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Le Cause dell'Incidente dell'Apollo 13

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<strong>Le</strong> <strong>Cause</strong> dell’Incidente dell’Apollo <strong>13</strong><br />

Tratto da:<br />

Jim Lovell, Jeffrey Kluger; Lost Moon, Sperling & Kupfer; 1995<br />

Epilogo. Pag.3<strong>13</strong>.<br />

Introduzione<br />

Se l’esplorazione personale della Luna da parte del comandante Jim Lovell si era conclusa, per la<br />

NASA non era stato cosi’.<br />

Nella fabbrica della Grumman e della North American Rockwell e nei capannoni di assemblaggio<br />

del centro spaziale si trovava un certo numero di vettori Saturn 5 e di astronavi Apollo pronto per<br />

essere lanciato.<br />

Ma prima che i pianificatori dell’Ente potessero anche solo parlare di inviare un altro equipaggio<br />

nello spazio bisognava stabilire la causa dell’incidente che aveva quasi ucciso l’ultimo.<br />

Gli indizi erano pochi. Dopo aver esaminato le immagini riportate sulla Terra dall’equipaggio dell’Apollo<br />

<strong>13</strong>, la NASA aveva concluso che a danneggiare l’astronave non era stato un meteorite o un<br />

altro proiettile vagante. Il danno allo scafo di Odyssey era stato grave, provocato non da un sasso<br />

errante che avesse colpito l’astronave e avesse fatto scoppiare un serbatoio di ossigeno, ma da<br />

un’esplosione di qualche genere all0interno del serbatoio stesso, che aveva distrutto lo scafo.<br />

Il 17 aprile, poche ore soltanto dopo l’ammaraggio del modulo di comando, Thomas Paine, amministratore<br />

della NASA aveva costituito una commissione per stabilire cio’ che era accaduto.<br />

La Commissione d’inchiesta<br />

La commissione insediata da Paine era presieduta da Edgar Cortright, direttore del centro di ricerca<br />

di Langley in Virginia. Ne facevano parte altre quattordici persone, tra cui l’ancora celebre Neil<br />

Armstrong, una decina di tecnici e di amministratori della NASA e, significativamente, un osservatore<br />

indipendente estraneo all’Ente.<br />

Ancora irritato per l’inchiesta tutta interna seguita all’incendio dell’Apollo 1, il Congresso, la NASA<br />

lo sapeva, avrebbe richiesto la presenza di un simile osservatore per controllare i lavori della commissione;<br />

ancora scottata dalle grida di protesta che si erano levate a Washington a seguito di<br />

quell’inchiesta riservata, la NASA aveva prontamente collaborato.<br />

La Commissione Cortright si era messa prontamente al lavoro; quando avevano cominciato a indagare<br />

sulle cause dell’esplosione dell’Apollo <strong>13</strong>, i suoi membri non sapevano cio’ che avrebbero<br />

scoperto, ma sapevano bene cio’ che non avrebbero scoperto: un’unica rivoltella fumante.<br />

Come gi aviatori e i piloti collaudatori avevano rilevato sin dai tempi degli aeroplani di legno e tela,<br />

in qualsiasi genere di velivolo le catastrofi non sono quasi mai provocate dal cedimento di una singola<br />

apparecchiatura; al contrario, sono inevitabilmente il risultato di una serie di cedimenti separati,<br />

molto meno rilevanti, nessuno dei quali, di per se stesso, causerebbe seri danni, ma che sommati<br />

insieme sono in grado di far precipitare anche il pilota piu’ esperto.<br />

L’Apollo <strong>13</strong>, pensavano i membri della Commissione, era stato quasi certamente vittima di una simile<br />

serie di cedimenti di scarsa importanza.<br />

Il primo passo della Commissione Cortright era stato l’esame della lunga storia della fabbricazione<br />

del serbatoio di ossigeno numero due.<br />

Ogni componente principale di un’astronave Apollo, dai giroscopi alle radio, dai computer ai serbatoi<br />

criogenici, era seguito da ispettori per il controllo di qualita’ dal momento dell’esecuzione del primo<br />

disegno a quello in cui lasciava la rampa il giorno del lancio; qualsiasi anomali nella fabbrica-<br />

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zione o nelle prove era registrata e archiviata. In generale, piu’ il dossier relativo a un’apparecchiatura<br />

era grosso, piu’ emicranie aveva provocato.<br />

Quello del serbatoi di ossigeno numero due era risultato essere piuttosto voluminoso.<br />

L’anamnesi della progettazione e della fabbricazione<br />

Con il serbatoio i problemi erano iniziati nel 1965 (ndr: l’incidente e’ avvenuto nell’aprile del 1970), circa<br />

all’epoca in cui Jim Lovell e Frank Barman si stavano addestrando per il volo con la Gemini 7 e la<br />

North American stava costruendo il moduli di comando e servizio Apollo, che avrebbe infine sostituito<br />

la navicella a due posti.<br />

Come qualsiasi produttore alle prese con un progetto tecnologico cosi’ complesso, la North American<br />

non aveva cercato di eseguire da sola tutto il lavoro di progettazione e tecnico, ma aveva appaltato<br />

singole parti a dei fornitori.<br />

Uno dei compiti piu’ delicati era la costruzione dei serbatoi criogenici dell’astronave, assegnata alla<br />

Beech Aircraft di Boulder nel Colorado.<br />

La Beech e la North American sapevano che si serbatoi di cui aveva bisogno la nuova astronave<br />

dovevano essere qualcosa di piu’ di bottiglie a tenuta stagna. Per contenere elementi instabili<br />

come l’ossigeno e l’idrogeno liquidi i recipienti sferici avrebbero richiesto ogni tipo di protezione tra<br />

cui ventilatori, termometri sensori della pressione e scaldiglie, tutti immersi nella poltiglia freddissima<br />

che i serbatoi dovevano contenere, e tutti alimentati elettricamente.<br />

Il sistema elettrico dell’astronave Apollo era progettato per funzionare con 28 Volt di corrente, la<br />

quantita’ fornita dalle tre celle a combustibile del modulo di servizio.<br />

Di tutti i sistemi azionati da quell’energia relativamente modesta all’interno dei serbatoi criogenici,<br />

nessuno piu’ delle scaldiglie richiedeva un controllo estremamente rigoroso.<br />

Di solito l’idrogeno e l’ossigeno criogenico erano mantenuti alla temperatura costante di meno 206<br />

gradi, sufficiente a conservare i gas in uno stato di poltiglia, non gassoso ma abbastanza caldo d<br />

permettere che una parte evaporasse e scorresse nelle tubazioni di alimentazione delle celle a<br />

combustibile e nel sistema atmosferico dell’abitacolo.<br />

Ma ogni tanto nei serbatoi la pressione scendeva troppo e il gas non riusciva a entrare nelle tubazioni,<br />

mettendo in pericolo sia le celle sia l’equipaggio.<br />

Per evitarlo bisognava accendere periodicamente le scaldiglie per far evaporare un po’ di liquido e<br />

alzare la pressione a un livello piu’ sicuro.<br />

Ovviamente, immergere un elemento riscaldatore in un serbatoio di ossigeno a pressione era una<br />

faccenda rischiosa, e per ridurre al minimo il pericolo di incendi o esplosioni le scaldiglie erano munite<br />

di termostati che avrebbero escluso le bobine se la temperatura del serbatoio fosse salita troppo.<br />

Quel limite superiore non era molto alto: bastava che non si eccedessero i 26,5 gradi. Ma in serbatoi<br />

isolati in cui la temperatura prevalente era di solito inferiore di 232,5 gradi, si trattava di un riscaldamento<br />

notevole.<br />

Con le scadiglie in funzione gli interruttori dei termostati restavano chiusi – o inseriti – completando<br />

il circuito elettrico del sistema di riscaldamento e consentendogli di continuare a funzionare.<br />

Se nel serbatoio la temperatura superva i 26,5 gradi due minuscoli contatti del termostato si aprivano,<br />

interrompendo il circuito e disinserendo il sistema.<br />

Stipulando il contratto per i serbatoi con la Beech Aircraft, la North American aveva specificato che<br />

gli interruttori dei termostati, come tutti gli interruttori e i sistemi di bordo dell’astronave, dovevano<br />

essere compatibili con la rete a 28 volt, e la Beech aveva rispettato quella esigenza.<br />

Ma quel voltaggio non era il solo che l’astronave avrebbe dovuto essere in grado di accettare.<br />

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Il primo evento della catena<br />

Durante le settimane ed i mesi che precedevano il lancio l’astronave trascorreva molto tempo collegata<br />

a dei generatori sulla rampa a Cape Canaveral, in modo che si potessero effettuare le prove<br />

delle apparecchiature prima del volo.<br />

Rispetto alle minuscole celle a combustibile del moduli di servizio, i generatori della base di lancio<br />

erano delle vere dinamo che fornivano regolarmente 65 volt di corrente.<br />

Poi la North American, preoccupata che tale corrente relativamente alta potesse bruciare il delicato<br />

sistema di riscaldamento dei serbatoi criogenici prima che l’astronave lasciasse la rampa di lancio,<br />

aveva deciso di cambiare le specifiche.<br />

La Beech avrebbe dovuto sostituire le scaldiglie con apparecchiature che potessero supportare la<br />

corrente piu’ alta della rampa.<br />

La Beech aveva preso nota del mutamento e aveva modificato tutto il sistema di riscaldamento, o<br />

quasi tutto.<br />

Inesplicabilmente i suoi tecnici avevano trascurato di sostituire gli interruttori dei termostati e avevano<br />

lasciato quelli vecchi, da 28 volt, nelle nuove scaldiglie da 65 volt. I tecnici delle Beech, quelli<br />

della North American e quelli della NASA avevano tutti controllato il lavoro, ma nessuno aveva<br />

scoperto l’incongruenza.<br />

Anche se degli interruttori da 28 volt in un serbatoio da 65 volt non erano necessariamente un elemento<br />

sufficiente a provocare danni, come in una casa un cablaggio difettoso non provoca necessariamente<br />

un incendio la prima volta che si aziona un interruttore, l’errore era comunque notevole.<br />

Cio’ che bastava a renderlo catastrofico erano altre sviste ugualmente banali.<br />

La Commissione Cortright le aveva ben presto individuate.<br />

Il secondo evento della catena<br />

I serbatoi che avrebbero volato a bordo dell’Apollo <strong>13</strong> erano stati spediti alla fabbrica della North<br />

American Rockwell do Downey l’11 marzo 1968, completi dei loro interruttori a 28 volt.<br />

Là erano stati montati su un telaio metallico e installati sul modulo di servizio 106.<br />

Tale modulo avrebbe dovuto essere lanciato in occasione della missione Apollo 10, nel 1969,<br />

quando Tom Stafford, John Young e Gene Cornan avrebbero eseguito le prime prove di un modulo<br />

lunare in orbita attorno al satellite. Ma nei mesi seguenti alla progettazione dei serbatoi di ossigeno<br />

erano state apportate alcune lievi migliorie e i tecnici avevano deciso di togliere i serbatoi esistenti<br />

dal moduli di servizio dell’Apollo 10 e di sostituirli con i nuovi.<br />

I serbatoi precedentemente installati sull’astronave sarebbero stati modificati anch’essi e montati<br />

su un altro veicolo, da usare per un volo successivo.<br />

Togliere un serbatoio criogenico da un’astronave Apollo era un lavoro delicato. Poiche’ era quasi<br />

impossibile separarlo dal groviglio di tubi e cavi che da esso partiva, si doveva rimuovere tutto il telaio,<br />

insieme con le apparecchiature che sosteneva.<br />

A questo scopo i tecnici avrebbero dovuto fissare una gru ai bordi del telaio, asportare i quattro<br />

bulloni che lo fissavano ed estrarre il gruppo.<br />

Il 21 ottobre 1968, il giorno in cui Wally Schirra, Donn Eisele e Walt Cunningham erano ammarati<br />

dopo il volo di undici giorni con l’Apollo 7, i tecnici delle Rockwell avevano sbullonato il telaio di sostegno<br />

dei serbatoi dell’astronave 106 e avevano cominciato a rimuoverlo con grande cura.<br />

Senza che gli addetti alla gru lo sapessero, uno dei quattro bulloni era stato lasciato in posizione.<br />

Quando era stato azionato il motore dell’argano il telaio si era sollevato di soli cinque centimetri prima<br />

che il bullone facesse presa: la gru era scivolata e il telaio era ricaduto.<br />

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Il sobbalzo provocato dalla caduta non era stato forte , ma la procedura da seguire era chiara: in<br />

caso di un qualsiasi incidente in fabbrica, a prescindere dalla sua importanza, i componenti interessati<br />

dell’astronave dovevano essere ispezionati per assicurarsi che non avessero subito alcun<br />

danno. I serbatoi sul telaio caduto erano stati in effetti esaminati, e non si era riscontrato alcun<br />

danno.<br />

Poco dopo erano stati rimossi, modificati e installati sul moduli di servizio 109, che doveva diventare<br />

parte dell’astronave piu’ comunemente conosciuta con il nome di Apollo <strong>13</strong>.<br />

All’inizio del 1970 il vettore Saturn 5 , con l’Apollo <strong>13</strong> montato in cima, era stato portato sulla rampa<br />

e approntato per essere lanciato in aprile.<br />

Era stato la’, aveva scoperto la Commissione Cortright, che era stato inserito l’ultimo tassello del<br />

puzzle che avrebbe successivamente provocato il disastro.<br />

Il terzo evento della catena<br />

Nelle settimane precedenti il lancio di un Apollo, una delle pietre miliari piu’ importanti era l’esercitazione<br />

nota come “prova dimostrativa del conto alla rovescia”.<br />

Era durante questa lunghissima esercitazione che gli astronauti e il personale di terra provavano<br />

per la prima volta tutte le fasi che portavano alla reale accensione del vettore il giorno del lancio.<br />

Per rendere tale prova la piu’ verosimile possibile, i serbatoi criogenici erano pressurizzati, gli<br />

astronauti indossavano la tenuta di volo e l’abitacolo era riempito di aria alla stessa pressione che<br />

ci sarebbe stata al momento del lancio.<br />

Durante la prova dimostrativa del conto alla rovescia per l’Apollo <strong>13</strong>, con Jim Lovell, Ken Mattigly e<br />

Fred Haise legati ai propri sedili, non si erano verificati problemi importanti.<br />

Ma alla fine della lunga prova il personale di terra aveva notato una lieve anomalia.<br />

<strong>Le</strong> Prime Avvisaglie: presupposti per il danno<br />

Il sistema criogenico, che doveva essere svuotato prima di disattivare l’astronave, non aveva funzionato<br />

regolarmente.<br />

Di solito la procedura di svuotamento dei serbatoi criogenici non era complicata; richiedeva la presenza<br />

dei tecnici solo per pompare ossigeno gassoso nel serbatoio attraverso una tubazione allo<br />

scopo di costringere i liquidi a uscire attraverso un’altra.<br />

Entrambi i serbatoi dell’idrogeno, come pure il serbatoio dell’ossigeno numero uno, si erano svuotati<br />

facilmente. Ma il serbatoio di ossigeno numero due sembrava intasato, aveva espulso solo l’otto<br />

per cento circa dei suoi 145 chili di poltiglia freddissima e poi non ne aveva fatta uscire più.<br />

Esaminando gli schemi del serbatoio e la storia della sua fabbricazione, i tecnici della base di lancio<br />

e della Beech Aircraft avevano creduto di capire quale fosse il problema.<br />

Quando, diciotto mesi prima, il telaio era stato fatto cadere, avevano sospettato in quel momento, il<br />

serbatoio doveva aver subito più danni di quanto si fossero resi conto i tecnici ella fabbrica: era<br />

stato spostato fuori allineamento un dei tubi di drenaggio nel collo del contenitore.<br />

Ciò aveva fatto sì che l’ossigeno gassoso pompato attraverso la tubazione all’interno del serbatoio<br />

passasse direttamente nella tubazione di uscita senza disturbare la maggior parte dell’ossigeno liquido<br />

che avrebbe dovuto invece rimuovere.<br />

Una decisione fatale<br />

In un’astronave in cui i tecnici rispettavano una tolleranza per gli errori molto vicina allo zero, un<br />

cattivo funzionamento così evidente avrebbe dovuto allarmare. In quel caso non era stato così.<br />

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Quel metodo di svuotamento sarebbe stato usato solo durante le prove sulla rampa. In volo, l’ossigeno<br />

liquido contenuto nel serbatoio non sarebbe uscito dal tubo di sfiato ma da una serie del tutto<br />

diversa di tubazioni che conducevano alle celle a combustibile o al sistema atmosferico che pressurizzava<br />

l’abitacolo con aria respirabile.<br />

Se quel giorno i tecnici fossero riusciti a trovare un sistema per vuotare il serbatoio, avrebbero potuto<br />

riempirlo di nuovo prima del lancio senza doversi preoccupare delle tubazioni di riempimento e<br />

di scarico.<br />

La tecnica che avevano escogitato era semplice ed elegante.<br />

Con la temperatura bassissima a cui si trovava, e con una pressione relativamente bassa, il liquido<br />

nel serbatoio non si sarebbe spostato. Ma che cosa sarebbe successo, si erano chiesti i tecnici,<br />

se si fossero usate le scaldiglie ?<br />

Perché non azionare le bobine di riscaldamento, far bollire la poltiglia e costringere tutto il carico di<br />

ossigeno a uscire dal tubo di sfiato ?<br />

“E’ la soluzione migliore che abbiamo escogitato ?” aveva chiesto Jim Lovell ai tecnici quando era<br />

stato chiamato all’ufficio operativo per una riunione, dove gli era stata spiegata la procedura.<br />

“La migliore che possiamo trovare”, gli era stato risposto.<br />

“Il serbatoio farà tutto quello che deve fare ?”<br />

“Sì”<br />

“Non ci sono altri difetti evidenti ?”<br />

“No”<br />

“E il tubo di sfiato non serve a niente, durante il volo ?”<br />

“A niente”<br />

Lovell aveva riflettuto un istante “Quanto tempo occorrerebbe per togliere il serbatoio e sostituirlo<br />

con uno nuovo ?”<br />

“Solo quarantacinque ore, ma dovremmo provarlo e controllarlo. Se perderemo la finestra di lancio,<br />

la missione dovrà subire un rinvio di almeno un mese.”<br />

“Be’” aveva detto Lovell dopo un’altra pausa di riflessione, “se va bene a voi, va bene anche a me.”<br />

Mesi dopo durante le sedute della Commissione Cortright alla base di lancio, Lovell aveva difeso<br />

quella decisione.<br />

“Ho accettato quella soluzione” aveva detto. “Se avesse funzionato, avremmo potuto effettua il lancio<br />

in tempo. In caso contrario, probabilmente avremmo dovuto sostituire il serbatoio e il lancio<br />

avrebbe subito un rinvio. Nessuno del personale di prova della rampa di lancio sapeva che sul serbatoio<br />

era montato un termostato sbagliato o aveva pensato a quello che sarebbe successo se le<br />

scadiglie fossero rimaste inserite troppo a lungo.”<br />

Il Danno Definitivo: la prima causa<br />

Ma sul serbatoio era davvero montato il termostato sbagliato, quello da 28 volt, e le scaldiglie erano<br />

rimaste davvero inserite troppo a lungo.<br />

La sera del 27 marzo, quindici giorni prima del lancio dell’Apollo<strong>13</strong> , erano state inserite le bobine<br />

di riscaldamento del secondo serbatoio di ossigeno dell’astronave 109.<br />

In considerazione dell’enorme quantita’ di ossigeno intrappolata nel serbatoio, i tecnici avevano<br />

pensato che, prima dell’eliminazione delle ultime tracce di gas, sarebbero trascorse fino a otto ore.<br />

Quel tempo era piu’ che sufficiente perche’ la temperatura del serbatoio salisse sopra la soglia dei<br />

26,5 gradi, ma i tecnici sapevano di poter contare sul termostato per risolvere qualsiasi problema.<br />

Quando quel termostato aveva raggiunto la temperatura critica e aveva cercato di aprirsi, la corrente<br />

a 65 volt che lo aveva attraversato l’aveva fatto fondere all’istante.<br />

Il Danno Definitivo: la causa concatenata<br />

5 di 7


I tecnici della rampa di lancio di Cape Canaveral non avevano modo di sapere che il minuscolo<br />

componente che avrebbe dovuto proteggere il serbatoio di ossigeno si era fuso in posizione chiusa.<br />

AL controllo della procedura di svuotamento era stato assegnato un solo tecnico, ma tutto cio’<br />

che gli strumenti gli avevano detto a proposito delle scaldiglie era stato che i contatti del termostato<br />

erano rimasti chiusi come sarebbero dovuti essere, indicando che il serbatoio non si era surriscaldato.<br />

L’unico indizio che il sistema non funzionava in modo adeguato sarebbe potuto essere un<br />

misuratore sul pannello della strumentazione, che controllava costantemente la temperature dei<br />

serbatoi di ossigeno.<br />

Il Danno Definitivo: l’effetto devastante<br />

Se la lettura fosse salita oltre i 26,5 gradi il tecnico avrebbe saputo che il termostato non aveva<br />

funzionato e avrebbe escluso manualmente le scaldiglie.<br />

Sfortunatamente la scala dello strumento non superava i 26,5 gradi. Essendo tanto scarsa la probabilità<br />

che la temperatura all’interno del serbatoio si elevasse al punto da oltrepassare quella<br />

zona di pericolo, i progettisti del pannello della strumentazione non avevano visto nessuna ragione<br />

per estendere ulteriormente la scala del misuratore e avevano indicato 26,5 gradi come limite superiore.<br />

Quello che non sapeva il tecnico in servizio quella sera – e che non poteva sapere – era che con il<br />

termostato fuso in posizione chiusa la temperatura all’interno di quel particolare serbatoio stava<br />

davvero salendo fino a raggiungere la temperatura di un vero forno: 538 gradi !<br />

Per la maggior parte della sera la scaldiglia era stata lasciata in funzione e per tutto il tempo l’indice<br />

del misuratore aveva segnato 26,5 gradi, una temperatura calda ma sicura.<br />

Alla fine delle otto ore l’ossigeno liquido era evaporato tutto, come avevano sperato i tecnici, ma si<br />

era bruciata anche la maggior parte dell’isolamento in teflon che proteggeva i cavi all’interno del<br />

serbatoio.<br />

Attraverso il contenitore ormai vuoto correva una ragnatela di rame scoperto, con la tendenza a<br />

formare scintille, che sarebbe stata immersa di nuovo, dopo poco tempo, nel liquido che piu’ di<br />

ogni altro aveva la propensione a propagare un incendio: l’ossigeno puro.<br />

La Conseguenza Esplosiva<br />

Diciassette giorni dopo e a quasi 200.000 miglia di distanza, Jack Swigert, obbedendo alla richiesta<br />

quotidiana di Houston, aveva azionato il ventilatore per agitare il contenuto dei serbatoi criogenici.<br />

<strong>Le</strong> prime due volte il ventilatore aveva funzionato normalmente.<br />

Ma la terza, da un filo scoperto era sprizzata una scintilla che aveva incendiato il teflon rimanente.<br />

L’improvviso formarsi di calore e di pressione in un ambiente di ossigeno puro aveva fatto saltare il<br />

collo del serbatoio, la parte piu’ debole del recipiente.<br />

I <strong>13</strong>6 chili di ossigeno puro all’interno del serbatoio si erano immediatamente tramutati in gas e<br />

avevano riempito il comparto quattro del modulo di servizio, facendo saltare il pannello esterno dell’astronave<br />

e provocando l’esplosione che aveva tanto spaventato l’equipaggio.<br />

Il pezzo ricurvo dello scafo,staccandosi dall’astronave, aveva urtato l’antenna ad alto guadagno<br />

dell’orbiter, causando il misterioso cambio di canale che l’addetto alle comunicazioni a terra aveva<br />

notato nello stesso istante in cui gli astronauti avevano riferito lo scoppio e il sobbalzo.<br />

<strong>Le</strong> Conseguenze Catastrofiche<br />

6 di 7


SOMMARIO<br />

<strong>Le</strong> <strong>Cause</strong> dell’Incidente dell’Apollo <strong>13</strong>..............................................................................................<br />

1<br />

Introduzione..................................................................................................................................<br />

1<br />

La Commissione d’inchiesta.........................................................................................................<br />

1<br />

L’anamnesi della progettazione e della fabbricazione..................................................................<br />

2<br />

Il primo evento della catena.........................................................................................................<br />

3<br />

Il secondo evento della catena.....................................................................................................<br />

3<br />

Il terzo evento della catena..........................................................................................................<br />

4<br />

<strong>Le</strong> Prime Avvisaglie: presupposti per il danno...........................................................................<br />

4<br />

Una decisione fatale..................................................................................................................<br />

4<br />

Il Danno Definitivo: la prima causa............................................................................................<br />

5<br />

Il Danno Definitivo: la causa concatenata..................................................................................<br />

5<br />

Il Danno Definitivo: l’effetto devastante.....................................................................................<br />

6<br />

La Conseguenza Esplosiva..........................................................................................................<br />

6<br />

<strong>Le</strong> Conseguenze Catastrofiche.....................................................................................................<br />

6<br />

7 di 7

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