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Furio Cerutti - Dipartimento di Filosofia

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<strong>Furio</strong> <strong>Cerutti</strong><br />

<strong>Filosofia</strong> politica. Un'introduzione<br />

nell'opposizione amico-nemico che giace a fondo <strong>di</strong> qualsiasi relazione politica ed è<br />

caratteristica soltanto <strong>di</strong> queste (mentre in morale vale quella bene-male, in estetica bello-brutto<br />

ecc.). Il nemico politico (hostis) va tenuto separato da quello privato (inimicus). La guerra è la<br />

realizzazione estrema <strong>di</strong> questa inimicizia, la reale possibilità <strong>di</strong> uccisione fisica. Questa visione<br />

viene contrapposta da Schmitt a quella liberale, che secondo lui <strong>di</strong>ssolve l'inimicizia in<br />

<strong>di</strong>scussione, eticizzando il rapporto, o in concorrenza, spostandolo sul piano dell'economico.<br />

Riporto solo schematicamente il pensiero <strong>di</strong> Schmitt perché occorre darne conto, trattandosi<br />

<strong>di</strong> un classico della filosofia politica del Novecento, pur se non raccogliamo l'impostazione.<br />

Essa, pur sempre un antidoto a visioni troppo ireniche della politica, costituisce tuttavia o una<br />

schematizzazione, impoverita sulla coppia base amico-nemico, del complesso mondo del<br />

potere e della forza; ovvero lo focalizza unilateralmente sull'inimicizia e lo scontro, mentre <strong>di</strong><br />

esso fanno parte pure, ad altro titolo, l'or<strong>di</strong>ne e la pace. Del resto, alla fine del secolo che ha<br />

creato la <strong>di</strong>mensione planetaria e quelli che verranno più in là trattati come `problemi globali',<br />

una visione della politica modellata sui rapporti tra<strong>di</strong>zionalmente antagonistici degli Stati<br />

territoriali appare comunque non in grado <strong>di</strong> coprire le nuove realtà.<br />

* * *<br />

Per quanto infine riguarda la visione della politica partendo dalla quale sono scritte le<br />

presenti <strong>di</strong>spense, è chiaro (e lo sarà ancor più alla fine) il suo debito con la teoria realista, che<br />

ritiene che la politica non si possa capire se non si parte dai problemi <strong>di</strong> sicurezza e<br />

sopravvivenza degli in<strong>di</strong>vidui e delle comunità. Alle spalle sta un certo pessimismo<br />

antropologico: si può non fare politica, ma se la si fa non si può non accettare il peccato<br />

originario del potere, che è quello <strong>di</strong> essere pur sempre potere dell’uomo sull’uomo, anche se<br />

legittimo ed usato a fini benefici (ed anche se ciò non implica ovviamente alcun servaggio<br />

personale). Ciò non taglia alla ra<strong>di</strong>ce la possibilità <strong>di</strong> <strong>di</strong>scutere de optima repubblica, ma ritiene<br />

che abbia senso farlo solo se si sa come si formano, si reggono e collassato i governi che gli<br />

uomini si sono effettivamente dati nei secoli. Una teoria della giustizia non informata <strong>di</strong> tutto<br />

questo, e che non si sottoponga alla fatica <strong>di</strong> intrecciare questa conoscenza con la ricerca della<br />

miglior giustizia possibile in una data epoca storica, risulta a questo autore peccare <strong>di</strong> futilità,<br />

accademica o pre<strong>di</strong>catoria, e <strong>di</strong> non prendersi davvero carico delle esigenze <strong>di</strong> giustizia dei<br />

governati.<br />

Questo spiega la centralità della categoria <strong>di</strong> potere, senza la quale nulla della politica si<br />

capisce, né si costruisce una miglior politica. Del potere non possiamo poi fare a meno, oltre<br />

che nell’analisi, nella pratica politica stessa: non solo perché siamo troppo lontani dalla fine<br />

della scarsità e della <strong>di</strong>seguaglianza, che porrebbe termine al conflitto che dalla politica è<br />

regolato; né siamo più vicini ad una purificazione culturale (umanistica, religiosa) <strong>di</strong> uomini e<br />

donne che verrebbero così liberati da ogni interesse o movente particolaristico. Ma anche<br />

perché senza essere governati la vita associata sarebbe così infinitamente più gravosa ed<br />

ingestibile, se cioè venisse meno la funzione <strong>di</strong> “sgravio” (Entlastung, nel senso<br />

dell’antropologo tedesco Arnold Gehlen, 1904-1976) che il <strong>di</strong>spositivo del potere e della<br />

politica esercitano a nostro vantaggio (a costo, s’intende, della nostra rinuncia al totale<br />

autogoverno) rispetto alla complessità enorme della vita associata Alle spalle sta il antiorganicismo:<br />

è un’illusione, talora inconfessata, pensare che la società possa regolarsi da sola in<br />

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