piena di vita

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inquirenti, invece di romperci le scatole con i loro sospetti,
si dessero un po’ una mossa per rintracciare i veri
colpevoli. Devo in ogni caso onestamente ammettere che, in
effetti, si dettero molto da fare, tanto che riuscirono a
sorprendere uno dei malfattori in possesso di una grande
parte del bottino.
Fra i vari corpi che indagavano sul nostro caso, vi
era il gruppo della Guardia di Finanza di Monza. Erano
particolarmente indispettiti perché i banditi si erano serviti
di alcune loro uniformi, sottratte presso una lavanderia
tintoria locale. Si sentivano quindi, in qualche modo,
direttamente coinvolti e profusero il massimo impegno per
districare la matassa prima degli altri. Furono loro infatti a
piombare, 41 giorni dopo la rapina, in un appartamento di
ringhiera di Via Farini, dove sorpresero uno della
combriccola. Stava comodamente sdraiato su una branda,
sotto la quale, furono rinvenuti alcuni pacchetti
confezionati con tela di juta, contenenti grandi quantità di
preziosi. Ai fagotti erano state applicate etichette con
indicazioni riguardanti il contenuto e il valore attribuito.
L’impressione era quella che i plichi fossero pronti per
“prendere il volo” e l’intervento dei militari fu
provvidenziale per salvare una buona parte del maltolto.
Dopo l’arresto del delinquente, fu semplice rintracciare e
fermare tutti gli altri “soci”. La fase tragicomica arrivò
successivamente, quando, durante il processo che seguì,
quei “signori”, che erano indagati per un’innumerevole
serie d’imputazioni, riuscirono a cavarsela con condanne
ridicole. Le accuse andavano dalla rapina a mano armata
al sequestro di persona, dall’associazione per delinquere al
furto aggravato e continuato, e altri ancora. Non essendo