piena di vita

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essere la mente organizzativa, per intascare un cospicuo
risarcimento. Ci mostrarono quantità industriali di foto
segnaletiche, nella vana speranza che qualcuno di noi fosse
in grado di riconoscere i volti dei rapinatori. Dovemmo
fornire tutti gli elementi utili per permettere loro di creare
degli identikit. Ci misero sotto controllo le linee telefoniche
del negozio e, probabilmente, anche quelle private,
nell’evidente speranza che un eventuale complice si potesse
tradire. Fummo sottoposti a una serie infinita di domande e
a veri e propri interrogatorii da parte del giudice incaricato
delle indagini preliminari. Ricordo con un certo fastidio che
alle mie risposte, che erano quasi sempre precedute da un
“credo, suppongo, ritengo, penso”, la dottoressa che mi
poneva i quesiti, ebbe un gesto di stizza e mi apostrofò con
la frase: “Ma insomma, non è possibile che abbia tutti
questi dubbi! Lei era presente! Non può aver dimenticato”.
Le risposi che ricordavo perfettamente “un buco nero” (la
canna dell’arma) a pochi centimetri dalla mia fronte e che,
per quanto riguardava tutto il resto, avrebbe dovuto
accontentarsi dei miei “credo, suppongo, ritengo e penso”.
E poi aggiunsi che facesse il piacere di togliersi certi
sospetti dalla mente, che, se proprio avessi voluto, avrei
potuto realizzare il colpo da solo, in qualsiasi momento, e
senza dividere il bottino con eventuali complici, essendo io,
da anni, in possesso delle chiavi di scorta del negozio e
delle casseforti. E poi ancora, che nel momento in cui si
fossero resi conto che il negozio era stato svaligiato, io
avrei potuto essere già in un paese lontano, dove non vige
l’estradizione, a godermi, in tutta tranquillità, il frutto di
“cinque minuti di paura”. Mi viene da sorridere quando
penso che, durante certe telefonate, immaginando che
qualcuno ci stesse ascoltando, dicevo a mio padre che gli