Switch 11 - Edison

la cultura dell’energia magazine per i clienti edito da
Come uscire
(bene) dalla crisi
Idee per un mondo fuori dalla tempesta
Boschi di cento piani
Le nuove frontiere dell’ eco-grattacielo
Teresa Mannino
La spending review della comicità
Democrazia energetica
Viaggio nei paesi della decrescita

editoriale
eCome superare
(e bene) la crisi.
Buona, perché ha sempre vissuto qui.
“Crisi”. La parola “crisi” (accompagnata da spread, spending review,
tagli, lotta all’evasione, risparmio ecc..) continua ad essere un lemma
abusatissimo sulla bocca degli italiani. Ma laddove c’è un problema,
accorre inevitabilmente una soluzione.
Così, il tema di questo numero di Switch è “Come superare - e bene
- la crisi”, confidando sia nella tenacia imprevedibile dell’Italia capace
d’emergere nelle grandi sofferenze; sia nel genio e nell’improvvisazione
dei nostri connazionali; sia, ammettiamolo, anche nella fortuna. Risolvere
la crisi impiega un bel po’ d’energia, fisica, emotiva e mentale. Così ci
siamo infilati nelle “fantastazioni italiane”, a zonzo tra i treni, nelle Centrali
trasformate da luoghi d’attesa in cattedrali della cultura e dello shopping.
E abbiamo indagato nella fantasia tecnologica di coloro che spaziano
nelle nuove frontiere dell’energia, dall’idroelettrico al geotermico al
nuovo solare; ci siamo avventurati nelle città in grado di mantenersi
autonomamente oltre le fonti d’energia tradizionale; abbiamo scoperto
che televisione, Internet e social network hanno riscoperto a loro
volta la nobile arte del baratto, divenuto un’allegra necessità sociale,
utile e divertente. E poi ci siamo intrufolati negli spazi urbani della
“decrescita felice” dove nulla si spreca e l’economia di prodotto si
sostituisce - in un bizzarro progetto di paese delle utopie - alla
finanza: è il caso della “democrazia energetica” della tedesca
Schonau o degli orti collettivi della Giudecca. Per non dire
dell’idea dei “cibi di recupero” recuperati dalla tradizione della
cucina povera ad opera di grandi chef che hanno compreso
lo spirito del tempo. C’è anche l’esempio dei grattacieli
ecologici fatti di architetture lievi e giardini verticali: tutte
cose che fino a pochi anni fa sembravano uscite da un
film di fantascienza e che oggi sono piacevoli realtà
alternative. Oltre la crisi si può andare, basta volerlo:
l’Argentina depressa dei tango-bond si è risollevata
diventando una palestra di esperimenti sociali,
l’Islanda che fino a solo due anni fa era la prima
vittima della catastrofe finanziaria, oggi s’è ripresa
la sua economia. Questo numero racconta le piccole
grandi storie degli uomini che ci credono.
• di Viviana Barozzi
Direttore editoriale
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in cui l’acqua delle montagne scorre purissima e incontra il luppolo e il malto d’orzo migliori al mondo.
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sommario
6 Faccia a Faccia
SALOTTI URBANI - LE FANTASTAZIONI
di Francesco Specchia
10 Scelte di vita
RITORNO ALL’ANTICO
di Arturo Bandini
14 Cucina
cuochi in trincea
di Giuseppe Marino
32
Racconto
strani menu
di Edoardo Montolli
36
40
Personaggi
teresa mannino
di Alessandra Menzani
Design
architettura green
di Albina Perri
Switch
la cultura dell’energia
Direttore editoriale
Viviana Barozzi
Direttore responsabile
Stefano Amoroso
Supervisione editoriale
Francesco Specchia
Coordinamento di progetto
Paolo Contenti
18 Territori
vivere felici
di Ettore Colombo
22 Innovazioni
amarcord d’autore
di Andrea Colombo
26 Reportage
sguardi al futuro
di Antonio Marini
46 Piccole/Medie Imprese
italia impresa
di Marco Di Troia
Servizi&Offerte
EDISON ENERGIA
51 Posta
52 Humour
di Blozz
48
Redazione
Riccardo Brega (grafica),
Marco Di Troia (testi)
Progetto grafico
Cayenne
Hanno collaborato
Blozz,
Arturo Bandini,
Andrea Colombo,
Ettore Colombo,
Antonio Marini,
Giuseppe Marino,
Edoardo Montolli,
Alessandra Menzani
Albina Perri
Stampa
Optima - Via Paullo, 9/A Milano
Registrazione al tribunale di Milano
n° 723 del 21/11/2006
Switch è un magazine di cultura
dell’energia edito da Edison.
Per ricevere Switch e per
54 Citazione
a. einstein
informazioni scrivete a:
switch@edison.it
Copertina ©Troels Heien
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faccia a faccia
LE FANTASTAZIONI
Da luoghi classici d’attesa a cattedrali
dello shopping e della cultura. Come cambia la vita
del viaggiatore a zonzo nelle nuove Centrali italiane
di Francesco Specchia
Trattasi d’un luogo comune. Ma per ben descriverlo, ci
vorrebbe lo svizzero Robert Walser che sull’arte della
passeggiata, nel 1917 ci scrisse un saggio lieve come
il volo d’una falena, un capolavoro per gentiluomi in
movimento. O servirebbe un Charles Baudelaire, il cui sguardo
da flaneur vagabondo per le vie epiche di Parigi fotografò una
generazione. O - perché no?- un antropologo alla Marc Augè,
che sulla mistica dei “non-luoghi” (autostrade, svincoli, aeroporti,
centri commerciali, appunto) edificò la sua fama, decenni orsono.
Comunque sia, la nuova concezione di Stazione Centrale Ferroviaria
che sta cambiando il panorama urbanistico italiano ha un qualcosa
di letterario. Non è semplicemente la sensazione, entrandoci, di
aver attraversato due secoli, dal diciannovesimo direttamente al
ventunesimo: dalle banchine coi treni ansimanti color grigiofumo
sulla scenografia di un’opera verdiana all’intreccio di plexiglass e di
vetro osservato da una sorta di binari-boutique. È quasi un’odissea
metafisica, la nuova Stazione Centrale. Dire che incute poesia,
forse è troppo: però avverti che quei luoghi antichi possiedono
un’anima nuova. Nelle stazioni di Milano, Torino, Venezia, Verona,
Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e Palermo sono stati
investiti, negli ultimi due anni, 900 milioni di euro - con un utile
netto di 40 milioni - e questo vorrà pure dire qualcosa. In effetti le
uniche infrastrutture, le mitiche “grandi opere”, che in Italia si sono
trasformate da promesse a realtà sono, appunto, le riqualificazioni
dei principali scali ferroviari storici realizzati da un’apposita società,
GrandiStazioni - uno strano ibrido, 60% Ferrovie dello Stato e 40%
azionisti privati tra cui Benetton, Caltagirone e Pirelli - . Le Stazioni
dei treni - ormai sempre con la maiuscola - si sono modificate
geneticamente, trasformate da scalo a gallerie commerciali, a
centri culturali (la Feltrinelli di Milano è oramai una delle prime
librerie della città, ed è la più grande d’Europa, l’unica aperta dalle
7.00 alle 23.00), a snodi sociali con rampe fitte di insegne, vetrine,
viaggiatori d’ogni risma. Sono diventate, le Stazioni, quasi delle
cittadelle ammantate da un’aria inconsuetamente multiculturale.
Prendete la Centrale di Milano. Il simbolo della rivoluzione. Ovvio
che rimanga un posto da cui partono e arrivano i treni, come
SWITCH06 SWITCH07

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SALOTTI URBANI
sempre. Ma dei 60 mila metri quadrati riqualificati nell’ambizioso
progetto di GrandiStazioni SpA (solo qui sono stati investiti 120
milioni di euro) ben 30 mila sono dedicati a servizi, shopping e
ristoro. Novantaquattro i negozi (quasi tutti in funzione) che sono
aperti fino a tardi e tutti i giorni dell’anno. L’ammnistratore delegato
di GrandiStazioni, Fabio Battaggia, sintetizzava all’apertura, due
anni fa: “Mi piace pensare alla Centrale come nuovo salotto
culturale, d’intrattenimento e shopping di Milano”. Lì, infatti,
Autogrill si impone con l’avveniristico Sky Lounge, il nuovo bar
soprelevato dove si possono vedere le partite e mangiare panini
con prodotti tipici. Con vista treni. Poi puoi osservare ombrelloni,
poltrone, dodici megaschermi in Hd che ti sparano programmi
tematici sport-news e pubblicità a getto continuo neanche fossi
a Times Square. “È ancora presto qui alle sei del pomeriggio” dice
Michele de Luca, direttore dei punti vendita Autogrill in Centrale
“però ci sono sempre più persone che vengono per trascorrere una
serata”. S’intravvedono attori, politici, scrittori ma probabilmente
anche commercialisti, viticultori, carpentieri, semplici studenti che
comprano, parlottano tra loro, scrutano gli orologi, accendono il loro
tablet e s’interconnettono sorgeggiando un Martini, o infilandosi
nel labirinto degli spazi pubblici. Quest’elemento, poi, dello “spazio
pubblico” è molto importante. Perché richiama il concetto, appunto,
del flaneur, ossia del cazzeggiatore indomito sotto e sopra i binari,
tra un negozio d’alta moda, uno stand gastronomico o quel che
rimane del deposito bagagli che assieme ai treni era un tempo il
vero segno connotante della stazione. Tra l’altro, a Milano, hanno
tolto le scale mobili. E, accanto ai severi scaloni di pietra tanto cari
al Ventennio fascista, si ergono adesso i “tappeti mobili”, i tapis
roulant. Che sono tutta un’altra cosa. Roba ipertecnologica da 120
milioni di euro, mi dicono. I tappeti sono magici. Tu ti fermi col tuo
bagaglio e il pavimento ti solleva morbidamente e ti inforna nel
centro commerciale dal piano terra, come fossi una pizza in attesa
di cottura; quasi ti sospende nell’aria tra luci insegne e réclames; e,
infine, ti scarica sul binario dove dovrei prendere il treno. Forse. Ma
anche no. In fondo te la mettono giù così bene che alla fine, forse,
prendere il treno non è poi così importante. Forse. L’architetto
Susanna Bernardini, direttore tecnico di Grandi Stazioni, spiega che
“le vecchie scale mobili non reggono l’urto dei nuovi flussi, i tapis
roulant sono più funzionali, anche in termini di rapidità…”. E noi non
abbiamo alcun motivo per non crederle. E aggiunge, l’architetto:
“la verità è che la stazione non è più il posto dove andare solo a
prendere il treno, ma un luogo di aggregazione”. Cioè luoghi dove
la fretta o l’ansia si dovrebbe via via chetare, per cedere il posto
alla riflessione, all’ammirazione per il bello che sboccia tutt’intorno:
negozi di alte griffe da Brooks Brothers a Zara, da Swarosky ad
Armani Jeans. Non te ne rendi conto ma ora è un labirinto di carichi
sospesi. Nota lo scrittore Giuseppe Genna che “alla Stazione di
Milano si materializza il detto di Ennio Flaiano, secondo cui in
Italia la linea più breve fra due punti è l’arabesco”. E un po’ è vero.
Questa storia dell’aggregazione è il vero punto. La nuova stazione
nel suo nuovo concept dovrebbe “aggregare”, e far sonnecchiare,
e spingere alla riflessione, sintonizzarti sul respiro della grande
ferrovia. Dopo, magari ti può capitare di chiedere al viaggiatore
col fiatone che brandisce il biglietto sul filo dei secondi: “Scusi lei
si sintonizza col respiro?...”, e quello, nella fretta, vorrebbe darti una
testata sull’arcata occipitale. Ma, insomma, è un’eccezione.
Perché, in fondo, come si diceva, aspettare e prendere il treno
in stazione oggi corre il rischio d’essere un vezzo. Sembra un
paradosso, ma non lo è affatto. Poiché sanciscono gli ultimi studi
di mercato commissionati da Grandi Stazioni che un visitatore su
quattro non viene in Centrale per un treno. Cioè non si tratta d’un
pendolare, di turisti. Il soggetto interessato è un milanese “che per
le librerie e i ristoranti e i negozi si serve dello scalo”. E a ben
vedere il medesimo scalo, ristrutturato sotto la regia di Grandi
Stazioni, davvero è distante anni luce da alcuni titoli del Corriere
della Sera che soltanto nel 2010, dopo approfondita visita sul
posto sintetizzavano: “Milano, nella babele della Centrale tra disagi
e viaggiatori smarriti”. Del resto, si aggiungeva, scegliendo a caso
nell’elenco dei problemi, c’erano “una segnaletica inefficace, guasti
e poche panchine”. Poi, dopo le lamentele, di panchine ne sono
spuntate come funghi; e accanto alla foresta di schermi elettronici
agganciati ai soffitti sono ricomparsi i vecchi cari cartelloni di carta
gialla con gli orari impressi a stampa. Da un lato hai i FrecciaRossa
che sembrano usciti da un film di fantascienza, razzi su rotaia che
tendono ad inquietarti; e, dall’altro, l’usuale cartello giallognolo che
rassicura i viaggiatori coi piedi fermi nel secolo scorso. Ogni tanto
è utile mantenere la tradizioni. La Stazione di Milano, datata 1931,
col transito delle sue 320 mila persone al giorno e 120 milioni
all’anno, è l’emblema di un meccanismo in continua evoluzione.
Una macchina gigantesca. Oggi raggiunge in pratica quota cento
esercizi commerciali (assegnati tutti i posti disponibili) aperti
tutto l’anno; per Natale viene allestito un mercato di bancarelle
tradizionali con cinquanta stand, ricco il calendario d’iniziative tra
dicembre e inizio anno, in programma un ascensore per i disabili
che collegherà direttamente da piazza Duca d’Aosta alla stazione
del metrò. I negozi, ripetiamo, sono il cuore nuovo del corpo della
Stazione. Ma non solo quelli moderni. Il bar Motta rinverdisce la
storica insegna che si riaffaccia su una piazza milanese dopo
quindici anni, e distilla un caffè denso di storia. I panini e la
pasticceria da Panzera con quel suo motto tanto demodè “le nostre
brioche al pistacchio aiutano l’attesa” rappresentano una sorta di
cordone ombelicale col passato delle vecchie botteghe. I commessi
viaggiatori si lasciano tentare dalle cravatte di Boggi. Le mamme
e i papà coi problemi legati agli infanti benedicono Imaginarium,
negozio specializzato in giocattoli e accessori per bambini (anche
se un po’ caro: un cuoci pappa costa 115 euro…). Si presentano
come diversivi diversissimi e divertenti; molto lontani dal topos
letterario proprio d’ogni stazione ferroviaria, epicentro perpetuo di
addii, di malinconie, di ansie per un arrivo amato. Prima c’erano i
baci dei fidanzati, le lacrime dei distacchi, i saluti delle madri, gli
sbuffi aristocratici dell’Orient Express, al limite le sberle a raffica
rifilate con saltelli prodigiosi da sotto i vagoni ai partenti in festa,
come la scena esilarante dal film Amici miei di Monicelli. Adesso la
sensazione, in Stazione, è quella di vivere nel prolungamento della
città stessa. Dopodiché c’è il discorso della “cittadella etnica” da
ricreare nell’area da 33 mila metri quadrati di via Sammartini negli
ex tunnel e magazzini; il piano era nato in epoca giunta Moratti,
obbligatorio ripartire con la squadra di Pisapia che su queste cose
sembra assai sensibile. Poi, naturalmente bisognerebbe pensare
a “qualcosa di più internazionale. Più personale, più guide, più
informazioni, più aiuto. Pensando anche all’Expo”, dice Battaggia,
anche se ancora il concetto non è chiarissimo. La cosa chiara, tanto
per buttarci sul tecnico, è che il progetto GrandiStazioni si muove
su un marketing a due livelli. Il primo è necessariamente pratico: si
renda sicuro e confortevole il luogo da dove si parte e dove si arriva.
Il secondo livello è quello di rendere economicamente profittevole
un luogo altrimenti destinato soltanto a pesare sui bilanci, da
qui l’esigenza di un mix di marchi, spazi commerciali e servizi e
Edison e Grandi Stazioni di Marco Bigoni
Edison Energia si è aggiudicata il bando di gara
per la fornitura di energia elettrica relativa al
periodo maggio 2012 – aprile 2013 alle principali
stazioni ferroviarie italiane della società Grandi
Stazioni SpA.
Le stazioni fornite sono Milano Centrale, Torino
Porta Nuova, Genova Brignole e Genova Piazza
Immagine storica dell’inaugurazione
della Stazione Centrale di Milano
locali per l’organizzazione di eventi, che cercano di aggredire
tutti i target. I due livelli, a differenza dei binari su cui scorrono le
supervetture, s’incrociano spesso. Vissuta così la Stazione, ispira,
per l’appunto, una vena filosofica sul concetto stesso di “viaggio”.
Nella recente trasmission tv “Quello che non ho” su La7, Marco
Paolini ci ha illustrato tutte le emozioni della parola “treno”. Ci
è capitato di prendere il treno, nelle nuova Stazione, accanto a
un signore che - guarda caso - leggeva Robert J. Hastings, la
raccolta di racconti “Brodo caldo per l’anima”, da cui ne svetta in
partcolare uno. “Nascosta da qualche parte nel vostro inconscio
vi è una visione idilliaca. Ci vediamo in un lungo viaggio su tutto
il continente”, scrive Hastings. “Viaggiamo in treno. Fuori dal
finestrino ammiriamo il passaggio a livello, bestiame al pascolo su
una collina lontana, fumo che fuoriesce da una centrale termica, file
su file di grano e di mais, pianure e valli, montagne e dolci colline,
profili di città e ville nei paesini. Ma dominante nella nostra mente è
la destinazione finale. In un certo giorno a una certa ora entreremo
nella stazione. Ci saranno bande musicali e sventolio di bandiere.
Una volta arrivati lì, tanti sogni meravigliosi si avvereranno e i pezzi
della nostra vita si completeranno a vicenda come un rompicapo
portato a termine. Con quale irrequietezza percorriamo i corridoi,
maledicendo i minuti d’ozio, aspettando, aspettando, aspettando la
stazione. …Quando arriveremo in stazione, sarà fatta! Prima o poi
dobbiamo renderci conto che non vi è nessuna stazione, nessun
luogo a cui arrivare una volta per tutte. La vera gioia della vita è
il viaggio. La stazione è soltanto un sogno. Ci distanzia sempre.
smettete di percorrere i corridoi e di contare i chilometri”. Hastings
è un fatalista di quella sospensione del mondo vista dal finestrino.
E il suo finale è illuminante, consiglia di vivere attimo per attimo:
“Scalate più montagne, mangiate più gelato, camminate più spesso
a piedi nudi, nuotate in più fiumi, ammirate più tramonti, ridete di
più, piangete di meno. La vita deve essere vissuta a mano a mano
che si procede. La stazione arriverà fin troppo presto”. Prima,
davvero, non ce ne eravamo accorti…
Principe, Venezia Mestre e Venezia S. Lucia,
Verona Porta Nuova, Bologna Centrale, Firenze
S.M. Novella, Roma Termini, Napoli Centrale, Bari
Centrale e Palermo Centrale, per un totale di 58
GWh annui. GrandiStazioni ha scelto un’offerta
indicizzata con un prezzo unico per tutte le fasce
orarie.
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s
scelte di vita
© Zsolt, Biczó
la nobile arte
del baratto
Tecnicamente si chiama “permuta” di cose, servizi,
perfino conoscenze. Oggi è lo scambio che Internet
e la tv hanno reso un’allegra necessità sociale
SWITCH10
di Arturo Bandini
Il baratto ci salverà. In economia il baratto - detto anche “permuta”
secondo il linguaggio più aristocratico del codice civile - è
un’operazione “di scambio bilaterale o multilaterale di beni
o servizi fra due o più soggetti economici (indiviudi, imprese,
enti, governi ecc.) senza uso di moneta”. Probabilmente sarà, a
tempo breve, la soluzione per uscire egregiamente dalla crisi che
attanaglia il mondo. Per alcuni lo è già. Tutto parte, come spesso
accade, dalla televisione. Dalle televisioni degli Stati Uniti, per
essere precisi. Ovvero il posto dove oggi, pur in piena recessione, le
ristrettezze, il risparmio forzato possono abbandonare le loro vesti
pesanti, almeno così insegnano i produttori del piccolo schermo.
Così, ecco farsi strada negli ascolti “Affari di famiglia”, che è un
successo dal 2009. Si tratta del programma non-fiction più seguito
sulla tv via cavo degli Stati Uniti. A catturare tanta attenzione è
la quotidianità di un banco dei pegni. Protagonisti del docu-reality
SWITCH11

sritorno all’antico
sono gli Harrison, proprietari di un banco dei pegni (appunto) a
Las Vegas da tre generazioni. La settima stagione va in onda su
History Channel il giovedì alle 21. Nel negozio - il Gold & Silver
Pawn Shop, aperto 24 ore su 24, diventato tra i più popolari punti
vendita degli Stati Uniti - si comprano (e poi rivendono) oggetti di
cui chiunque può decidere di sbarazzarsi. A stabilire il valore della
merce - dagli amuleti agli strumenti musicali, dagli almanacchi alle
armi fino agli elettrodomestici passando per i gioielli e le palle da
baseball - Corey “lo smilzo”, suo padre Rick “la volpe” e suo nonno
Richard Benjamin “il vecchio”. I tre gestiscono i loro affari e parlano
candidamente delle tecniche più efficaci per fare buoni affari: sono
diventati popolari al punto da essere invitati negli show di Letterman
o Jay Leno. A riprova del successo del programma, le guest star. Su
tutti Bob Dylan, che in una puntata ha firmato una copia di un suo
album. Ma sono apparsi anche Jeremy McKinnon, Meredith Vieira,
gli Oak Ridge Boys e George Stephanopoulos, direttore della
comunicazione durante la presidenza Clinton, che ha comprato una
rara copia della prima edizione di “Per chi suona la campana” di
Hemingway. Il suddetto format conta 6,4 milioni di spettatori con
un incremento superiore al 30% rispetto all’anno precedente. Tra
il pubblico 25-54 anni è il primo programma via cavo più seguito
negli Stati Uniti, registrando oltre 3 milioni. Un caso mediatico. Il
banco dei pegni è la forma più sofisticata - e spietata - di baratto.
Il quale baratto, dal punto di vista sociale torna, appunto, di gran
moda. In Grecia alcune comunità stanno abbandonando l’euro e
riscoprendo il fai da te con prodotti realizzati in casa o grazie alla
propria professionalità in cambio di servizi o altri prodotti. E sta
accadendo anche in Italia con il “baratto agricolo” messo in piedi
dalla Cia di Pisa. Probabilmente tornare al baratto, installare orti
sui balconi, andare il sabato al supermercato per approfittare dei
ribassi dei prezzi di frutta e verdura non rappresenta la soluzione
definitiva, non risolve il problema dell’uso speculativo della moneta
e forse alimenta anche un po’ la consumistica filosofia dell’usa
e getta. Eppure online sono nate diverse iniziative riguardanti il
baratto 2.0 : l’eco-store Reoose per il baratto e il riutilizzo degli
oggetti oppure ZeroRelativo, ScambioCasa scambiarsi gli alloggi,
La Settiamana del Baratto per soggiornare in B&B in cambio di
servizi o prodotti. E poi nascono cose come gli SCEC, dei buoni
che rappresentano un sistema di contabilità da usare insieme
all’Euro all’interno di una comunità affinchè si creino rapporti e
legami di fiducia e crescita sviluppando nelle persone un senso
di libertà, indipendenza e legalità. Un’idea che non è innovativa
ma che pare abbia riscontrato la fiducia di tanti. La domanda che
sorge spontanea è: sarà questo il futuro dell’economia dei Paesi?
Probabilmente non del tutto. Ma il suo ritorno non ha nulla di
barbarico. Anzi. Tecnicamente il baratto è in generale considerato
la prima forma storica dello scambio commerciale di beni, ed è
dunque ben anteriore alle forme di scambio monetario. Una delle
ragioni è che è molto più difficile, in assenza di moneta, risparmiare
una parte del reddito. Il risparmio può avvenire in un sistema basato
sul baratto solo acquistando beni non deperibili, il cui valore non
si riduca nel corso del tempo. Di fatto, nel baratto, “il valore dei
beni oggetto dello scambio viene considerato sostanzialmente
equivalente fra le parti, senza ricorrere esplicitamente ad un’unità
di misura, di valore monetario dei beni stessi. Il valore di equivalenza
si raggiunge attraverso la considerazione qualitativa e quantitativa
delle merci scambiate, secondo l’accordo delle parti, che talvolta
può confidare negli usi, ma più spesso si richiama a fattuali ragioni
di mutuo fabbisogno”. Ne consegue, che nei momenti di estrema
urgenza sociale ed economica, anche nel baratto il valore delle
Rick Dale,
protagonista del reality
americano “Missione Restauro”
merci scambiate corrisponde al punto di incontro fra la domanda
e l’offerta. Esistono vari tipi di baratto. C’è il baratto semplice (o
baratto diretto), quando entrambe le parti desiderano procurarsi il
bene o il servizio che ricevono in cambio del bene o del servizio
ceduto. E c’è il baratto multiplo (o baratto indiretto), quando un
soggetto cede un bene o un servizio ricevendone in cambio un
altro bene o servizio che non desidera avere, ma che scambia
per ottenere quanto desiderato (si dice che il bene ottenuto nello
scambio è desiderato per il suo valore di scambio e non per il suo
valore d’uso). Quest’ultimo è anche il caso in cui l’ottenimento del
bene desiderato debba essere differito per ragioni di stagionalità o
deperibilità. Una forma speciale e specifica di baratto, è costituita
dallo scambio di appartamenti nei periodi estivi, e dalle Reti di
ospitalità mondiali; associazioni per lo più recenti nate negli ultimi
anni, che offrono alloggio e pernottamento gratuito ai soci, o
membri delle stesse. Il baratto su internet è detto anche “swapping”,
da swap, letteralmente scambio, ed è una forma sempre più
popolare di baratto, generalmente informale, in cui singoli o gruppi
di persone si spediscono beni e oggetti di valore comparabile, su
base fiduciaria. I beni scambiati possono essere i più svariati, dagli
indumenti, ai DVD, ai CD musicali, ad ogni tipo di oggetto e gadget
e possono essere già in possesso dei partecipanti allo swapping,
acquistati appositamente o creati con svariate tecniche, spesso
seguendo un tema predefinito. Esistono anche e-mail swap, nei
quali in genere sono scambiate informazioni, opinioni o foto a tema.
Anche nel “paese reale”, ad incidere sull’economia dei luoghi,
il baratto continua ad assumere dimensioni ragguardevoli. Per
esempio, sta tornando in Ogliastra nel cuore della Sardegna,
vicino al luogo in cui si svolse quel finto-vero reality a tutela degli
operai di un’azienda sull’orlo del fallimento, L’isola dei cassintegrati.
Tracy Hutson e Tanya
McQueen, le “Pickers
sisters” che viaggiano per
gli Usa alla ricerca di
tesori nascosti da
restaurare e rivendere
La famiglia Harrison, proprietaria del
banco dei pegni Gold & Silver Pawn Shop
e star del docu-reality “Affari di famiglia”
Sul cui seguitissimo blog si invitava, appunto, a rinverdire questa
pratica, nonostante lo strano pudore di chi utilizzava il baratto a
parlarne perché “potrebbe svilire o dare una cattiva immagine di
sé e del proprio territorio”. Eppure, in un accurato servizio del Tg2
pescatori, allevatori, agricoltori, titolari di albergo, perfino edicolanti
confessarono di lavorare per il 40% ricevendo beni materiali, cibo
e altri servizi in cambio delle sue prestazioni professionali. Non
è poco. Secondo una ricerca di Creative Commons, dopo quel
servizio, tal Giangiacomo Pisu, tra l’altro autore di vari libri sulla
Sardegna, decise di creare un gruppo su Facebook chiamato
“Baratto Ogliastra” che conta oggi con più di 2200 iscritti. In questo
gruppo la gente offre libri, olio, soggiorni turistici, moto, lezioni di
lingue e le cose più disparate. Dopo pochi giorni hanno cominciato
a nascere altri gruppi anche in altre parti della sardegna. Pian
piano la piattaforma di Facebook è servita a un fine nobilissimo,
un esempio di integrazione, tra saggezza e pragmaticità popolare
e tecnologia. Altro che vergogna e pudore. Il baratto, poi, diventa
l’epicentro di altri fenomeni, tutti attivati per reggere l’urto della crisi.
Per tornare alla tivù, naturalmente il succitato “Affari di famiglia”,
come scrive il Corriere della Sera in una recente analisi del
fenomeno, come ogni produzione di successo, vanta anche uno
spin off. Si chiama “Missione Restauro”. Anche questo programma
va in onda su History ogni martedì alle 21 e segue le avventure
di Rick Dale e della sua ditta che trova e restaura oggetti di ogni
tipo: dalle Cadillac alle casseforti antiche, dalle stufe dell’800 fino
ai caschi della Nasa. Sono sempre più numerose - negli States ma
anche da noi - le attività che si propongono di svuotare cantine
e sgomberare case gratuitamente: l’obiettivo è acquistare dai
proprietari alcuni degli oggetti che altrimenti verrebbero gettati
via per poi rivenderli. Così, dall’America arriva un altro docureality
di successo: “A caccia di Tesori” (sempre su History, ogni
lunedì alle 23). La serie segue le avventure di Mike e Frank, i più
famosi “cacciatori di tesori” degli Stati Uniti. La tesi è che ovunque
possano esserci tesori che aspettano di essere scoperti, reliquie
nascoste tra le peggiori cianfrusaglie, seppellite nei granai o
accatastate nei garage. Finché qualcuno li trova e li trasforma in
denaro. Le telecamere seguono Mike e Frank mentre scovano tra
la polvere oggetti dal valore storico o culturale, dimenticati dai loro
proprietari. “A caccia di tesori” è la terza serie non- fiction più vista
sulla tv via cavo americana. Esiste anche una versione “rosa” del
programma, che ha debuttato il 15 maggio su FoxLife: “Pickers
sisters”. Qui le protagoniste sono Tracy Hutson e Tanya McQueen,
proprietarie di un negozio di design a Los Angeles che viaggiano
per gli USA alla ricerca di tesori nascosti da restaurare e rivendere.
Altro fenomeno: il couponing. Sempre in televisione, su Real Time,
“Pazzi per la spesa” racconta una pratica oramai diffusa anche
in Italia: la raccolta - maniacale - di buoni o tagliando con l’unico
scopo del risparmio. In ogni episodio si entra nella vita quotidiana
di alcune risparmiatrici “di professione”, vere e proprie ultrà dell’
arte del raccogliere buoni sconto, che riescono a mettere da parte
cifre inimmaginabili. Le tecniche utilizzate dalle parsimoniose
protagoniste sono tra le più disparate. Nei casi più borderline, le
si può vedere impegnate nell’ispezione della spazzatura pubblica
in cerca di coupon gettati via oppure concentrate nell’elaborazione
di complicate formule matematiche. Grazie a tali stratagemmi si
scopre che è possibile tornare a casa dal supermercato con 1.600
euro in prodotti alimentari avendone in realtà sborsati per la spesa
solo 80. Il che poteva sembrare triste, anni fa. Ma oggi, incastonato
nel contesto di un futuro alla ricerca di economie alternative,
diventa addirittura una produttiva forma di divertimento.
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c
cucina
OPERAZIONE
RIBOLLITA: PARTE LA
GRANDE MISSIONE
DEGLI CHEF
ANTI-SPERPERO
Un piatto della Madonnina
del Pescatore di Moreno Cedroni
Vademecum dei cibi che allietano palato e portafogli
di Giuseppe Marino
Mussaka, cassoulet, ribollita, caciucco alla livornese.
Schizzinosi di tutto il mondo arrendetevi: se l’idea di
piatti a base di scarti di verdure e avanzi di carni vi fa
arricciare il palato, ricordatevi che allora, per coerenza
gastronomica, dovreste allentare la presa delle mandibole su alcuni
dei più gustosi piatti della tradizione gastronomica mondiale. Dallo
sformato di melanzane alla greca, alla minestra toscana di pane
raffermo, alla cassoulet, delizia francese per stomaci ben allenati,
frutto della lunga cottura di fagioli con un mix di carni, soprattutto
di maiale. E poi le zuppe di pesce come il caciucco, tutte, al di là
delle colorite leggende con cui i ristoratori più loquaci condiscono
i loro piatti, nate dalla necessità di non buttare il pesce rimasto
invenduto. Aveva voglia l’Artusi a disprezzare le polpette, “un piatto
che tutti lo sanno fare, cominciando dal ciuco, il quale fu forse il
primo a darne il modello al genere umano”. Chi ha avuto nonne
addestrate al risparmio in cucina, rimpiangerà sempre il sapore di
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c
cuochi in trincea
Moreno Cedroni è lo chef a
2 stelle Michelin che ha portato
uno spirito avanguardista nella
cucina italiana
Lisa Casali, eco-foodblogger,
è la “profetessa” della cucina
anti sperperi
© Claudia Castaldi
sprecare è un comandamento che sembra farsi strada anche nelle
istituzioni. C’è una Asl, la numero 3 di Pistoia, che ha organizzato
un corso di cucina di recupero che partiva dal primo passo: come
fare la spesa. “Quello è il primo passo per eliminare gli sprechi -
spiega La Mantia davanti alle telecamere di Matrix -. Ho dimostrato
come compravo il necessario a un pasto di quattro portate per
quattro persone, spendendo 20,50 .. Si può fare: va recuperata
anche l’arte di contrattare con il negoziante, non per ottenere uno
sconto, ma per farsi dare il prodotto che al momento è il più fresco
e ha il miglior prezzo”. Una pratica che echeggia le regole non
scritte delle nonne e quegli avvertimenti che da bambino
diventavano mantra: “Il cibo non si butta”. Lezioni disimparate? È
chiaro che è tutto legato alla rivoluzione nella gestione della casa
che ha completamente cambiato tempi e ritmi della preparazione
del cibo. Inutile nascondersi che la cucina di recupero ha bisogno
di impegno, anche se certamente può dare soddisfazioni. “A Roma
- rievoca Colonna - la tradizione di recuperare le frattaglie degli
animali risale al ‘700. Una volta la cucina senza sprechi non era
solo un modo di far quadrare i conti, veniva pianificata per
aumentare il piacere della tavola. Il tartù di riso, la lasagna, il
timballo di ziti: sono tutti piatti preparati con eccesso di pasta che
spesso non era casuale. Se facevi gli ziti, ne buttavi in pentola di
più, programmando di metterne via un po’ per il timballo”. La nuova
ondata di cucina risparmiosa per il momento invece è soprattutto
una moda. Che va interpretata nel giusto modo, altrimenti rischia di
essere un’altra eco ipocrisia: bisogna davvero avere il coraggio di
cucinare con quel che c’è in dispensa. Partire da uno dei tanti
ricettari anti sprechi che sono ora in libreria rischia di aumentare lo
sperpero: fare la spesa per mettere insieme le sole parti di recupero
per poi vantarsi con i commensali di aver cucinato “ecologico”
sarebbe un bel paradosso. Ma c’è da giurarci che qualcuno ci
cadrà. “Certo cucinare con gli scarti asseconda anche una tendenza
verde che è decisamente modaiola”, ammette La Mantia; “serve a
dare al cliente la sensazione di fargli mangiare “cibi di bottega”,
oggi così richiesti”. Se il fenomeno finirà confinato a una stagione
di serate eco chic, se servirà solo al “green washing” di qualche
ristorante per vip e pseudo tali, solo il tempo potrà dirlo. Ma la vera
battaglia, più che nei ristoranti si combatterà nelle cucine private.
Perché è lì che la sperimentazione con gli avanzi, con le parti meno
pregiate delle verdure, con gli scarti del pesce, ha permesso di
crare tante prelibatezze. Il ritorno della fantasia al potere di chi apre
il frigo in cerca di ispirazione potrebbe essere una svolta davvero
epocale. Gli chef concordano: sperimentare a casa, nella propria
cucina dà i risultati migliori (“è così che ho creato il 60 per cento
dei miei piatti”, confessa La Mantia). E perché no: magari da questa
ondata verde in cucina nascerà qualche altro classico della cucina
italiana. Senza sprechi, ovviamente.
certe polpette al sugo. E pazienza se sono figlie della carne
avanzata a pranzo. La verità è che certi “piatti di recupero”, come li
chiamano oggi un po’ pomposamente, sono migliori di tante
sofisticate ricette di prima mano. Aggiungete una generosa
manciata di crisi economica di lunga cottura, un pizzico di
radicamento dell’abitudine al riciclaggio, una generosa spolverata
di voglia di ecologia, ed ecco servita la moda di ritorno. Quel che
per i nostri genitori era necessità, sta oggi diventando una tendenza
che sarà anche risparmiosa, ma è tutt’altro che povera: non solo si
usano in maniera creativa gli avanzi della sera prima, ma si tende
anche a non gettare via parti di ortaggi fino a ieri considerati
immangiabili. Bucce, gambi, torsoli sono protagonisti di una nuova
primavera culinaria che svuota i sacchi della spazzatura e riempie i
piatti. Detta così suona male? Assaggiata, gusta più che bene.
Basta chiedere al romanissimo chef Antonello Colonna, che
con i suoi clienti si diverte a fare un piccolo numero, quello del
“boccone del cane”, un’antitesi scherzosamente dispregiativa del
boccone del prete, un gioco per lasciare i commensali a bocca
aperta (post deglutizione, of course). “Qui a Roma il capretto è un
classico - spiega Colonna - ma la spalla è il classico taglio che il
macellaio stesso offre alla massaia per darlo al cane: troppa
cartilagine, finisce sempre come avanzo. E invece la carne
disossata, tolta la cartilagine, arrotolata e messa al forno diventa un
piatto prelibato, con cui ci si mangia in due, tra l’altro”. Stessa storia
per le ali di pollo, passate da sorelle minori delle ambite cosce e del
petto a protagoniste di piatti sofisticati, cucinate nei modi più
fantasiosi. Ma è sul fronte degli ortaggi che il fenomeno è ancora
più sorprendente. La nuova corrente di ecogastronomia teorizza un
uso proficuo di parte di vegetali che normalmente prendono la via
del cassonetto: l’interno dei torsoli del cavolfiore frullato serve a
fare il brodo, le foglie esterne di cicoria e lattuga, di solito gettate
via senza pietà, si possono ripassare in padella e trasformare in
condimento per la pasta, le bucce di anguria e melone, trattate a
dovere, prendono forma (e sapore) di sottaceti. Anche Filippo La
Mantia, come Colonna protagonista delle più vivaci serate
culinarie romane, sposa la linea anti spreco: “Il gambo del carciofo
è buonissimo - dice estasiato lo chef siciliano - va ripulito con un
pela patate, lessato, tagliato a pezzettini e condito con olio e
limone, il gambo del sedano, la parte che di solito la gente butta,
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frullato con capperi, basilico, olio e limone diventa un ottimo
condimento per la pasta. E poi il finocchio: mondandolo se ne butta
la metà. Se invece lo si frulla con basilico, olive, mandorle tostate e
olio crudo, si ottiene un pesto eccezionale”. Da Moreno Cedroni,
patron del celebre “Madonnina del Pescatore” di Senigallia, arriva
un altro semaforo verde d’autore alla cucina degli scarti (“ma non
chiamateli così”, intima Colonna). Anzi, qualcosa di più: lo chef bistellato
lo scorso 26 giugno ha servito una cena per mille persone
al “Caterradue”, celebre raduno dei fan di Caterpillar, la trasmissione
di Radiodue Rai. In tavola mezze maniche bio al sugo di arrabbiata
di alici con prezzemolo e fonduta di grana padano, lasagna di
grando duro bio condita come una pizza margherita, caponatina di
verdure, crema di yogurt e frutta fresca. Cedroni, vero teorico del
recupero, ha utilizzato ingredienti perfettamente commestibili
anche se esteticamente non perfetti e per questo scartati al
mercato. Una cornice scherzosa per un’operazione culturale su
una questione scottante: ogni anno viene perduto o sprecato un
terzo del cibo prodotto, cioè 1,3 miliardi di tonnellate, secondo
quanto certificato dalla Fao. Ogni europeo e nordamericano butta
95-115 kg di cibo l’anno, in Italia finiscono nel sacco della
spazzatura 10 milioni di tonnellate di cibo l’anno. Ma è inutile
condannare, come al solito, l’Occidente, visto che a sprecare sono
anche i Paesi in via di sviluppo. A finire al macero è soprattutto
frutta e verdura e tra le cause, la Fao indica proprio la “dittatura
dell’apparenza” che spinge a scartare ortaggi assolutamente
commestibili. Perfino gli americani, da sempre re dello spreco,
stanno cavalcando la gastronomia del recupero. Loro parlano di
cucina “stem to root”, dal gambo alla radice. Il “New York Times” ha
immancabilmente registrato il fenomeno, dando voce a tanti chef
che si sfidano nel conquistare clientela chic con la loro cucina anti
spreco, da Manhattan agli alfieri dell’ecocuina della Bay Area di
San Francisco, come Delfina, Zuni Cafe e Chez Panisse. In Italia,
neanche a dirlo, il web è straricco di proposte. Tra gli alfieri del
“movimento” c’è Lisca, nickname dietro cui si nasconde, ma non
troppo, Lisa Casali, eco-food-blogger e autrice di diversi libri in
materia, oltre che del blog Ecocucina.org, su cui ci si può acculturare
in materia. Sul suo sito le proposte non mancano, dai brownies di
pane raffermo al panino con cotoletta di croste e foglie di ravanello
saltate. Ma l’idea più “verde” della blogger è senz’altro quella di
cucinare i suddetti piatti in lavastoviglie, sfruttando cioè il calore
che la macchina emette quando entra in funzione. Cucinare senza
© Courtesy of Edizioni Gribaudo
Una delle ricette anti spreco di Lisa Casali,
presentatrice del programma “Zero Sprechi” su
Gambero Rosso Channel e autrice della guida
“Ecocucina” (ed. Gribaudo)
LA RICETTA:
CIALDA DI BUCCE DI PATATA CON MOUSSE
DI CAPRINO SPEZIATO di Lisa Casali
INGREDIENTI
· 200 g di bucce di patate
· 200 g di caprino
· 1 albume
· 1 cucchiaino di curcuma
· 1 pizzico di peperoncino piccante in polvere
· erba cipollina
· olio extravergine di oliva
· sale
· pepe
Lavate le patate e sbucciatele con un pelapatate.
Cuocete le bucce per 5 minuti a vapore o in acqua
bollente. Scolatele e asciugatele. Stendetele
su un foglio di carta da forno sovrapponendo
leggermente i bordi, in modo da formare
delle cialde. Schiacciatele con il matterello e
spennellatele con l’albume leggermente sbattuto
o, in alternativa, con malto d’orzo. Distanziate tra
loro le cialde e infornate a 150 °C per 20 minuti.
Mettete il caprino in una ciotola e lavoratelo con
l’erba cipollina, la curcuma e il peperoncino.
Continuate a mescolare versando a filo circa 3
cucchiai di olio. Ponete la ciotola con il caprino
in un piatto da portata e servitela con le cialde di
bucce di patata.
COSTO DELLA RICETTA: tra 1 e 3 euro.

t
territori
Copenhagen è la città dei ciclisti:
qui ci sono 350 km di piste ciclabile e
i ciclisti ogni giorno “macinano” in totale circa
1,2 milioni di chilometri. Come dalla terra alla
luna andata e ritorno…due volte!
© copenhagenmediacenter.com
OPERAZIONE
DECRESCITA,
“MENO SPRECO E
PIù SALVO IL MONDO”
Creare una democrazia energetica per pochi intimi,
in Germania, scardinare le banche in Francia, eliminare
l’automobile in Danimarca. Ecco la mappa dei luoghi
della rinascita sociale
di Ettore Colombo
La si potrebbe anche chiamare “piccola guida (s)ragionata
ai luoghi della decrescita felice”. Esistono dei luoghi, infatti,
collocati nel cuore della opulenta, crapulona e sprecona
Europa, e non nei villaggi sperduti e remoti dell’Oceania
o dell’Africa, che rispecchiano alla perfezione le teorie di Serge
Latouche (vedi box), inventore e cantore della “decrescita felice”.
Alla base di un movimento ormai diffuso, a livello di cittadini attivi in
gruppi, blog, siti, etc., ovunque, persino nella nostra Italia, sta l’ideaforza
che decrescita non significa per forza sacrificio e rinuncia,
ma piuttosto favorire uno stile di vita incentrato maggiormente
sulla sobrietà, il senso del limite. Le “regole di vita” di una (vera)
decrescita felice sono tante. Regola n. 1: prefiggersi di ridurre le
proprie spese, in modo tangibile e con un piccolo micro-programma
di riduzione dei costi. É il metodo migliore per aumentare il proprio
reddito! Regola n. 2: non sprecare nulla (luci, PC, orologi, etc.).
Regola n. 3: acquistare cibo nella sua forma più elementare,
ma in grande quantità. Si potrebbe andare avanti, ma l’elenco è
molto lungo e, molte volte, fa sorridere (c’è, anche, “Prendetevi
cura di qualcuno di non umano”, che poi sarebbero gli animali…).
Al di là delle facili ironie il punto fisso dei teorici della “decrescita
felice” è che questa teoria non è soltanto una critica ragionata e
ragionevole assurdità di un’economia fondata sulla crescita della
produzione di merci, ma si caratterizza come un’alternativa radicale
al suo sistema di valori. Si tratta, insomma, di una vera “rivoluzione”
culturale che non accetta la riduzione della qualità alla quantità, ma
fa prevalere le valutazioni qualitative sulle misurazioni quantitative.
Non resta che andare a curiosare dove, in modo consapevole o
meno, la teoria della “decrescita felice” viene applicata così bene da
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© Elektrizitätswerke Schönau Vertriebs GmbH
t
vivere felici
diventare, da teoria più o meno bislacca a stile e comportamento di
vita quotidiano e praticabile.
1. Scardinare il potere delle banche: a Nantes vogliono
sostituire l’Euro con il Bonus
Riuscirà l’economia reale - fatta di scambi tra prodotti diversi
regolati dal semplice dare e avere - a soppiantare le scatole
vuote della finanza? Sarà possibile, per guardare avanti, tornare
indietro ai tempi del baratto, seppure rivisto e corretto? La folle
idea, partita dalle aule dell’Università Bocconi, sta per diventare
realtà in Francia, a Nantes, dove l’ha importata Jean Marc Ayrault,
l’ormai ex sindaco socialista della città, visto che è stato nominato
primo ministro del presidente della Repubblica Francoise Hollande.
Ayrault ha affidato a due professori italiani il compito di tradurre in
realtà un progetto rivoluzionario, quello di implementare una nuova
moneta. Si chiamerà “bonùs” e diventerà una moneta municipale
e complementare, non sostitutiva, all’euro. Obiettivo: realizzare un
sistema di credito cooperativo tra aziende allo scopo di rafforzare
l’economia locale e avviare un circuito virtuoso che consenta
di avere più risorse a disposizione per acquistare prodotti delle
imprese che fanno parte del sistema. Il progetto nasce dagli studi
di Massimo Amato, filosofo, e Luca Fantacci, che insegna scenari
economici internazionali, due eretici della Bocconi di Milano, già
autori, nel 2009, di un libro diventato un best-seller ma ignorato
dagli economisti (“Fine della finanza, da dove viene la crisi e come
si può pensare di uscirne”). Solo a Nantes, però, dove Amato ha
insegnato due anni, è stato possibile passare dalla teoria alla
pratica e avviare il processo che, dopo che la Banca di Francia ha
approvato il progetto, dovrebbe portare alla realizzazione del nuovo
sistema monetario. Il Credit Municipal, di proprietà del Comune,
sarà il modello di una nuova banca che farà solo servizio pubblico e
non avrà interessi privati. Sarà il Credit a tenere i conti degli scambi
fra le imprese e fra queste e i privati (i quali avrebbero lo stipendio
diviso tra euro e “bonùs”). Con il “bonùs”, paradossalmente, non
servirà denaro per avere credito perché il circuito creditizio sarà
concepito come una camera di compensazione al cui interno
ognuno dispone di un conto corrente e fa i propri scambi dando
servizi in cambio di prodotti.
2. Passeggiando in bicicletta accanto a te. Senza auto in giro.
A Copenaghen si può
La bici, come si sa, offre numerosi vantaggi. Secondo una serie
di studi a campione la mortalità media di chi si reca al lavoro in
Ursula Slade e Michael
Sladek, co-fondatori della EWS
bicicletta (o trascorre un periodo equivalente in palestra) è del
30-40% inferiore di chi invece si sposta in auto, tenendo conto
anche del rischio incidenti. Inoltre, sostituire la bici all’auto consente
di ridurre le proprie emissioni di anidride carbonica e altri gas
serra, contribuendo alla riduzione complessiva dell’inquinamento
atmosferico. Belle parole, ma chi lavora concretamente per far
diventare comodo e praticabile l’alternativa bici all’automobile? I
danesi, naturalmente. In Danimarca, infatti, il governo considera
la diffusione del trasporto su bici come una priorità ambientale.
Grazie ad una politica di riduzione dell’inquinamento urbano,
Copenaghen si è aggiudicata nel 2006 il premio europeo per la
gestione dell’ambiente. Del resto, si sa: la passione dei danesi per
il ciclismo è famosa nel mondo, tanto che a Copenaghen i turisti
amano noleggiare biciclette per sentirsi partecipi dello stile di vita
locale. Ma la diffusione del ciclismo nella capitale è soprattutto il
risultato della lungimiranza del governo e dei cittadini. La cultura
della bici, infatti, ha attecchito facilmente in una città dove le piste
ciclabili sono estese e ben mantenute e dove biciclette pubbliche
gratuite sono messe a disposizione dei residenti dietro pagamento
di un semplice deposito. Copenaghen dispone inoltre di numerosi
spazi per il parcheggio delle biciclette, onde evitare l’affollamento
di mezzi nelle zone di maggior traffico. La rete ciclabile è collegata
a quella ferroviaria, grazie a un sistema che consente di trasportare
con facilità la propria bici su qualsiasi treno. Infine, Copenaghen ha
avviato la costruzione di superstrade per ciclisti, che si estendono al
di fuori della cerchia urbana fino alle località circostanti. Con incentivi
del genere, non è sorprendente che ben il 40% dei residenti della
capitale danese si sposti in bicicletta: a loro conviene!
3. Come costruire la democrazia energetica. Il caso di
Schonau, Germania
È possibile costruire una democrazia energetica e raggiungere
un’autonomia attraverso le rinnovabili? Dalla Foresta nera, nel
Sud-Ovest della Germania, a Schonau, arriva un esempio di
“democrazia energetica”, principi della decrescita applicati come
in una felice “isola di Utopia” e, anche, di liberalizzazione dal
basso. Tutto nasce con il drammatico incidente di Chernobyl, nel
1986. Si mette paura un intero continente, compresi i cittadini di
Schonau. Nasce il gruppo “Genitori per un futuro senza nucleare”.
È un piccolo gesto, ma arriverà a scardinare il sistema usuale di
approvvigionamento energetico. La richiesta iniziale è un sistema
progressivo che incentivasse realmente il risparmio energetico;
la KWR, società locale di fornitura elettrica, non aveva alcuna
intenzione d’introdurlo. Così nel 1990, 13 abitanti e genitori di
Schonau fondano un’azienda per il finanziamento dell’installazione
delle prime centrali elettriche decentralizzate e di una moltitudine di
cogeneratori. I cogeneratori producono energia in misura maggiore
al fabbisogno e ne restituiscono alla rete un’ottima quantità che
dovrebbe essere pagata dal distributore a prezzo più alto per
permettere l’ammortamento dell’impianto. Altra concessione su
cui la KWR non era disposta a cedere. Contemporaneamente,
però, era nata un’altra società, la EWS, pronta a competere con
la KWR per la concessione ventennale della distribuzione elettrica
di Schonau. I “ribelli dell’energia”, riunitesi in una serie di comitati,
colsero l’occasione al volo: organizzarono un referendum per
la revoca del contratto alla KWR, ribadendo la ferma volontà dei
cittadini di decidere sulla propria politica energetica. La vittoria
fu netta, poi tutti gli sforzi furono spostati sulla raccolta dei fondi
necessari all’acquisto delle rete elettrica di proprietà della KWR
che la sovrastimò di quasi 5 milioni di marchi rispetto allo studio
di fattibilità della EWS. I cittadini la spuntarono nel 1995, quando
il comune confermò la concessione alla EWS. Da allora, la EWS
garantisce energia in buona percentuale proveniente da impianti
solari, continui investimenti in energie rinnovabili e Schonau
è il comune europeo a maggiore densità d’impianti di microcogenerazione.
4. Gli “Orti Collettivi” della Giudecca di Venezia. Ortaggi e
benessere.
Chissà come si dice, in veneziano, community garden. Quando
pensi al verde della città della Laguna di solito ti vengono in mente i
giardini della Biennale. Arte, radical chic e party all’imbrunire. Niente
di tutto questo. Grazie al lavoro di “Spiazzi Verdi”, un’associazione
no-profit, orti e giardini condivisi sono sbarcati a Venezia. Basta
prendere il vaporetto per l’isola della Giudecca e fare due passi
per svelare il mistero. È nell’antica casa di cura delle Zitelle che
si nasconde l’orto collettivo: uno spazio aperto al quartiere,
(pardon, “sestiere”) e a tutta la città. E così, l’antico orto prima di un
convento di monache, poi di un carcere femminile, infine un luogo
abbandonato pieno di erbacce, oggi non produce solo ortaggi e
verdure, ma anche benessere. Perché questo è l’obiettivo di Spiazzi
Verdi, creare situazioni ed esperienze di “felice convivenza” fra la
terra e i suoi abitanti, ricollegando in maniera sostenibile i cittadini e
le aree verdi urbane. L’opera di ripristino da parte della cooperativa
“Rio Terà dei Pensieri”, che organizza anche attività lavorative e
formazione professionale, comincia nel 1995. “I primi tempi sono
stati impiegati a ripulire e a riordinare il terreno - spiegano - poi
finalmente ci siamo potuti dedicare alla creazione dell’orto vero
e proprio, seguendo i criteri dell’agricoltura naturale e ottenendo
nel 2007 la certificazione biologica”. L’orto cresce rigoglioso e ben
curato, anche grazie al lavoro di un gruppo di detenute: misura
SERGE LATOUCHE, IL GURU DELL’HAPPY GREEN
Economista e filosofo francese, Serge Latouche (Vannes,
Francia, 1940), diventa subito noto, nel secondo dopoguerra,
per la sua avversione alla dilagante occidentalizzazione dei
popoli, e propugnatore di una cosiddetta “decrescita felice”
che aiuti l’umanità a liberarsi definitivamente della sua visione
economicista. Lo stesso concetto di sviluppo implica, per lui,
una visione del mondo in chiave economica, così come il tanto
decantato “sviluppo sostenibile”. Secondo Latouche, anche
quest’ultimo è da considerare negativo, in quanto racchiude
il tentativo estremo di far sopravvivere una costante crescita
economica, lanciando il messaggio che da essa dipenda
il benessere dei popoli. Decrescita, però, non significa per
forza sacrificio e rinuncia, ma piuttosto favorire uno stile di vita
incentrato maggiormente sulla sobrietà, sul senso del limite e sulle
“8 R” (Rivalutare, Ricontestualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare,
Ridistribuire, Ridurre, Riciclare, Riutilizzare) per far fronte ai
problemi ambientali e sociali del nostro tempo, dovuti proprio alla
crescita irresponsabile. L’Occidente rappresenta, per Latouche,
6.000 metri quadri, è provvisto di grandi serre e al suo interno
si coltiva un po’ di tutto, compresi numerosi ortaggi regionali, ma
c’è spazio anche per oliveti, un frutteto, la zona per il compost, il
tunnel con i semenzai e una sezione denominata “aromantica”,
dedicata alle officinali e ai peperoncini. E così, “l’orto sinergico”
della Giudecca, dove non serve neppure il concime, perché è la
disgregazione del materiale organico che si reintegra nel terreno a
far mescolare e crescere nuove semi e nuove sementi, diventa la
metafora perfetta della teoria (a questo punto, e con questi esempi,
non più solo teoria, ma reale possibilità di vita) della “decrescita
felice”: Lavori, prendi e vendi dalla terra, mangi e consumi quanto
è necessario in un’azione collettiva che permette di “mescolare la
terra”, salvandola.
Ettore Colombo è giornalista politico e di costume
Serge Latouche,
economista e filosofo
francese, tra gli avversari
più noti dell’occidentalizzazione
del pianeta e un sostenitore
della decrescita conviviale
e del localismo
non solo un’entità geografica, ma una creazione ideologica della
stessa popolazione occidentale che pretende di imporre valori e
credenze a tutto il genere umano.
Quel che invece sarebbe auspicabile, secondo l’economista
francese, dovrebbero essere il dialogo e la coesistenza fra
le culture. Sarebbe importante riconoscere che esistono
diversità ma che queste possono convivere pacificamente, se
non instaurare un rapporto di serena cooperazione. Latouche
chiama questa visione “universalismo plurale”, in opposizione
alla normale idea di “universalismo” che, invece, porta a un
dilagante imperialismo culturale. Decolonizzare l’immaginario
occidentale dall’economicismo significherebbe anche rivalutare e
ricontestualizzare alcune zone del pianeta, come il Terzo mondo,
in totale stato di abbandono perché necessario alla macchina
capitalistica. Tra le più significative opere di Serge Latouche,
si segnalano: L’occidentalizzazione del mondo; Il pianeta dei
naufraghi; Immaginare il nuovo. Il pensiero creativo contro
l’economia dell’assurdo.
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i
innovazioni
“e luce fu”
Quando Edison
accese il MoMA
L’avventura dell’azienda al Museo d’Arte Moderna
di Andrea Colombo 1
La storia della “Casa Elettrica” è ben nota agli addetti ai
lavori e a quanti si sono occupati di storia dell’architettura.
Considerata come uno dei primi esempi di struttura
razionalista realizzata in Italia, patrocinata dalla Società
Generale Italiana Edison di Elettricità a fronte di una esplicita
richiesta fatta da Gio Ponti alla stessa Edison, venne realizzata dal
Gruppo 7 ed esposta in occasione della “IV Esposizione Triennale
Internazionale delle Arti Decorative ed Industriali Moderne” che
si tenne a Monza dal maggio al novembre del 1930. La “Casa
Elettrica” diede splendida mostra di sé all’interno del parco della
Villa Reale per sei mesi, al termine dei quali venne demolita. Una
vita breve, effimera, ma non per questo priva di significato visto
che a due anni dalla sua uscita di scena fece la sua comparsa
al Museum of Modern Art di New York nella prima esposizione
dedicata da questo museo all’architettura moderna.
La storia della “Casa Elettrica” è soprattutto una sfida di giovani tra
giovani. Giovane è la società committente, la Edison, che nel 1930
non ha nemmeno cinquant’anni. Ha poco meno di quarant’anni
Gio Ponti, anima della IV Triennale di Monza, che individua nei
giovanissimi architetti del Gruppo 7, nemmeno trentenni, coloro
che possono proporre qualcosa di nuovo, di diverso, di esemplare.
Perché questo interesse di Gio Ponti per il Gruppo 7, nato
nell’autunno 1926? Il Gruppo 7, così denominato perché composto
da sette studenti del Politecnico di Milano (Luigi Figini, Guido
Frette, Sebastiano Larco, Gino Pollini, Carlo Enrico Rava, Giuseppe
Terragni e Ubaldo Castagnoli, quest’ultimo sostituito da Adalberto
Libera nell’estate del 1927) fa propri i temi affermati dal movimento
moderno internazionale. A partire dal 1927, i membri del Gruppo 7
incominciarono a partecipare, da soli o in coppia, a diversi concorsi.
In quell’anno due dei suoi esponenti, il milanese Luigi Figini e il
rovetano Gino Pollini, incominciarono un sodalizio destinato a
durare per tutta la vita. Due anni dopo, nel 1929, il trentino Gino
Pollini aveva - su commissione dell’Azienda Elettrica Consorziale
- realizzato per l’Esposizione dell’Alto Adige un “Appartamento
Elettrico” nel quale in un simulacro di appartamento venivano
collocati i più disparati elettrodomestici. Quando Gio Ponti pensò
di realizzare una casa elettrica per la Triennale di Monza, non poté
non pensare a Gino Pollini che con il suo “Appartamento Elettrico”
si era già cimentato con qualcosa di simile. Il progetto della
casetta si presentava per Edison come una magnifica occasione
pubblicitaria, ma non solo, visto che la società milanese, facendo
sua la proposta di Gio Ponti “(…) Rendeva pubblico il proprio
progetto sia industriale che sociale, destinato a trasformare non
solo l’assetto di un singolo settore produttivo, ma le forme stesse
del lavoro e della vita quotidiana: l’elettrificazione della casa” 2
. La
“Casa Elettrica” fu presentata come una realizzazione del Gruppo
7, ma nella realtà era il frutto di solo alcuni dei suoi componenti.
Se il Gruppo 7 agli inizi del 1930, a causa delle troppe divergenze
sorte tra i suoi membri di fatto non esisteva più, la “Casa Elettrica”,
realizzata dalla maggioranza dei suoi membri, può dirsi come l’unica
creazione di questo gruppo. Pensata da Gio Ponti come un’iniziativa
da affidarsi collettivamente al Gruppo 7, fu colta da Figini e Pollini
come l’occasione per orchestrare in piena autonomia l’opportunità
offerta. Luigi Figini e Gino Pollini erano i progettisti della casa e
dell’arredo della camera del figlio; Guido Frette ed Adalberto Libera
erano gli artefici dell’arredamento del soggiorno e della camera
doppia; Piero Bottoni – esterno al Gruppo 7 – il progettista dei
locali di servizio (cucina, acquaio, bagno, camera della domestica).
Figini e Pollini concepirono la “Casa Elettrica” come un edificio a
pianta rettangolare di 16 metri per 8 metri ad un solo piano, munito
di una scala che conduceva ad una vasta terrazza panoramica
in parte coperta. Nella parte frontale vi era un atrio d’ingresso
coperto con un pilastro rotondo posto all’estrema destra. A sinistra
dell’ingresso si sviluppava l’ampia vetrata della serra. Sulla parte
posteriore vi erano le aperture di una delle camere da letto, della
sala da pranzo e della cucina, quest’ultima munita anche di porta
di servizio. Tuttavia, di che colore era esternamente la casa? Le
foto in bianco e nero oggi esistenti non rendono giustizia alla
costruzione tinteggiata di bianco, di grigio e di rosso. All’interno,
l’ambiente centrale, la sala, risultava essere alta più di 5 metri,
perché comprendente anche la loggia interna. I locali di servizio
erano posti sui lati più corti. Da un lato vi erano le camere da letto
e il bagno, dall’altro lato vi era la zona formata da cucina, acquaio,
ingresso passante e camera della domestica. La loggia superiore
venne pensata come una copertura sorretta da quattro pilastrini
quadrati posti ai vertici del perimetro coperto. Prima di entrare
nella casa, inaugurata il 18 maggio 1930, l’ipotetico visitatore si
trovava di fronte a due grandi scritte: “Casa Elettrica” e “Gruppo
7”. Un pannello a caratteri bianchi e rossi su fondo nero illustrava
ai visitatori quanti avevano concorso alla realizzazione della casa,
la Società Edison in primis. Entrando, si accedeva attraverso
una piccola anticamera ad un ambiente comprendente stanza
di soggiorno e sala da pranzo. A sinistra si incontrava la doppia
parete vetrata della serra. Quest’ultima - realizzata da Guido Frette
su ispirazione di Figini e Pollini - era anche una delle pareti della
stanza di soggiorno. La serra fu verniciata di rosso. Di rosso erano
anche le colonne circolari dell’interno.
Sala da pranzo e stanza di soggiorno erano un unico grande
ambiente, separabile però da tende di colore grigio. Con questo
stratagemma da un ambiente se ne ricavavano due. Per suddividere
le varie zone della casa, si giungeva ad un curioso espediente. La
demarcazione era data dalla pavimentazione in linoleum. Gli intarsi,
a diversi colori, contrassegnavano i confini tra le stanze. L’uso
del linoleum era determinato da criteri artistici e funzionali, visto
che questo materiale si prestava ad essere applicato con facilità,
era facilmente lavabile, durevole, silenzioso, elastico e riposante.
Naturalmente i colori della pavimentazione erano intonati alla tinta
delle pareti e della mobilia. La stanza di soggiorno era arredata
con poltroncine semicircolari, un tavolino a corona circolare
ed un mobile in noce lucido. Questi arredi erano posti a fianco
della scalinata, munita di una balaustra in metallo cromato, che
conduceva alla vasta terrazza posta sul tetto. La sala da pranzo,
confinante con la cucina, era composta da un tavolo con quattro
sedie e un mobile basso posto sotto ad una delle grandi finestre
panoramiche - tutte a sviluppo orizzontale - di circa 3 metri di
larghezza per 1,13 metri di altezza. L’arredo era completato con
opere di alcuni tra i più importanti artisti italiani contemporanei,
quali Arturo Martini, Carlo Carrà e Fausto Melotti. Queste opere
avevano la funzione di ambientare “(…) L’intera composizione
cercando di rendere meno stridente la contemporanea esibizione
di ozonizzatori, scaldavivande, lucidatrici, ventilatori e teiere, tutti
naturalmente elettrici” 3
. Percorrendo la scalinata si giungeva alla
loggia superiore interna che si affacciava sul salone, caratterizzato
da una bassa finestratura angolare ad “L”, passaggio alle due logge
esterne ed alla terrazza scoperta. Ridiscendendo verso il piano
inferiore, dal lato della stanza di soggiorno opposta all’ingresso,
ci si trovava di fronte a tre stanze: la camera del figlio, il bagno
e la stanza dei genitori. Attraverso un passaggio, si entrava nella
prima di queste due camere, quella del figlio, opera del duo Figini
e Pollini. Questa era caratterizzata da un arredo in cui i mobili -
SWITCH22 SWITCH23

iletto, comodino, tavolo e poltroncina - erano composti da una
struttura in tubi d’acciaio cromato. All’estremità opposta della
stanza del figlio si accedeva alla camera matrimoniale, opera di
Guido Frette ed Adalberto Libera, ambiente questo dominato
dal letto matrimoniale e caratterizzato dalla presenza di armadi
a muro. Tra queste due camere vi era il bagno, opera di Piero
Bottoni. L’ambiente si presentava dotato di ogni confort moderno:
un WC, un bidet, una vasca da bagno ed un “lavabo razionale”
incassato in una toilette rivestita di gomma lavabile di colore
arancione. Le pareti della stanza erano rivestite di gomma azzurra,
materiale questo utilizzato per venire incontro a criteri di igiene
e pulizia. Al lato opposto delle stanze fin qui esaminate vi era un
agglomerato composto di tre vani, cucina, acquaio e camera della
domestica. Queste stanze, disegnate da Piero Bottoni, furono il
suo capolavoro, vero esempio di “taylorismo domestico”. Il gruppo
cucina-acquaio era staccato dalla sala da pranzo da una paretecredenza
costituita da tre vani apribili. Questi tre vani erano: un
“passa vivande”, che metteva in comunicazione la cucina con la
sala da pranzo; un “mobile rotante per stoviglie” di forma circolare,
che metteva in comunicazione - contemporaneamente - cucina,
sala da pranzo ed acquaio; un “passa piatti sporchi”, che univa la
sala da pranzo con l’acquaio. I piatti cucinati e predisposti in cucina
passavano per il passa vivande al tavolo della sala da pranzo per
poi, una volta finito di mangiare, transitare per il passa piatti sporchi
e andare nel lavandino dell’acquaio per il successivo lavaggio. I
piatti venivano prelevati, o riposti, nel mobile rotante circolare da
qualsiasi delle tre stanze comunicanti con questo apparato. Nella
cucina vi erano un armadio ed una credenza dove gli sportelli
della parte superiore erano stati sostituiti da ante avvolgibili in
celluloide. Questa soluzione permetteva minimo ingombro e,
grazie alla celluloide, leggerezza e facilità di pulizia. Accanto alla
cucina elettrica, a quattro fuochi, sotto la grande finestra vi era un
tavolo di legno ricoperto di linoleum. A completare la dotazione
degli arredi della cucina, un ripiano, un lavello, una sedia munita
di contenitore. Vi era inoltre un refrigerante per la conservazione
degli alimenti. L’acquaio era composto da un doppio lavandino, il
primo destinato ai piatti sporchi, il secondo al risciacquo. Terminate
queste operazioni le stoviglie potevano essere riposte nell’apposito
mobile rotante. Un ripiano, una vasca per risciacquare la biancheria
e un ripostiglio erano gli ultimi componenti d’arredo dell’acquaio.
Singolare la soluzione adottata per l’asse da stiro. Trattavasi
dell’anta del ripostiglio che resa ribaltabile si tramutava in una
superficie imbottita adatta allo stiraggio. Le pareti erano rivestite
di gomma grigio-azzurra; il pavimento era in ceramica color crema.
Una tenda in gomma scorrevole su anelli poteva separare la cucina
dall’acquaio. Ultima stanza della “Casa Elettrica” era la camera
della domestica, anch’essa realizzata da Piero Bottoni. L’elemento
di maggiore interesse era il letto a scomparsa in legno di betulla.
Chiuso, dava vita ad una scaffalatura libreria; aperto si tramutava in
un ampio e comodo letto.
I commenti pubblicati all’epoca sulla stampa specializzata
risultarono essere tendenzialmente positivi, per una serie di
innovazioni evidenti, osservabili, tangibili. Non mancarono però
alcune considerazioni critiche nelle quali si accusava di asettica
uniformità l’eccessivo ordine razionalistico espresso dall’insieme.
Nella descrizione fatta finora mancano però le caratteristiche che
definiscono la casa come “Elettrica”. Se è vero che l’abitazione da
noi esaminata era un esercizio di stile razionalista compiuto dai
giovanissimi architetti del Gruppo 7, essa era altresì qualcosa
di più: era la “Casa Elettrica”, una vetrina di oggetti sconosciuti
alla maggioranza degli italiani del 1930. Nel salotto e nella sala
da pranzo venivano esposti una serie di prodotti della S.C.A.E.M.
(Società Costruzione di Apparecchi Elettrodomestici Marelli) quali
amarcord d’autore
un aspirapolvere, una lucidatrice ed un ventilatore ad aria fredda,
calda o profumata. Vi erano inoltre un telefono, un fonografo
elettrico di marca Veravox Electric e un ozonizzatore per la
depurazione dell’aria della società Ozono. Sul mobile posto sotto la
finestra della sala da pranzo facevano bella mostra di sé un bollitore
ad immersione e un tostapane della AEG, una teiera, un radiatore,
uno scaldapiatti ed un bollitore per uova di produzione Therma.
Sul tavolo della sala da pranzo vi era un grande scaldavivande. La
stanza dei genitori conteneva una lucidatrice aspirante Columbus,
un termoforo, una stufa, uno scaldapiedi, un asciugacapelli, tutti
della Therma, e un ventilatore ad aria fredda, calda o profumata
della S.C.A.E.M. Nella stanza del figlio vi erano un termoforo e uno
scaldapiedi Protos, oltre ad una stufa della AEG. Nella camera
della domestica faceva bella mostra una macchina da cucire della
Compagnia Singer. Nella stanza da bagno vi erano due autentici
“prodigi”, un asciugamani elettrico della Neptunia e un deodoratore
automatico del WC; un piccolo aspiratore, azionato da un motorino
elettrico, catturava i cattivi odori immettendoli direttamente nel
tubo di scarico. La maggior parte degli elettrodomestici della
“Casa Elettrica” erano concentrati - ovviamente - nella cucina. In
quest’ambiente si trovavano una cucina elettrica a quattro fornelli
- con tre intensità di calore - e forno della AEG oltre ad un forno
elettrico munito di orologio della Protos. L’aspirazione degli odori
di cottura avveniva tramite un piccolo aspiratore posto nel telaio
della finestra. Sul tavolo da lavoro vi era un motore da cucina della
KitchenAid composto da numerosi accessori, quali tritacarne,
sbattiuova, impastatrice, frantumatrice, setaccio, etc., oltre ad uno
spremilimoni ed un macina caffè entrambi della S.C.A.E.M. Poi,
vi era un frigorifero elettrico automatico - o refrigerante - della
società Frigidaire Corporation, del gruppo GMC, marca all’epoca
sinonimo dell’apparecchio. Nell’acquaio vi era una lavabiancheria
automatica della Neptunia. I panni sporchi venivano immessi nella
lavatrice; una volta lavati venivano tolti dalla macchina e risciacquati
nell’apposita vasca situata nella stanza. Successivamente, venivano
riposti nuovamente nella lavatrice per essere centrifugati. Una
volta asciutta, la biancheria poteva essere stirata con un ferro
elettrico AEG. Tuttavia, quanto costava un’abitazione come la
“Casa Elettrica”? Diciamo subito che gli architetti del Gruppo 7
avevano concepito cinque tipologie di casa del costo compreso
tra le 40.000 e le 100.000 lire. La “Casa Elettrica” aveva un costo
di 60.000 lire, ma i suoi inquilini per dotarla del mobilio e delle
lampade avrebbero dovuto sborsare altre 20.000 lire. Da questa
cifra rimanevano esclusi gli elettrodomestici. Insomma, una casa
da sogno per la quasi totalità degli italiani che si concretizzò in un
unico esemplare dalla vita brevissima, ma dal fortissimo impatto
simbolico. Nel 1931 il Museum of Modern Art di New York decise
di organizzare per l’anno seguente la sua prima esposizione
dedicata all’architettura moderna. Il direttore del museo, Alfred Barr,
incaricò gli studiosi Philipp Johnson e Henry-Russell Hitchcock
di organizzare l’evento. La mostra dal titolo “Modern Architecture.
International Exhibition”, si svolse a New York tra il 10 febbraio
e il 23 marzo 1932. All’interno dell’esposizione, si poterono
visionare immagini dei modelli relativi alle opere architettoniche
più interessanti realizzate negli ultimi anni in Europa e negli Stati
Uniti. Tra queste costruzioni, unica proveniente dall’Italia, vi era
anche la “Casa Elettrica”, o per meglio dire quella che gli americani
chiamarono “Electrical House at the Monza Exposition”, opera di
Luigi Figini e Gino Pollini. Ad oltre un anno dall’evento, la “Casa
Elettrica”, ormai perduta per sempre, ma assurta a “classico” da
tramandare, sopravviveva al divenire del tempo attraverso questa
mostra e attraverso il ricordo e la testimonianza di chi concorse alla
sua realizzazione.
1
Questo articolo è un sunto di un più ampio studio che l’autore sta dedicando
alla “Casa Elettrica”: Da Monza al MoMA. La Casa Elettrica. Un estratto dello
stesso verrà presentato al prossimo 75° Congresso Nazionale SIMLII [Società
Italiana di Medicina del Lavoro ed Igiene Industriale] che si terrà a Bergamo tra
il 17 ed il 19 ottobre 2012. 2
G. Polin, La Casa Elettrica di Figini e Pollini. 1930,
Roma 1982, pp. 52-55. 3
G. Polin, La Casa Elettrica, op. cit., p. 100.
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eportage
© Adam Mørk
COME VIVERE
AD ALTA POTENZA
(E A BASSO CONSUMO)
Si riduce il petrolio e si abbassa il reddito.
Ma tra foglie artificiali, impianti solari senza emissioni,
idroelettrico a zero impatto ambientale e miracoli geotermici.
Spuntano nel mondo i centri della svolta tecnologica
di Antonio Marini
Quando Oven Bendtsen e la moglie Hanne Beer decisero
di cambiare vita, presero armi e bagagli e si trasferirono
dalla grande città a Egendal, un comune di 41 mila abitanti,
incastonato nel Nord dell’isola danese di Selandia, a un
tiro di schioppo dalla Svezia. Da pensionati, pensarono, bisogna
abbassare le esigenze, perché il reddito si riduce di molto. Meglio
quindi tagliare i costi e godersi la natura. Ora, nella loro nuova casa
a basso consumo, non pagano riscaldamento né l’acqua: a produrre
l’energia necessaria ci pensa il sole mentre grazie alle vasche di
raccolta, i temporali forniscono la materia prima per le esigenze
quotidiane, lavatrice compresa. “Vivere qui ha solo aspetti positivi”,
dice una sorridente signora Beer alle telecamere di Euronews,
La Green Light House, il primo edificio
pubblico danese a zero emissioni è la residenza
per studenti della facoltà di Scienze presso
l’Università di Copenaghen
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sguardi sul futuro
Green Lighthouse,
interno dell’università
© Adam Mørk
pongono meno attenzione alle emissioni e al “global warming”.
Allora il consumo mondiale sale e con lui l’inquinamento. Nel 2010
le emissioni di gas serra, dopo due anni di calo, hanno registrato
un nuovo picco; secondo il Centro ricerche della Commissione
europea, sono balzate del 5,8%. Sono Cina e India a trainare la
crescita mondiale. E in quei Paesi una bella fetta di energia viene
prodotta attraverso vecchie centrali a carbone. In Europa invece,
la domanda energetica primaria, pur avendo registrato un tasso di
incremento decisamente inferiore rispetto a quello di Pechino e
Nuova Delhi, ha visto il virtuoso incremento del consumo di energia
derivante da fonti rinnovabili. E visto che il Consiglio europeo
si è impegnato a ridurre entro il 2050 le emissioni di gas serra
dell’80-95% rispetto ai livelli del 1990, è semplice supporre che
lo sviluppo nella produzione di energia pulita dovrà quantomeno
essere promossa, se non imposta.
INVESTIMENTI NELLE FONTI RINNOVABILI
È sempre il petrolio la fonte primaria di energia. Secondo l’Enea,
l’Agenzia italiana per l’energia, oggi l’oro nero copre il 33% della
domanda, segue il carbone (27%) e il gas (21%). Al momento le
fonti rinnovabili si piazzano alla quarta posizione (13%) mentre il
nucleare chiude la classifica con il 6%. L’Agenzia internazionale per
l’energia prevede tre scenari di sviluppo: in tutti i casi sottolinea
una crescente domanda di gas naturale. Ma se il mondo non
cambia drasticamente rotta, puntando sulle energie a più basso
o nullo impatto ambientale, sarà il carbone, nel 2035, a prevalere
sul petrolio. Soltanto importanti investimenti sul lato delle fonti
“pulite” può portare a raggiungere l’obiettivo del 75% di energia
rinnovabile nei consumi finali entro il 2050, previsto dalla “Energy
Roadmap”. Così i progetti e le idee più innovative non solo
porteranno all’abbattimento dell’effetto serra, ma contribuiranno
a uscire dalla crisi, grazie agli investimenti sulla ricerca. In questo
contesto, gli investimenti mondiali dedicati allo sviluppo delle fonti
rinnovabili, secondo il dipartimento dedicato delle Nazioni Unite,
hanno raggiunto nel 2011 il livello record di 257 miliardi di dollari.
Purtroppo c’è poco da stare allegri perché il suo tasso di crescita, a
causa della recessione, continua a ridursi. Però alcuni dei progetti
messi in cantiere, cominciano a dare buoni risultati economici,
riuscendo così in prospettiva a diventare interessanti anche senza
incentivi pubblici.
IL FUTURO DEL SOLARE E DEL GEOTERMICO
La Barefoot Power è una “social for-profit enterprise”, una società
dunque che pur essendo a scopo di lucro, ha come obiettivo il
miglioramento della vita della collettività. Genera profitti per i soci
ma vende prodotti socialmente utili. Ha piazzato a costi sostenibili
350.000 kit per la produzione di energia solare utile ad accendere
una lampada da tavolo. Il kit viene utilizzato nelle case, nelle cliniche
nel corso di una recente intervista. Oven e Hanne hanno scelto
di vivere in uno dei graziosi villini che compongono la zona “verde”
di Egendal, formata da 750 edifici capaci di consumi ridottissimi e
che comprende anche appartamenti in edilizia convenzionata, asili
nido e residenze per anziani. Grazie al progetto, il comune ha potuto
tagliare dai costi, la spesa per 400 mila litri di petrolio. In Danimarca
fanno a gara per presentare idee verdi a risparmio energetico. Il
primo edificio pubblico danese a zero emissioni è la residenza per
studenti della facoltà di Scienze presso l’Università di Copenaghen,
chiamata “Green Lighthouse”: è stata inaugurata nell’ottobre
2009. In 950 metri quadrati si trova un concentrato di tecnologia
ma normalmente reperibile in commercio. Grandi finestre e una
eccellente coibentazione riducono al minimo i consumi e l’energia
viene presa dal sole e stoccata negli accumulatori. Sull’argomento
“green economy” i danesi vogliono fare i primi della classe e
arrivare ad alimentare il Paese solo con l’energia prodotta da fonti
rinnovabili. Un piano di lunghissimo periodo, certo, ma con scadenze
ben precise. Entro il 2050, per esempio, la metà dell’energia dovrà
essere prodotta dal vento. Perché l’eolico è, tra le energie pulite,
attualmente una delle più economicamente efficienti.
LA DOMANDA DI ENERGIA
A dispetto della crisi, l’economia mondiale continua a crescere. Nel
2011, dice il Fondo Monetario Internazionale, il prodotto interno
lordo globale è salito del 3,8%. Un passo avanti, seppure ridotto
rispetto al +5% dell’anno precedente. Anche nel 2012 la produzione
del pianeta riuscirà ad ottenere un sudatissimo segno più. E questo
grazie alle economie emergenti che in questi anni difficili hanno
mantenuto un livello di incremento della produzione, seppure
ridimensionato, pur sempre maggiore dei Paesi industrializzati.
E più si cresce, più energia si consuma. Se poi sono i Paesi meno
sviluppati ad aumentare la produzione, la corrente consumata
per fabbricare un bene è maggiore rispetto a quella che avrebbe
utilizzato, a partità di crescita annua, uno Stato maggiormente
tecnologico. C’è un indice che mette in relazione l’energia richiesta
e una unità di Pil: è “l’intensità energetica”. Più un Paese è virtuoso,
più l’indice è basso. Questo vuol dire che la macchina produttiva ha
raggiunto livelli di efficienza nei consumi di energia tali da riuscire
a ridurre o a mantenere costante l’uso di corrente, seppure in
presenza di un aumento della produzione. Così non è, come detto,
se a crescere sono prevalentemente i Paesi in via di sviluppo, che
Esterno della Green Lighthouse
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sguardi sul futuro
© Riccardo Brega © KiteGen
© KiteGen
e nelle scuole e ha trasformato la vita a 1,7 milioni di famiglie
povere sparse in Asia, Africa, India e Sudamerica. In particolare, il
lavoro svolto in Africa gli è valso l’Ashden Award, premio britannico
dedicato a chi, grazie all’innovazione, contribuisce al taglio delle
emissioni di CO 2
, riduce la povertà e migliora il livello di vita della
gente. Ma è l’australiana Enviro Mission di Melbourne a lavorare
a uno dei progetti più ambiziosi al mondo capaci di produrre
grande quantità di energia dal sole. Grazie alla sua “torre solare”
sperimentata con successo a Wentworth, nel deserto australiano,
ora esporta tecnologia in tutto il mondo. Di recente ha vinto l’appalto
per la costruzione di una “Solar tower” a Sudovest degli Stati Uniti,
che permetterà di fornire corrente a 100.000 famiglie. Si tratta di
una struttura alta circa un chilometro circondata da una enorme
serra di vetri trasparenti a forma quadrata o circolare, strutturata in
modo di convogliare l’aria calda prodotta alla base della torre. La
corrente nata dal movimento dell’aria fa girare una serie di turbine
producendo energia mentre il “mega-camino” risucchia l’aria calda
che si raffredda mano a mano si avvicina all’estremità. Una volta
fuoriuscita, l’aria, tornata fredda, ricade verso suolo, alimentando
nuovamente il ciclo. Il progetto è nato in Spagna negli anni ‘80 e
sperimentato attraverso un prototipo a scala ridotta a Manzaranes.
Ma è grazie allo sviluppo della tecnologia che Enviro Mission ne
ha potuto sviluppare un prodotto commerciale. Tra i grandi progetti
in fase di realizzazione o pronti a partire, c’è sicuramente quello
della Yingli Green Energy, società quotata al Nasdaq, specializzata
nella posa di pannelli fotovoltaici integrati verticalmente. Lo Stato
brasiliano le ha affidato il compito di creare un anello di 1.500
pannelli solari sopra lo spettacolare stadio Maracanà di Rio.
SPAZIO ALL’IDROELETTRICO
Il sistema idroelettrico per la produzione di energia è ampiamente
utilizzato in molte zone del Paese. Ma ha un limite: la diga. Per
produrre una buona quantità di energia è necessario far girare
grandi turbine e dunque il dislivello da cui precipita l’acqua capace
di farle muovere dev’essere consistente e questo comporta
investimenti adeguati. La tecnologia è venuta incontro all’esigenza
di ridurre costi e limitare l’impatto ambientale. Così sono state
inventate delle micro-turbine, capaci di produrre energia anche
grazie al movimento dell’acqua in piccoli fiumi. La statunitense
Hydrovolts (www.hydrovolts.com) ne ha prototte di “portatili”, da
immergere lungo i corsi d’acqua e da utilizzare, per ottenere una
maggiore potenza, anche in serie. L’esercito statunitense ne fa
ampio uso perché queste mini-turbine possono essere agevolmente
trasportate e riescono a produrre da 20 a 500 watt di potenza utili
per alimentare radio e i servizi elettrici degli accampamenti.
NUOVE FRONTIERE
Sono tanti i progetti e i prototipi creati dagli scienziati, capaci di
produrre energia da fonti pulite, alcuni dei quali curiosi ma che
non passerebbero mai l’esame del mercato in quanto incapaci di
raggiungere un livello di costo/beneficio accettabile. Altri però oltre
che curiosi, sono anche, in prospettiva, molto interessanti. È il caso
della foglia artificiale; un’evoluzione molto meno costosta di un
prototipo ideato una decina di anni fa.
Si tratta in pratica di una cella solare, sviluppata al Mit
(Massachussetts Institute of Technology) di Boston, che, immersa
in una bacinella piena d’acqua ed esposta ai raggi del sole, sfrutta
lo stesso principio della fotosintesi, ma con una potenza di 10 volte
superiore, e produce energia sufficiente per scaldare una casa di
un Paese in via di sviluppo. Nei test dimostrativi si è visto come
la foglia artificiale sia in grado di produrre energia per 48 ore
consecutive senza cali di tensione. Il bello è che la foglia artificiale
è già pronta per essere prodotta in larga scala. La conglomerata
indiana Tata ha fiutato l’affare e si è buttata a pesce nel progetto,
sottoscrivendo con i ricercatori del Mit un accordo per la costruzione
di una piccola centrale elettrica. Tra un anno e mezzo, il tempo per
la sua realizzazione, si potrà sciogliere il dubbio: saranno le foreste
artificiali a salvare il pianeta?
Alberto Marini è giornalista economico-finanziario
© Dominick Reuter
© KiteGen
L’EOLICO PRENDE IL VOLO
Dopo anni di ricerca, il progetto italiano KiteGen è pronto a sfidare
la prova più dura: quella del mercato. L’idea di fondo è quella di
sfruttare la forza del vento dove è più forte e costante: in alta quota.
Il “kite” è un’aquilone, un’ala che vola fino a un migliaio di metri
d’altezza legata a un cavo che, grazie ai continui strappi prodotti dal
vento, produce energia attraverso una turbina collegata alla base. Il
primo impianto verrà aperto entro l’estate in provincia di Cuneo e il
costo di produzione previsto è di circa 50/90 euro per megawatt/
ora. Più che accettabile per sperare in uno sviluppo. Una pala per
ogni giorno dell’anno. Saranno infatti 365 le turbine azionate dal
vento che comporranno il più grande parco eolico del pianeta. Ci
vorranno tre anni di lavoro ma per il Turkana, regione a nord del
Kenia dove vedrà la luce il progetto, sarà la svolta. Una svolta che
coinvolgerà tutta l’Africa, visto che l’energia prodotta dall’impianto
soddisferà il 20% del fabbisogno energetico di tutto il continente.
In più la sua realizzazione, finanziata con 775 milioni da donatori
privati e dalla Banca di sviuppo africana, darà lavoro a 2.800
persone. Manna dal cielo per una zona fortemente sottosviluppata.
La foglia artficiale creata al Mit, grande
più o meno come una carta da gioco, riproduce
il processo di fotosintesi clorofilliana delle piante
trasformando la luce del sole e l’acqua in energia
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acconto
la mia cena
delle beffe
al ristorante
dello spread
La crisi raccontata a mio figlio: ovvero l’Odissea
di uno scrittore che scopre i tagli alla spesa
tra portate di lusso, conti salati e chef terribili
«
Guarda che l’hanno frainteso.»
«Nonono non è vero!» si affretta a dirmi Simona.
«Ma come non è vero? Sono 17 anni che lo fraintendono
e proprio stavolta deve averla detta giusta?»
«Sìsì. Berlusconi ha detto che c’è la coda fuori dai ristoranti e noi
siamo gli unici stronzi che non ci andiamo mai! Ma non ti vergogni,
eh?»
Ecco è cominciata così, qualche mese fa. Capiamoci, non è che io
non porti mai la mia famiglia al ristorante. Figuriamoci. Mia madre
faceva la cuoca. Come posso non apprezzare l’arte culinaria?
Ricordo anzi l’entusiasmo da bambino, quando papà arrivava a
casa presto e annunciava trionfante: «Stasera mangiamo fuori!». Io
esultavo. Ma mia madre, che conosceva l’andazzo, apparecchiava
sul balcone. Quindi, questa cosa di mangiare al ristorante me la
di Edoardo Montolli
sono sempre portata dietro anch’io.
Però Simona, la mia compagna, per ristorante non intendeva mica
un ristorante qualsiasi, no.
Lei intendeva quelli che fanno vedere al TG. Non so se avete
presente. Nel TG non c’è un cuoco a pagarlo oro. Solo chef. E
un tizio, lì sopra, che inventa ogni giorno un piatto nuovo, facile
facile, su cui Simona prende rigorosamente appunti e che poi
deve assolutamente, necessariamente riprovare a fare. Cascasse il
mondo. Tipo: uova sbattute, salsa di parmigiano, una grattuggiata di
tartufo e, fondamentale, un po’ di polvere di amaranto degli altopiani
della Bolivia. Che dà quel tocco di esotico, no? Certo, io sono più
tradizionalista, più per le portate preparate da un modesto cuoco,
de gustibus. Ma per le preziose ricette che dà a Simona, per mesi
ho sognato di ringraziare personalmente questo signore che porta
gli chef nel TG. Di incontrarlo per strada e di stringergli la mano,
spiegandogli nel dettaglio come abbia reso molto più frizzante la
mia esistenza: «Ho girato tre centri commerciali, quattro alimentari
e pure due farmacie. Ora, gentilmente, o mi dici subito dove la trovo
questa cazzo di polvere di amaranto degli altopiani della Bolivia o ti
faccio una faccia così».
Purtroppo non c’è ancora stata occasione.
In compenso, nel pieno della crisi economica, mentre affogavo nei
debiti ed Equitalia mi aveva ormai proposto l’abbonamento, pur
di non sentirmi un verme, ho infine portato Simona e i bambini in
questi templi della nuova cucina, che io fatico a comprendere, dove
i cuochi sono scomparsi e dove regnano gli chef.
E tutto questo, faccio notare in famiglia sottolineando lo sforzo che
sto compiendo, mentre «lo spread sale alle stelle».
«Cos’è lo spread?» mi fa Manuel, mio figlio più grande che sta
iniziando la scuola.
Già, cos’è? Non lo so. Non lo sa nessuno. Pure wikipedia dice: “può
essere inteso come…può anche essere inteso come…”. Perché di
fatto non lo sanno bene manco loro. È un nome nuovo, impalbabile.
Non sappiamo cos’è, non ne avevamo mai sentito parlare prima.
Voglio dire, so benissimo che lo spread rappresenta la differenza
tra il prezzo più basso a cui un venditore è disposto a vendere un
titolo e il prezzo più alto che un compratore è disposto ad offrire
per quello stesso titolo. Ma non l’ho mica capito cos’è. Però ci sta
rovinando tutti quanti.
«Allora? Cos’è lo spread?» insiste Manuel.
«Te lo spiego domani al ristorante».
IL PRIMO
Il primo ristorante, chef pluridecorato, specialità pesce, ha le
posate d’argento. A dirla tutta, non c’è ‘sta gran coda annunciata
da Berlusconi (certamente frainteso): dieci persone. Ma a Simona
non importa.
Il menù non me lo danno. «Perché?»
«Faccio io, non-si-preoccupi» dice il cameriere, uno solo per tutti.
Che poi è il proprietario. Vola da un tavolo all’altro, illustrando
le meraviglie della sua Casa, i suoi stemmi, gli attestati. È uno
spilungone che parla tutto attaccato, come un telecronista
brasiliano: «Signori-allora-da-dove-vogliamo-cominciare. Pesce?
Vabeneilpesce? Abbiamo-dellottimo-branzino…» Parla per dieci
minuti. Si agita, mima i profumi, i sapori del branzino.
«Se no?» faccio io.
«Eh, no, tumidevi ascoltarebene prima didecidere di non prenderlo,
eh, dai, su…». E ci racconta la vita, le abitudini, le passioni del suo
branzino e sul perché e il percome noi dobbiamo assolutamente
mangiarci il suo dannato specialissimo branzino. Non so come
faccia, non riesco a interromperlo. Secondo me c’ha solo quello.
Ma alla fine decide tutto lui.
I piatti sono un po’ più grandi del normale. Però il branzino è uno
solo: uno diviso per quattro. Con tanti funghi sopra e infinito aglio.
Non ne ricordo il nome da cotto. Ma Manuel, che ha sei anni ma
non è scemo, mi guarda e mi fa: «Perché il pesce coi funghi?»
«Mi sa che non hai ancora visto niente».
Infatti, il resto lo vedo io appena lo chef-proprietario-cameriere
porta il conto. «Guarda che ho chiesto il “mio” conto, non quello di
tutto il ristorante».
«Simpatico. Carta o contanti?»
Duecento euro per due adulti, un infante e un bimbo di 4 anni.
Simona è sicura: «Ci hai portato nel posto sbagliato».
Sarà. Manuel non ha mangiato nulla.
In compenso, adesso è un esperto ittico. E gli è rimasta la fissa:
«Cos’è lo spread?»
«Te lo dico da grande».
SWITCH32
06 SWITCH33

strani menu
rIL SECONDO
Il secondo ristorante ha il citofono. «Perché il citofono?» dice
Manuel. Non lo so. Immagino che qualcuno, come in una casa
dove si aspettano ospiti, si dia una ripassata ai capelli, alla divisa,
e nasconda sotto al tappeto ciò che non vuole che si veda. Ma
sicuramente sbaglio.
Dentro, infatti, è tutto a posto. Comincio a guardarmi intorno, siamo
sempre quattro gatti, tutte famiglie. E ad un’attenta osservazione
si nota perfettamente che la donna sta chiedendo la ricetta al
cameriere come se ci fosse il pimpante tizio del TG che intervista
lo chef. E che l’uomo sta imprecando sulle parole (fraintese) di
Berlusconi e sulla rata di Equitalia che lascerà nel conto.
Stavolta, oltre alle posate d’argento, c’è la musica di sottofondo,
Chopin, e le poltrone imbottite al posto delle sedie. Al tavolo arriva
non una persona, ma due, magre magre.
Una per il cibo, l’altra per i vini. A Manuel piace far scorpacciate di
capesante?
«Certo che le abbiamo, com’è scritto sulla lista» precisa il cameriere
in guanti bianchi.
Ovviamente sulla lista non c’è scritto un bel nulla. Ci sono solo
lunghi nomi stranieri, sconosciuti, mai sentiti, non si capisce niente.
Ti senti abbastanza a disagio a rispondere. E ti affidi: «Capesante
per il bimbo».
Mezzora di attesa, gliene portano due. Due! Due capesante su un
piatto grandissimo vuoto con sopra un disegno. E il disegno è fatto
con salsa di mandarino.
«Era meglio il pesce coi funghi», sussurra Manuel.
Duecentocinquanta euro di conto. Simona chiosa: «Lo fai apposta».
Pure. Manuel non ha mangiato nulla. Adesso, oltre a conoscere
tutta la storia del branzino, odia Chopin. E se la piglia con me:
«Cos’è lo spread?»
«Meglio che tu non lo sappia».
IL TERZO
Comincio a capire come funziona in questi posti. I piatti non sono
mai abbondanti perché tanto oggi sono tutti a dieta. Pure chi
li prepara e li serve. Però te li colorano. E tu non paghi più per
mangiare, ma per i colori, la lezione che ti fanno e sa dio che altro.
Paghi tutto, la recita, il servizio, le posate. Il cibo è una roba in più,
un accessorio. Quasi un fastidio. Tanto che te ne vai con una fame
della madonna. Ma, fa notare Simona, non è che si può fare un
bilancio su due ristoranti.
Già. Due sono ancora pochi per rovinarsi.
Il terzo ristorante ha così il citofono, le posate d’argento, le poltrone
imbottite, la musica.
Al tavolo arrivano in tre: uno per primi e secondi, uno per i vini, uno
solo per i dolci.
Intorno a me solo donne che prendono appunti sulle ricette,
bambini infuriati e mariti disperati che giocano a freccette con la
faccia dell’ex premier.
Manuel può scegliere tra risotto all’aceto balsamico, spiedini di
prugne e prosciutto. E comincia a diventare seriamente nervoso:
«Quella roba te la mangi te. Non c’hai le patatine?»
No. L’alternativa, spiega il cameriere in livrea, è un tempura di
gamberi e verdure in pastella leggera.
E lui, che sta imparando a non fidarsi, fa gli occhi piccoli piccoli:
«Cioè?»
«È una pastella di farina cotta in maniera particolare» ammicca il
cameriere.
Manuel mi guarda confuso e gliela faccio breve: «Fritto misto. Solo
che costa di più».
Allora il cameriere, un po’ imbarazzato, annuisce: «Sì, più o meno
fritto misto».
Ha ragione lui, più o meno. Anzi, meno: tre gamberi, quattro verdure
e una salsa di soia.
Il tutto servito su un grosso piatto adagiato sopra ad un altro piatto
ancora più grosso. Intorno, rametti e disegni realizzati con salse.
Per il dolce si scopre che il terzo cameriere altri non è che
l’ennesimo chef, un ungherese appositamente scelto e venuto
in Italia unicamente per preparare dessert. E “scomodatosi” dalle
cucine, ci fanno cortesemente notare, solo per illustrarci la pietanza.
«Vedi che culo», dice Simona, non sapendo che gli dovremo pagare
anche quello. E’ il più magro di tutti. Sciorina la solita manfrina di
nomi stranieri lunghissimi, una storia della lavorazione del cioccolato
e l’importanza della freschezza del cibo.
Poi, tre quarti d’ora di attesa, e ci porta un budino. Coi suoi bei
disegni, i suoi rametti, va bene. Cacao biologico, crema lavorata va
bene. Ci avranno lavorato mesi per studiare gli ornamenti, i rametti,
i disegni va bene.
Ma è comunque uno semplice, unico, molle, striminzito budino. Solo
che costa un’iradiddio.
Manuel è nero: «E questi rametti, almeno, li mangio?»
Il cameriere scuote la testa spazientito: «Ma no, ma dai, ma è la
decorazione!»
Già, perché lo scemo è il bambino.
Il conto sale a trecento euro (il cardiologo che ha salvato la pelle
a mio padre, 280 la visita), per mezzo chilo di roba divisa in primo,
secondo e dolce per quattro persone. Manuel, naturalmente, non
ha mangiato nulla. In compenso si è dato alcune risposte di alta
sociologia applicata: «Oh, più i piatti sono grossi, meno cibo c’è
sopra».
«Già»
«Cos’è lo spread?»
«Ma che cazzo ne so».
IL QUARTO
Simona tentenna ma non cede. Il massacro economico si sta
compiendo. E allora, suicidiamoci. Il quarto ristorante è il massimo
del mercato: citofono, poltrona, musica, posate d’argento. E i
camerieri nemmeno si contano più. Sono ovunque, grossi come
bodyguard in divisa, petto in fuori, sguardo serio, mani dietro al culo,
nemmeno dovessero custodire una cassa di uranio impoverito.
Chissà, magari è nel menù.
Versano l’acqua, mettono il pane.
Simona beve. E uno, che sta alle sue spalle, versa nuovamente. Poi
rientra nei ranghi, stile robot. E aspetta, come un condor, che la
preda beva ancora.
Manuel prende un panino, e una mano che sbuca dalle retrovie gli
riempie subito la cesta. Allora, scende dalla sedia e mi si avvicina
all’orecchio: «Oh, papà, fai finta di niente, ma ci sono quattro tizi
fermi dietro di noi. Hanno paura che rubo la forchetta?»
«No, - lo rassicuro – hanno paura che scappiamo quando ci portano
il conto».
Manco a farlo apposta arriva un quinto cameriere, per le ordinazioni.
E lui ha anche il compito di osannarci lo chef. Anzi, guai a chiamarlo
così, perché si offende. «Il Maestro consiglierebbe…».
E io, alla parola “Maestro” inizio a sudare. Lo immagino avvolto
nei fumi di arrosto di banana al sugo, sospeso nell’aria a dividersi
mazzette della mia grana. E a inventare ricette che quel dannato
signore del TG prima o poi mi rifilerà in televisione, costringendomi
a girare per settimane intere nei centri commerciali di mezza Italia
alla ricerca di forfora di scorpione della Nuova Caledonia o di erbe
magiche di Asterix il Gallico.
Perché intanto passa un’ora piena. Un’ora a mangiare pane e
grissini coi quattro energumeni alle spalle. Che non è una roba
facile. Ma pure per loro, credo. È ormai pacifico che si tratta
dell’ennesima arma di distrazione di massa dalla portata che sta per
arrivare. Un’altra portata dal nome nuovo, sconosciuto, dal sapore
bizzarro, ignoto, incomprensibile.
Intorno vedo donne che picchiettano le dita sul tavolo e uomini
ossuti, provati fisicamente dall’attesa del cibo e dall’ansia
dell’addition, avvolta in pelle nera. Devono aver fatto il mio stesso
lungo, debitorio giro, avuto i miei stessi incubi al tg e subito la
stessa (fraintesissima) frase di Berlusconi sulle code al ristorante.
Poi arrivano finalmente i piatti, i più grandi di tutti. Sopra, ci sono
70 grammi di pasta ammucchiata. Fredda. Con dentro qualcosa
simile a fragole. «Troppo sforzo, Maestro», sfugge a Simona che
odia darmi ragione.
Intorno ramoscelli, disegni, bacche e bucce scolpite. Tutte, va da sé,
come sempre, assolutamente immangiabili.
Ma Manuel stavolta taglia corto: «Andiamo a farci una pizza».
Lo bacio. E lui ne approfitta: «Cos’è lo spread?»
Ed è stato allora che ho realizzato.
E senza entrare troppo in discorsi filosofici ed economici, ho deciso
di spiegarglielo, con un esempio da non rivelare mai a nessuno.
Perché in una società che fa dell’estetica la propria ragione di
esistenza, passerebbe sicuramente da ignorante: «Se tu non sai
più cosa stai mangiando e come si chiama ciò che stai mangiando,
se non ne riconosci più nemmeno il nome e il sapore, ciò che ha un
valore di dieci può diventare di valore ipotetico mille. La differenza
tra i due valori si chiama spread».
«Cioè?»
«Fregatura. E infatti non abbiamo più un euro».
Ora, so bene che molti opineranno che questa mia teoria sullo
spread e i ristoranti è basata unicamente sull’esperienza dei miei
personalissimi pranzi. Ma siccome anche il figlio è mio, gli racconto
quello che mi pare. Anzi, me lo porto pure dove mi pare. Il mese
scorso, esasperati dalla crisi, siamo infatti emigrati in Sud America.
Li ho portati sugli altopiani della Bolivia. Carico di entusiasmo sono
entrato in un ristorante e finalmente, dopo mesi di disgrazie, ho
ordinato soddisfatto il piatto che mi ha devastato la vita: «Dicono
che facciate le uova con la polvere di amaranto che sono la fine del
mondo! Me ne porti sei!»
Il cameriere mi ha guarda. Sorride. Poi mi fa: «Cosa cazzo è la
polvere di amaranto?»
Edoardo Montolli è romanziere e direttore della colonna
Yahoopolis di Alberti Editori - illustrazioni di Blozz
SWITCH34

ppersonaggi
Donne sull’orlo
di una crisi
di nervi (e di risate)
“La gente sa che i problemi ci sono,
ora vuole la soluzione...”.
Teresa Mannino fa la sua personale
spending review della comicità tra libri,
figli, flirt assurdi e nuovi show a La7
di Alessandra Menzani
Teresa Mannino è positiva, solare. Vede il bicchiere
mezzo pieno, sempre. È in un momento felice
della carriera. I primi di settembre, dopo un lungo
corteggiamento, sbarca a La7 con un programma
tutto suo in prima serata. “Se stasera sono qui” è il titolo.
Siciliana, 41 anni, mamma di una bambina, Giuditta, e
compagna di Andrea, musicista, entra così nella squadra di
comiche di Serie A: Luciana Littizzetto, Paola Cortellesi, Geppi
Cucciari. I talenti femminili della comicità sono esemplari rari.
Quando ne nasce uno è un evento. Teresa merita un posto
d’onore. Si è laureata in filosofia, ha studiato teatro, ha fatto
una lunga gavetta ed è stata premiata: il grande pubblico l’ha
conosciuta meglio come conduttrice di Zelig Off e grazie allo spot
dei telefonini in cui flirta (con poco successo) con il sex symbol
Raoul Bova. E’ umile, spontanea, i monologhi dei suoi spettacoli
sono quasi sempre ispirati alla sua vita vera, al suo rapporto con
gli uomini, al suo aspetto fisico sicuramente non perfetto, ma
autentico. E ci fa la sua spending review della comicità, come
superare i tempi difficili con una risata. A una comica come lei
facciamo la domanda da un milione di dollari.
SWITCH36 SWITCH37

p
A tu per tu
Qual è la ricetta per superare la crisi?
Non mi metto a dare consigli economici. Posso parlare a livello
“micro”. Quando sono in crisi vado a comprare un libro. Se sono
in crisi emotiva investo su me stessa. Se ho difficoltà sul lavoro
mi fermo e ricomincio a studiare. A livello “macro” quindi direi che
la ricetta è investire sulla cultura.
La prima serata le mette paura?
Non direi. Non sono una di quelle che alle 10.05 del mattino corre
a guardare i dati d’ascolto. La7 ha l’intelligenza di aspettare che
un programma cresca: lo hanno fatto con Serena Dandini, Geppi
Cucciari e Sabina Guzzanti: non ha fatto ascolti eccezionali, ma
lei è eccezionale.
TERESA MANNINO
Laureata in filosofia, diploma alla scuola europea di
recitazione del Teatro Carcano di Milano. Dopo vari corsi
e stage, comincia a lavorare in radio, conducendo una
puntata della trasmissione “Due di notte” su Radio 2, e nel
locale milanese Zelig e successivamente al programma
notturno Zelig Off, poi in prima serata con Zelig Circus
dalla stagione 2007-2008. Nel 2012 è candidata
all’Oscar della Tv quale personaggio rivelazione, insieme
a Marco Liorni e Rocco Papaleo, che si aggiudicherà il
riconoscimento. Da settembre 2012 entra nella squadra
di La7 con un programma tutto suo, “Se stasera sono qui”.
Le donne, se sono depresse, di solito fanno shopping.
Se esco e vado a comprare un vestito, o qualcosa di cui effettivamente
non ho bisogno, poi mi metto a piangere. Il contrario delle altre
donne, è vero. Mi sento impoverita, mi sembra che quell’oggetto sia
già immondizia. Per i libri è diverso, ne compro uno, due, dipende.
Un libro che l’ha colpita?
Ultimamente quello di Wynton Marsalis, “Come il jazz può cambiarti
la vita”. Non sono un’esperta del genere, ma è un testo bellissimo
anche per chi non ne è amante. Insegna una cosa importante,
ossia come fare venire fuori la propria personalità individuale pur
rispettando gli altri. È una lezione di vita. Dovrebbe essere così anche
nella comunicazione: se parli con qualcuno, lo devi anche ascoltare.
Nel suo programma su La7 parlerà di crisi?
Ho notato, nei miei spettacoli dal vivo o in tv, che alla parola “crisi”
scatta tra il pubblico una specie di “uffa”. Sbuffano. Ormai tutti
sanno che c’è, ora vogliono sapere come si può superare. Nel
programma non parleremo di crisi. Il mood della trasmissione
è quello di fare vedere cose belle e dare stimoli. Per esempio
raccontare un’azienda che ha avuto un’idea particolare e che sta
crescendo, uno scienziato italiano che ha avuto successo. Storie
così. Ho letto una bella frase, non ricordo dove: “Il bicchiere è
mezzo pieno o mezzo vuoto? Risposta: è mezzo pieno di acqua e
mezzo pieno di aria”. Mi è piaciuta, è positiva.
Come fa ad essere così ottimista, Teresa?
Ho scoperto che gli ottimisti hanno più facilità a ricordare le cose
belle delle cose brutte, che pure accadono. Hanno una memoria
selettiva. La mia terra, la Sicilia, non so se ha influito. I siciliani
sono abbastanza pessimisti. Ma devo dire che il sole influisce. I
27 anni di sole che ho preso in Sicilia me li sono portati anche a
Milano, dove mi sono trasferita con qualche difficoltà.
Ci parli ancora del programma di La7.
Quasi quasi ci ripenso. Voglio dire: è bellissimo, ma mettere in piedi
una trasmissione tutta tua è pesante, totalizzante. Se facessi solo
quello…Sono sull’orlo di una crisi, tante decisioni, tante riunioni,
è come costruire un palazzo. I mobili, il trasloco, la tappezzeria….
Cosa vedremo?
Più che un talk show uno show talk. Sarà il luogo in cui metto
ciò che mi piace, come in un cassetto delle gioie. Ci può essere
la sociologa che ci dà la formula del matrimonio perfetto o il
professore universitario che spiega come è cambiata la vita delle
donne. I VIP faranno cose insolite. Renzo Arbore verrà a parlare
di jazz. L’ho molto corteggiato.
La7 com’è?
Non so esattamente. Come a Mediaset, sono esterna: là la mia
famiglia erano Gino, Michele e Giancarlo Bozzo, i papà di Zelig.
Qui sono seguita, sono molto attenti. Ho tantissimi autori, non li
ho nemmeno contati.
Lei è stata tanti anni nella squadra di Zelig. Dopo l’addio
di Claudio Bisio e Paola Cortellesi ha mai pensato alla
conduzione della trasmissione?
Gino e Michele sono dei geni, hanno grande intuito, se non me
l’hanno proposto è giusto così. Troveranno sicuramente la persona
adatta, e se non la dovessero trovare, mi candido! È comunque
bello essere stata promossa e cercata da una TV diversa. La
promozione a Zelig sarebbe come un posto nell’azienda di papà.
Conosce qualcuno nella sua nuova casa televisiva?
Sono stata una volta ospite di Daria Bignardi. Ma conosco bene
solo Geppi (Cucciari, ndr), siamo cresciute insieme, tante Sagre
della Salamella e notti insonni in macchina, io e lei, da una serata
all’altra. Nutro molto affetto per Geppi, anche se ultimamente per
gli impegni ci siamo perse di vista.
Si sbilanci: chi è il più sexy di La7?
Le prime volte che Gad Lerner andava in tv, mi pare fosse la
trasmissione Pinocchio, litigavo con il mio compagno di allora
perché…ero pazza di Lerner. Il mio ex non capiva i miei gusti.
Forse è quel nasone simile al mio: lo trovo affascinante. Stimo
molto Enrico Mentana e Michele Santoro, che seguo sempre, ma
a cena uscirei con Gad! Il mio attuale compagno, il padre di mia
figlia, effettivamente gli somiglia.
Dopo la ricetta anti-crisi ha anche una ricetta per
conquistare un uomo?
Sono un po’ fuori allenamento. Da tre anni, da quando sono
impegnata, non conquisto, ma la mia tecnica è: maltrattarli
ma farli sentire al centro dell’attenzione. Le due cose sono
complementari. Poi nel mio caso è stato il destino.
Come fa, Teresa, a fare tutto: la mamma, l’attrice, la tv?
Il mio compagno fa il batterista, ha orari strani. E’ perfetto per
me perché ci alterniamo nella cura di Giuditta. Io scrivo di notte
mentre lui dorme, me la godo di giorno.
Al cinema pensa mai?
Prima lo mettevo al terzo posto, dopo il teatro e la tv, ma vorrei
che in futuro avesse un posto più importante nella mia carriera.
Qual è la domanda che le fanno più spesso?
Quanto è bono Raoul Bova?
Un classico.
Comunque, è bono bono.
Qual è il segreto del suo successo, Teresa?
Il mio talento, forse l’unico, è quello di essere esageratamente
diretta. Mostro i miei difetti. Non ho tette ma non le imbottisco, ho
l’accento siciliano, faccio errori di grammatica. Essere veri oggi è
un valore perché la nel mondo della comunicazione i personaggi
vengono visti come qualcosa di fittizio, filtrato.
SWITCH39

d
Reportage
design
30
© Romses Architects_ Scott Romses
LA FELICITà ?
è UN BOSCO
DI CENTO PIANI
Il progetto ideato da Romses
Architects, una torre con un impianto
agricolo integrato che sorgerà nel 2030
A New Dehli raccoglie l’acqua per
la stagione delle piogge; a Londra
accoglie i campus universitari; a Milano
si avvita su giardini verticali: ecco
le nuove frontiere dell’eco-grattacielo
di Albina Perri
L’erba cresce tra le nuvole, i mulini a vento girano sui tetti,
le finestre mangiano il sole, i muri respirano e perfino le
mucche pascolano in cielo. Le città si trasformano e le
colate di cemento che una volta soffocavano i loro abitanti,
diventano sostenibili. Non è il sogno di un architetto bizzarro: è già
realtà. L’espressione “grattacielo ecologico” non è più un ossimoro.
I Paesi del mondo stanno iniziando a capire l’antifona: le risorse
del pianeta non sono infinite, meglio provare a sfruttare energie
e materiali alternativi. Fa bene alla terra, ma pure ai portafogli.
Attualmente, il mondo ha un’impronta ecologica superiore a 1,5.
Significa che l’umanità consuma un quantitativo di risorse superiore
di una volta e mezzo a quello che la Terra può offrire nel lungo
termine. Un americano consuma risorse come 13 afghani, e la
SWITCH40
SWITCH41

dSvizzera ha un’impronta più che doppia rispetto alla Cina. E per
vivere, vogliamo vivere tutti nelle metropoli, che per sfruttare gli
spazi si alzano invece che allargarsi, inventare edifici ecocompatibili
è ormai d’obbligo per risparmiare risorse, aumentare l’efficienza,
mettere in comune i consumi e risparmiare soldi. “Città più dense,
con meno sviluppo suburbano, meno strade e più trasporti pubblici
su rotaia, sono l’unica soluzione per reggere l’impatto del rapido
inurbamento della popolazione”, sostiene Ken Shuttleworth, che
insieme al famoso Norman Foster ha realizzato il Gherkin (settimo
edificio più alto di Londra), la nuova City Hall, il Millennium Bridge
e ora, con il suo studio Make Architects, sta costruendo un pezzo
importante della City, il palazzo al numero 5 di Broadgate. Lo skyline
di Londra, con la Shard di Renzo Piano costruita per le Olimpiadi,
si sta orientando in questa direzione, in opposizione a Parigi e a
Berlino, che invece continuano ad allargarsi in orizzontale. “Con
un’esposizione al sole corretta, l’aiuto della ventilazione naturale,
l’utilizzo di facciate fotovoltaiche e del solare termico, il riciclo del
calore per scaldare l’acqua e una copertura vegetale sul tetto per
migliorare le caratteristiche bioclimatiche dell’edificio, si riesce
a ridurre al minimo i consumi energetici”, spiega Shuttleworth.
Su questo fronte, le tecniche costruttive sono in rapidissima
evoluzione. “Se dovessi progettare oggi il Gherkin, ad esempio,
diversificherei i materiali delle facciate a seconda dell’orientamento,
per arrivare a uno sfruttamento ottimale dell’esposizione al sole”,
confessa. Per spingere gli archietetti a impegnarsi in questa
direzione è nato perfino un apposito concorso, la Skyscraper
Competition. Qui sono stati presentati, ed esempio, il Vertical
Ground, un campus universitario intero collocato in un grattacielo;
la discarica verticale Monument to Civilization, da realizzare a
Nuova Deli; la torre dell’Himalaya, che raccoglierà l’acqua nella
stagione delle piogge, per purificarla, congelarla e conservarla
per un uso futuro. I grattacieli stanno anche cambiando nome:
oggi si chiamano “vertical village”, “vertical farm”, “vegetal tower”,
“vertical forest”. Bjarke Ingels, architetto visionario, ha costruito una
“montagna” nella pianeggiante Copenhagen; Norman Foster ha
progettato per Mosca un vulcano, una gigantesca spirale costellata
da terrazze-giardino che serviranno a evitare le dispersioni termiche
dell’edificio nel gelido clima russo. A Milano, città molto lontana
dalle metropoli ipermoderne che punteggiano il pianeta, sta
nascendo il Bosco Verticale dell’architetto Stefano Boeri. Due
torri-foresta, piene di alberi che verranno periodicamente potati e
curati da giardinieri-acrobati. I due edifici ospiteranno infatti 120
piante di grandi dimensioni, 544 di taglia media e oltre 4 mila
piccoli arbusti. La scelta delle specie ha privilegiato sempreverdi,
sfoglianti e rampicanti fra cui lecci, roverelle, corbezzoli, gelsomini,
ed essenze aromatiche, considerati idonei per le ottime capacità
di adattamento alle condizioni atmosferiche delle diverse quote e
adatte ai residenti perché non allergenici. In fase di progettazione
si è tenuto conto di diversi parametri: sono state fatte analisi di
micrometeorologia, prove di aerodinamica ambientale per testare
la resistenza degli alberi alle correnti d’aria alle diverse altimetrie
e si sono cercate soluzioni per affrontare i casi più particolari
come rotture accidentali, ribaltamenti, raffiche di vento. Il sistema
di innaffiamento centralizzato sfrutterà l’acqua di falda, già
utilizzata per il riscaldamento. Le fonti rinnovabili prevedono pale
eoliche installate sulla copertura di ciascuna torre, 500 metri
quadri di pannelli fotovoltaici che rivestiranno parte dei parapetti
e le coperture e infine l’uso di energia geotermica per gli impianti
di riscaldamento e condizionamento estivo. Il progetto ricorda la
Torre Vegetale di Edouard François, che sta per essere inaugurata
SWITCH42
architettura green
a Nantes, in Francia. Un complesso commerciale e residenziale
destinato ad accogliere 85 abitazioni private, dislocate su 17 piani
per 60 metri. François è famoso per aver progettato e costruito
altri edifici che incorporano alberi e piante, come la Tower Flower e
l’eden Bio, edifici per alloggi sociali e parcheggi, costruiti a Parigi nel
2004 e nel 2008. Le specie vegetali sono state fornite dai giardini
botanici di Nantes, che hanno contribuito alla selezione di quelle
più adatte, testando la loro resistenza a condizioni di vita estreme
dovute alla scarsità di terreno, acqua e alle alte temperature.
Da grattacieli con le piante, a grattacieli a forma di pianta. Surreali le
torri The Mangrove di Jakarta, in Indonesia, che sorgeranno proprio
nella foresta di mangrovie della medesima città prendendone pure
camaleonticamente l’aspetto. La struttura, formata da due torri
asimmetriche collegate da un corridoio, potranno ruotare attorno
a se stesse non solo per avere la miglior vista a seconda del
momento della giornata, ma anche in base all’esposizione solare, in
modo da catturare la luce e ridurre il consumo di energia elettrica.
La particolare struttura esterna avrà la funzione di frangisole per
gli spazi interni, prevalentemente destinati a uffici, mentre il piano
terra sarà utilizzato per parcheggi e punti di ristoro. Sul tetto verde,
da una grande terrazza con spazi dedicati alla ristorazione, si potrà
ammirare tutto il panorama: un ponte dinamico fino al livello podio,
riservato solo a ciclisti e pedoni, consentirà di avere una vista fino
al mare. La Taiwan Tower, invece, si ispira all’albero di Banyan
taiwanese, e regge un tetto giardino sospeso a 300 metri da terra. Il
progetto dello studio di architettura Sou Fujimoto è il modello per la
Stazione geotermica in Islanda
© Laurence Gough / shutterstock
© Riccardo Brega
Skyline di Londra,
dove spicca il Gherkin,
il settimo edificio
più alto della città
Rendering del progetto dello Studio
Sou Fujimoto, vincitore del premio Taiwan Tower
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© Edward Simpson
© Sou Fujimoto

d
architettura green
La Hearst Tower è oggi
il primo grattacielo verde
di New York, con consumi
energetici inferiori del 25%
rispetto a quelli standard
Green Architecture della nuova generazione. Un’oasi galleggiante
nel cielo della città che fluttua su una foresta di pilastri pensata per
rappresentare tutti i fenomeni naturali. Il tutto grazie ad un gioco
di luci che, dicono, permetterà a ognuno di sentirsi in contatto con
lo spirito della vita. E nel futuro i grattacieli saranno anche luoghi
autosufficienti, dove produrre cibo, oltre che energia. Ecosistemi
artificiali loro stessi. A Vancouver, per esempio, nel grattacielo ci
sarà una fattoria. Il team di architetti canadesi Romses Architects, ha
progettato infatti Harvest Green Project, una torre con un impianto
agricolo integrato che sorgerà in città nel 2030. Turbine eoliche,
pannelli fotovoltaici e un sistema in grado di generare energia
dal metano proveniente dal compostaggio, faranno funzionare
questo innovativo edificio alle cui finestre saranno installati vetri
fotovoltaici. Sulle sue pareti cresceranno ortaggi e frutta, al suo
interno sarà possibile ottenere latte freschissimo direttamente da
capre e mucche. Un’enorme cisterna raccoglierà le acque piovane
che saranno poi disponibili per l’irrigazione nei periodi più secchi.
In ampi spazi educativi si insegnerà a grandi e piccini a occuparsi
di piante e animali. Come grandi esseri, i grattacieli vivranno di vita
propria. È già realtà la torre che respira. La stanno costruendo a
Seoul e sarà pronta nel 2015. La Dmc tower, già ribattezzata Light
Tower, la Torre della Luce, sarà infatti il primo grattacielo a vivere
con un polmone proprio. Tre aperture nella struttura “respireranno”
la luce naturale e l’aria pulita per metterla poi in circolo e diminuire
così drasticamente luce e riscaldamento artificiale.
Il grattacielo progettato dallo studio americano Studied Impact
a Dubai, invece, l’energia se la farà da sé. Gigantesca “batteria”,
sarà in grado di generare energia pulita per “vivere” ma anche per
alimentare il quartiere in cui sorge, l’Al quoz di Dubai. Nel nome il
suo programma: 10 MW Tower. Si tratta infatti di una Torre di 50
piani con una superficie di 130.000 metri quadrati in grado di
produrre 10 MW di energia, dieci volte più di quello che le serve. La
10 MW Tower disporrà anche di un tetto giardino che ospiterà una
grande pala eolica. Il pieno recupero di tutta l’energia consumata
per la sua costruzione avverrà in pochissimi anni. Sempre a
Dubai, città dove si sperimenta architettura d’avanguardia, verrà
costruito un albergo che sarà invece un maxi mulino a vento di
250 metri. Ogni piano ruoterà in maniera indipendente dagli altri
producendo energia elettrica. I piani si muoveranno al variare del
vento, facendo mutare continuamente l’aspetto dell’edificio. È il
progetto di David Fisher, Fabio Bettazzi e Marco Sala, architetti
fiorentini. Il risparmio energetico garantito da queste tecnologie
consentirà di ammortizzare i costi dell’opera in 55 anni. La filosofia
del “grattaverde” sta conquistando tutto il pianeta, perfino Paesi
che finora non avevano mostrato grande interesse al controllo
dell’inquinamento e degli sprechi energetici. L’idea di poter
risparmiare ha giocato un ruolo decisivo nella scelta di adeguarsi al
diffuso sentimento di affetto per il mondo e di attenzione alla sua
salute. Se fino a poco tempo fa la Repubblica Popolare Cinese non
sembrava toccata dai temi ambientali, per esempio, ultimamente ha
intuito il business delle energie rinnovabili, preoccupandosi anche
della qualità estetica e dell’integrazione architettonica dei nuovi
edifici. Nel bando del Concorso Internazionale per la realizzazione di
una Solar Tower da 1 Megawatt per la produzione di energia solare
termica nella Contea di Yanquing, indetto dall’Istituto di Ingegneria
Elettronica dell’Academia cinese delle Scienze, è espressamente
richiesto un progetto innovativo ed efficiente dal punto di vista
tecnologico, ma anche di elevata qualità estetico-formale.
Chi nasce ecologico, e chi si rifà il trucco. I “vecchi” grattacieli
americani stanno già vivendo la fase di restiling, una sorta di
seconda vita. Perfino l’Empire State Building, uno degli edifici più
importanti e rappresentativi di New York, si rinfresca dandosi un
tono eco. Il progetto, commissionato dai facoltosi proprietari che
hanno pensato a una riconversione globale dell’edificio, prevede
una riduzione del consumo energetico del 40%, quasi la metà.
L’investimento di 20 milioni di dollari verrà ammortizzato in poco
tempo, perché si risparmieranno circa 4 milioni di dollari l’anno.
Verranno cambiati i serramenti delle migliaia di finestre e arriveranno
quelle isolanti, con tripla camera d’aria, che eviteranno dispersioni
di calore e contribuiranno sensibilmente a far diminuire la bolletta
del riscaldamento invernale e il costo del condizionamento
estivo. All’interno verranno aggiornati gli impianti di illuminazione,
riscaldamento, condizionamento e il sistema di ventilazione. Le
bollette, poi, si pagheranno in base al consumo, così da incentivare
gli affittuari a risparmiare. I lavori sulle parti comuni sono già iniziati
e si concluderanno quest’anno; quelli all’nterno dovrebbero finire
nel 2013. Anche la Willis Tower di Chicago, chiamata fino al 2009
Sears Tower e realizzata nel 1973, si risistemerà per risparmiare
energia e soldi. L’intervento riguarda il rifacimento della pelle
esterna vetrata che da materiale energivoro diventa produttore
di energia. Tutto è iniziato quando la ex Sears Tower, 443 metri
che svettano nell’affollato cielo di Chicago, è stata acquistata dalla
compagnia assicurativa britannica Willis Group Holdings. Dopo aver
ribattezzato l’edificio, i nuovi proprietari hanno deciso di rinnovarne il
look puntando sull’eco-compatibilità con balconi panoramici in vetro,
roof garden ma soprattutto un’innovativa copertura fotovoltaica
che permetterà di ridurre considerevolmente il consumo di energia
elettrica. Deutsche Bank ha annunciato invece il completamento e
la messa in funzione di un impianto fotovoltaico da 122,4 kWp per
la sede di New York, che si trova a 60 Wall Street, nel cuore della
città degli affari e della finanza. Il sistema fotovoltaico, sulla cima
dell’edificio, è il più grande impianto a energia solare a Manhattan
e tra i più alti sistemi solari su tetto del mondo.
Anche la Hearst Tower di Foster & Partners, con i suoi 180 metri di
acciaio e vetro, è diventata eco. Svetta sopra un edificio Art Deco
realizzato nel 1928 a New York dal magnate William Randolph
Hearst, che aveva in mente di renderlo sempre più alto man mano
che il suo impero fosse cresciuto. L’idea si è trasformata in realtà:
la Hearst Tower è oggi il primo grattacielo verde di New York, con
consumi energetici inferiori del 25% rispetto a quelli standard. I
vetri, che ricoprono tutto il grattacielo sono basso emissivi e filtrano
i raggi esterni del sole lasciando passare solo la luce naturale ma
non il calore, evitando così un eccessivo ricorso alla climatizzazione
durante i periodi estivi. I sensori installati negli ambienti regolano
la quantità di luce artificiale emessa dagli apparecchi luminosi
in funzione di quella naturale che entra dai vetri. Rilevatori di
movimento spengono automaticamente luci e monitor nel caso in
cui non ci sia nessuno. Infine, un sistema di raccolta delle acque
piovane in appositi serbatoi consente di annaffiare le piante e
regolare il tasso di umidità nell’aria. Nell’atrio, poi, una cascata
di acqua riciclata di 8 metri umidifica l’ambiente in inverno e lo
raffresca in estate. In Italia, sempre a Milano, si stanno risanando
due torri dell’area del Centro Direzionale Garibaldi. Opera di Lazzari
e Perrotta, grazie al progetto di Progetto CMR, Massimo Roj
Architects, diventeranno ecosostenibili grazie a cellule a ventilazione
interattiva, una soluzione tecnologica che sfrutta l’energia solare
per riscaldare gli ambienti in inverno e, attraverso la ventilazione,
evita eccessivi accumuli di calore in estate; serre bioclimatiche;
una vasca di raccolta dell’acqua piovana; collettori solari capaci
di produrre il 50% dell’acqua calda necessaria nei servizi igienici.
L’edificio sfrutta inoltre la geotermia, un impianto di climatizzazione
invernale ed estiva, che utilizza il calore del sottosuolo per produrre
energia. Sulla facciata sud verrà installato un impianto fotovoltaico
e si impiegheranno turbine eoliche in copertura.
Nuovi o vecchi che siano, insomma, i grattacieli cambiano pelle.
Non saranno più sinonimo di cemento che soffoca, ma opportunità
di risparmio o di produzione energetica. Giganti buoni, col cuore
verde, dove vivere senza sensi di colpa. Guardando al cielo, ma con
un occhio alla Terra.
Albina Perri è giornalista e scrittrice
Il Centro Direzionale
Garibaldi sarà
completamente
rinnovato grazie
al Progetto CMR
© CMR
SWITCH45

pPiccole/medie IMPRESE
©Olly
“Mi chiamo
Italia impresa
e risolvo problemi”
È un’associazione che fa da ponte tra istituzioni e aziende.
La sua mission? Tutela del made in Italy, sostegno delle
buone idee e accesso al credito nella burrasca della crisi
Italia Impresa è un’associazione sindacale senza scopo di lucro, un
ponte tra le piccole imprese e gli organi istituzionali di riferimento.
Lo scenario economico attuale impone alle imprese di
esprimere al meglio le proprie potenzialità soprattutto in termini
di innovazione, per fare in modo, non solo di affrontare il presente,
ma soprattutto guardare al futuro con ottimismo. Ed è proprio in
un contesto socio-economico in continua evoluzione che Italia
Impresa risponde concretamente all’esigenza di condivisione di
informazioni e conoscenze che rappresentano il luogo di incontro
tra lavoro e mercato.
All’interno di una tradizione ormai consolidata, le imprese
associate, da sempre autonome ed efficienti, vengono coadiuvate
e sostenute nel confronto con il mercato globale, traendone un
vantaggio competitivo.
In un’economia caratterizzata prevalentemente dallo scambio
continuo di informazioni, diventano di fondamentale importanza
le competenze e conoscenze mutuate dalle professioni
prevalentemente intellettuali: per questo Italia Impresa offre agli
imprenditori servizi mirati, ad personam, che possano sostenere
l’attività nel suo insieme.
di Marco Di Troia
In quest’ottica l’Associazione fornisce supporto ai suoi consociati,
privilegiando le aziende che sappiano valorizzare il made in Italy e
fornendo servizi di tutela, assistenza, accesso al credito ed ogni
supporto che possa coadiuvare l’impresa nel raggiungere i suoi
obiettivi.
Per aiutare concretamente le sue consociate, Italia Impresa le
informa dettagliatamente e tempestivamente nelle materie di
loro interesse tramite i sistemi convenzionali (circolari, bollettini,
notiziari), tramite posta elettronica indirizzata ai vari Responsabili
Aziendali o attraverso il portale dell’Associazione.
La singola tematica affrontata trova poi sviluppo concreto nelle
consulenze specializzate fornite dai professionisti presenti in
Associazione e nei vari convegni e seminari organizzati presso la
propria sede.
Per dar vita a queste attività, Italia Impresa non potrebbe prescindere
dal sentimento che la permea: la passione, una caratteristica
innata che non si apprende né dai libri, né dalla vita, ma che può
essere l’unica molla per affrontare momenti difficili come quello
che le economie un tempo più sviluppate stanno attraversando e
che forse da un po’ di tempo avevano accantonato.
© Alistair Cotton
© Alistair Cotton
Edison e italia impresa
di Massimiliano Cajani
Lo scorso giugno è stato sottoscritto un accordo
quadro tra Edison e Italia impresa, associazione
di imprese che si propone di offrire assistenza e
rappresentanza alle Piccole e Medie Imprese e
agli esercenti operanti in vari settori dell’economia.
Grazie a questo accordo oltre 1500 partite iva
potranno usufruire di offerte a loro dedicate.
L’associazione, oltre a veicolare le nostre offerte alle
imprese consociate, è diventata essa stessa cliente
Edison.
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pposta
gli ESPERTi
RISPONDono
LORENZO
SESSA
Responsabile
Direzione marketing
Questa estate resterò in citta. Tra condizionatori e ventilatori
mi devo aspettare una bolletta caldissima a settembre?
Angelo Passalacqua, Milano
Gentile Sig. Passalaqua, eccole alcuni consigli per evitare che
la bolletta si impenni: aumentando di un grado la temperatura
impostata sul condizionatore si possono ridurre i consumi del
15 %. È buona norma poi utilizzare il condizionatore con porte
e finestre chiuse, impostando come temperatura ottimale non
meno di 25°C. Invece di sera, quando l’aria si rinfresca, è utile
aprire le finestre per far uscire il calore accumulato durante il
giorno. Qualche altro accorgimento per evitare sprechi di energia
può riguardare l’isolamento delle porte e finestre, verificando che
ci siano guarnizioni di gomma o silicone sugli infissi. È possibile,
infatti, eliminare le dispersioni di calore sostituendo i vecchi infissi
con finestre a doppio vetro, che consentono di evitare spifferi d’aria
e di risparmiare energia.
EMANUELA
GATTESCHI
Responsabile
Customer Care
Buongiorno vorrei chiedere un aumento della potenza
contrattuale: posso farlo direttamente da web?
Roberta Di Mello, Bari
Certo. È possibile effettuare questa operazione direttamente
nell’Area Clienti, nella sezione CONTRATTI. Dovrà semplicemente
selezionare il contratto per cui richiedere la modifica e indicare il
nuovo valore di potenza. Gli aumenti consentiti sono da 3 kW a
4,5 kW o 6 kW e da 4,5 kW a 6 kW. A conclusione dell’attività sarà
inviata una e-mail di conferma dell’avvenuta variazione.
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MILANO
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h
humour
di Blozz

ccitazione
“è nella crisi
che emerge
il meglio di ognuno,
perché senza crisi
tutti i venti
sono solo lievi brezze.”
Albert Einstein

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