La Traccia Del Male - Catania per te
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<strong>La</strong> <strong>Traccia</strong> <strong>Del</strong> <strong>Male</strong><br />
Era stata proprio una bella serata: Il direttore di”Villa Fantuzzo”, Zeno Manera aveva condotto gli<br />
ospiti della Villa alla Fenice di Venezia, ed era la prima volta che quei vecchietti, invece di essere<br />
intrat<strong>te</strong>nuti nella s<strong>te</strong>ssa dimora da concertisti, cantanti, cabarettisti e oratori di fama, venivano<br />
portati fuori, a <strong>te</strong>atro. Dove, <strong>per</strong>altro, molti di loro erano già stati frequentatori abituali, prima di<br />
rinchiudersi volontariamen<strong>te</strong> o essere “accompagnati” da familiari stanchi di doverli accudire.<br />
Danarosi ma pur sempre vecchi. Anche il giudice Carlo Casson aveva frequentato spesso la Fenice,<br />
da solo o con suo fra<strong>te</strong>llo Antonio e ritornarvi dopo molti anni dalla “tragedia”, come aveva sempre<br />
chiamato la mor<strong>te</strong> di suo fra<strong>te</strong>llo, lo aveva turbato. Dapprima aveva rifiutato poi, dietro le insis<strong>te</strong>nze<br />
del direttore, del dottore Furlan e della con<strong>te</strong>ssa Dionigi, aveva accettato. E non se ne era pentito. I<br />
cantanti erano stati al di sopra di ogni elogio e così pure l’orchestra diretta mirabilmen<strong>te</strong> dal M°<br />
Lotti.<br />
Dopo gli ultimi saluti con gli altri ospiti, il giudice si diresse verso la sua camera, entrò e, prima<br />
ancora di accendere la luce, un brivido di gelo gli lancinò la schiena. Lo riconobbe subito. Lo s<strong>te</strong>sso<br />
brivido che l’aveva colpito quando aveva incontrato “quegli” occhi. Gli occhi dell’assassina di suo<br />
fra<strong>te</strong>llo. Il suo volto era nascosto dal passamontagna nero ma la massa di capelli biondi veniva fuori<br />
e quei due occhi: freddi, beffardi, gelidi. <strong>La</strong> mano guantata impugnava ancora la P 38. Poi la donna<br />
in tuta nera, era risalita sulla moto dietro al guidatore ed era sparita. Ma quegli occhi, il magistrato<br />
non li avrebbe più dimenticato. E aveva risentito quel gelo, anni dopo entrando in un bar a prendere<br />
un caffè. Si era guardato attorno mentre il cuore gli scoppiava in petto. Ma non c’era nessuna donna<br />
né bionda n’ giovane. Solo qualche avventore e due signore anziane. E ora, di nuovo quel gelo. Si<br />
sentiva scorrere un sudore freddo giù dal collo lungo la schiena. Tese tremando la mano verso<br />
l’in<strong>te</strong>rruttore della luce che illuminò la camera. Nessuno. Non c’era nessuno. Tutto era al suo posto,<br />
il letto preparato <strong>per</strong> la not<strong>te</strong>, il suo pigiama s<strong>te</strong>so sul cuscino, le medicine <strong>per</strong> il suo cuore sul<br />
comodino, la caraffa con l’acqua e un bicchiere sul tavolino accanto alla poltrona. Eppure la<br />
sensazione di gelo l’aveva provata. “Lei” era entrata nella stanza. Era passata da là, lasciando la<br />
traccia del male, dell’odio di cui era impastata. Il giudice fece qualche passo a fatica, guardandosi<br />
at<strong>te</strong>ntamen<strong>te</strong> attorno. C’era proprio tutto e tutto al suo posto. No. Forse no. Ebbe la sensazione che<br />
la foto di suo fra<strong>te</strong>llo in cornice sul comò fosse spostata. O forse no. Forse era una sua fisima,<br />
un’ossessione che lo <strong>per</strong>seguitava da quel giorno maledetto. Ed era forse un’allucinazione credere<br />
che la <strong>te</strong>nda al suo ingresso ancora si muovesse.<br />
Trascorse una not<strong>te</strong> agitata sempre con l’immagine di quella foto spostata, sempre più convinto che<br />
qualcuno ( o qualcuna ) l’avesse toccata. E riviveva i momenti tragici dell’assassinio di suo fra<strong>te</strong>llo,<br />
colpevole soltanto di avere scritto articoli contro il dilagare del <strong>te</strong>rrorismo, rosso o nero. <strong>La</strong><br />
consapevolezza di essere lui s<strong>te</strong>sso, il giudice Casson la vittima designata. E l’assassinio di suo<br />
fra<strong>te</strong>llo fosse un errore, il bersaglio avrebbe dovuto essere lui. Lui che aveva già comminato anni di<br />
carcere <strong>per</strong> alcuni brigatisti. Lui che aveva ricevuto minacce tanto da andare in giro con la scorta.<br />
Ma quella sera…Si, impruden<strong>te</strong>men<strong>te</strong> aveva accettato di andare al concerto con suo fra<strong>te</strong>llo senza<br />
preavvisare la scorta.<br />
E ripassavano nella not<strong>te</strong> insonne le indagini, le ricerche spasmodiche di quella donna dagli occhi di<br />
ghiaccio e lunghi capelli biondi. Nulla. Il vuoto assoluto. Sembrava essere stata inghiottita<br />
dall’inferno da cui era stata vomitata. Per anni era stato ossessionato da quella ricerca non solo<br />
mosso dal dovere di smascherare un’assassina, ma <strong>per</strong> un intrinseco bisogno di giustizia, quella<br />
giustizia di cui si era sempre sentito un custode. Gli anni erano trascorsi ma il buio più fitto aveva<br />
sempre circondato quella donna; nessun pentito sapeva chi fosse, era chiamata solo “la compagna<br />
M” Soltanto Ludovico Armani, il capo riconosciuto di quella colonna ne conosceva l’identità ma<br />
non l’aveva mai rivelata. Era un “duro” lui e scontava una pena di ventiquattro anni.<br />
Solo verso l’alba il giudice riuscì a prendere sonno <strong>per</strong> poche ore.
Non sapeva se parlarne con i suoi compagni di pensione: il dottore Furlan e il professore Zanetti.<br />
Vedovi entrambi con figli lontani avevano deciso di vivere a “Villa Fantuzzo”, una set<strong>te</strong>cen<strong>te</strong>sca<br />
dimora cardinalizia in stile tardo-barocco, circondata da un giardino dove troneggiava un gigan<strong>te</strong>sco<br />
cedro del Libano. Dopo la seconda guerra mondiale, era stata riattata dapprima in albergo poi in una<br />
casa di riposo <strong>per</strong> anziani benestanti che venivano trattati come ospiti di riguardo. A tavola<br />
porcellane e cristallerie, tovaglie damasca<strong>te</strong>, cibi leggeri ma raffinati, vini d’annata. Da qualche<br />
mese era cambiato il direttore e, in sostituzione del mitico Andrea Mol<strong>te</strong>ni, colpito da ictus, che<br />
aveva diretto la Villa <strong>per</strong> più di vent’anni, era arrivato il piccolo, infaticabile Zeno Manera,<br />
preceduto da ottime referenze. Sembrava una trottola, bassino, rotondetto, dal cranio lucido come<br />
una palla da biliardo, ma gentile, premuroso, sempre pronto a soddisfare i desideri dei suoi<br />
“ragazzi” anche i più impensabili.<br />
Pur sen<strong>te</strong>ndo il bisogno di parlare con qualcuno della sua sensazione, il giudice decise di tacere.<br />
Cosa avrebbe potuto dire? Che la strega era riapparsa? Solo <strong>per</strong>ché aveva avuto un brivido di freddo<br />
entrando in camera sua? <strong>La</strong> foto spostata? Po<strong>te</strong>va essere stata la donna delle pulizie e lui essersene<br />
accorto solo la sera! Via! Le sue erano solo le antiche ossessioni che tornavano in un vecchio che<br />
ormai non aveva nulla da fare se non at<strong>te</strong>ndere la conclusione della sua vita. E gli pareva la cosa<br />
migliore, tacere. Continuare a vivere con i suoi compagni di età, oziare, chiacchierare sui fatti del<br />
giorno, crisi di governo, mani puli<strong>te</strong>, tintinnii di manet<strong>te</strong>, esibizioni di magistrati osannati da stampa<br />
e tv ( impensabili al suo <strong>te</strong>mpo, quando i magistrati venivano lasciati soli esposti a <strong>te</strong>rroristi e<br />
mafiosi.). Ci si appassionava a commentare, discettare su particolari fatti di cronaca fra un<br />
cognacchino o un amaro, un caffè o un the, una tirata di pipa o di sigaro. Anche quelli molto<br />
misurati, data l’età e i problemi di cuore o di fegato.<br />
Aveva dimenticato il giudice Casson. Era passato più di un mese da quella sera. Poi, di nuovo<br />
quella sensazione di gelo. Entrato nella sua camera, dopo pranzo, restò paralizzato sulla soglia.<br />
Questa volta non c’era solo la sensazione di gelo, c’era “quella cosa”. Sul tavolo, ben spiegata, una<br />
vecchia copia del “Gazzettino veneto”. Facendosi forza sulle gambe tremanti si avvicinò e lesse: “<br />
<strong>La</strong> P 38 colpisce ancora, assassinato Antonio Casson” Sottotitolo “ Il nostro collaboratore colpito a<br />
mor<strong>te</strong> da una donna fuggita in moto “. Ques<strong>te</strong> ultime parole erano sottolinea<strong>te</strong> in rosso e punta<strong>te</strong> da<br />
un grosso in<strong>te</strong>rrogativo. Il cuore sembrava scoppiargli in petto. Dunque non si era sbagliato.<br />
Quell’essere vomitato dall’inferno era tornato, lo sfidava, gli sbat<strong>te</strong>va in faccia il suo fallimento,<br />
sembrava ridere, canzonarlo “prendimi, se ci riesci, vecchio scimunito, sono più for<strong>te</strong> di <strong>te</strong>, sono<br />
imprendibile, vengo da <strong>te</strong>, quando voglio, sparisco come voglio e tu non mi puoi fare nien<strong>te</strong>”.<br />
Rilesse l’articolo che già conosceva, quan<strong>te</strong> vol<strong>te</strong> aveva letto e riletto tutti i giornali che avevano<br />
riportato la notizia. Almeno <strong>per</strong> qualche giorno, poi si era passato ad altri fatti. Non c’era settimana<br />
che non ci fosse un at<strong>te</strong>ntato a destra, un assassinio a sinistra, in quei drammatici anni ’70, quelli<br />
detti “di piombo”. Talvolta era un giornalista ad essere colpito dalla “giustizia popolare”, un’altra<br />
volta un magistrato, un sindacalista, un poliziotto, chiunque fosse ri<strong>te</strong>nuto “servo dei padroni”. Si<br />
sparava nel mucchio, a chi toccava toccava. E quella volta era toccato a suo fra<strong>te</strong>llo, uno dei tanti<br />
giornalisti vittime della furia e dell’odio ideologici.<br />
Quella striscia rossa era come una lingua di sangue ma il giudice non capiva il significato del punto<br />
in<strong>te</strong>rrogativo. Che oscuro messaggio nascondeva? Non riusciva a dare una risposta ma questa volta<br />
decise di parlarne ai suoi anici.<br />
L’incredulità fu la prima reazione dei suoi amici.<br />
- Ma è assurdo! Non è possibile – Esclamò Giorgio Furlan – Qui dentro non c’è nessuno che<br />
corrisponda ai dati di quella donna. <strong>La</strong> più giovane avrà almeno settan<strong>te</strong>nni e le donne delle<br />
pulizie sono molto giovani. <strong>La</strong> “sua” donna dovrebbe essere vicino ai cinquanta.
- Come si spiega quella sottolineatura? – In<strong>te</strong>rvenne il professore Bruno Zanetti. Il giudice<br />
alzò le spalle scuo<strong>te</strong>ndo il capo: - Non lo so. Non capisco. Il giornale era mio, era conservato<br />
in un cassetto dentro una carpetta che con<strong>te</strong>neva tutto il ma<strong>te</strong>riale che avevo raccolto<br />
sull’omicidio. Forse quel filo rosso vuole comunicarmi che “lei” è qui, che è stata lei a<br />
seguirmi fin qui, vuole ricordarmi la mia sconfitta. Lei è ancora libera, viva, si muove come<br />
vuole, si aggira tranquillamen<strong>te</strong> fra noi.<br />
- Ma lei deve avvisare la polizia – disse Furlan. – Saranno loro ad indagare, a stanare questa<br />
donna.<br />
- E cosa credi che abbiano fatto allora? Ricerche, ricerche che non sono approda<strong>te</strong> a nulla.<br />
Sembrava svanita nel nulla o meglio io mi auguravo che fosse stata inghiottita dall’inferno<br />
da dove era stata vomitata. Magari uccisa in un conflitto a fuoco. E invece è viva e ci tiene a<br />
farmelo sa<strong>per</strong>e <strong>per</strong> godere del suo trionfo e del mio rinnovato dolore. E, <strong>per</strong> rispondere alla<br />
sua domanda, caro Furlan, che potrebbero fare i poliziotti? Su cosa indagare: su un trafiletto<br />
sottolineato in rosso trovato sul mio tavolo? Magari uno scherzo imbecille di qualcuno,<br />
potrebbero dire. Con tutto il lavoro che hanno figurarsi se si in<strong>te</strong>ressano di un delitto di<br />
diciotto anni fa. Non c’è nulla da fare. Solo aspettare.<br />
- Cosa?<br />
- Non so. Forse la prossima mossa. Che ci sarà senz’altro. Ormai la partita è a<strong>per</strong>ta. <strong>La</strong> lotta<br />
ricomincia. Fra me e il <strong>Male</strong>. Quella donna è il MALE ASSOLUTO. Così io ho sempre<br />
definito chi commet<strong>te</strong> un delitto senza un motivo. Oh, si – prevenne la domanda del prof<br />
Zanetti – capisco quello che vuole dire. Un omicidio è sempre la soppressione di una vita, va<br />
punito. Ma ci sono omicidi che hanno una spiegazione, un moven<strong>te</strong>: la gelosia, la collera<br />
improvvisa, il denaro, il bisogno di difendersi,tanti altri motivi. Ma il delitto di quella donna<br />
e di tanti altri sciagurati come lei no: sparare nel mucchio, uccidere chi neanche conosci solo<br />
<strong>per</strong>ché tu lo definisci “un nemico del proletariato” “un servo dei padroni”. Quan<strong>te</strong> vittime<br />
innocenti in quegli anni! Non solo si sparavano fra rossi e neri ma colpivano tanti altri<br />
estranei alle loro malefiche ideologie. E il veleno cosparso allora intossica ancora oggi: non<br />
esis<strong>te</strong> l’avversario con cui dialogare, confrontarsi, dibat<strong>te</strong>re. No, c’è solo il “nemico” da<br />
abbat<strong>te</strong>re. Ed io sono ancora il nemico al quale si deve rammentare che è sempre nel mirino.<br />
- Oddio, giudice, - esclamò Furlan – non vorrà mica dire che quella donna vuole uccidere<br />
anche lei!<br />
Il giudice sorrise amaramen<strong>te</strong> mentre annuiva: - e <strong>per</strong> che cosa crede che si sia rifatta viva? Col<br />
<strong>per</strong>icolo di farsi scoprire. Non dimentichi che il suo delitto non è ancora andato in prescrizione.<br />
Eppoi se questo mostro mi ha seguito fin qui, saprà anche che il mio cuore è molto “ballerino” e<br />
che questa storia mi può stroncare.<br />
Fu lunga l’at<strong>te</strong>sa dell’altra mossa. L’esta<strong>te</strong> volgeva al <strong>te</strong>rmine, l’aria diventava frizzan<strong>te</strong> e nel<br />
vasto giardino che si s<strong>te</strong>ndeva dinanzi alla Villa si po<strong>te</strong>va passeggiare soltanto nella tarda<br />
mattinata ma solo passeggiare, non più sedersi all’ombra degli alberi secolari. Era lento a<br />
passare il <strong>te</strong>mpo <strong>per</strong> gli anziani ospiti della villa. Leggere stancava gli occhi, così pure lo<br />
sferruzzare a maglia o all’ uncinetto <strong>per</strong> le signore. Alcuni stavano <strong>per</strong> ore e ore a giocare a<br />
car<strong>te</strong> (piccole punta<strong>te</strong> <strong>per</strong> carità, nien<strong>te</strong> di azzardo), altri passavano il <strong>te</strong>mpo dinanzi al<br />
<strong>te</strong>levisore fino a ciondolare vinti dal sonno. Non era certo una vita allegra quella degli ospiti<br />
della Villa che, dalle loro finestre, guardavano con invidia quelli di giù, quelli di città, la città<br />
circondata da monti che era stata la sede dell’importan<strong>te</strong> Concilio che da essa aveva preso il<br />
nome. L’invidiavano si, <strong>per</strong>ché avevano ancora una vita dinanzi, una vita da vivere<br />
in<strong>te</strong>nsamen<strong>te</strong>, avevano figli, nipoti, mariti o mogli, amavano, trepidavano, soffrivano magari. E<br />
loro, invece, erano mummificati tra quelle mura, spesso dimenticati anche dai loro figli tutti<br />
presi dal lavoro, dai loro in<strong>te</strong>ressi. Per quegli anziani c’era solo una lunga – o forse anche breve
– at<strong>te</strong>sa della mor<strong>te</strong>. Ma anche quelli di città non amavano “i vecchi della Villa” come<br />
sprezzan<strong>te</strong>men<strong>te</strong> li chiamavano: vecchi si, ma danarosi, tranquilli, senza più nessuna<br />
preoccupazione, serviti di tutto punto, ossequiati, curati a domicilio. No, non correva buon<br />
sangue fra ospiti e cittadini.<br />
Fu a metà autunno che “lei” si rifece viva. Casson se l’aspettava. Era certo che quel <strong>per</strong>verso<br />
gioco al gatto e al topo sarebbe continuato. Non si sarebbe mai fatta viva se non avesse avuto un<br />
suo segreto disegno. Ogni giorno, ogni volta che rientrava nella sua camera, Casson <strong>te</strong>neva il<br />
fiato sospeso. Ogni volta che met<strong>te</strong>va la mano sulla maniglia, il cuore sembrava scoppiargli in<br />
petto. Ma quella sera fu la sensazione di gelo ad avvertirlo prima ancora che accendesse la luce<br />
e vedesse la “cosa”. Sul momento non riuscì a capire, era rimasto come paralizzato. Poi,<br />
avvicinandosi al tavolo cercando di dominare sia il batticuore sia il tremore alle gambe si rese<br />
conto che si trattava di un nastro, si di un nastro di registrazione. Una cassetta, insomma. <strong>La</strong><br />
prese con mano ferma mentre un sudore gelido – sempre quello – gli correva sulla fron<strong>te</strong> e <strong>per</strong><br />
la schiena. Cosa gli diceva la strega con quella cassetta? Cosa aveva registrato? Si rigirava<br />
l’oggetto fra le mani e notò una scritta, era senza occhiali, non riusciva a leggerla. Cercò in tasca<br />
le sue lenti, li inforcò e lesse una data: 29/9/81. Sentì come una pugnalata in petto: la vigilia<br />
dell’assassinio di suo fra<strong>te</strong>llo! E cosa con<strong>te</strong>neva quella registrazione? Come fare a sa<strong>per</strong>lo. Non<br />
aveva un registratore, nessuno degli ospiti supponeva che ne avesse. Né po<strong>te</strong>va met<strong>te</strong>rsi in giro<br />
a chiedere se qualcuno aveva un registratore <strong>per</strong>ché gli era stato mandato un nastro non si sqa da<br />
chi. Po<strong>te</strong>va andare in città a com<strong>per</strong>arlo ma era troppo complicato uscire, prendere un taxi,<br />
cercare il negozio, spiegare il <strong>per</strong>ché di quell’insolita uscita. Poi di colpo, trovò la soluzione: il<br />
direttore: Zeno Manera! Lui cercava sempre di esaudire i desideri dei suoi “ragazzi” come li<br />
chiamava lui. Gli avrebbe detto che gli era venuta voglia di ascoltare qualche vecchia canzone,<br />
qualche cassetta che si era portato da casa alla Villa. Insomma una scusa l’avrebbe trovata. Ma<br />
quella not<strong>te</strong> Carlo Casson non riuscì ugualmen<strong>te</strong> a dormire.<br />
Come aveva previsto il direttore gli procurò nella s<strong>te</strong>ssa giornata un registratore che gli fece<br />
trovare sul suo tavolino nella tarda mattinata. Abituato alle più strane richies<strong>te</strong>, era stato ben<br />
felice di soddisfarne una così semplice. Cosa c’è di più naturale in un vecchio, solo al mondo,<br />
che ascoltare musiche della sua giovinezza? Ma quel registratore, a Casson, incu<strong>te</strong>va timore.<br />
Cosa avrebbe ascoltato? Le soli<strong>te</strong> minacce di mor<strong>te</strong>? Sproloqui contro lo “Stato borghese” “I<br />
servi dei padroni” ? O non piuttosto qualcosa che riguardava quella donna. Forse qualcuno, a<br />
conoscenza della sua identità aveva deciso di rivelarla. Forse…Forse…Basta. Bisognava sa<strong>per</strong>e.<br />
Casson prese la cassetta, la inserì dopo essersi seduto <strong>per</strong> po<strong>te</strong>re reggere a qualsiasi rivelazione.<br />
Fruscio, rumore come di sedie sposta<strong>te</strong>, brusio di voci, poi una voce dura, metallica, dominò<br />
tut<strong>te</strong> le altre. “Compagni, silenzio”. Casson sobalzò. Aveva riconosciuto la voce di Ludovico<br />
Armani, il capo della colonna “Alesi” che lui aveva fatto condannare. Armani l’irriducibile.<br />
Intuì il con<strong>te</strong>nuto della cassetta: era la registrazione della “condanna a mor<strong>te</strong>” di suo fra<strong>te</strong>llo.<br />
Colpevole solo di fare il suo lavoro di giornalista, di definire assassini quelli che sparavano alle<br />
spalle di innocenti. Concludeva così la registrazione “Tutti d’accordo, allora? Per l’azione sono<br />
stati indicati il compagno Tempesta e la compagna “M”. Finis. Nessun altro accenno a quella<br />
donna. Nessuna voce femminile. Buio assoluto sulla sua identità, come prima. Per cui non c’era<br />
alcun dubbio. Era stata lei a farglielo <strong>per</strong>venire quel nastro, a continuare quella oscena caccia al<br />
topo. Non po<strong>te</strong>va <strong>te</strong>nere <strong>per</strong> sé quanto era accaduto e ne parlò con i suoi amici che scossero il<br />
capo allibiti. “Ma come fa questa donna ad aggirarsi indisturbata qua in mezzo a noi?” Si chiese<br />
Furlan. “E quello che mi domando anch’io. Mi sono guardato attorno, ho anche spiato i<br />
visitatori, i fornitori ma non c’è nessuno riconducibile a quella donna” Confermò Zanetti.
“Comunque” Riprese Furlan “Ci faccia ascoltare quel nastro, giudice. Chissà che noi, a men<strong>te</strong><br />
fredda, non riusciamo a sentire qualcosa che magari a lei potrà essere sfuggita.” Il giudice<br />
assentì.<br />
Ma, quando quella sera rientrò in camera sua la cassetta era sparita. Restava solo il muto<br />
registratore.<br />
Al danno, la beffa. Allo sconvolgimento causato dall’avere ascoltato dal vivo la condanna a mor<strong>te</strong><br />
di suo fra<strong>te</strong>llo, si aggiungeva la beffa di avergli sottratto l’unica prova che avrebbe potuto dare<br />
credito ad una sua eventuale denunzia. <strong>La</strong> partita era fra loro due, il giudice e il suo boia, come<br />
avrebbe detto Durrenmatt o meglio tra il giudice e la sua carnefice. Perché di questo era sicuro il<br />
giudice. Quella donna aveva deciso la sua mor<strong>te</strong>, non sapeva ancora come lo avrebbe assassinato.<br />
Direttamen<strong>te</strong> con un colpo di quella famigerata P38 o avvelenandolo o, in maniera ancora più<br />
sottilmen<strong>te</strong> <strong>per</strong>fida, contando sulla debolezza del suo cuore. Se girava tranquilla <strong>per</strong> Villa Fantuzzo,<br />
sapeva certamen<strong>te</strong> che il cuore del giudice era legato ad un filo sottile, non erano certo un mis<strong>te</strong>ro le<br />
cure che seguiva sotto l’at<strong>te</strong>nto esame del dottore Furlan, le pillole che prendeva, i controlli<br />
metodici che faceva. Un assassinio avrebbe suscitato scalpore, la polizia avrebbe indagato, il<br />
passato del giudice sarebbe tornato a galla. Ma lo schianto di un cuore malato sarebbe sembrato<br />
naturale. Il piano era <strong>per</strong>fetto. Si trattava solo di aspettare. E continuare nello stillicidio di piccoli<br />
colpi a sorpresa.<br />
<strong>La</strong> neve fece la sua comparsa. Dapprima si imbiancarono le cime dei monti circostanti, poi, giorno<br />
dopo giorno, scese a valle imbiancò <strong>te</strong>tti e alberi, cominciarono a fumare i camini. Si avvicinava<br />
Natale. Come ogni anno, nel giardino della Villa fu addobbato uno dei grandi abeti del viale<br />
centrale, mentre nella cappellina dove si celebravano le funzioni religiose fu preparato il presepe.<br />
Era piccolo ma formato da antiche statuine che risalivano all’800 quando la Villa era sede<br />
cardinalizia. Erano le ospiti della villa a prepararlo ogni anno con trepidazione e nostalgia,<br />
ricordando i <strong>te</strong>mpi quando lo preparavano nelle loro case, <strong>per</strong> le loro famiglie aiuta<strong>te</strong> da figlie e<br />
nipoti. Gli uomini prestavano talvolta un aiuto: una luce che faceva capricci, una s<strong>te</strong>lla che non<br />
voleva stare attaccata alla carta blu del cielo, un pastorello che traballava. Si, anche a Villa<br />
Fantuzzo si avvicinava il Natale.<br />
Tutto era filato liscio nella not<strong>te</strong> magica. Il cenone adeguato all’età degli ospiti, lo scampagne poco<br />
ma di pregio, le musiche natalizie diffuse come sottofondo, il Bambino Gesù deposto dalle mani<br />
della con<strong>te</strong>ssa Isabella Dionigi che l’aveva donato alla Villa quando vi si era stabilita. Poi ognuno<br />
andò a dormire nella sua stanza. Il silenzio scese su Villa Fantuzzo.<br />
…si vedeva camminare <strong>per</strong> una strada deserta in salita. Arrancava con fatica, il cuore era come<br />
impazzito…sentiva alle sue spalle qualcosa, un <strong>per</strong>icolo, una minaccia, ma non vedeva nulla, si<br />
girava e la strada era sempre deserta…continuava a procedere, sempre più stanco…il fiato sempre<br />
più corto…ad un tratto un lampo…una moto sfreccia vicino ma non lo inves<strong>te</strong>…lo sorpassa…vi<br />
sono due <strong>per</strong>sone a cavallo…in tu<strong>te</strong> di cuoio nero, casco nero, quello di dietro ha lunghi capelli<br />
biondi che vengono fuori dal casco…si volta, tutto il volto è nascosto dal casco…solo due occhi,<br />
quasi bianchi, gelidi…gelidi…lui ha un brivido…li riconosce…è lei, è lei che scoppia<br />
in una risata sinistra…lui <strong>te</strong>nde le braccia…minaccia con i pugni chiusi…fa <strong>per</strong> correre dietro…la<br />
moto è scomparsa…il cuore gli scoppia…
Ansando uscì lentamen<strong>te</strong> dal sogno, si rese conto di avere avuto un incubo ma il dolore al petto non<br />
era un sogno. Un senso di gelo lo immobilizzava e non era soltanto il cuore a dargli quella<br />
sensazione. Sentiva che “lei” era là vicino. Se ne rese conto e si sentì ancora più paralizzato nel<br />
buio, nell’assoluto silenzio della not<strong>te</strong>, sapeva che era giunto infine il momento della resa dei conti.<br />
O la sua s<strong>te</strong>ssa resa. Per lunghi in<strong>te</strong>rminabili istanti s<strong>te</strong>t<strong>te</strong> immobile solo il suo cuore impazzito<br />
sembrava squassare quel silenzio. Si sentì lui s<strong>te</strong>sso parlare o erano i suoi pensieri.<br />
“Lo so che sei qui. Ti sento. Ti ho sempre sentita, tut<strong>te</strong> le vol<strong>te</strong> che mi sei passata accanto. Hai con<br />
<strong>te</strong> l’odore della mor<strong>te</strong>, quella mor<strong>te</strong> che hai sempre seminato intorno a <strong>te</strong>. Non hai ucciso solo mio<br />
fra<strong>te</strong>llo, altri cadaveri hanno lastricato il tuo cammino.<br />
Tu sei il <strong>Male</strong>.<br />
L’ho letto nei tuoi occhi, quegli occhi che vidi una sola volta, ma che non ho più dimenticato. Erano<br />
gli occhi del male, di un essere nato <strong>per</strong> fare solo male, <strong>per</strong> seminare morti, dolori, lutti. No, non sei<br />
una donna sei una creatura dell’inferno, vomitata assieme ad altri demoni <strong>per</strong> spargere sangue. Ti<br />
ho cercata in tutti questi anni non <strong>per</strong> vendetta, <strong>per</strong> giustizia, <strong>per</strong> ricacciarti da dove sei venuta. Altri<br />
che erano con <strong>te</strong> stanno pagando o hanno pagato <strong>per</strong> le loro colpe, altri si sono pentiti o ci hanno<br />
aiutato a sradicare la mala erba dell’odio che aveva<strong>te</strong> seminato. Ma tu no. Sei rimasta nascosta, ben<br />
mimetizzata, sei sfuggita a tut<strong>te</strong> le indagini, a tut<strong>te</strong> le ricerche. Ormai ti credevo morta. Sei<br />
riapparsa.<br />
Perché?”<br />
Nessuna risposta alla domanda, solo un lieve respiro gli fece in<strong>te</strong>ndere che lei era ancora là,<br />
l’ascoltava. Il giudice riprese:”Perché? Te lo chiedo e me lo sono chiesto. Perché sei tornata a<br />
tormentarmi col rischio di farti scoprire. C’è una condanna su di <strong>te</strong> se verrai sco<strong>per</strong>ta. Allora?<br />
Facciamo qualche supposizione: sei pentita, vorresti dirmelo ma <strong>te</strong>mi la condanna. Hai ragione, il<br />
pentimento può servire al Padre<strong>te</strong>rno ma non alla giustizia umana. Non solo come uomo di legge<br />
ma come semplice uomo non ti darò mai il mio <strong>per</strong>dono. Eri <strong>per</strong>fettamen<strong>te</strong> capace di in<strong>te</strong>ndere e di<br />
volere, sapevi senza ombra di dubbio quello che facevi, eri piena di odio verso la società che non ti<br />
aveva fatto alcun male ed hai ucciso freddamen<strong>te</strong> un uomo che non conoscevi e che non ti<br />
conosceva. Dunque se sei pentita, non ti resta che consegnarti alla giustizia e pagare lo scotto dei<br />
tuoi crimini. Potrebbe anche andarti bene, usciresti dopo qualche anno di carcere, semi-carcere,<br />
buona condotta e magari l’aureola di martire da par<strong>te</strong> dei tuoi compagni e di chi è sempre pronto a<br />
<strong>per</strong>donare. Ti in<strong>te</strong>rvis<strong>te</strong>rebbero alla tv, la stampa pagherebbe <strong>per</strong> conoscere le tue impressioni, i tuoi<br />
drammi nascosti, le tue sofferenze entro le mura di un carcere.” C’era un lieve accento ironico nella<br />
voce del giudice, ma il tono era sempre più stanco. Un’atmosfera irreale aleggiava nella camera<br />
dove un duello mortale si stava consumando nella più completa oscurità.<br />
“Ma – riprese il giudice – questa è solo un’ipo<strong>te</strong>si. Ce n’è un’altra. Tu sei qui <strong>per</strong> eliminarmi. Si sei<br />
qui <strong>per</strong> togliere di mezzo l’unico e l’ultimo <strong>te</strong>stimone che ricerca, che ha giurato di smascherarti e<br />
consegnarti alla giustizia. Le tue vittime sono mor<strong>te</strong>, i parenti rassegnati, l’opinione pubblica ha<br />
dimenticato in fretta. Aveva<strong>te</strong> raggiunto il massimo, con l’assassinio del Presiden<strong>te</strong> la misura era<br />
colma. Non aveva<strong>te</strong> nessun retro<strong>te</strong>rra popolare, erava<strong>te</strong> solo quattro esaltati, imbottiti delle parole<br />
vuo<strong>te</strong> di senso ma piene d’odio di pochi cattivi maestri. Credeva<strong>te</strong>, poveri illusi, nella Rivoluzione<br />
totale, rigeneratrice, erava<strong>te</strong> convinti di essere l’avanguardia di un esercito! Manco un plotone<br />
erava<strong>te</strong>! Ma, pure in pochi, ave<strong>te</strong> seminato mor<strong>te</strong>, lutti, sangue a cui rispondeva chi credeva di<br />
essere vostro avversario politico, con stragi di innocenti, bombe e devastazioni. E non vi rendeva<strong>te</strong><br />
conto che erava<strong>te</strong> uguali, nei metodi e nei fini: violenza, distruzione, dittatura. Solo i vostri colori<br />
mutavano, in apparenza <strong>per</strong>ò: rosso, nero.<br />
Sangue, mor<strong>te</strong>.<br />
Poi, fos<strong>te</strong> sconfitti, il fenomeno si sgonfiò e se alcuni pagarono, altri la fecero franca, comodamen<strong>te</strong><br />
rifugiati all’es<strong>te</strong>ro e altri, come <strong>te</strong>, sono tornati nell’ombra. O forse tu occupi un posto ben pagato,<br />
di prestigio. Nessuno ti ha tradita, nessuno conosceva la tua identità, potresti anche essere la figlia<br />
di un ministro o la moglie di un industriale, chissà. Ma non po<strong>te</strong>vi vivere tranquilla fintanto che
c’era un uomo che ti cercava e che ti cercherà fino alla mor<strong>te</strong>. Ecco <strong>per</strong>ché sei qua. I tuoi messaggi,<br />
le flebili tracce della tua presenza, il nastro che poi torna a sparire, tutto <strong>per</strong> cercare di intimorirmi,<br />
farmi impazzire, schiattare.<br />
Tu sei qua <strong>per</strong> uccidermi.”<br />
Il giudice tacque, sfinito.”<br />
Nessuna risposta, solo un respiro lieve ma calmo, tranquillo veniva dall’angolo della camera,<br />
vicino alla finestra dai cui bat<strong>te</strong>nti chiusi filtrava un filo di luce, a <strong>te</strong>stimonianza della luna piena<br />
che splendeva fuori inondando di un candore fantastico gli alberi del palco tra i quali troneggiava il<br />
secolare cedro del Libano, muto spettatore del dramma che si consumava nel silenzio di una<br />
camera.<br />
“Che c’è – riprese il giudice. – Esiti? Hai rimorso <strong>per</strong> quest’ultimo delitto? Non mi deludere. Non ti<br />
si addice la debolezza. O la pietà. Almeno mostrati. Che io veda in faccia l’assassina di mio fra<strong>te</strong>llo<br />
poi nulla più mi impor<strong>te</strong>rà.” Era scomparsa la leggera ironia di prima, ora il giudice si era infuriato,<br />
quel silenzio lo mandava in bestia, lei era là, bisognava finirla con quella tragica farsa, fosse pure<br />
l’ultimo istan<strong>te</strong> della sua vita, doveva vederla. “Non mi importa di nulla ormai, sono così stanco che<br />
morire sarà solo un lungo sonno ristoratore. Non mi importa più neanche di <strong>te</strong>, che l’inferno ti<br />
inghiotta, ma voglio vederti in faccia, voglio rivedere i tuoi occhi se hai ancora il coraggio di<br />
guardarmi in viso.” Annaspò in cerca del pulsan<strong>te</strong> dell’abat-jour, faceva fatica, il cuore gli<br />
scoppiava ma voleva sa<strong>per</strong>e, premet<strong>te</strong> il pulsan<strong>te</strong> e la fioca luce gli fece sbat<strong>te</strong>re le palpebre.<br />
Lunghi capelli biondi. Fu la prima cosa che distinse all’incerta luce dell’abat-jour. Seduta nella sua<br />
poltrona, accanto alla finestra, con una tuta di cuoio nero – la s<strong>te</strong>ssa che aveva allora – una sciarpa<br />
rossa attorno al collo le nascondeva parzialmen<strong>te</strong> il viso. Il giudice prese a tremare mentre cercava<br />
inutilmen<strong>te</strong> di alzarsi, le mani si impacciavano con le co<strong>per</strong><strong>te</strong>, le gambe si rifiutavano di obbedirgli.<br />
Lei parlò a voce bassa e roca, travisata dalla sciarpa. “Dici che mi riconosceresti ovunque.<br />
T’inganni. Ti ho trovato, ti sono stata vicino, ti ho toccato, mi hai anche più vol<strong>te</strong> parlato ora sei<br />
sfiorato dal sospetto ma solo ora”. Era vero. Il giudice sentiva di avere già vista quella donna, di<br />
avere udito quella voce mqa si sforzava di inquadrarla, qualcosa gli sfuggiva.<br />
“Io sono il <strong>Male</strong>, tu dici. E sia. Fra me e <strong>te</strong> non ci si in<strong>te</strong>nderà mai. Quello che <strong>per</strong> <strong>te</strong> è un delitto <strong>per</strong><br />
me è giustizia proletaria; i tuoi valori sono merce scaduta <strong>per</strong> me, il tuo mondo un pozzo di<br />
turpitudini. Come vedi non sono cambiato. Tuo nemico ero allora to nemico rimango. Tu vuoi<br />
consegnarmi alla giustizia, io in<strong>te</strong>ndo completare un lavoretto rimasto incompiuto. Eri tu l’obiettivo<br />
primario, poi tuo fra<strong>te</strong>llo ma in quella riunione, di cui hai potuto ascoltare la registrazione, venne<br />
fuori che egli era più facilmen<strong>te</strong> esposto. A <strong>te</strong> si sarebbe pensato dopo, quando la sorveglianza<br />
intorno a <strong>te</strong> si fosse allentata…e ho aspettato, oh, quanto ho aspettato! Quanti dei miei compagni ne<br />
hai mandati in galera, qualcuno si è anche ucciso. Ma ho avuto pazienza. I <strong>te</strong>mpi sono cambiati, ero<br />
rimasto solo, non po<strong>te</strong>vo correre rischi. Ora è giunto il momento. Tu sei solo. Non hai più la tua<br />
scorta e tutti hanno dimenticato quegli anni, l’hai ammesso tu s<strong>te</strong>sso, la tua mor<strong>te</strong> sembrerà<br />
naturale. Un vecchio ottan<strong>te</strong>nne, col cuore malato, vero giudice che hai il cuore matto? A chi<br />
verrebbe in men<strong>te</strong> che si tratti di omicidio…ma potrei anche sparire nuovamen<strong>te</strong>, lasciarti nel<br />
dubbio dopo averni visto così da vicino, constatato che non sono un fantasma, chissà…”<br />
<strong>La</strong> donna si era alzata, Non era alta, c’era qualcosa di vagamen<strong>te</strong> familiare nel suo portamento e il<br />
giudice cominciò a capire la trappola diabolica in cui era caduto <strong>per</strong> anni. “Non sono cambiato –<br />
aveva detto – tuo nemico…ero rimasto solo”. <strong>La</strong> verità si stava facendo strada ma il giudice non<br />
po<strong>te</strong>va, non voleva ammet<strong>te</strong>re quello che cominciava ad intuire, il mis<strong>te</strong>ro di tutti quegli anni. “Chi<br />
sei, dannata?- ansimò, sollevato su un gomito, impo<strong>te</strong>n<strong>te</strong> ad alzarsi – fatti vedere in faccia.” “Si<br />
certo, caro giudice, non avere fretta. Un minuto dopo avermi visto in faccia tu sarai morto”.<br />
Lentamen<strong>te</strong>, quasi <strong>per</strong> assaporare una troppo at<strong>te</strong>sa vendetta, la donna si avvicinò, si accostò al<br />
letto, si chinò sul giudice, si tolse la sciarpa e lasciò che i lunghi capelli biondi le cadessero sul viso.<br />
“Mi riconosci ora, giudice Casson? Riconosci i miei occhi? Sono io l’assassina di tuo fra<strong>te</strong>llo” – e<br />
scoppiò in una risata stridula.
“Si, si, assassino – farfugliò il giudice, sopraffatto dalla rabbia, dal dolore e dall’ansito del suo<br />
cuore – sei tu, sei tu – e con la mano treman<strong>te</strong> si aggrappò a quei capelli, falsi come quella voce<br />
stridula. Li tirò ed essi restarono nelle sue mani, scoprendo un cranio lucido.<br />
“Lei! – balbettò il giudice – Mane…” Non finì il nome, stramazzò sul letto, fulminato dalla<br />
rivelazione.<br />
Il direttore s<strong>te</strong>t<strong>te</strong> a guardarlo con una piega beffarda sulle labbra sottili: “Grazie <strong>per</strong> avermi tolto<br />
l’incomodo di ucciderti con le mie mani.” Girò le spalle e silenziosamen<strong>te</strong> uscì dalla stanza,<br />
dimenticando la parrucca bionda nella mano del giudice.<br />
Vittoria Timmonieri<br />
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