riportate da una anonima Cronica pubblicata nell’operetta sulla salubrità dell’aria<br />

di Castro dal medico di Sinalunga M. GHEZZI, Breve discorso ..., Roncilione MDCX: “quod olim<br />

dicebatur Castrum D. Felicitas”.<br />

10<br />

Archivio Vescovile di Acquapendente, Cartella delle Sacre Visite e Sinodi, Visita Sacra di mons.<br />

A. Caccia, 15 Maggio 1603, f. 15.<br />

96


trono s. Pancrazio, il cui nome è reso nella lezione traslata Plancatius (fig. 5), mentre il<br />

terzo santo rimane anonimo per la perdita dell’iscrizione di riconoscimento. Le precarie<br />

condizioni di conservazione non permettono approfondite analisi storico stilistiche,<br />

anche se gli eleganti caratteri paleografici dell’iscrizione -che qualificano la notevole<br />

qualità stilistico-formale dell’affresco- e le caratteristiche calottine che fungono da<br />

copricapo ai due giovani santi laterali, permettono di collocare cronologicamente questo<br />

intervento decorativo al primo XIV secolo.<br />

Sullo stesso lato, nel vano di una porta laterale trasformata già in antico in una nicchia<br />

porta reliquie, compaiono i frammenti dell’ala e dell’aureola, della mano destra<br />

che impugna una spada e della sinistra che tiene una bilancia, iconograficamente riferibili<br />

all’immagine di S. Michele Arcangelo; una ricercata eleganza si riscontra nella<br />

resa della tunica di cui rimangono parte della manica destra e un lacerto sul fianco, con<br />

ricche decorazioni nelle bordure.<br />

A seguire la decorazione pittorica prosegue con un riquadro in origine delimitato da<br />

una cornice a finte tarsie marmoree tra bande rosse, i pochi resti danno modo di identificare<br />

solo S. Antonio da Padova con il Bambino (figg.6-7) -rimane leggibile un frammento<br />

del capo del santo circondato dall’aureola e il volto bellissimo del Bambino- e parte del<br />

volto di un secondo santo non identificabile. La pittura di alta qualità artigiana nella preparazione<br />

dell’intonaco di supporto, nelle aureole in pastiglia stampigliata di fattura accurata<br />

e fine e nella qualità dei colori, denota un analogo pregio anche sul piano formale per<br />

quanto è dato osservare nel volto espressivo del Bambino, il cui modellato è reso con un<br />

morbido sfumato roseo e luminoso. La preziosa rilevanza di questi pochi frammenti è<br />

accentuata anche sul piano storico-demologico per i resti di una lunga iscrizione articolata<br />

su tre righe che correva alla base del dipinto. La complessa iscrizione scritta in gotica<br />

minuscola riportava sia la data di realizzazione dell’opera, sia il nome del committente<br />

e la relativa motivazione della commissione che qualifica l’opera quale un ex-voto; le<br />

poche parole ancora leggibili sono: ... fecit . fieri . hoc . op(us) sulla prima riga, che corrisponde<br />

alla formula di committenza; nelle altre due righe, comprese tra le bande rosse<br />

della cornice, segue la motivazione della dedicazione e la data di relizzazione: ... piagatus<br />

. delusus . cesus . e(...) ... cis(...) ... / ... m° . cccc° . xxxx . ... . Questo affresco si sovrappone<br />

ad una pittura più antica intuibile nella sovrapposizione degli intonaci.<br />

La superstite decorazione di questa parete è conclusa dalla rappresentazione di una<br />

Madonna in trono col Bambino tra due angeli e donatore (figg.8-9), definisce questa<br />

scena una cornice a bande colorate che includono un largo fascione decorato con girali<br />

fitomorfi. Come il resto della decorazione dipinta anche queste figure hanno sofferto<br />

notevoli danni che non inficiano comunque una loro esauriente lettura: il colore piatto,<br />

il forte ricorso al segno schematico e definito nella costruzione dei caratteri fisionomici<br />

dei volti e delle figure, le aureole realizzate in colore rosso e contornate da un giro di<br />

colore più scuro con perlinature bianche, l’angelo superstite vestito alla bizantina con<br />

il loros sulla tunica candida, denotano la maggiore arcaicità di queste immagini rispetto<br />

a quelle finora trattate, anche se il copricapo del donatore -unico frammento rimasto<br />

della sua figura- rispondente ad una foggia caratteristica del Trecento, documenta più<br />

un attardamento stilistico che non una datazione più alta, un fenomeno piuttosto diffuso,<br />

analogo a quanto riscontrabile nella cultura figurativa dell’ambiente senese, cui l’alto<br />

viterbese ha sempre guardato con particolare attenzione a partire dai primi lustri del<br />

XIV secolo; lo stesso atteggiamento mosso del Bambino il cui busto si volge in torsione<br />

97


verso l’angelo alla sua sinistra, avvalora una datazione relativamente bassa, dubitativamente<br />

collocabile agli inizi Trecento.<br />

La decorazione ad affresco ancora leggibile sui muri di questa porzione della chiesa<br />

di S. Maria interessata dallo scavo, si completa con due ex-voto posti sulla parete di<br />

fondo ai lati dell’altare: sul lato destro compare il solo volto di un Santo vescovo (s.<br />

Savino?) stilisticamente e cronologicamente affine alle immagini della Madonna in<br />

trono nella accentuata resa grafica dei caratteri fisionomici, però la rigida frontalità ed<br />

un segno più sottile, netto ed incisivo ne differenzia con certezza la mano, una analoga<br />

cifra tecnica si riscontra anche negli affreschi sull’intradosso dell’arco che introduce<br />

nella chiesa sotterranea di S. Cristina a Bolsena, recentemente restituiti a una buona<br />

leggibilità da un accurato restauro; molto interessante l’incorniciatura dipinta sull’aggetto<br />

della mensola soprastante che nella bicromia bianca e nera dei cunei richiama<br />

analoghi esempi presenti nel S. Francesco di Assisi e negli affreschi dell’Ospedale<br />

della Scala di Siena (fig.10). Sul lato opposto, una frammentaria immagine di S. Antonio<br />

Abate –della figura rimane appena la parte bassa con il saio monacale cui è sovrapposto<br />

lo scapolare ed un frammento del maialino, attributo canonico del santo- con il<br />

donatore inginocchiato ai suoi piedi a mani giunte (fig.11-12). La scena è opera di una<br />

maestranza di artigiani che non attinge ad elevati livelli qualitativi, ed è pertinente ad<br />

un intervento decorativo attivato nel Quattrocento, datazione documentata anche nell’abbigliamento<br />

del donatore; alla base della pittura corre una iscrizione dedicatoria in<br />

volgare: (.....)a . fi(...)a . afatta . f(..)e . Giovanni Disc(...), sciolta come segue: (quest)a<br />

fi(gur)a afatta f(ar)e Giovanni Disc(hia).<br />

La decorazione ad affresco di questa parte del transetto della chiesa di S. Maria<br />

comprende anche numerosi frammenti emersi dai materiali di scavo; tra questi eccelle<br />

per l’altissima qualità (fig.13) il volto di una santa conservatosi su uno dei conci crollati<br />

all’interno della chiesa: la pregevolissima figura resa con estrema perizia formale<br />

nella raffinata grafia del disegno, nella pennellata sicura e pastosa e nella inflessione<br />

impressionistica della bocca, nel colorito roseo pallido dell’incarnato modulato nelle<br />

ombreggiature dal verdaccio della preparazione di base; tutte le caratteristiche stilistico-formali<br />

di questo frammento di affresco rimandano al magistero duccesco, interpretato<br />

da un artefice di non trascurabili doti. Pertinente alla stessa mano -forse riferibile<br />

anche alla stessa scena- è un altro lacerto con parte del volto e dell’aureola di una figura<br />

femminile (fig.14). Poco più tardo, sicuramente da riferire ad una campagna decorativa<br />

attivata nel Trecento, è un ulteriore frammento che, pur non assurgendo alle qualità<br />

formali dei frammenti succitati, rappresenta però un raro tema iconografico: il<br />

Bambino Gesù condotto per mano dalla Vergine. Del gruppo dipinto -che comprendeva<br />

anche la canonica figura di s. Giuseppe- rimangono le sole mani della madre e del figlio<br />

e parte del bambino; formalmente questa figurina esprime una buona resa del volto -<br />

imbolsito dal forte degrado cromatico- ma una faticosa rappresentazione degli arti che<br />

sembrano soffrire di un fenomeno di raccourci. Ad una fase decorativa attivata nel<br />

Quattrocento è, invece, pertinente il frammento di affresco distribuito su due dei conci<br />

di crollo recuperati, nei quali compare un Ecce Homo tra tre aguzzini, la parte leggibile<br />

si compone della parte centrale della figura di Cristo rivestita di un ricco manto<br />

damascato con fioroni a stampino e con le mani incatenate incrociate sul bacino; le<br />

mani di due aguzzini sulla destra che impugnano delle verghe con cui colpiscono il<br />

Cristo; e un aguzzino sulla sinistra di cui oltre alla mano con la verga rimane anche<br />

98


parte del volto incorniciato da una folta barba. L’opera, di bottega, si qualifica per una<br />

notevole vivacità cromatica e per l’impostazione cruenta e teatrale che rimanda al<br />

mondo delle Sacre Rappresentazioni.<br />

Una notazione merita anche il frammento di concio tufaceo rivestito dall’intonaco<br />

affrescato in cui è possibile leggere solo la lettera “M” resa con il carattere gotico a<br />

forma di ferro di cavallo con l’asta intermedia, così diffuso agli inizi del Trecento, anche<br />

se perdura per un lasso di tempo molto più lungo (fig.15).<br />

I materiali:<br />

Dallo scavo dei materiali che ingombravano il braccio del transetto della chiesa di<br />

S. Maria e da un recupero effettuato in un sepolcro a loculi -messo in luce da un saggio<br />

di scavo clandestino- localizzato all’altezza del sacrato della chiesa, in prossimità<br />

della facciata principale dell’edificio, sono emersi una singola moneta -un Quattrino<br />

castrense-; un tesoretto di circa ottanta/cento monete rinvenuto accanto al cranio dell’inumato;<br />

queste si presentano oltre che fortemente ossidate, saldate sia tra loro sia con<br />

le fibre del sacchetto di canapa che le conteneva (fig.16). Tra le monete si distinguono<br />

con certezza alcuni Quattrini e, anche se persiste qualche dubbio, tracce di ossido<br />

scuro che sembra pertinente a monete d’argento. Tale rinvenimento riveste una notevole<br />

importanza per la storia degli studi su Castro; infatti, almeno finora, pur conoscendo<br />

la presenza di una zecca a Castro, il diritto per i Farnese di battere moneta e numerose<br />

monete farnesiane, non si era mai avuta la possibilità di trovare dette monete sul sito<br />

della città. Nella zecca di Castro, attiva fino al 1546, operarono i maestri coniatori<br />

Leonardo Centone da Parma e Gian Maria Rossi da Reggio 11 , i quali realizzarono le<br />

matrici delle varie monete coniate nella capitale farnesiana tra cui le “monete nere”<br />

rinvenute nello scavo, le quali presentano nel dritto lo stemma di Pierluigi Farnese con<br />

i sei gigli in palo inframezzati dal gonfalone pontificio con le chiavi di s. Pietro decussate<br />

e la leggenda P. ALOISIUS. F. DUX. CASTRI. I.; nel rovescio la figura stante del<br />

santo patrono con la leggenda SANTUS SAVINUS.<br />

Notevole per quantità e qualità anche il materiale ceramico, tra cui alcuni oggetti in<br />

buono stato di conservazione; questo era stato affogato nella malta per alleggerire la<br />

base di un pavimento rifinito in superficie da uno strato di tipo opus signinum, attinente<br />

ad una costruzione estranea alla chiesa -probabilmente una cisterna collocata ad un<br />

livello superiore rispetto a S. Maria- dalla quale si è staccato l’enorme blocco fatto crollare<br />

al suo interno al momento del disfacimento della città. Il sorprendente rinvenimento<br />

di numerosi reperti ceramici e di maioliche, gran parte in frammenti (fig.17), molti<br />

dei quali utili per ricomporre le forme originarie, ma anche numerose forme quasi integre,<br />

si compone essenzialmente di forme chiuse in ceramica comune acroma d’uso<br />

domestico quali olle acquarie globulari, ansate o biansate, di diverse dimensioni, olle<br />

da fuoco; e oggetti in maiolica, esclusivamente forme chiuse come boccali ansati a<br />

fondo piatto con orlo trilobato (figg.18-19) e corpo a forma ovoidale molto accentuata, o<br />

del tipo detto “a cannata”; un esempio, frammentario ma ricostruibile quasi per intero,<br />

11<br />

Notizie sulla attività della zecca castrense e sulla tipologia e qualità delle monete battute si hanno<br />

in M. PELLEGRI, Castro le sue rovine e l’opera del Sangallo, Parma 1977, in «Estratto dall’Archivio<br />

Storico delle Province Parmensi», XXIX, p. 381.<br />

99


ha il versatoio cilindrico ancorato con una staffa al corpo del boccale (fig.18). La decorazione<br />

utilizza esclusivamente i colori bruno manganese e verde ramina che nei modelli<br />

più antichi forma elementi decorativi composti da embricature in manganese con<br />

gocce di verde molto diluito date a punta di pennello, nelle forme più tarde si ha una<br />

evoluzione verso decorazioni formate da curve, riquadrature, onde e archi di bruno<br />

manganese campite con il verde; con una certa frequenza sono stati rinvenuti anche<br />

frammenti decorati con disegni retinati di bruno manganese. L’arco cronologico occupato<br />

dai reperti ceramici rinvenuti nello scavo va dallo scorcio del XIII ai primi decenni<br />

del XIV.<br />

Per quanto attiene ai reperti ceramici una nota a parte deve essere fatta per una ciotola<br />

murata nel corpo di un concio tufaceo (fig.19), rinvenuto tra i materiali che ingombravano<br />

il vano scavato ma pertinente ad altro edificio, forse alla torre campanaria<br />

addossata alla chiesa; la ciotola, rivestita da ingobbio sotto vetrina con decorazione<br />

graffita e dipinta in giallo ferraccia, verde ramina e bruno manganese, produzione di<br />

officina altolaziale del XV secolo, rappresenta un bell’esempio di maiolica decorativa<br />

monumentale che ha trovato ampia area di diffusione in numerosi edifici sacri distribuiti<br />

lungo il percorso della Via Francigena, nell’area della Val d’Orcia e, in un ambito<br />

territoriale più prossimo, sulla facciata della chiesa di S. Maria della Carbonara a<br />

Viterbo, ubicata nei pressi di un ospedale per pellegrini tenuto dai monaci antoniani di<br />

Vienne 12 .<br />

Tra i reperti rinvenuti nello scavo è stata ritrovata anche una acquasantiera, citata<br />

già nella Sacra Visita effettuata dal vescovo Caccia: un semplice rocchio di riutilizzo di<br />

colonna in travertino, con la vasca per l’acqua formata da un profondo incavo sulla<br />

superficie piana (fig.20).<br />

12<br />

Cfr. G. ROMALLI, La Domus templare di S. Maria in Carbonaria, in Dal Castrum Viterbi alla Civitas<br />

Pontificum: arte e architettura a Viterbo dall’XI al XIII secolo, Atti del Convegno (Viterbo 21-22 aprile<br />

2005), Viterbo 2005, pp. 37-68.<br />

100


AUTORAPPRESENTAZIONE E ARTE FUNERARIA:<br />

UN ESEMPIO DA ARTENA *<br />

Germana Vatta<br />

La ricostruzione delle vicende antiche di un popolo o di una città è sempre un’impresa<br />

difficile, ricompensata talvolta da scarsi risultati: il quadro che si profila è sovente<br />

lacunoso, discontinuo e parziale. Soltanto con la sinergia dei singoli apporti scientifici<br />

è possibile tracciare gli aspetti essenziali della vita di un popolo, così da delinearne<br />

un quadro verosimilmente più corrispondente alla sua realtà sociale, economica,<br />

politica e artistica.<br />

I monumenti funerari e il loro apparato decorativo consentono, unitamente alle fonti<br />

storiche ed epigrafiche, di delineare non soltanto i gusti artistici e le credenze religiose<br />

del committente, ma anche il suo status sociale e le sue origini, mostrando aspetti e<br />

realtà che vanno ben oltre la singola attestazione funeraria.<br />

Come è stato giustamente evidenziato dallo Zanker “i monumenti funerari e i monumenti<br />

scultorei in essi conservati rispecchiano l’immagine sociale del defunto in vita,<br />

divenendo espressione della coscienza di sé e dell’autorappresentazione” 1 .<br />

L’apparato iconografico del sarcofago che verrà esaminato è motivo di spunto per<br />

considerazioni utili alla conoscenza dei valori collettivi di quella classe media “borghese”,<br />

il cui status si misura solo sul successo materiale e l’agiatezza” 2 .<br />

Si tratta di una piccola cassa in marmo bianco, da interpretare forse come un sarcofago<br />

di bambino o come un’osteoteca, un tempo conservata nel palazzo Borghese di<br />

Artena e attualmente dispersa (fig. 00,1). Il pezzo è stato trafugato probabilmente dopo<br />

il 1968, anno in cui venne effettuata la campagna fotografica dell’Istituto Archeologico<br />

Germanico di Roma, che interessò i reperti conservati nel palazzo in questione 3 .<br />

I fianchi della cassa non sono scolpiti. Sulla fronte, delimitata in basso e ai lati da<br />

∗ Queste pagine sono dedicate alla memoria di Mauro Incitti, maestro ed amico.<br />

Desidero ringraziare Nike Arrighi Borghese per la cortese disponibilità dimostratami in più occasioni.<br />

La mia riconoscenza va alla prof.ssa Margherita Bonanno Aravantinos, al prof. Francesco Gandolfo,<br />

alla dott.ssa Nadia Agnoli, al dott. Marco Germani e al dott. Pietro Zander per i proficui consigli<br />

fornitemi. Ringrazio la dott.ssa Daniela Bonanome e l’amica Simonetta Azario per aver agevolato<br />

in ogni modo la mia ricerca. Alla dott.ssa Maria Grazia Celuzza esprimo profonda gratitudine per<br />

le utilissime e piacevoli conversazioni tenute sull’argomento oggetto di questo contributo, nonché per<br />

la sollecita e amichevole attenzione con cui ha seguito il mio lavoro. Un ringraziamento particolare,<br />

infine, è dovuto al dott. Luciano Frazzoni per l’aiuto e l’incoraggiamento da sempre profusi nei miei<br />

riguardi.<br />

1<br />

ZANKER 2002, p. 133.<br />

2<br />

ZANKER 2002, p. 133.<br />

3<br />

È stato possibile ricostruire le misure della cassa, calcolando la distanza tra le staffe di ferro su cui<br />

poggiava: h. cm. 24 ca; lung. cm. 60 ca; prof. cm. 29 ca. La cassa è attraversata sulla fronte da una<br />

linea di frattura. Scheggiature interessano la superficie in più punti.<br />

101


un listello, si susseguono uno sgabello, un secchiello, una coppa/ciotola, un kantharos<br />

al quale si disseta un uccellino, un paniere, un oggetto di forma tondeggiante con manico,<br />

identificato dal Quilici con una ghirba alla quale si abbeverano due volatili 4 , una<br />

ghirlanda con uccellino intento a beccarne i frutti, un elemento rettangolare con un<br />

bastoncino, identificabile forse con una tavoletta cerata con lo stilo, un cesto con frutta<br />

e infine un tralcio d’edera, i cui corimbi sono beccati da un altro uccellino 5 .<br />

Si è più propensi a interpretare l’oggetto tondeggiante come una gabbietta o come un<br />

contenitore dotato di sportellino, il profilo del quale è visibile tra i due uccellini. Alla<br />

mancanza di rifinitura è attribuibile probabilmente l’assenza del caratteristico intreccio<br />

determinato dai regoletti realizzati in legno e vimini o in metallo 6 ; una simile sommarietà<br />

e approssimazione nella lavorazione è apprezzabile anche nel rendimento piatto<br />

della ghirlanda, priva di foglie e di eventuali frutti, e nella mancata levigatura della<br />

superficie del fondo. Quanto alla tavoletta cerata con lo stilo, un rappresentazione simile<br />

è attestata su una pittura rinvenuta nella Casa di Iulia Felix a Pompei 7 (fig. 00,2).<br />

Questo tipo di decorazione non trova confronti analoghi nell’ambito dei sarcofagi e<br />

problematica ne è, come si è visto, non soltanto la lettura ma anche la sua esegesi.<br />

Per il Quilici la raffigurazione è una chiara allusione al banchetto ultraterreno nel<br />

giardino dei Beati 8 . Da quanto mi risulta, gli oggetti raffigurati, ad eccezione del vasellame,<br />

non sono elementi peculiari dell’iconografia del banchetto funebre, e in generale,<br />

non mi sembra che esistano confronti puntuali tra i sarcofagi che presentano questa<br />

tematica iconografica 9 .<br />

Nella decorazione della cassa sono raffigurati oggetti che ripropongono, anche se in<br />

modo grossolano e approssimativo, motivi iconografici ampiamente diffusi nell’arte<br />

funeraria 10 , come l’uccellino che beve dal kantharos, immagine dell’anima che si abbevera<br />

11 , o quello che becca il corimbo 12 , il cesto calatiforme di vimini pieno di frutta 13 e<br />

la ghirlanda 14 , evidenti allusioni alla sfera dionisiaca.<br />

4<br />

QUILICI 1982, p. 108, tav. XCI, 3.<br />

5<br />

Per gli uccellini che beccano i corimbi d’edera, cfr. SINN 1987, p. 94, cat. 12, tav. 66; p. 152, n. 242,<br />

tav. 44d; pp. 187-188, n. 403, tav. 64, c-d. Per il significato dionisiaco dei rami d’edera cfr. SINN 1987,<br />

p. 57.<br />

6<br />

Per la gabbietta cfr. SAGLIO s.d., pp. 980-981.<br />

7<br />

PUCCI 1992, p. 234, fig. 300.<br />

8<br />

QUILICI 1982, p. 108.<br />

9<br />

Per i sarcofagi con le scene di banchetto si veda: AMEDICK 1991, pp. 25-44. Per i sarcofagi di bambino<br />

con scene di banchetto, cfr. HUSKINSON 1996.<br />

10<br />

Per l’uccellino che si abbevera al kantharos, cfr. SINN 1987, p. 93, n. 10, tav. 6; p. 96, n. 21, tav. 9; p.<br />

99, n. 32, tav. 13, pp. 99-110, n. 33, tav. 13; p. 101, n. 40, tav. 15d; p. 108, n. 70, tav. 21; p. 109, n. 71,<br />

tav. 22; p. 109, n. 72, tav. 22; p. 143, n. 235, tav. 44; p. 152, n. 243, tav. 45; p. 193, n. 427, tav. 66.<br />

11<br />

Sulla raffigurazione simbolica dell’uccello quale immagine dell’anima si veda MACCHIORO 1908, pp. 17,<br />

47-54, 70-76; CUMONT 1942, pp. 109-110; ROSADA 1982, p. 89, n. 27; VARONE 1989, pp. 26-27, nota 56.<br />

12<br />

Per l’uccellino che becca il corimbo d’edera, cfr. SINN 1987, p. 94, n. 12, tav. 6; p. 152, n. 242, tav. 44;<br />

pp. 187-188, tv. 64.<br />

13<br />

Si veda ad esempio il cesto presente sui fianchi di un sarcofago a ghirlande del Museo Nazionale<br />

Romano, MNR I, 8, 1, n. IV, 11, pp. 204-206 (M. SAPELLI). Per il significato stagionale del canestro ricolmo<br />

di frutta, cfr. KRANZ 1984, pp. 139-141, 143. Si veda inoltre per il signicato dionisiaco della frutta e<br />

del canestro MACCHIORO 1908, pp. 82-86.<br />

14<br />

Per la simbologia della ghirlanda: TOYNBEE 1934, pp. 202-241; MATZ 1958, pp. 48-50; TURCAN 1971,<br />

p. 92-96 e in particolare pp. 128-130; HERDERJÜRGEN 1996, pp. 25-26.<br />

102


A questi elementi simbolici dionisiaci si affiancano l’ipotetica gabbietta, lo sgabello,<br />

il paniere, la tavoletta cerata con lo stilo che, forse, possono essere interpretati come<br />

gli oggetti che qualificano il defunto o che in qualche modo sono espressione delle sua<br />

personalità e delle sue occupazioni terrene, come avviene per gli oggetti scolpiti sui<br />

cippi, sulle stele e sulle are 15 . Questi oggetti non rientrano nelle tematiche funerarie<br />

convenzionali e probabilmente non devono essere considerati come simboli astratti di<br />

dottrine religiose o filosofiche, anche se la gabbietta aperta con gli uccelli potrebbe<br />

essere letta sia in chiave simbolica che realistica. Nel primo caso potrebbe alludere alla<br />

teoria neoplatonica che vede “il corpo come gabbia dell’anima-uccello”, ripresa successivamente<br />

nell’iconografia cristiana 16 .<br />

Più verosimilmente, però, la gabbietta con gli uccellini del sarcofago di Artena può<br />

forse essere ricondotta al motivo iconografico del fanciullo o della fanciulla raffigurati<br />

nell’atto di reggere nella mano un uccellino, motivo già noto nelle stele attiche del V<br />

secolo a.C. ed ampiamente attestato in tutto il bacino del Mediterraneo, da interpretare<br />

come un chiaro riferimento ai giochi infantili 17 . Le dimensioni ridotte della cassa, come<br />

si è detto, hanno fatto ipotizzare che si trattasse di un’osteoteca o di un sarcofago di bambino<br />

18 . Della coppa/ciotola e del secchiello forse il fanciullo si serviva per curare i piccoli<br />

volatili, mentre la tavoletta cerata e lo stilo potrebbero alludere all’attività scolastica<br />

del fanciullo, o come sovente avviene nella scultura funeraria, potrebbero essere il<br />

mezzo per manifestare la cultura letteraria vera o presunta del defunto 19 . Viceversa il<br />

riferimento per il paniere e lo sgabello sono meno chiari, anche se in qualche modo dovevano<br />

rivestire una certa importanza nell’esistenza terrena del defunto, così da essere raffigurati<br />

sulla sua tomba. Non è da escludere, peraltro, che l’individuo sepolto nella cassa<br />

facesse di mestiere l’allevatore di volatili o che, comunque, fosse impegnato in affari che<br />

in qualche modo avessero a che fare con l’uccellagione e l’allevamento 20 . Infine, tutta la<br />

raffigurazione potrebbe avere un significato esclusivamente simbolico e, in tal caso,<br />

anche gli oggetti sopra menzionati, incarnerebbero, al pari delle figure bucoliche e dei<br />

15<br />

FELLETTI MAJ 1977, pp. 323-326.<br />

16<br />

Il motivo dell’uccello in gabbia è poco diffuso ed è attestato tra il V e il VI secolo d.C. soprattutto<br />

nelle raffigurazioni musive pavimentali dell’area nord-africana. Una gabbietta con uccellino è presente<br />

nella famosa pittura del Giardino della Villa di Livia a Prima Porta, cfr. SANZI DI MINO 1998,<br />

pp. 209-213, in particolare fig. a p. 213. Un’altra attestazione è riscontrabile nel mosaico del<br />

Dominus Julius a Cartagine (MERLIN 1921; FANTAR 1995, fig. a pp. 108-109; si veda inoltre GRABAR<br />

1962) e forse anche nel mosaico, purtroppo lacunoso, della Villa di Tabarka, cfr. GAUCKLER, 1910, n.<br />

940; SLIM 1995, fig. a p. 147). Per quanto riguarda i sarcofagi, una gabbietta sormontata da un uccello<br />

è documentata ai piedi di un orante su un sarcofago paleocristiano, cfr. BOSIO 1632, p. 57. Un<br />

uccello in gabbia è raffigurato su un vaso rinvenuto in una catacomba romana, cfr. CABROL-LECLERQ<br />

1909, col. 1548, fig. 1831. Per il significato del motivo dell’uccello in gabbia nell’arte cristiana cfr.<br />

GRABAR 1962, pp. 124-126; GRABAR 1966. Si veda inoltre TOUBERT 2001, pp. 217- 220; SARTORI<br />

2007-2008, in particolare pp. 435-444.<br />

17<br />

Sulle stele greche e romane i piccoli defunti sono raffigurati spesso con un uccellino e un grappolo<br />

d’uva, cfr. BONZANO 2005.<br />

18<br />

In assenza di oggetti riferibili al mundus muliebris si può escludere che vi fosse sepolta una defunta.<br />

19<br />

A tal proposito si può citare a pittura pompeiana che ritrae Terentius Neo e la moglie in atteggiamento<br />

pensoso da intellettuali, con stilo e rotolo, espressione della propria affermazione sociale e culturale,<br />

cfr. Roma la pittura di un impero 2009, p. 303, n. VI.2 (L. BUCCINO), con bibl. prec.<br />

20<br />

Per l’allevamento degli uccelli cfr. CARANDINI 1988, pp. 71-72, 161-162<br />

103


temi relativi al giardino, l’idea di una vita ultraterrena spensierata e pacifica allietata da<br />

frutti e animaletti piacevoli come gli uccellini 21 .<br />

Il messaggio simbolico intrinseco nella raffigurazione, che per i familiari doveva<br />

essere evidente e immediato, per noi rimane, purtroppo, oscuro in assenza di ulteriori<br />

dati e confronti.<br />

Il committente ha optato per motivi iconografici poco usuali, preferendo alle più<br />

comuni tematiche mitologiche o alle rappresentazioni simboliche di episodi significativi<br />

della vita umana, la semplice raffigurazione degli oggetti, che in questo caso, come<br />

si è detto, potrebbero simboleggiare i giochi e il passatempo di un piccolo defunto, alla<br />

stregua degli arnesi da lavoro, identificativi dell’uomo, o degli oggetti del mundus<br />

muliebris nel caso di una defunta 22 .<br />

Tra le problematiche che il pezzo in esame pone c’è anche quella della sua cronologia.<br />

Purtroppo la definizione cronologica della cassa è resa difficile da più componenti: in<br />

primo luogo l’impossibilità di un esame autoptico del pezzo in questione, che avrebbe fornito<br />

senz’altro informazioni utili, quali il tipo di marmo usato e probabilmente una lettura<br />

più verosimile degli oggetti raffigurati. Il manufatto è un’opera di produzione locale e<br />

per di più di qualità decisamente mediocre; il fatto che sia privo di iscrizione, non permette<br />

di individuare con certezza chi vi fosse sepolto. A questo si deve aggiungere, purtroppo,<br />

anche la mancanza di dati relativi al luogo e alle modalità di rinvenimento, che<br />

decontestualizzano il sarcofago privandolo di gran parte del suo valore storico.<br />

La raffigurazione simbolica del defunto attraverso gli “utensili del suo lavoro”,<br />

parallelamente all’uso di rappresentare il militare per mezzo delle armi e delle insegne<br />

e il magistrato per mezzo della sella o dei fasci, sembra essere documentata per lo più<br />

in età augustea e flavia sui monumenti funerari dell’Italia Centrale 23 .<br />

A titolo di esempio può essere citato l’ollario di P. Nonius Zethus, conservato al<br />

Museo Chiaramonti in Vaticano, proveniente da Ostia e datato nel I sec. d.C.; sul pannello<br />

di destra sono raffigurati una cribra, mortai e altri utensili per la macinare il<br />

grano 24 ; nonostante gli oggetti siano diversi, si può notare la stessa concezione ideale<br />

del campo figurato che riproduce la parete con i chiodi su cui usualmente erano appesi<br />

gli strumenti utilizzati durante l’esistenza terrena.<br />

Una analoga raffigurazione simbolica degli oggetti è tipica di un gruppo di stele di<br />

età romana attestate in Turchia. In questi esemplari, agli oggetti identificativi del defunto<br />

si associano elementi puramente simbolici come il cesto di frutta con gli uccellini e<br />

le corone. Su una stele proveniente da Cizico, databile nel II sec. d.C., compaiono sia<br />

il cesto di frutta sia gli uccellini e altri oggetti legati al mondo muliebre, trattandosi di<br />

una stele di una defunta 25 . Questo potrebbe indurre a ipotizzare che il defunto apparte-<br />

21<br />

ZANKER 2002, p.146.<br />

22<br />

FELLETTI MAJ 1977, p. 362.<br />

23<br />

Nell’ipotesi che il defunto fosse un bambino, i giocattoli naturalmente sarebbero i suoi “strumenti<br />

del mestiere”. Nella scelta di tali motivi iconografici è ravvisabile, secondo la Felletti Maj, “una<br />

manifestazione della fiducia del mezzo iconografico come strumento di comunicazione e celebrazione,<br />

che è propria dello spirito italico”, cfr. FELLETTI MAJ 1977, pp. 325-326; si vedano inoltre<br />

pp. 252- 253, 361.<br />

24<br />

AMELUNG 1923, pp. n. 685, tav. 84; WHITE 1975, p. 104, tav. 2a.<br />

25<br />

PFUHL, MÖBIUS 1979, p. 549, n. 2279, tav. 322.<br />

104


nesse a una famiglia oriunda dell’Asia Minore, che sul monumento del congiunto ha<br />

voluto riprodurre schemi e iconografie tipiche delle stele funerarie del paese d’origine.<br />

Il pezzo in esame, pur accogliendo elementi di un patrimonio iconografico funerario<br />

comune, non mostra precise affinità con nessun altro esemplare. Si può constatare,<br />

quindi, per questo sarcofago il carattere di unicum determinato da un’unione di motivi<br />

diversi, ampiamente diffusi se presi singolarmente, in un prodotto di un’officina locale<br />

che percepiva spunti degli ateliers urbani. La sua datazione, problematica da individuare<br />

per tutte le problematiche sopra menzionate, deve forse essere genericamente ascritta<br />

al II-III secolo d.C.<br />

In conclusione, quindi, per il sarcofago esaminato, la scelta degli oggetti raffigurati<br />

non è determinata da un generico intento decorativo, ma è condizionata dal messaggio<br />

che il defunto o i familiari vogliono comunicare a quanti vedranno il sepolcro. Gli “strumenti<br />

del mestiere” simboleggiano in modo ideale gli aspetti salienti di tutta un’esistenza,<br />

divenendo una sorta di cursus honorum figurato per i defunti che pur non appartenendo<br />

alla classe dirigente, vogliono manifestare la propria affermazione sociale ed<br />

economica. La scelta di un monumento funerario come un sarcofago in marmo, senz’altro<br />

più costoso rispetto ad altri tipi di sepolture, nonostante la scarsa qualità artistica,<br />

consentiva di crearsi un’immagine e di esprimere la propria coscienza di sé tramite la<br />

rappresentazione funeraria.<br />

105


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107


L. CARETTA<br />

Fig. 1 Pianta allegata al progetto (Archeologia, maggiogiugno<br />

1996); in rosso le due aree oggetto di intervento<br />

Fig. 2 Via Amerina-Cavo degli Zucchi<br />

Fig. 3 Via Amerina-Cavo degli Zucci; le tombe del “settore<br />

i”<br />

Fig. 4 Via Amerina-Tre Ponti; area del monumento a fregio<br />

dorico<br />

108


L. CARETTA<br />

Fig. 5 Via Amerina-Cavafoce<br />

Fig. 6 Via Amerina-Corchiano<br />

Fig. 7 Il cantiere nel 2001 Fig. 8 Il cantiere nel 2005<br />

109


C. CASI<br />

Fig. 1: A) localizzazione del sito di Valle della Chiesa; B) localizzazione della necropoli di Naviglione; C) localizzazione<br />

presunta della necropoli di Palombaro.<br />

Fig. 2: tavola materiali<br />

Fig. 3: tavola materiali<br />

110


O. CERASUOLO<br />

Fig. 1- Pianta di Rofalco da RENDELLI 1985.<br />

Fig. 2- Pianta generale della fortezza di Rofalco (aggiornamento<br />

2009). A, area 0; B, area 1000; C, cisterna; D,<br />

area 2000; E, area 2500; F, area 3000; G, area 4000-<br />

Porta est; H, area 5000; I, torre occidentale.<br />

Fig. 3- I primi ambienti individuati da M. Incitti nell'area<br />

0.<br />

Fig. 5- Planimetria complessiva dell'area 2000-2500-<br />

3000.<br />

Fig. 4- Area 2000, l'ambiente con pavimentazione in<br />

lastre di tufo.<br />

111


O. CERASUOLO<br />

Fig. 6- Planimetria complessiva dell'area 0-1000-5000 (aggiornamento 2009).<br />

Fig. 7- L'area della Porta est (area 4000).<br />

112


M. CUTUPRI<br />

Fig. 1 Pierre-Gustave Joly De Lotbiniére - 1839 Propilei<br />

di Atene - da Storia della Fotografia, B Newhall, p. 38.<br />

Fig. 2 Lorenzo Suscipj - 1840 - Il Foro Romano - da<br />

Storia della Fotografia, H. Gernsheim, p. 157.<br />

Fig. 5 Van Deman - 1905 circa - Operai nell’Atrium<br />

Vestae - da Fotografia Archeologica 1865-1914, p. 55.<br />

Fig. 3 -Maxime Du Camp - 1849-51 - Il Colosso di Ramses<br />

II - da Storia della Fotografia, H. Gernsheim, p. 223.<br />

Fig. 6 Lucerna - Foto Massimo Cutrupi<br />

Fig. 4 Giacomo Caneva - 1850 circa - Tempio detto di<br />

Vesta - da L’immagine di Roma 1848-1895, p. 53.<br />

Fig. 7 Libia, Leptis Magna - Foto Massimo Cutrupi<br />

113


L. FRAZZONI<br />

Fig. 1: carta di distribuzione dei siti<br />

Fig. 3: Castiglione: la chiesa e il castello<br />

114


L. FRAZZONI<br />

Fig. 10: Cappella di San Pantaleo alla fine dello scavo<br />

Fig. 7: Santa Maria di Sala: pianta e collocazione dell’apparato<br />

figurativo (da Narcisi 1994)<br />

Fig. 9: Cappella di San Pantaleo: pianta (ril. L. Frazzoni- M.Germani)<br />

Fig. 13: Chiusa del Tempio: pianta e sezione (da<br />

Pellegrini 1898)<br />

Fig. 14: Valderico: pianta del complesso archeologico<br />

(foto G.A.Baragliu)<br />

115


G. GAZZETTI<br />

PIANTA GENERALE DELL’AREA ARCHEOLOGICA<br />

116


G. GHINI<br />

fig.1 Tracce di centuriazione nel territorio della bonifica<br />

di Canino (da Stanco 1985)<br />

fig.7 Ricostruzione della pars dominica<br />

Fase tardo etrusca: pozzi A1, A2, A3<br />

Fase medio e tardorepubblicana: B1 peristilio; B2 concimaia e purgatoria; B3 atrio<br />

Fase augustea e medioimperiale: C1 cisterna; C2 frantoio oleario; C3 deposito per olive; C4 doliario; C5 terme e cucina;<br />

C6 corridoio (criptoportico?); C7 basis villae<br />

Fase longobarda: D chiesa e necropoli<br />

fig. 2 Pianta Selvicciola<br />

fig. 11 materiali ceramici rinvenuti all’interno della<br />

cisterna (Museo Civico di Ischia di Castro)<br />

fig.10 vassoio in ardesia con iscrizione di L.Apuleio Saturnino<br />

frantoio<br />

117


R. MANIGRASSO<br />

Tav. I. L’insediamento rurale d’epoca medio tardo-repubblicana.<br />

118


R. MANIGRASSO<br />

Tav. II. Le sepolture di età imperiale. Planimetria del<br />

livello coperture.<br />

Tav. III. Le sepolture di età imperiale. Planimetria del<br />

livello giaciture.<br />

Tav. IV. Le sepolture di età imperiale. Planimetria e<br />

sezione del livello fosse.<br />

Tav. V. Aggiornamento della Carta dell’Agro (ff. 15, 16,<br />

24, 25).<br />

119


R. MANIGRASSO<br />

Fig. 1. I settore. L’ambiente 1.<br />

Fig. 2. III settore. I tre incassi allineati, possibili alloggiamenti<br />

per una struttura mobile.<br />

Fig. 3. III settore. Sul lato NO si riconosce l’intervento di<br />

spoliazione sistematica della pavimentazione.<br />

Fig. 4. I settore. Seconda fase costruttiva. A NE della<br />

struttura in blocchi si conserva lo spiccato di un contrafforte.<br />

Fig. 5. I settore. Taglio circolare nel pavimento per l’alloggiamento<br />

di un contenitore (dolium?).<br />

Fig. 6. I settore. Seconda fase di spoliazione nell’ambiente<br />

1. Particolare di un cubilium ricavato da uno dei blocchi<br />

della struttura n. 19.<br />

Fig. 7. IV settore. Terza fase costruttiva: particolare della<br />

muratura con cubilia.<br />

Fig. 8. Tombe 1 e 2. Livello fosse.<br />

120


L. PULCINELLI<br />

Fig. 1. La parte settentrionale del territorio castrense (da Rittatore, 1939)<br />

Fig. 2. La parte meridionale del territorio castrense (da Lotti-Rittatore,<br />

1941)<br />

Fig. 3. In ricognizione con Mauro (dintorni<br />

di Castro, primavera 2003)<br />

121


F. RICCI<br />

Tav. I – Planimetria di Castro realizzata da C. Soldati.<br />

Tav. II – Rilievo dello scavo, pianta.<br />

Tav.III – Rilievo dello scavo, prospetto area absidale.<br />

Fig. 2 – Particolare della parete absidale.<br />

122


F. RICCI<br />

Fig. 4 – Graffito autografo di G. Spontoni.<br />

Fig. 3 – L’altare cinquecentesco di G. Spontoni.<br />

Fig. 8 - Affresco sulla parete destra, Madonna col<br />

Bambino e angeli.<br />

Fig. 5 – Affresco sulla parete destra, S. Plancatius.<br />

Fig. 7 - Affresco sulla parete destra, S. Antonio da<br />

Padova col Bambino (part.).<br />

Fig. 9 – Affresco sulla parete destra, Madonna col<br />

Bambino e angeli(part.).<br />

123


F. RICCI<br />

Fig. 10 - Affresco sulla parete di fondo, Santo vescovo.<br />

Fig. 12 - Affresco sulla parete di fondo, S.<br />

Antonio Abate e donatore (part.).<br />

Fig. 18 – Boccale con decorazione a embricazione includenti<br />

macchie a ramina.<br />

Fig. 13 - Affresco su blocco tufaceo erratico, Santa.<br />

Fig. 17 – Frammenti di ceramica decorata.<br />

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124


G. VATTA<br />

Fig. 00,11. Artena. Palazzo Borghese. Sarcofago (Foto Dai Inst. Neg. 68. 5260).<br />

Fig. 00,12. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Particolare dell’affresco rinvenuto nella casa di Iulia Felix a<br />

Pompei (Foto da Pucci 1992, p. 234, fig. 300).<br />

125


G. VATTA<br />

Fig. 00,13. Museo Chiaramonti. Ollario di di P. Nonius<br />

Zethus (Foto da: )<br />

Fig. 00,14.1 Già in Kostantinopel Berlin-Dahlem,<br />

Deutsches Archäologisches Institut, Stele (Foto da: E.<br />

PFUHL, H. MÖBIUS 1979, tav. 322, n 2279).<br />

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