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TFO - Tesi Filosofiche Online - Online Philosophical Theses<br />

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INDICE<br />

Presentazione: la relazione come “ecologia non fondata” pag 4<br />

PARTE PRIMA<br />

La relazione a partire da Heidegger. Note sul concetto di<br />

mondo<br />

Primo capitolo: Il mondo in Essere e tempo<br />

I) La questione dell’essere in Essere e tempo 30<br />

II) L’analitica esistenziale e il “mondo” 40<br />

III) La “cura” e l’ “apertura” 50<br />

IV) Cura realtà e verità 57<br />

Secondo capitolo: La questione del fondamento in Heidegger<br />

I) Sul trascendentalismo di Essere e tempo 63<br />

II) Cura e temporalità 70<br />

III) L’ipseità 73<br />

IV) Alcune valutazioni 80<br />

Terzo capitolo: Sul fondazionalismo del “secondo” Heidegger<br />

I) Fondamento come “principio” 93<br />

II) Telos, archè, physis 97<br />

III) Fondamento come “origine” 102<br />

IV) La “differenza ontologica” 109<br />

V) Fondamento come “mondo” 114<br />

PARTE SECONDA<br />

La relazione secondo Dewey. Note sul concetto di<br />

transazione<br />

Primo capitolo: L’olismo nell’epistemologia di Dewey<br />

I) Mutualità tra uomo e natura 123<br />

II) Il pensiero umano tra mito e filosofia 127<br />

III) Il linguaggio 130<br />

IV) Assonanze interdisciplinari 134<br />

V) Linguaggio e percezione di sé 137<br />

VI) Il linguaggio come cosmos 142<br />

VII) La realtà “corporeo-mentale” 146<br />

VIII) Mente e coscienza 151<br />

IX) Alcuni rilievi critici 155<br />

1


INDICE<br />

Secondo capitolo: L’olismo nella filosofia morale di Dewey<br />

I) L’abitudine 161<br />

II) Impulso e socializzazione 167<br />

III) Pensiero e azione 175<br />

Terzo capitolo: La transazione; il tentativo di scoprire un<br />

paradigma<br />

I) L’ultima fatica di Dewey 180<br />

II) Filogenesi e ontogenesi 183<br />

III) Sul concetto di “transazione” 191<br />

IV) Osservazioni 203<br />

V) Conseguenze 206<br />

VI) Considerazioni conclusive 210<br />

PARTE TERZA<br />

Dalla relazione all’ evento: reciproche implicazioni<br />

Primo capitolo:relazione come raccoglimento<br />

I) Premessa 214<br />

II) La parola relazione 217<br />

III) Raccogliere, legare, manifestare e disvelare 225<br />

IV) Themis e dike, (la legge in Grecia) 229<br />

V) Lex e ius, (la legge a Roma) 233<br />

VI) La giustizia come rettitudine 240<br />

Secondo capitolo: relazione come adeguazione e corrispondenza<br />

I) La verità come adeguazione 247<br />

II) Episteme e aletheia 256<br />

III) Ordine spontaneo e ordine prodotto 260<br />

IV) La razionalità 262<br />

V) Il fondamento tra mondo antico e mondo classico 265<br />

VI) “Risposta” ed “effetto” 270<br />

VII) Tre livelli di approccio 280<br />

VIII) Io, mondo e parola 283<br />

IX) “In-contro” e “ri-unione” 286<br />

X) Aletheia e adequatio 292<br />

XI) Le cose separate il “soggetto” e l’ “oggetto” 297<br />

2


INDICE<br />

Terzo capitolo: la relazione “io-mondo” nella modernità<br />

I) Introduzione 306<br />

II) Cartesio 308<br />

III) Locke 311<br />

IV) Berckeley 315<br />

V) Hume 317<br />

VI) Kant 320<br />

VII) Hegel 330<br />

VIII) Alcune considerazioni finali su Hegel 348<br />

IX) “Muovere” e “togliere”. 353<br />

X) “Re-azione” e “re-lazione” 358<br />

PARTE QUARTA<br />

Evento e relazione: unità e differenza<br />

Primo capitolo: relazione ed alterità<br />

I) Solidarietà tra percezione e linguaggio 364<br />

II) La relazione e l’alterità: riferimento e differimento 370<br />

III) Cos’è allora il fondamento? 378<br />

IV) Relazione come coniugazione 382<br />

V) Evento 387<br />

VI) L’evento nella fisica 397<br />

VII) Permanenza e divenire 406<br />

VIII) Spostamento e mutazione, un approfondimento 410<br />

IX) La regione spaziotemporale 418<br />

X) Regione ed evento 422<br />

Secondo capitolo: il logos della rete. Il contributo di Maturana<br />

I) Premessa 427<br />

II) “Cronotopologia” della rete 428<br />

III) La relazione in riferimento al nostro essere biologico 439<br />

IV) Il concetto di rete applicato al sistema vivente 446<br />

V) Il concetto di rete applicato alla relazione tra sistema vivente e ambiente 452<br />

VI) Autocoscienza e realtà 457<br />

Conclusioni 464<br />

I) Relazione evenemenziale ed essere biologico 465<br />

II) Autocoscienza e linguaggio 473<br />

Bibliografia 477<br />

3


elazione ed evento<br />

Presentazione<br />

Ecologia non fondata 1<br />

Ciò che proporrò qui non si svilupperà dunque semplicemente come un discorso filosofico, che<br />

opera a partire da un principio, da dei postulati, degli assiomi o delle definizioni e si svolge secondo<br />

la linearità discorsiva di un ordine di ragioni. Tutto nel tracciato della différance è strategico e<br />

avventuroso. 2<br />

L’argomento che cercheremo di affrontare in questo scritto è uno dei più discussi<br />

nella storia della filosofia.<br />

La questione di cui ci occuperemo riguarda infatti la relazione tra l’uomo e il<br />

“suo altro”. E quindi dovremo cercare di rispondere a domande come queste: in<br />

che modo l’uomo si relaziona al suo “altro”? Cos’è questo “altro”? Cosa si<br />

intende per “uomo”? Di che natura è questa relazione? Come può nascere e<br />

svilupparsi? Tutte domande connesse e interdipendenti, infatti, la risposta ad una<br />

di queste condiziona tutte le altre.<br />

Se guardiamo alla storia della filosofia, ci accorgiamo che questo problema è<br />

stato impostato fin dagli esordi con un residuo di dualismo. Solo per citare gli<br />

1 Con la locuzione “ecologia non fondata” ci si riferisce ad un tipo di relazione tra l’ “io” e il “mondo”<br />

(con questa finalità si usa il termine “ecologia”), che si sviluppa evenenzialmente, nel modo della<br />

contestualità e della relazione reciproca (quindi non-principiale). Una relazione tra termini che si<br />

coimplicano e che sono solidali tra loro. Di questo tipo di relazione parleremo durante tutto lo scritto.<br />

2 J. Deridda, La différance, Bulletin de la société française de philosophie (luglio-settembre 1968),<br />

traduzione riportata in Margini della filosofia, Einaudi, Torino, 1997<br />

4


esempi più notevoli: Esiodo, nella Teogonia, afferma che da Caos (l’illimitato e<br />

l’incommensurabile) nascono tutte le cose; Per Anassimandro dall’ Apeiron<br />

(l’indeterminato) sorge il determinato. Eraclito sostiene che il principio, l’unità<br />

primordiale é Polemos, ed è quindi dalla “contesa” che si origina il mondo.<br />

Pitagora pensa che ciò che accomuna tutte le cose è il loro essere “unità”: ogni<br />

ente può essere “identificato”, e si differenzia dagli altri; ogni ente è<br />

“indipendente”, e quindi “separato” dagli altri. Dall’alba del pensiero<br />

occidentale, si è cercato di capire il “da dove” della realtà conosciuta, e si è<br />

distinto tra un “generante” e un “generato”.<br />

L’uomo che si interroga sulla sua provenienza è proprio l’uomo che si pone, che<br />

si pensa in relazione al suo “Altro”. Anzi è l’uomo che domanda proprio su un<br />

aspetto “fondamentale” di questo “essere” che è “altro da sé”. Egli infatti non si<br />

sente solo in mezzo a tutto ciò che lo circonda, ma innanzitutto si concepisce “in<br />

relazione a”.<br />

E fin da principio l’uomo ha cerato di scoprire nel proprio “altro” la sua origine,<br />

ha cercato di dare un volto a quel qualcosa da cui proviene. Egli quindi, prima ha<br />

pensato all’ente che lo ha generato, poi al tipo di legame che con esso viene a<br />

stabilirsi.<br />

Le caratteristiche originariamente attribuita a tale ente sono l’unità e l’eternità.<br />

E, una volta stabilita la sua identità, si è posto il problema di capire il “perché” e<br />

il “come” di tale “filiazione determinata” (e “finita”), dall’ “uno ed eterno”.<br />

Molti filosofi, peraltro, non hanno risposto né all’una né all’altra domanda<br />

(hanno semplicemente descritto questa entità archetipa e i frutti della sua<br />

generazione); altri hanno spiegato solo il come (ad esempio, il demiurgo<br />

platonico, o la teoria causale aristotelica); altri ancora, come i medievali, ci<br />

hanno detto sia il perché (l’infinità bontà di Di o), che il come (la creazione ex<br />

nihilo).<br />

In altre parole, si è cominciato ad indagare considerando problematica l’identità<br />

dell’origine, e sicure la sua esistenza e la sua essenza assoluta. In questo modo, è<br />

scaturito il dualismo tra ciò che genera e ciò che viene generato;<br />

5


l’argomentazione sembra a prima vista del tutto evidente: se tutto quello che<br />

esiste è in continuo divenire significa che esso è nato e dovrà morire. Se una cosa<br />

nasce ci deve essere per forza qualcosa che la genera (se essa muore ci deve<br />

essere qualcosa che la accoglie). Dal finito non può che nascere il finito; quindi<br />

ci deve essere qualcosa di originario, di eterno, al principio (e alla fine) di tutte le<br />

cose.<br />

Allora, il limitato non può che sorgere dall’illimitato, il determinato<br />

dall’indeterminato, gli essenti dall’Essere e così via. Per secoli il problema è<br />

stato quello di capire in che cosa consistesse questa archè, e quale fosse il<br />

rapporto che la lega all’ente. 3<br />

È del tutto evidente che queste argomentazioni derivano dalle domande che<br />

l’uomo si pone in merito al significato, al perché, e al modo della relazione tra<br />

egli stesso e il suo “altro”.<br />

Ogni teoria filosofica adotta una determinata prospettiva, la quale condiziona il<br />

suo modo di trattare l’argomento.<br />

Vale la pena di notare, ad esempio, che in base al modo di impostare la relazione<br />

in oggetto cambia il concetto di “essere” che le diverse teorie utilizzano. I<br />

presocratici intendono l’essere come physis, cioè possibilità della manifestazione<br />

della cosa, o come l’indeterminazione da cui “sorgono”, “sbocciano”, le<br />

determinazioni; quindi l’opposizione si stabilisce tra l’ “essere” e l’ “essente”;<br />

L’essere è ciò che fa nascere (Apeiron, Caos, Polemos), l’essente è ciò che nasce.<br />

Per Platone, che intende l’essere come “idea” (cioè la presenza dell’essenza nella<br />

sua massima evidenza) e il mondo sensibile come sua copia, l’opposizione viene<br />

a porsi tra l’ “essere” e il “divenire”, cioè tra l’ente immutabile ed eterno e l’ente<br />

corruttibile.<br />

3 L’impostazione non cambia con Platone (che oppone al mondo delle idee il mondo sensibile), e con<br />

Aristotele (che pone la causa prima all’origine del cosmo); e non si modifica nemmeno con la filosofia<br />

medievale che (mediando tra cristianesimo e pensiero greco) trasforma Dio nell’ ens perfectissimum,<br />

creatore ex nihilo di tutte le cose. Il pensiero moderno merita un discorso a parte perché, pur mantenendo<br />

lo stesso modello dualistico, cambia notevolmente i termini della questione.<br />

6


Il pensiero medievale invece, in virtù della natura del Dio creatore, contempla<br />

l’opposizione tra l’ “essere” e il “nulla”. Al di fuori della “mano” di Dio (il<br />

Creato) si dà il “niente”. Allora:<br />

“essere” come possibilità e modalità della manifestazione dell’essente;<br />

“essere” come massima evidenza (eidos), permanenza e stabilità nella presenza;<br />

“essere” come totalità, perfezione e creazione.<br />

Ogni significato attribuito all’essere porta ad una conseguente configurazione<br />

della relazione tra l’uomo e il suo mondo. Ma il significato attribuito, a sua volta,<br />

dipende da come si concepisce tale relazione.<br />

Se si paragonano i diversi modi di intendere l’ “essere” emergono aspetti molto<br />

interessanti. L’opposizione presocratica tra l’essere e l’essente porta a<br />

considerare l’essere privo di qualsiasi determinazione: ciò che permette la<br />

presenza del “limitato” e del “determinato” è per forza “il-limitato”, “in-<br />

determinato”, “in-commensurabile”; quest’ultimo è ciò che si oppone all’ente, e<br />

potrebbe venir definito come un “non-ente” e quindi un “ni-ente”. Ed il niente è<br />

proprio ciò che i medievali oppongono al loro “essere”. Per questi ultimi, infatti,<br />

l’essere è un ente, privo però di qualsiasi imperfezione, quindi appunto,<br />

“perfetto”, “assoluto” (l’ens perfectissimum).<br />

Tra il concetto di essere presocratico e quello medievale c’è stato un vero e<br />

proprio ribaltamento di significato, con conseguenze notevolissime su molti altri<br />

concetti fondamentali dell’argomentazione filosofica (e più in generale sul modo<br />

di intendere la relazione tra l’uomo e il suo mondo). Ad esempio, per i<br />

presocratici la verità è disvelamento, per i medievali adeguazione; e ciò è<br />

conseguenza del fatto che l’essere per gli uni è physis cioè “manifestazione”, per<br />

gli altri è entità assoluta. Se l’essere è “manifestazione” la verità si dà nel<br />

“disvelamento”, se invece l’essere è perfezione, la verità non può che conseguire<br />

da un adeguamento a tale perfezione. Da tutto ciò derivano molte altre<br />

7


conseguenze che coinvolgono aspetti importanti dell’argomentazione che qui si<br />

intende svolgere. 4<br />

E ancora, per i presocratici la physis è semplicemente ciò da cui si originano le<br />

cose, mentre i medievali cercano la via “razionale” per “di-mostrare” l’esistenza<br />

dell’ente sommo: se l’ente finito può essere percepito attraverso i sensi, l’ente<br />

infinito, rimanendo pur sempre un ente, può essere “dedotto” attraverso la<br />

ragione. Qui si manifesta tutta l’influenza che la filosofia di Platone ha esercitato<br />

sul pensiero medievale. 5<br />

Dal periodo di Anassimandro a quello di Tommaso sono trascorsi quasi duemila<br />

anni e il modo di intendere il proprio rapporto con l’alterità si è trasformato<br />

profondamente, ma non è cambiata la logica dualistica del “generante” e del<br />

“generato”.<br />

Un passo ulteriore viene compiuto in epoca moderna, che viene segnata dalla<br />

visione “umanista”. L’uomo si erge sempre più al centro dell’attenzione della<br />

filosofia e della scienza; il pensiero umano cerca in questo modo<br />

l’emancipazione da ciò che lo trascende e lo vincola. Dio, e più in generale il<br />

divino, pur continuando ad essere un punto di riferimento, è sempre meno il<br />

diretto oggetto d’indagine.<br />

Non a caso si pone come momento d’inizio di questo periodo il pensiero di<br />

Cartesio, e il suo “cogito ergo sum”. L’uomo diventa “soggetto” (e l’ente<br />

“oggetto”), così il dualismo si gioca tutto tra entità terrene, immanenti.<br />

Cartesio fonda la sua filosofia sul dualismo tra res cogitans e res extensa, tra<br />

sostanza pensante e sostanza materiale (“pesante”). Il pensiero “pondera” e<br />

“misura”, diventa ratio, cioè calcolo, e si perde sempre di più la dimensione<br />

contemplativa.<br />

4 Queste considerazioni vengono sviluppate lungo tutto il corso dello scritto, ma in particolare nei primi<br />

paragrafi della quarta parte. Le analisi terminologiche si rendono necessarie per evitare il pericolo di<br />

cadere in qualsiasi nuova forma di dualismo. Il tentativo di uscire dal dualismo e di rendere superflua la<br />

presenza di qualsiasi “principio”, infatti, deve passare anche attraverso una delucidazione dei più<br />

importanti termini usati.<br />

5 E’ appena il caso di accennare alle polemiche sorte tra teologia positiva e teologia negativa sulla<br />

possibilità di “di-mostrare” e quindi di “definire” l’ “eterno” e l’ “in-finito”.<br />

8


Ciò che accomuna tutta la filosofia precedente è appunto la ricerca di un<br />

riferimento “trascendente”, l’ archè originaria, qualcosa di totalmente “Altro”<br />

rispetto all’uomo e alla sua dimensione terrena; si configurano in questo modo<br />

l’Apeiron di Anassimandro, l’Iperuraneo di Platone, il Motore immobile<br />

aristotelico, e naturalmente il Dio dei medievali. Per gli antichi e per i medievali<br />

la filosofia è pensiero, ma soprattutto contemplazione. Il Filosofo per Platone è<br />

colui il quale non lavora, non ha occupazioni materiali, e si dedica<br />

completamente alla ricerca della “Verità”; cioè alla ricerca di una dimensione<br />

assoluta; e questo modello viene assunto anche nel medioevo.<br />

In epoca moderna invece, il filosofo, come lo scienziato, si dedica a cose molto<br />

più “materiali”; egli è impegnato a “scoprire” i segreti della natura, e a concepire<br />

“metodi” che lo aiutino in tale indagine. La sua attività diventa molto più tecnica:<br />

proprio perché fondata su metodi e su procedure codificate. 6<br />

L’uomo che diventa soggetto è molto più interessato agli oggetti che lo<br />

circondano che alla contemplazione dell’ultraterreno.<br />

E’ con il pensiero moderno infatti che, come ha visto molto bene Nietzsche, si<br />

compie la “morte di Dio” (ovviamente di un certo “tipo” di Dio).<br />

Il pensatore ha il compito di decodificare la natura, ha il compito di capire e di<br />

scoprire; ci si convince che attraverso la matematica e la geometria si possano<br />

decifrare tutti i segreti dell’universo. Galileo, ad esempio, afferma che l’universo<br />

“è scritto con il linguaggio della matematica”. Ma anche i filosofi – da Bacone a<br />

Cartesio – sono molto più interessati a sviluppare “metodi” e strumenti<br />

matematici, che a occuparsi della speculazione teologica.<br />

Il concetto di verità cambia di conseguenza: non più elemento ultraterreno, ma<br />

spiegazione e scoperta del funzionamento delle relazioni “cosmiche”. Ciò che<br />

interessa al “padre della modernità” infatti è il soggetto, la sua razionalità, e la<br />

relazione che instaura con gli oggetti. Quale posizione occupa l’uomo nel<br />

mondo? Che tipo di rapporto c’è tra lui e gli enti? Perché gli antichi non hanno<br />

6 Appunto, il concetto di “metodo”, composto da metà e hodos: “commino” attraverso il quale si va<br />

“oltre”, cioè si arriva alla meta; quindi “criterio e norma direttivi secondo i quali si fa, si realizza, si<br />

ottiene qualcosa”.<br />

9


dato risposte convincenti a tali quesiti? Dove sta il limite, l’errore delle filosofie<br />

antiche?<br />

Queste sono le domande che portano Cartesio a scoprire lo iato che separa la<br />

“realtà” dal “pensiero”, e a produrre così una vera e propria rivoluzione; infatti,<br />

un’altra accusa che, in quest’epoca, viene mossa ai filosofi medievali e antichi è<br />

di essere stati “realisti”; cioè di non aver saputo distinguere tra il contenuto<br />

immediato del proprio pensiero e la realtà esterna. La rivoluzione cartesiana è la<br />

conseguenza di questa straordinaria intuizione: ciò che percepisco e ciò che<br />

penso non sono “enti reali”, ma proprio in quanto “pensati” sono “oggetti” della<br />

mente. Così diventa necessario chiedersi quale relazione ci sia tra ciò che<br />

“penso” e ciò che esiste nella “realtà”.<br />

Cartesio afferma che lo scetticismo (egli era molto stimolato dalle considerazioni<br />

di Montaigne) si nutre proprio di questa confusione, e che la verità può essere<br />

raggiunta solo dopo aver lasciato spazio alla scepsi del cogito. Si tratta quindi di<br />

un lavoro di ricostruzione radicale che deve partire dall’unica certezza<br />

immediata: il fatto che sto dubitando.<br />

In questo modo però il filosofo francese toglie la necessità di un riferimento<br />

“esterno” alla verità. Il soggetto è in grado di ottenere la verità attraverso il suo<br />

pensiero; il soggetto viene così ad acquisire una dimensione centrale nel cosmo,<br />

perché è riuscito a liberarsi dalla necessità di cercare la verità al di fuori di se<br />

stesso.<br />

E questo può sembrare paradossale se si pensa che qualche tempo prima<br />

Copernico dimostrò la posizione “periferica” dell’uomo e del suo mondo<br />

nell’universo; quindi da un lato la scienza spoglia l’uomo delle sue credenze<br />

profonde, dall’altro la filosofia che gli assegna il ruolo di “motore” di queste<br />

scoperte e di “creatore” di verità.<br />

Così comunque, l’uomo si accorge di poter fare a meno di ciò che gli viene<br />

“rivelato”, e di aver la possibilità invece di cercare e trovare da solo quello di cui<br />

ha bisogno. Egli acquista consapevolezza della sua forza e delle sue capacità.<br />

10


Ancora una volta ha ragione Nietzsche quando afferma che la sete di conoscenza<br />

dell’uomo moderno è una forma di volontà di potenza.<br />

Il modo di considerare il rapporto tra l’uomo e il suo altro subisce un radicale<br />

cambiamento di prospettiva. L’alterità infatti non viene più cercata nella<br />

trascendenza (non importa più cosa succede fuori dal mondo); l’uomo si rivolge<br />

al suo ambiente più prossimo, agli enti che lo circondano e alle cose delle quali<br />

fa esperienza quotidianamente. Tanto più che egli non ha più bisogno dell’entità<br />

ultraterrena per ottenere la verità, in quanto egli ha scoperto che essa risiede nella<br />

sua mente.<br />

Allora, da un lato i “realisti” (antichi e medievali) considerano la verità come<br />

qualcosa di indipendente, alla quale l’uomo si deve adeguare. Agostino afferma:<br />

«Non è il pensiero che crea la verità, esso la scopre: la verità esiste in se stessa<br />

anche prima di essere scoperta». Dall’altro gli “idealisti” per i quali la verità è un<br />

prodotto della ragione. Per i realisti l’idea è l’ id quo cognoscitur (ciò per mezzo<br />

di cui si conosce), lo strumento che consente di attingere la verità; per gli idealisti<br />

l’idea è id quod cognoscitur (ciò che è conosciuto), cioè il contenuto della verità.<br />

La separazione è radicale, nessun filosofo antico avrebbe mai potuto concepire<br />

una cosa di questo tipo. 7<br />

Ora dunque, la disputa si pone tra “realisti” e “idealisti”. Per i moderni, le<br />

filosofie antica e medievale sono definibili come “realismo”, in quanto esse si<br />

fondano sull’assunto che è l’intelletto a doversi adeguare alle cose esterne (non<br />

importa se “materiali” o “ideali”; la verità proviene comunque da un<br />

adeguamento dell’umano a qualcosa di esterno ad esso). La modernità<br />

rappresenta invece il processo che porta a configurare il soggetto come creatore<br />

di senso, o addirittura come “creatore” della verità.<br />

7 Sbaglia anche chi considera Platone un “idealista” (nel senso moderno del termine). Per lui infatti la<br />

verità sta nel mondo iperuraneo, il quale è trascendente per definizione; quindi la verità si ottiene per<br />

adeguazione. Il filosofo può raggiungere la verità (può uscire dalla caverna dell’opinione) solo attraverso<br />

un lungo addestramento. La reminiscenza (il ricordo delle idee) non è né un possesso originario, né tanto<br />

meno un prodotto della ragione; ma è il frutto di un contatto prenatale dell’anima col mondo delle idee,<br />

cioè un incontro col luogo originario della verità; in questo senso Platone è “realista” come tutti gli altri<br />

filosofi antichi.<br />

11


Quando la filosofia scopre di non poter accedere al cosiddetto “mondo esterno”<br />

si compie la separazione tra “certezza” e “verità”. Nel mondo antico le due cose<br />

coincidevano: la certezza si raggiunge solo quando si è in possesso della verità.<br />

Cartesio invece dubita della possibilità che ciò avvenga (si può essere certi anche<br />

di ciò che è falso), e Kant separa categoricamente il mondo fenomenico da quello<br />

noumenico. La verità diventa un fatto privato, “mentale”, esclusivamente<br />

soggettivo. E solo per questa via, Hegel può riprodurre, in modo “speculare” a<br />

quello antico, l’identità di certezza e verità, perché il soggetto assoluto diventa<br />

“creatore”. La volontà di potenza della “ragione” raggiunge così il suo apice.<br />

Nel soggetto assoluto di Hegel vengono a coincidere la verità e la realtà; la<br />

volontà di potenza di Nietzsche determina, volend olo, l’ente (cioè tutto ciò che la<br />

circonda). In questo modo il realismo viene ribaltato dall’idealismo moderno, che<br />

inizia con Cartesio si compie con Hegel, e ha Nietzsche come suo epigono.<br />

Nella modernità, quindi, la relazione tra l’uomo e l’altro da sé diventa la<br />

relazione tra il “soggetto” e l’ “oggetto”; si perde il riferimento alla trascendenza,<br />

e l’ “altro” diventa semplicemente “oggetto”: le due entità stanno una di fronte<br />

all’altra nella loro autonomia e individualità.<br />

L’uomo moderno vuole ricavare dall’ente la massima utilità. La cosa diventa uno<br />

“strumento” per aumentare la propria potenza.<br />

Il mondo moderno abbandona la ricerca dell’Essere, che fu invece riferimento<br />

costante della filosofia antica. Il problema dell’Essere cessa di costituire un<br />

problema. Il rilievo che, ad esempio, Heidegger muove alla modernità è proprio<br />

di aver dimenticato il senso dell’essere, e di averlo confuso con l’ente. Essere,<br />

infatti, per i moderni significa solo “presenza”. L’essere è appunto scambiato,<br />

con la “semplice-presenza” degli enti. Il compimento della “metafisica” si ha,<br />

secondo il pensatore tedesco, in epoca moderna proprio con la totale<br />

dimenticanza della questione cardinale per la filosofia. In questo modo la<br />

relazione che l’uomo intrattiene col mondo non può che uscirne menomata.<br />

Dimenticare l’essere significa configurare rapporti basati sulla separazione degli<br />

enti (appunto l’oggetto che in quanto presente si contrappone al soggetto).<br />

12


L’oggetto diventa anche “corpo”, cioè l’elemento di indagine principale della<br />

fisica. In questo modo, si afferma la visione tecnica del mondo.<br />

La maniera di rapportarsi all’ente diventa quella dello sfruttamento. L’uomo<br />

moderno vuole “as-soggettare” il mondo, vuole trasformarlo in un gigantesco<br />

meccanismo dal quale trarre il massimo profitto. La logica è quella del dominio.<br />

Ma sotto un altro punto di vista, la modernità, rinunciando ad usare la<br />

trascendenza per comprendere la relazione che lega l’uomo al suo “contesto”, al<br />

suo mondo, accetta una sfida notevole, si impegna a non sfuggire di fronte alle<br />

difficoltà che lo studio di questo argomento ha posto.<br />

Ad un certo punto, nella storia del pensiero, è sembrato più una comodità (una<br />

via d’uscita), che una necessità (un’incontestabile cifra del cosmo) usare il<br />

“divino” per investigare l’alterità, per dare risposte in merito a tutto quello che ci<br />

circonda.<br />

Cartesio ha avuto il merito di cominciare a non scomodare Dio per trattare<br />

questioni che riguardano l’uomo immerso nel suo mondo. Ha avuto la forza di<br />

affrontare questo problema aprendo un’altra via rispetto a quelle praticate sino ad<br />

allora. 8 Egli ha lasciato le cose divine sullo sfondo, e ha fatto emergere l’uomo.<br />

Ha cercato di impostare la ricerca usando strumenti “scientifici”, strumenti che<br />

gli consentissero conoscenze “certe” sull’oggetto indagato. Ha separato<br />

l’esperienza del divino dall’esperienza sensibile; ha inteso il mondo in termini<br />

materiali, per poterlo studiare per penetrarne i segreti, per poterlo riprodurre; ha<br />

dato il via ad una stagione di grandi cambiamenti (anche se non tutti positivi); ha<br />

concepito un sistema diverso di “stare al mondo”, e un modo originale di<br />

considerare l’ “altro”. Certo, la modernità ha alimentato eccessi, ed errori, ma ha<br />

anche prodotto una nuova figura d’uomo.<br />

Da questa prospettiva, anche il tragico annuncio di Zarathustra, perde efficacia:<br />

Dio non può lasciarsi uccidere; “consentire” all’uomo di emanciparsi nella<br />

8 Certo, nella sua filosofia è presente il riferimento a Dio, ma è un riferimento indiretto, quasi “forzato”:<br />

Dio non può essere il “grande ingannatore”; l’uomo può “osare” sicuro della benevolenza del Padre.<br />

13


icerca delle cose terrene (e la relazione dell’uomo al suo altro può essere<br />

considerata anche una cosa terrena) non è né un’abdicazione, né una resa. 9<br />

E poi assegnare alla volontà del Dio tutto ciò che non si riesce a spiegare<br />

razionalmente è un’abitudine antica dell’uomo; le tribù primitive facevano<br />

grande uso della mitologia proprio in mancanza di altre spiegazioni plausibili;<br />

quindi, perseverare nel considerare “verità sul cosmo” una determinata<br />

interpretazione delle “Scritture” può essere sintomo di intransigenza (e anche di<br />

intolleranza), può essere segno di un approccio mentale scarsamente elastico,<br />

piuttosto che mostrare la fede in un certo Dio. 10 Per queste ragioni forse l’uomo<br />

moderno ha intrapreso altre strade . 11<br />

E’ possibile, allora, pensare al proprio altro e alla propria “provenienza” in<br />

termini laici, senza rinnegare Dio? È forse un’eresia affermare che cercare di<br />

avvicinare Dio con la sola ragione è un’operazione molto incerta e anche<br />

pericolosa? E non è invece possibile affrontare il tema della relazione tra l’<br />

“uomo” e il suo “mondo” (il suo “altro”) in termini esclusivamente razionali?<br />

Perché Dio (qualsiasi Dio) dovrebbe impedire questo tentativo? Forse queste<br />

sono proprio le domande che, a suo tempo, si pose Cartesio.<br />

Allora, il mondo moderno introduce un nuovo paradigma di pensiero. La<br />

questione dell’alterità viene affrontata senza far ricorso ad elementi trascendenti,<br />

9 Tutt’al più può essere considerato un atto d’amore: né l’uomo, né il superuomo possono uccidere Dio.<br />

Sembra evidente!<br />

10 Qui si pensa che il rapporto che ogni uomo intrattiene con Dio sia qualcosa di molto più complesso,<br />

di molto più delicato, di molto più personale, di molto meno generalizzabile, di molto più appagante, che<br />

qualsiasi teoria sull’origine del mondo. Le due cose appartengono a domini diversi, e cercare di vedere in<br />

Dio il creatore del mondo per poterne avvertire la presenza può essere un atteggiamento più consolatorio<br />

che religioso. Ridurre Dio alla causa di qualcosa, o metterlo all’origine dei fenomeni terreni, per poterne<br />

asserire l’esistenza sembra una scelta piuttosto sbrigativa. Si dovrebbero cercare altre strade per<br />

avvicinarlo, o almeno dovrebbe essere consentito cercarle. Ma questo non è un argomento che si intende<br />

sviluppare in questa sede.<br />

11 In buona sostanza, secondo il punto di vista moderno, l’atteggiamento di chi vuol far risalire tutto alla<br />

volontà divina (e pretende di dare dimostrazioni “razionali” dell’intervento, e della presenza di Dio) non è<br />

molto diverso da quello primitivo che spiegava tutto attraverso il mito.<br />

14


nel senso che si cerca di spiegare il rapporto tra l’ “io” e il “mondo” in termini<br />

esclusivamente “razionali” (si cerca di non ricorrere all’ultraterreno).<br />

E questo atteggiamento viene definito “scientifico”, perché si basa sull’<br />

“esperimento”, sulla verifica diretta (osservabile) delle teorie avanzate, perché<br />

permette la riproducibilità di tutti gli elementi sottoposti a indagine. Scienza e<br />

filosofia, almeno per un certo periodo, non si distinguono molto in merito ai<br />

parametri adottati, tanto è vero che i maggiori filosofi sono anche i più grandi<br />

scienziati e matematici (basti pensare a Cartesio a Pascal, e a Leibniz). Certo,<br />

l’idealismo segna una rottura tra le due discipline, ma anch’esso non rinuncia<br />

all’impostazione data da Cartesio alla filosofia. 12<br />

L’uomo che si emancipa dal ricorso al divino per relazionarsi al suo altro,<br />

“vuole” conoscere, “vuole” capire, “vuole” dominare. L’altro da sé diventa<br />

l’oggetto da usare, il meccanismo da decifrare e riprodurre. L’uomo si pone al<br />

centro del suo mondo, ne diventa il signore.<br />

La res cogitans si scopre capace di dubitare e di risolvere, l’ appercezione<br />

trascendentale ordina il mondo fenomenico, e il soggetto assoluto coincide<br />

addirittura col mondo. La soggettività diventa quindi il sostrato del reale, la sua<br />

condizione d’esistenza; il mondo viene ad avere un rapporto di assoluta<br />

dipendenza dall’uomo. Allora la realtà non è più capace di verità come reputava<br />

Agostino, ma deve ricevere la sua verità dal soggetto.<br />

Però bisogna sottolineare che, se per un verso la modernità può essere<br />

considerata un’epoca di rottura rispetto a quella antica, proprio in virtù di tutti i<br />

cambiamenti che ha portato (il più rilevante dei quali è il passaggio dal realismo<br />

all’idealismo), dall’altro essa ne rappresenta il compimento, in quanto porta alle<br />

estreme conseguenze quel rapporto di derivazione dualistico (che si può<br />

rintracciare sin dalle filosofie presocratiche), tra il fondamento e ciò che viene<br />

fondato.<br />

12 Fino al punto che Hegel vuol fare della filosofia la vera scienza; e il titolo di quella che è forse la sua<br />

opera maggiore è Scienza della logica.<br />

15


Si tratta sempre di trovare origini e inconcussi punti di partenza. Il compito che ci<br />

si pone è sempre quello di trovare il luogo di provenienza originario e assoluto;<br />

ciò da cui deriva ogni cosa (il legame che si instaura tra un’ “origine” e un<br />

“originato” è sempre un rapporto dipendenza). 13<br />

In questo tragitto, anche il concetto di “uomo” subisce notevoli modificazioni;<br />

nell’antichità egli è un ente tra gli enti, compreso nell’ordine cosmico. 14 I<br />

medievali lo considerano “creatura di Dio”; comincia così a delinearsi una<br />

differenza netta tra uomo e cosa. Il creato (quindi tutte le cose) è stato donato da<br />

Dio all’uomo perché ne disponga, e lo usi a suo vantaggio. Per Cartesio l’uomo è<br />

“soggetto” cioè entità separata dal suo contesto, ma egli attraverso l’uso della<br />

razionalità può conoscere la verità e domina re sul mondo; quindi non c’è più<br />

bisogno del dono di Dio (si comincia a rinunciare al rapporto con la<br />

trascendenza). Kant lo considera esplicitamente “substrato” e “causa” del mondo<br />

fenomenico; con Hegel viene ad essere “soggetto assoluto”, incontro di verità e<br />

realtà. L’evoluzione continua con Nietzsche che lo battezza “superuomo”, e che<br />

lo considera in grado di esercitare la volontà di potenza, capace cioè di ottenere<br />

ciò che vuole, libero da qualsiasi dipendenza dal trascendente; il superuomo<br />

proclama la morte di Dio e si rivolge allo spirito della terra; egli è Dioniso e<br />

Apollo, forza e bellezza; finalmente privato dai ceppi che lo imprigionavano; egli<br />

è padrone di se stesso e del mondo, egli è al di sopra del bene e del male; egli<br />

“è”, appunto, “volontà di potenza”.<br />

L’uomo che comincia ad interrogarsi sull’alterità, trova la via per emanciparsi<br />

sempre di più dal “divino”. 15 L’uomo cerca la strada per “differenziarsi”, per<br />

marcare la propria singolarità rispetto a tutto ciò che lo circonda. Il processo di<br />

13 L’origine è anche l’ “elemento comune” delle cose presenti, infatti se tutto deriva dall’uno, quell’uno<br />

è presente in tutte le cose. Allora, le teorie moderne sul “fondamento” (origine), e sul sostrato (elemento<br />

comune) degli oggetti, non sono che l’ultimo tentativo compiuto dalla metafisica di spiegare il “da dove”<br />

e il “come” degli enti; cioè l’ultimo tentativo di superare le difficoltà e le contraddizioni in cui erano<br />

incappati i tentativi precedenti. L’elemento di continuità tra tutte queste teorie è infatti l’assunto che le<br />

cose siano legate da rapporti di dipendenza.<br />

14 Il mondo antico è rimasto per lungo tempo sotto l’influsso dell’animismo.<br />

15 E la storia della filosofia coincide con la storia di questa emancipazione.<br />

16


identificazione alla fine può essere considerato un processo di<br />

individualizzazione. L’uomo vuole indipendenza e superiorità nei confronti<br />

dell’ente.<br />

In questo modo però il soggetto e l’oggetto moderni si presentano come enti<br />

separati e a sé stanti. Il risultato ottenuto è da un lato la vittoria del soggetto,<br />

dall’altro la prosecuzione e il rafforzamento del dualismo. L’idealismo (ultima<br />

evoluzione della filosofia moderna) infatti rappresenta il ribaltamento delle<br />

posizioni realiste, nella continuità del modello dualistico di riferimento. Se prima<br />

era l’uomo a doversi adeguare alla realtà, ora è l’oggetto a dipendere dal<br />

soggetto. Il rapporto che si configura è sempre di dipendenza, è sempre<br />

dualistico. Sono radicalmente mutati i termini del dualismo ma il dualismo è<br />

rimasto: da una parte ciò che produce, o causa, dall’altra l’effetto, il prodotto. I<br />

cardini della relazione (al di là delle posizioni occupate da questo o da quell’ente)<br />

rimangono invariati: si parte sempre da un rapporto di dipendenza, in base al<br />

quale c’è bisogno di un fondamento o, di un principio inconcusso stabile, che<br />

genera le sue conseguenze. E il problema irrisolto rimane la natura, la specificità<br />

di tale fondamento.<br />

Del resto, che sia l’uomo a dipendere dal mondo o viceversa il mondo a<br />

dipendere dall’uomo rimane aperta anche la questione del legame tra le due<br />

entità. Se è vero che l’attività di percezione può non essere neutrale, e l’uomo<br />

quindi è sicuro solo del percepito, in un ottica dualistica, è anche vero che l’ente<br />

che viene percepito ha una sua consistenza e identità (che dovrà essere tenuta in<br />

considerazione). Ovvero, se si accetta la “separazione” tra soggetto e oggetto sarà<br />

molto difficile trovare la strada per farli “incontrare” per metterli in relazione;<br />

infatti, o la dipendenza, di uno dall’altro, rende problematico sostenere la loro<br />

autosufficienza; o viceversa, la loro autonomia porta al loro isolamento. O sono<br />

“separati”, o sono “dipendenti”. Se sono separati non è possibile alcuna relazione<br />

tra loro (totale contraddizione); se sono dipendenti, dal dualismo si cade nel<br />

solipsismo: soggetto e oggetto sono “la stessa cosa”, non enti a sé stanti. In una<br />

17


situazione di questo tipo cosa si potrà affermare con sicurezza sull’ente, o sul<br />

mondo?<br />

A tutti i problemi lasciati aperti dal dualismo moderno cerca di rispondere<br />

Heidegger, il quale sin dalla sua opera maggiore, imposta la relazione tra uomo e<br />

mondo in modo rivoluzionario. Egli intende la “persona” come “esistenza”.<br />

Qualcosa di totalmente diverso rispetto al “soggetto” moderno, 16 in quanto la sua<br />

cifra caratteristica non è più la separazione dall’ “oggetto”, ma l’originaria e<br />

imprescindibile relazione col suo “mondo”. L’ “esistenza” per Heidegger è<br />

“esserci”: l’essere che “ci” è nel mondo. Tanto che per l’Heidegger di Essere e<br />

tempo non sono più sufficienti le categorie kantiane 17 per cogliere il modo<br />

d’essere del Dasein ma si deve ricorrere a categorie specifiche adatte solo al suo<br />

caso: gli “esistenziali”.<br />

Per il filosofo tedesco, l’ “esistenza” non può essere considerata semplicemente<br />

“soggettività”, perché in tal modo si manca la sua caratteristica propria, la sua<br />

natura esistenziale, la sua originaria “familiarità” col mondo.<br />

L’esistenza è “essere-nel-mondo”; nel senso che essa non è solo “presente” nel<br />

mondo ma “esiste”, si relaziona, “utilizza”, “si prende cura” di ciò che la<br />

circonda. L’ente “esistenza” è qualcosa di molto più complesso dell’ente<br />

“presenza”. La costitutiva possibilità di utilizzare strumenti, di comprendere<br />

significati, di “essere-con” gli altri costituisce il modo d’essere dell’esserci.<br />

Heidegger attraverso il concetto di “essere-nel-mondo” vuole superare le aporie<br />

in cui era caduto il pensiero moderno nel tentativo di spiegare le relazioni tra<br />

soggetto e oggetto. Egli sa che accettando la separazione originaria tra i due non<br />

è possibile poi porvi rimedio.<br />

In altre parole, egli capisce che tutti i problemi della filosofia moderna derivano<br />

dalle premesse che essa stessa ha posto, derivano cioè dalla sua errata<br />

impostazione ontologica. Così indicare soggetto e oggetto come enti presenti<br />

16 Il quale appunto è un ente che non “esiste”, ma che è “semplicemente-presente”.<br />

17 Quelle usate per gli enti “semplicemente-presenti”: per gli “oggetti” ma anche per i “soggetti”.<br />

18


stabilmente nel mondo, nella loro reciproca indipendenza, significa mancare la<br />

loro condizione ontologica fondamentale, e dimenticare totalmente la questione<br />

del mondo. Significa, cioè, separarli senza nessuna possibilità di ricongiungerli.<br />

Il loro “essere” infatti non è dato dalla “semplice-presenza”, dalla permanenza,<br />

ma è qualcos’altro.<br />

Innanzitutto, si deve distinguere tra il modo d’essere del Dasein e quello dell’<br />

“ente intramondano”: Il Dasein è l’ente che “esiste”, in virtù della sua mondità;<br />

egli è “ek-sistenza”, cioè relazione originaria con l’altro da sé; ek-sistere vuol<br />

dire star “già-da sempre-presso” l’ente e presso gli altri. L’ “ente intramondano”<br />

invece è l’utilizzabile che riceve dal mondo la sua “appagatività” e la sua<br />

“significatività”. Esso non ha un significato di per sé, ma lo riceve solo<br />

all’interno della “rete dei rimandi”. A differenza dell’oggetto quindi, non ha<br />

un’identità propria e indipendente dal “contesto” nel quale è “contenuto”. 18<br />

Ciò implica che l’ “ente intramondano” è innanzitutto “per il Dasein”, non<br />

semplice e autonoma “presenza”. Grazie al “mondo” cioè, la relazione non è<br />

qualcosa da “scovare”, da “provare”, e da “aggiungere” agli enti, ma una<br />

caratteristica costitutiva del loro essere. Per questi motivi, si può dire che già in<br />

Essere e tempo viene superato il dualismo tra soggetto e oggetto.<br />

Da tutto ciò, emerge l’importanza dell’intuizione heideggeriana: la mondità<br />

rappresenta la possibilità autentica della relazione fra gli enti, e la via per una<br />

conseguente loro nuova configurazione. L’esserci è definito “essere-nel-mondo”,<br />

vive nel suo, e del suo “ci”; riceve la sua stessa “possibilità” di esistenza dal<br />

mondo; e l’ente è “intra-mondano”, il suo essere si può manifestare solo in virtù<br />

della “totalità” nella quale è inserito. Ed è proprio la mondità che rende la loro<br />

relazione originaria, e imprescindibile. Le possibilità dell’esserci provengono dal<br />

“suo essere in relazione con”, quelle dell’ente dalla sua significatività, entrambe<br />

si danno nel mondo.<br />

L’esserci si relaziona ad “altro” nel modo permesso dalla sua “apertura”, la quale<br />

rappresenta le possibilità di esistenza per il Dasein, la sua via di accesso al<br />

18 “Ente intramondano” e “oggetto” “sono” in modo totalmente diverso.<br />

19


mondo. Egli si relaziona all’altro per mezzo dell’ “apertura”; quest’ultima in<br />

sostanza determina il suo modo di “stare” al mondo. Heidegger definisce questa<br />

relazione come “cura”, nel senso che il Dasein “sta-presso” l’ “altro” in virtù<br />

della sua “familiarità-con”. Ciò significa che, egli “abita” il mondo nella<br />

relazione originaria che lo lega ad esso; il modo nel quale il Dasein “abita” (si<br />

relaziona) all’ “altro”, coincide col suo stesso modo d’essere; egli “è” il modo nel<br />

quale “si relaziona”, “abita”. Egli in qualche modo si “riconosce” nell’altro.<br />

Egli non è un soggetto che “entra” in relazione con altri “enti”, ma “sta” sempre<br />

in relazione al suo altro. La “cura” quindi è la struttura che dà unità (e<br />

significato) all’essere del Dasein.<br />

Anche il concetto di “cura” allora è estremamente innovativo: “prendersi” e<br />

“aver” cura, al di là di qualsiasi considerazione etica, dice molte cose sul “modo”<br />

della relazione tra l’ “esser-ci” e ciò che lo circonda. Dice che il Da-sein “è” “nel<br />

suo”, e “del suo” “ci”. Dice di un rapporto stabile, di una affinità antica, di un<br />

legame originario, tra gli enti del mondo. Dice che l’esserci non può prescindere<br />

da essi. E le conseguenze di questo modo d’intendere e di interpretare sono<br />

importanti.<br />

Fin qui i motivi che hanno portato a considerare l’essere-nel-mondo di Heidegger<br />

come una fonte di ispirazione, come una via aperta ad un nuovo modo di<br />

concepire la relazione io-mondo . Ma c’è anche un altro aspetto da considerare, e<br />

da sottolineare. E precisamente, il fatto che il mondo viene dipinto come una<br />

“condizione di possibilità” della relazione tra enti. Il mondo riceve la<br />

configurazione di un apriori, che consente e permette tale relazione. Così, se è<br />

vero che in Essere e tempo viene superato il dualismo tra soggetto e oggetto, è<br />

altrettanto vero che rimane quello tra la “condizione” e il “condizionato”. In altre<br />

parole, la struttura argomentativa di quest’opera rimane di tipo trascendentale.<br />

Si può anche dire che Heidegger rompe con la modernità sui “contenuti”, ma non<br />

sulle “procedure”. Egli si rende conto di questo limite e cerca di emendarlo nelle<br />

opere successive; a questa finalità vanno ascritte le opere seguenti alla “svolta”;<br />

20


esse, infatti, rappresentano il tentativo di uscire definitivamente da ogni deriva<br />

fondazionalista e dualista. 19<br />

In questo senso va letta anche l’evoluzione che subisce il concetto di mondo<br />

durante tutto il corso della sua attività filosofica: in Essere e tempo è un<br />

esistenziale, poi diventa il “luogo storico” 20 dove si manifesta e agisce il Dasein,<br />

fino all’ultimo periodo nel quale è interpretato come il processo di<br />

“modificazione” attraverso il quale le cose vengono ad “essere”. In Tempo ed<br />

essere ad esempio egli cerca di spiegare questo concetto facendo ricorso<br />

all’immagine del “Medesimo” che si manifesta in tutte le sue forme, per togliere<br />

alle precedenti versioni della “differenza ontologica” qualsiasi deriva dualistica.<br />

Ed è nostra opinione che qui Heidegger abbia provato ad imboccare la via della<br />

reciprocità, per sconfiggere il dualismo. Vedremo, infatti nelle ultime parti del<br />

nostro scritto, che la “trasformazione del medesimo” può essere letta come la<br />

possibilità di relazionarsi ad altro, che si adatta proprio all’idea della mutualità<br />

costitutiva degli enti.<br />

Di questo tentativo sono testimonianza soprattutto le ultime opere, nelle quali<br />

egli comincia a disegnare un rapporto di reciproca dipendenza proprio tra<br />

“mondo” e “cosa”. Ma la reciprocità è incompatibile col trascendentalismo, e<br />

quindi si deve optare per l’una o per l’altro; ed egli ha scelto fino alla fine e<br />

coerentemente il secondo. Per questo il pensiero di Heidegger (pur considerando<br />

le geniali intuizioni, e i grandi passi compiuti) deve essere considerato solo un<br />

tentativo non riuscito di configurare il rapporto tra l’uomo e il suo mondo in<br />

termini “ecologici non fondati”, un tentativo non riuscito di raggiungere una<br />

prospettiva che consideri imprescindibile la mutualità e la solidarietà nella<br />

relazione che lega l’io al suo altro.<br />

19 Questi termini sono usati spesso uno in funzione dell’altro, quasi fossero sinonimi, in quanto essi si<br />

coimplicano: se si parte da una prospettiva dualistica diventa necessario accettare l’esistenza di un<br />

fondamento, viceversa se si comincia a cercare il fondamento si deve necessariamente distinguere tra ciò<br />

che fonda e ciò che viene fondato, ricadendo così nel dualismo. Essi non possono stare uno senza l’altro.<br />

20 In alcune opere definito esplicitamente Polis.<br />

21


Egli ha considerato la filosofia dall’inizio alla fine la scienza del fondamento, la<br />

scienza che si occupa dell’ “origine”, la scienza delle scienze. Egli ha mantenuto<br />

fino alla fine un idea fondazionale di questa disciplina.<br />

L’interpretazione che qui viene data di Heidegger, allora, tende da un lato a<br />

mettere in risalto gli aspetti di grande novità del suo pensiero, dall’altro a<br />

evidenziare i limiti che in una prospettiva di solidarietà ecologica essa continua a<br />

mostrare. 21<br />

Con la filosofia di Heidegger comunque si inaugura un nuovo percorso. Egli<br />

imposta il suo ragionamento in termini antimoderni; il suo attacco alla modernità<br />

è esplicito e senza riserve. Egli cerca di superare i cardini di quel modello di<br />

pensiero, vuole uscire dal dualismo tra soggetto e oggetto.<br />

La filosofia di Heidegger, secondo la prospettiva assunta in questo scritto, è il<br />

primo vero tentativo di rottura nei confronti della tradizione moderna, e più in<br />

generale nei confronti dell’impostazione che ha accompagnato (caratterizzato)<br />

tutta la metafisica.<br />

L’obiettivo che ci siamo posti scrivendo le pagine su Heidegger allora, è quello<br />

di far vedere come il concetto di mondo sia una “premessa” importante al nostro<br />

discorso sulla relazione, perché è attraverso di esso che la relazione entra a far<br />

parte costitutivamente del modo d’essere degli enti. È grazie ad esso che si può<br />

arrivare a concepire in maniera diversa l’ “io nel suo mondo”.<br />

Un altro passo importante verso un ecologica non fondata viene compiuto da<br />

Dewey. 22 Il quale concepisce la relazione tra l’ “uomo” e il suo “altro” in termini<br />

21 Si è cercato quindi di sottolineare l’importanza che riveste il tema della mondità per uscire dal<br />

dualismo e per recuperare la dimensione della relazione tra gli enti, pur non dimenticando la sua valenza<br />

trascendentale.<br />

Grazie al “mondo” infatti la relazione non è più un “quid” che si costruisce “a posteriori” tra cose<br />

autosufficienti, ma loro modalità d’essere fondamentale e fondativa. Dal nostro punto di vista, questo<br />

significa aver messo subito in evidenza il problema cruciale del pensiero moderno, e di tutta la metafisica.<br />

L’analisi heideggeriana ha il pregio di aver aperto, proprio attraverso l’idea di “mondo”, una via<br />

alternativa al fondazionalismo (pur non essendo riuscita ad emanciparsene completamente).<br />

22 Un filosofo che purtroppo non gode dell’attenzione che meriterebbe.<br />

22


ancora più innovativi di Heidegger, in quanto riesce a guadagnare la loro<br />

“reciprocità”.<br />

Il filosofo americano vuole evitare ogni ostacolo metafisico. Egli infatti non<br />

cerca né “fondamenti” né “origini”; anzi si rende conto dei pericoli di questo<br />

tipo di ricerca, e imposta fin da subito il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente in<br />

termini di mutualità.<br />

In altre parole, egli non si pone il compito di capire se sia il mondo ad aver<br />

preceduto il soggetto, o se viceversa sia il soggetto ad aver “causato” l’oggetto.<br />

Sa che questa diatriba è del tutto moderna, e che non vale la pena di entrarci, se<br />

non si vuol ricadere dentro la disputa tra realisti e idealisti. Se si imposta il<br />

problema in termini di precedenze ci si condanna infatti ad aderire all’una o<br />

all’altra scuola. Se si pensa che il cosiddetto “esterno” (qualsiasi versione se ne<br />

fornisca) preceda l’interno si è realisti, viceversa si è idealisti.<br />

Andare alla ricerca di ciò che fonda, causa o precede è l’occupazione specifica di<br />

chi innanzitutto accetta che il rapporto tra enti sia determinato da relazioni di<br />

dipendenza, e che quindi rappresenta la realtà come una struttura gerarchica. È<br />

solo se parto da questo presupposto che mi metto nella condizione di dover<br />

cercare “quello che viene prima” (ed è indifferente intendere la precedenza in<br />

senso “temporale”, “logico” o “ontologico”).<br />

Dewey invece giudica del tutto arbitraria l’idea che gli enti siano legati da<br />

rapporti di dipendenza, e sostiene che non c’è nulla di evidente e sicuro in questo<br />

assioma. Alla fine, si tratta solo di una “base” sulla quale si è costruita una<br />

determinata argomentazione filosofica.<br />

Conseguente e inscindibile all’attacco al fondazionalismo, è la battaglia contro il<br />

“mito dell’oggettività”. Dewey non pensa agli oggetti come a dei dati di fatto, ma<br />

sostiene la loro natura relazionale. Non ci sono, a suo parere, entità oggettive che<br />

in un modo o nell’altro entrano nel dominio delle conoscenze dell’uomo. Non ci<br />

sono enti che esistono (oggettivamente) prima ed indipendentemente dall’uomo.<br />

E d’altra parte, il mondo non è neppure una costruzione umana. Anche in questo<br />

caso egli contesta sia l’idealismo che il realismo; contesta l’idea che soggetto e<br />

23


oggetto siano realtà indipendenti, enti che si “auto-determinano” separatamente,<br />

e che quindi possono prescindere dalla loro relazione reciproca. A suo avviso,<br />

l’identità dell’uno si realizza inevitabilmente in relazione all’identità dell’altro,<br />

senza che tra l’uno e l’altro si instaurino rapporti di precedenza. Non c’è<br />

ambiente se si prescinde dall’organismo, e viceversa non c’è organismo senza<br />

ambiente: la relazione “organismo-ambiente” è di solidarietà reciproca.<br />

Dewey, allora, fin dalle prime opere cerca di combattere i rapporti di derivazione<br />

e l’oggettività, per impostare l’argomentazione in termini di mutualità. 23<br />

Egli vuole superare il dualismo tra soggetto e oggetto, mostrando che né l’uno né<br />

l’altro possono esistere autonomamente. Separare il soggetto dall’oggetto è un<br />

operazione arbitraria, frutto di un modo semplificato di intendere i rapporti tra<br />

uomo e mondo. L’uomo non è un ente a sé stante, e il mondo non è un insieme di<br />

entità date. L’ uomo non può essere considerato come un abitante e un<br />

osservatore esterno alla natura, perché egli si trova, vive in essa; e d’altro canto,<br />

la natura non può essere considerata come un insieme di enti governati da leggi<br />

immutabili che l’uomo può osservare dall’esterno. Il rapporto che si crea tra<br />

l’uomo e il suo ambiente è quindi di reciprocità e di “solidarietà” (lo si potrebbe<br />

definire “osmotico” 24 ).<br />

L’osservazione dell’ente non è neutra e oggettiva, ma è sempre accompagnata da<br />

aspettative, avviene sempre in un contesto. Allora più che “osservare” noi<br />

“interpretiamo” la natura. Ciò significa che, l’atteggiamento assunto<br />

nell’osservazione è determinante per il suo risultato. Le chiavi che ci permettono<br />

di accedere alla natura sono l’educazione, l’istruzione, le credenze che ci<br />

vengono trasmesse, le quali sono tutte mediate dal linguaggio. Così la relazione<br />

tra l’uomo e l’ente non può essere ridotta ad una semplice percezione sensibile<br />

del “dato”, perché il “dato” non esiste, è una pura astrazione. 25<br />

23 Anche se i suoi primi tentativi, come vedremo, non vanno completamente a segno.<br />

24 Useremo questo termine anche in seguito in quanto pensiamo che esso renda bene l’idea della<br />

“reciproca influenza”, del “doppio legame”, dell’ “accoppiamento strutturale” e della “unità di fondo” che<br />

caratterizza la relazione tra l’uomo e il suo altro.<br />

25 Anche “dato” è un sostantivo con un determinato significato.<br />

24


Certo noi “percepiamo” gli enti, ma sulla neutralità di tale percezione, a parere di<br />

Dewey, è legittimo avere qualche perplessità.<br />

E poi l’osservazione è solo uno dei modi con i quali entriamo in relazione con<br />

l’ente. Prima di tutto noi manipoliamo, utilizziamo per migliorare le nostre<br />

condizioni di vita. L’ente prima di tutto è uno strumento, poi diventa l’oggetto di<br />

un osservazione. E anche tale natura strumentale incide sulla sua “identità”.<br />

L’idea di oggetto dei moderni rappresenta quindi un modo semplificato di<br />

considerare l’ente.<br />

Affermazioni analoghe vengono fatte a proposito del “soggetto”. Concepire<br />

l’uomo come un “soggetto” porta a trascurare degli elementi fondamentali del<br />

suo essere, porta a dimenticare, soprattutto, la sua natura relazionale: l’uomo<br />

esiste, per Dewey, in quanto è legato al suo mondo. Presentarlo come ente a sé<br />

stante vuol dire darne una visione artificiale, perché egli è legato<br />

indissolubilmente all’ambiente che lo ospita. Separare l’uomo dal suo ambiente è<br />

un operazione arbitraria e astratta, che non tiene conto dell’interazione biologica<br />

e sociale che esiste tra di loro.<br />

La relazione tra l’uomo e il suo altro coinvolge, allora, diversi aspetti che si<br />

influenzano reciprocamente. Così, Dewey parla di realtà “corporeo-mentale” per<br />

indicare il fatto che non è possibile scindere i due momenti. O meglio, egli è<br />

convinto che si possa distinguere tra un livello corporeo, materiale della realtà, e<br />

uno mentale; che si possa sicuramente distinguere tra entità materiali ed entità<br />

mentali, ma solo in virtù di un astrazione del pensiero, attraverso la quale<br />

possiamo rappresentare in modo indipendente cose che altrimenti e<br />

originariamente sono collegate.<br />

Ogni funzione organica si trova in una relazione costitutiva con determinati<br />

elementi ambientali: la respirazione è possibile solo in funzione dell’aria, quindi i<br />

polmoni sono lo strumento che si è sviluppato per, e che nello stesso tempo<br />

permette questo rapporto; e ancora, il cibo è in funzione del stomaco, la<br />

percezione è in funzione del percepito, ecc.. Come si può pensare – si chiede<br />

Dewey – all’esistenza dei polmoni a prescindere dalla presenza dell’aria<br />

25


nell’atmosfera? Allora, la relazione organico-ambientale è costitutiva dei termini<br />

della relazione, nel senso che l’organismo si è formato in stretta connessione con<br />

l’ambiente.<br />

In questo modo, Dewey riesce a mostrare come anche la più “solida” di tutte le<br />

evidenze – la separazione del soggetto dall’oggetto – non sia altro che il frutto di<br />

un certo modo di presentare le cose.<br />

L’intuizione più importante di Dewey è proprio quella dell’inseparabilità tra<br />

l’organismo e l’ambiente. Intuizione che egli ha avuto ben presto e che lo ha<br />

portato a concepire nella sua ultima opera il concetto di “transazione”. Questo<br />

concetto rappresenta proprio il punto d’arrivo della suo percorso filosofico.<br />

Perché attraverso di esso egli riesce a guadagnare una dimensione di totale<br />

reciprocità tra organismo e ambiente.<br />

In quest’ultima opera egli prima di tutto presenta il vocabolario necessario per<br />

descrivere la transazione: ad esempio, definisce l’organismo come il<br />

“conoscere”, e l’ambiente come il “conosciuto”, in questo modo toglie a questi<br />

elementi qualsiasi residuo cosalistico, in modo da svincolarsi dal sostanzialismo<br />

della metafisica.<br />

Questa configurazione della realtà porta ad eliminare ipso facto la relazione<br />

dualistica tra gli enti; Non c’è più bisogno infatti di postulare la separazione tra<br />

soggetto e oggetto, non serve più cercare di dimostrare come si attua il loro<br />

incontro, in quanto la loro relazione è originaria. Non si può conoscere senza che<br />

ci sia un conosciuto, e viceversa non ci può essere un conosciuto a prescindere<br />

dalla azione del conoscere. Al di fuori della loro relazione non esiste né il<br />

conoscere né il conosciuto. Essi si possono determinare solo reciprocamente, al<br />

di là di qualsiasi astratta separazione. Quindi, essi sono due “aspetti” della stessa<br />

realtà (come le due facce della stessa moneta): l’attività per mezzo della quale si<br />

conosce e la cosa conosciuta fanno parte dello stesso “fatto”.<br />

Dewey afferma anche che il cosmo è un sistema di indagine “fattuale”; che gli<br />

organismi sono componenti del cosmo; che gli uomini possono essere considerati<br />

organismi; e che i comportarsi degli uomini sono eventi organico-ambientali.<br />

26


Allora, l’uomo è considerato come un insieme di attività organiche, rese possibili<br />

dalla relazione con l’ambiente. L’uomo è il “percepire”, è il “sentire”, è il<br />

“conoscere”, attività tutte inconcepibili senza un contesto di riferimento. L’ente<br />

uomo allora è solo la parte organica della relazione vista prima.<br />

Le affermazioni di Dewey sono piuttosto forti e radicali, ma hanno comunque il<br />

merito di fare chiarezza: nel suo modello non c’è bisogno di scovare fondamenti<br />

o relazioni causali. Due termini legati dalla transazione non possono essere in<br />

relazione di dipendenza, non possono derivare l’uno dall’altro, non sono entità<br />

isolate, e quindi non possono sostenersi l’uno senza l’altro. 26<br />

La realtà si è fatta e si fa nella reciprocità; non è possibile individuare enti che<br />

abbiano preceduto ed altri che siano seguiti (né sul piano biologico, né su quello<br />

linguistico). Non è possibile impostare la relazione “io-altro” su ordini di<br />

precedenza; perché, da una parte, senza organismi non ci può essere qualcosa<br />

chiamato “ambiente”, e dall’altra, l’organismo non può prescindere da un<br />

ambiente che lo ospiti. C’è stata prima l’aria o ci sono stati prima i polmoni?<br />

Sono venuti prima i paesaggi o la possibilità di percepirli? Probabilmente tutte<br />

queste “cose” si sono formate contestualmente grazie alla loro relazione<br />

reciproca, grazie a continui adattamenti reciproci.<br />

La relazione tra l’uomo e il suo altro è costitutiva, e determina una loro<br />

connessione di fondo; 27 tanto che Dewey afferma che l’azione dell’uomo non è<br />

propriamente un azione singola ma “complessiva”, “azione della totalità che<br />

agisce per mezzo di…”. Dewey scrive: «L’uomo-in-azione non è qualcosa di<br />

contrapposto ad un mondo che lo circonda, e neppure qualcosa che<br />

semplicemente agisce “in” un mondo ma è l’azione del mondo e nel mondo del<br />

quale l’uomo è parte integrante». 28<br />

26 Ad esempio, non ci può essere il qualcosa di perfettamente compiuto e originario, dal quale sia<br />

scaturito qualcos’altro.<br />

27 L’idea di questa unità di fondo (sottesa dal concetto di transazione) è uno dei motivi ispiratori del<br />

nostro scritto.<br />

28 J. Dewey, Conoscenza e transazione, Nuova Italia, 1974, pag 65.<br />

27


L’accento biologico che Dewey ha voluto dare alla sua filosofia è un altro aspetto<br />

innovativo, che non va sottovalutato, e che noi approfondiremo nella seconda e<br />

nella quarta parte dello scritto. Sarà importante vedere come l’approccio<br />

interdisciplinare implementato dal filosofo americano sia oggi quello forse più<br />

redditizio. Noi stessi ci siamo avvalsi del contributo dell’epistemologia genetica<br />

di Humberto Maturana, per sviluppare le nostre idee sulla relazione tra “il sé e il<br />

non sé”. 29<br />

Abbiamo già detto a proposito del concetto di essere-nel-mondo di Heidegger.<br />

Con la transazione di Dewey si va ancora più in là, ci si avvicina ancora di più ad<br />

una interpretazione ecologica delle relazioni tra l’uomo e il suo “altro”. Dewey<br />

infatti, guadagna grazie alla transazione, una dimensione di mutualità, che<br />

consente di uscire dal fondazionalismo e dal dualismo.<br />

Il nostro scritto, allora, è il tentativo di trattare la relazione tra l’uomo e il suo<br />

mondo senza usare schemi dualistici.<br />

Al posto delle coppie indeterminato-determinato, essere-essente, essere-divenire,<br />

forma-materia, spirito-materia, soggetto-oggetto, causa-effetto, e nostra<br />

intenzione usare concetti come “solidarietà”, “relazione” ed “evento”.<br />

Siamo convinti che solo partendo dalla mutualità tra sé e altro da sé, si può<br />

ottenere una loro distinzione. Infatti, l’individualità e l’identità degli enti non è<br />

conseguenza della loro separazione ontologica, ma della loro solidarietà<br />

reciproca.<br />

L’obiettivo del presente lavoro allora è quello di esporre una certa idea della<br />

relazione. Un’idea che vuole prescindere dalla necessità di porre fondamenti, e<br />

più in generale, dalla necessità di porre rapporti di dipendenza tra cose con statuti<br />

ontologici diversi. Una relazione che si svolga tra elementi che si coimplicano e<br />

29 In effetti, il pensiero di questo studioso mostra, da un lato, come anche in campo biologico il<br />

dualismo soggetto-oggetto sia considerato un modo superato di interpretare la realtà; e dall’altro, quanta<br />

filosofia sia contenuta in queste discipline apparentemente molto tecniche.<br />

28


si tengono reciprocamente in gioco (e che sia essa stessa cooriginaria ai termini<br />

correlati).<br />

Di questo tipo di relazione si trova traccia, come abbiamo detto, sia negli scritti<br />

di Heidegger che nei lavori di Dewey; ed è per questo che li abbiamo commentati<br />

nelle prime due parti del testo.<br />

Nella terza parte invece, avanzeremo la nostra idea della relazione io-mondo.<br />

Partiremo da un’indagine intorno al concetto di relazione, accenneremo ai<br />

tentativi di uscire dal dualismo “soggetto-oggetto” operati dai filosofi moderni,<br />

tratteremo dell’evento come contesto indispensabile al darsi di una relazione. 30<br />

Infine, nella quarta parte, mostreremo come l’aspetto biologico e quello<br />

linguistico di questa relazione siano mutuamente legati. Quando parliamo di<br />

qualcosa, infatti, facciamo necessariamente riferimento al nostro essere<br />

biologico, il quale per essere, a sua volta, mostrato (descritto) ha bisogno della<br />

mediazione linguistica. La relazione si è implementata nel corso dell’evoluzione,<br />

sovrapponendo i termini senza soluzione di continuità; allora, per trattare le<br />

questioni proposte dobbiamo assolutamente fare i conti con questa reticolarità: da<br />

un lato, l’aspetto linguistico indispensabile per la descrizione, dall’altro, quello<br />

biologico, che determina la cornice dell’azione linguistica. Tra i due, ancora una<br />

volta, non è possibile fissare alcun ordine di precedenza; essi stanno uno in<br />

funzione dell’altro mutuamente legati.<br />

Vedremo che, indispensabili a descrivere tale circolarità, saranno concetti quali<br />

solidarietà, mutualità, coniugazione, riferimento e differenza, rete, e in<br />

particolare, relazione ed evento (nel modo in cui noi li concepiamo).<br />

30 Evento che in prima battuta può essere definito come “manifestazione della relazione io-mondo in<br />

termini di solidarietà spaziotemporale”.<br />

29


PARTE PRIMA<br />

La relazione a partire da Heidegger<br />

Alcune note sul concetto di “mondo” in Heidegger<br />

Primo capitolo: il mondo in Essere e tempo<br />

I) La questione dell’essere in Essere e Tempo<br />

Gli obiettivi che Heidegger si propone in Essere e tempo sono chiariti fin dalla<br />

citazione tratta dal “Sofista” di Platone, e riportata in epigrafe. Egli spiega che il<br />

problema dello Straniero di Elea è ancora attuale in quanto ad esso non è stata<br />

data ancora una risposta soddisfacente. Heidegger scrive: «Abbiamo noi oggi una<br />

risposta alla domanda intorno a ciò che propriamente intendiamo con la parola<br />

essente? Per nulla. E’ dunque necessario cominciare col ridestare la<br />

comprensione del senso di questo problema. Lo scopo del presente lavoro è<br />

quello della elaborazione del problema del senso dell’ “essere”». 31<br />

Qui Heidegger dice esplicitamente di condividere i dubbi dello Straniero di Elea,<br />

a causa del fatto che le risposte date, durante tutta la storia della filosofia, non<br />

sono per niente esaurienti. A suo modo di vedere, nessun filosofo è ancora<br />

riuscito a risolvere la questione. Ciò significa che lo stato di quello che egli<br />

definisce il problema fondamentale della filosofia, è rimasto inalterato per più di<br />

duemila anni; ed è quindi urgente tornare ad interrogarsi su di esso.<br />

31 M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1976, pag. 14<br />

30


Egli afferma che dopo Platone e Aristotele nessun altro filosofo ha raggiunto la<br />

stessa profondità nella trattazione del problema dell’essere, pur avendo loro stessi<br />

mancato la soluzione. Heidegger è convinto che la filosofia, in quanto filosofia,<br />

non può prescindere da questo problema perché esso è il “più concreto e il più<br />

fondamentale dei problemi filosofici”.<br />

Per il pensatore tedesco la questione è fondamentale ed è anche “fondante”, in<br />

quanto è solo in virtù dell’essere che può acquistare senso qualsiasi altro discorso<br />

intorno all’ente. “Il problema dell’essere mira alla determinazione a priori delle<br />

condizioni di possibilità non solo delle scienze che studiano l’ente, che è tale in<br />

questo o quel modo, e che si muovono già quindi in una comprensione<br />

dell’essere, ma anche delle ontologie stesse che precedono le scienze ontiche e le<br />

fondano”. 32 Pur con tutti i distinguo forniti, Heidegger qui adotta un modello<br />

gerarchico di derivazione aristotelica: le scienze ontiche trovano il loro<br />

“fondamento” nella ontologia prima; 33<br />

I corsivi aggiunti nella citazione mostrano il tipo di linguaggio che Heidegger usa<br />

fin dalle prime battute dell’opera. È chiaro che egli si rifà soprattutto alle<br />

impostazioni di Kant e di Aristotele. Da quest’ultimo prende l’idea della filosofia<br />

come fondamento di tutte le altre scienze. Mentre da Kant eredita la struttura<br />

trascendentale. La determinazione a priori di condizioni di possibilità è lo stesso<br />

compito che si pone Kant nella Critica della ragion pura; ma per Heidegger esso<br />

acquista una radicalizzazione ancora maggiore.<br />

E il riferimento ad Aristotele e a Kant diventa ancora meno velato nella parte<br />

seguente del testo (che è in corsivo anche nell’originale): «Ogni ontologia per<br />

quanto disponga di un sistema di categorie ricco e ben connesso, rimane, in<br />

fondo, cieca e falsante rispetto al suo intento più proprio, se non ha in primo<br />

32 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 27. Corsivi aggiunti<br />

33 In uno scritto del ‘22 afferma: “la filosofia è l’ontologia prima, nel senso che le ontologie regionali,<br />

determinate nella loro individualità e mondanità, ricevo no dall’ontologia dell’effettività il fondamento e il<br />

senso dei loro problemi”.<br />

31


luogo sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questa<br />

chiarificazione come il suo compito fondamentale». 34<br />

Non si può certo sostenere che Heidegger sia un epigono di Kant, ma che egli si<br />

rifaccia in più occasioni al linguaggio kantiano è abbastanza evidente. 35<br />

Non solo le “scienze ontiche” ma anche le “ontologie”, allora, dipendono dalla<br />

questione dell’essere. Ciò significa che fino ad oggi sia la scienza che la filosofia<br />

si sono occupate di questioni secondarie e derivate. Esse non hanno colto la<br />

dimensione fondamentale sulla quale tutti i loro discorsi si sono sviluppati. Ciò<br />

che manca, quindi, è una discussione intorno all’essere: “il problema più<br />

concreto” perché è quello mediante il quale si può dar solidità a tutti gli altri; “il<br />

più fondamentale” perché non c’è niente di più originario.<br />

Già da questo primo scorcio si può notare che nelle intenzioni di Heidegger non<br />

c’è un proposito anti-fondazionalista, ma emerge, invece, l’urgenza di ripensare<br />

in modo più appropriato la questione del fondamento. In altri termini, il compito<br />

che egli si propone è quello di trattare “del fondamento di ogni fondamento”.<br />

L’essere, infatti, è “l’essenza del fondamento”, ciò che di più originario si possa<br />

concepire.<br />

Porre la questione dell’essere, allora, non significa rifiutare l’approccio<br />

fondazionalista, ma tutt’al più ritenerlo, per come si è sviluppato sino ad oggi,<br />

inadeguato. I principi individuati nella storia della metafisica sono ritenuti dei<br />

falsi principi perché tutti presuppongono e dimenticano la loro vera origine; è per<br />

questo che Heidegger attacca tutte le ontologie del passato. Egli vuole allora,<br />

ripensare al “più originario dei problemi” in termini nuovi, senza cadere nelle<br />

aporie o nelle dimenticanze dei pensatori che lo hanno preceduto.<br />

Secondo il filosofo tedesco, sono tre i “pregiudizi” che hanno impedito una<br />

rigorosa indagine intorno all’essere:<br />

34 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 27<br />

35 Sappiamo che egli, in polemica con i neo-kantiani, sosteneva che la “Critica” fosse una “ontologia”,<br />

non un mero lavoro “epistemologico”.<br />

32


Il primo concerne la sua “generalità”. Ritenere che, siccome l’“essere” è il<br />

concetto più generale di tutti, “una sua comprensione sia già implicita in tutto<br />

ciò che si conosce dell’ente” è un errore. In questo modo, si confonde la<br />

generalità del “genere” con la generalità dell’ “essere”. Ma “la generalità<br />

dell’essere (come aveva già visto Aristotele) “oltrepassa” ogni generalità del<br />

tipo dei generi”. L’essere è puro “trascendens” .<br />

Il secondo consiste nel dedurre dalla sua indefinibilità, la no n necessità della sua<br />

trattazione: è vero che il concetto di essere è indefinibile (“che non può venir<br />

determinato tramite l’attribuzione di predicati ontici”), ma ciò significa solo che,<br />

esso non è paragonabile all’ente; l’indefinibilità dell’essere non dispensa da una<br />

sua appropriata messa a tema, piuttosto, la rende necessaria.<br />

Il terzo è quello di considerarlo un concetto ovvio: dal fatto che tutti siano in<br />

grado di capire cosa significa “il cielo è azzurro”, non consegue che tutti abbiano<br />

compreso il senso del problema dell’essere. Per Heidegger, infatti, una<br />

comprensione “media” rivela una sostanziale incomprensione della questione.<br />

Così si chiude il primo paragrafo, nel quale egli ha mostrato come il problema<br />

dell’essere sia stato mistificato durante tutta la storia della filosofia. Egli cita<br />

Platone, Aristotele, Kant, e Hegel, ai quali, pur attribuendo dei meriti, imputa di<br />

non aver saputo andare fino in fondo nella elaborazione di questo problema. In<br />

sostanza, anche loro si sarebbero fatti dominare, confondere, dai pregiudizi<br />

appena elencati.<br />

Che il problema dell’essere sia il primo, l’ultimo e il fondamentale per la<br />

filosofia, Heidegger cerca di dimostrarlo nei paragrafi successivi. Innanzitutto,<br />

egli afferma che l’ “essere è ciò che determina l’ente in quanto ente”. Il fatto che<br />

l’essere “determini” l’ente fissa un chiaro rapporto di subordinazione tra i due.<br />

Rapporto che egli aveva già denunciato in precedenza ma che adesso comincia<br />

ad assumere una sembianza precisa. Le possibilità dell’ente sono stabilite<br />

dall’essere. L’ente viene individuato dall’uso predicativo dell’essere. L’essere è,<br />

allora, la fondamentale condizione di determinabilità dell’ente. In questo modo,<br />

oltre ad emergere un rapporto di dipendenza, si mostra anche una netta differenza<br />

33


di natura tra i due: l’essere, infatti, è ciò che “determina”, l’ente è “il<br />

determinato”.<br />

La struttura di questo ragionamento è, ancora una volta, vicina a quella usata da<br />

Kant nella Critica della ragion pura. Sostanzialmente, Heidegger tratta l’essere<br />

come un trascendentale kantiano. Un’altra prova del fatto che la sua non è una<br />

posizione anti-fondazionalista.<br />

A questo punto, il filosofo tedesco afferma che per superare le difficoltà, e non<br />

cadere nei pregiudizi elencati in precedenza, l’indagine intorno all’essere non<br />

può avvalersi della “definizione”: dell’essere, non si può predicare alcunché. Per<br />

questo, ogni analisi che si rivolga direttamente all’essere, e cerchi in questo<br />

modo di esplicitarlo, si rivela contraddittoria.<br />

Allora, l’unico modo non aporetico di avvicinarsi all’essere è quello di partire da<br />

quell’ente che solo può porsi il problema della comprensione dell’essere: il<br />

“Dasein”. «Elaborazione del problema dell’essere significa dunque: rendere<br />

trasparente un ente (il cercante) nel suo essere… Questo ente, che noi stessi<br />

sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre<br />

il problema, lo designiamo col termine Dasein». 36<br />

Qui però sorge una difficoltà. Non è forse un “circolo vizioso” – si chiede<br />

Heidegger – affermare, prima che l’essere è ciò che determina l’ente, e poi che<br />

l’indagine intorno all’essere non può che partire dall’ente? Egli si risponde<br />

dicendo che, “un ente può essere determinato nel suo essere senza che debba per<br />

ciò stesso essere già disponibile il concetto esplicito del senso dell’essere”. 37<br />

E a sostegno di questa tesi afferma: «Se così non fosse non si darebbe ancora fino<br />

ad oggi alcuna conoscenza ontologica, mentre la sussistenza di essa è ben<br />

difficilmente negabile». Ma non aveva egli affermato un attimo prima che la<br />

trattazione di questo problema ha condotto solo a “pregiudizi”? E poi, che<br />

necessità c’era di addurre quest’ultima prova di carattere meramente induttivo<br />

36 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 22<br />

37 Ma, “una comprensione media non dimostra che una sostanziale incomprensione”?<br />

34


(appoggiarsi alle ontologie precedenti, che peraltro, aveva esplicitamente<br />

criticato) se egli ritiene solida la tesi iniziale? In base a cosa si può sostenere che<br />

un ente viene determinato nel suo essere senza che sia disponibile il concetto<br />

esplicito del senso dell’essere? E se così fosse quale ruolo assegnare a tale<br />

ricerca? Non ha egli scritto che: «La ricerca ontologica resta ingenua e opaca se<br />

le sue indagini intorno all’essere dell’ente non prendono in esame il senso<br />

dell’essere in generale»? 38<br />

E infine, perché prima ha posto come prioritaria la questione dell’essere, rispetto<br />

a quella dell’ente, e poi dichiara imprescindibile l’indagine ontica? In che senso,<br />

allora, l’analisi dell’essere in generale è fondamentale?<br />

L’argomento del Dasein viene introdotto, evidentemente, per non ricadere in uno<br />

dei pregiudizi che prima aveva elencato: egli non può predicare nulla<br />

direttamente dell’essere, pena il cadere nell’aporia. Definire l’essere significa<br />

presupporre ciò che devo dimostrare; non posso in nessun modo dire l’ “essere è<br />

…”, allora, diventa necessario accostarsi alla questione per via indiretta; ecco la<br />

necessità di introdurre la tematica dal Dasein.<br />

Egli aggiunge: «Nell’impostazione del problema del senso dell’essere non può<br />

aver luogo alcun circolo vizioso perché la risposta a questo problema non ha il<br />

carattere di una fondazione per deduzione, ma quello di un ostensione che fa<br />

vedere il fondamento». 39 Ciò significa che è aporetico cercare di dedurre il<br />

fondamento, non lo è il mostrarlo. E per mostrare il fondamento è necessaria<br />

l’analisi del Dasein.<br />

Per questa via, egli comincia a sviluppare la questione del “primato ontico del<br />

problema dell’essere”; infatti, se da un lato, “L’essere è sempre l’essere di un<br />

ente”, e dall’altro, “l’essere è ciò che determina l’ente in quanto ente” l’unico<br />

modo appropriato per affrontare la questione dell’essere sembra quello di<br />

38 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 27<br />

39 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 25<br />

35


indagare il Dasein. Così, l’esserci viene descritto come “l’ente che nel suo essere<br />

ne va dell’essere stesso”.<br />

“La costituzione d’essere dell’esserci implica allora che l’esserci, nel suo essere,<br />

abbia una relazione d’essere col proprio essere. Il che di nuovo significa:<br />

l’esserci, in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo<br />

essere… E’ peculiare di questo ente che, col suo essere e mediante il suo essere,<br />

questo essere è aperto ad esso”. 40<br />

In questi passi Heidegger non è particolarmente chiaro. Egli cerca di far apparire<br />

una sorta di co-originarietà (e forse di co-estensività) dell’essere e dell’esserci,<br />

perché solo in questo modo egli si può salvare dall’accusa di aporeticità. Egli<br />

vuole “mostrare” la necessità, e nel contempo la praticabilità, dell’analisi ontica<br />

del problema dell’essere. In sostanza, vuol far vedere che l’unica via di accesso<br />

alla questione dell’essere è l’analisi dell’esserci. Ma il tentativo non riesce<br />

completamente. 41<br />

E’ significativo, inoltre, che Heidegger definisca tale indagine “analitica”<br />

(esistenziale) facendo esplicito ricorso all’uso che del termine aveva fatto Kant.<br />

Egli, infatti, vuole “portare alla luce la genesi del senso autentico di un fenomeno<br />

spingendosi nelle ultime condizioni di possibilità di qualcosa di dato”. L’idea di<br />

trovare condizioni di possibilità occupa Heidegger per tutto lo svolgimento<br />

dell’opera e mostra (ove ce ne fosse ancora bisogno) che Essere e tempo risente<br />

dell’influsso della metodologia kantiana. L’analitica esistenziale è una indagine<br />

“categoriale” delle “strutture fondamentali dell’esserci”, anche se per marcare la<br />

differenza da Kant, definisce “esistenziali” le categorie che riguardano il Dasein.<br />

La differenza della sua ontologia rispetto a quelle che l’hanno preceduta<br />

(soprattutto quella kantiana) sta, per Heidegger, in una maggiore profondità di<br />

40 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 30<br />

41 Al di là di queste considerazioni, la trasformazione della Seinsfrage in “Daseinsfrage”, qualche<br />

problema ad Heidegger lo pone, se è vero, come è vero, che l’opera rimane incompiuta, e che la “svolta”<br />

dopo Essere e tempo consiste proprio nel lasciar cadere la questione dell’ “esserci”. Il “primato ontico”<br />

del problema dell’essere, in altre parole, è una peculiarità di Essere e tempo, e l’approccio all’essere<br />

dopo tale opera cambia sostanzialmente.<br />

36


analisi, e in una differente procedura di ricerca, non nel cambiamento dell’<br />

“oggetto” indagato (o in una contestazione dell’oggetto da cercare). Egli pensa<br />

che le difficoltà delle ricerche precedenti sorgano soprattutto dal metodo<br />

adottato; allora, ciò che si deve trovare è un nuovo modo di accostarsi al<br />

problema.<br />

Il filosofo tedesco pensa che la sua via di indagine gli permetta di raggiungere la<br />

“cosa” che era sfuggita ai suoi predecessori, proprio perché egli non la tratta<br />

come un “ente” da cercare; infatti scrive: «Il metodo dell’ontologia resta<br />

altamente problematico finché si prende semplicemente consiglio dalle ontologie<br />

storicamente tramandate o da tentativi analoghi». 42 E afferma che il metodo<br />

appropriato per avvicinarsi all’essere è quello “fenomenologico”. 43<br />

Per spiegare cosa egli intenda per “fenomenologia” – “il lasciar vedere da se<br />

stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso” – ricorre<br />

all’etimologia greca dei termini phainomenon e logos, e sostiene che “la parola si<br />

riferisce esclusivamente al come viene mostrato e trattato ciò che costituisce<br />

l’oggetto di questa scienza”. Il problema è essenzialmente di metodo, l’ontologia,<br />

in altre parole, non è possibile che come fenomenologia.<br />

Heidegger in questo modo vuole procedere nel solco tracciato dell’antica<br />

filosofia greca, cioè riprendere un cammino che ben presto è stato abbandonato, e<br />

dargli nuovo vigore. Egli vuole indicare un nuovo modo di cercare l’ “antico”,<br />

non cercare qualcosa di nuovo, e pensa di aver trovato la maniera di raggiungere<br />

ciò che i suoi predecessori hanno solo pensato di aver conseguito. Ecco perché<br />

definisce l’analitica esistenziale come “ontologia fondamentale”: essa è<br />

l’ontologia che fonda le altre ontologie, l’ultimo passo che si doveva compiere.<br />

Anche da queste considerazioni, risulta che il pensatore tedesco non attacca la<br />

metafisica in quanto “scienza del fondamento”, la accusa invece di aver fallito il<br />

42 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 46<br />

43 E’ noto che in questa sede egli non si avvicina, ma prende le distanze da Husserl<br />

37


modo dell’indagine, e di non aver caratterizzato tale “fondamento” nel modo<br />

appropriato. Errori che il metodo fenomenologico consente di evitare.<br />

Allora, è giusto che la filosofia si occupi, in quanto ontologia, delle “condizioni<br />

di pensabilità di ogni ente”, deve però cambiare la modalità di indagine.<br />

In sostanza, Heidegger si rifiuta di considerare l’essere come l’ ens infinitum, il<br />

summum ens di derivazione cristiana, né vuole trattarlo come l’essenza nascosta<br />

delle cose che appaiono (o come “idea”, “motore immobile”, o “soggetto<br />

assoluto”); nonostante questo, continua a proporlo come un “trascendentale”. 44<br />

Egli pensa che la soluzione del problema dell’essere sia una questione di metodo;<br />

ma questo non significa aver abbandonato la logica fondazionalista; la ha solo<br />

profondamente trasformata. Il suo approccio all’essere è radicalmente nuovo, ma<br />

l’essere è sempre inteso come “condizione di possibilità”, come “ciò che<br />

determina l’ente in quanto ente”. Egli non elimina la necessità del fondamento,<br />

gli cambia natura. 45<br />

Per marcare la differenza rispetto alle ontologie della “semplice-presenza” (le<br />

ontologie che trattano l’essere come un ente intramondano), egli sostituisce il<br />

termine “categorie” con “esistenziali”. Le “categorie” sono le determinazioni<br />

d’essere degli enti semplicemente-presenti; gli “esistenziali” sono le<br />

determinazioni d’essere dell’ “esserci”. Le categorie e gli esistenziali sono le due<br />

possibilità fondamentali dei caratteri dell’essere.<br />

Secondo Heidegger, non si possono usare le “categorie” nella determinazione<br />

dell’esserci in quanto egli non è semplicemente zoon logon echon (o come<br />

traducevano i latini animal rationale). Definirlo in questo modo significa trattarlo<br />

44 In un passo di Essere e tempo, a proposito dell’idealismo afferma: «Se il termine idealismo sta a<br />

significare che l’essere non è esplicabile mediante l’ente, ma che, rispetto ad ogni ente, è il<br />

“trascendentale”, allora nell’idealismo e riposta l’unica possibilità adeguata di una problematica<br />

filosofica» (Essere e tempo, pag. 258)<br />

45 Anche il “pensatore metafisico per eccellenza”, Hegel, giudicava contraddittorie tutte le idee di<br />

fondamento che la storia della filosofia aveva prodotto fino a quel momento, e attacca, tra le altre, l’idea<br />

del “fondamento infondato”. Anche il suo sistema filosofico rappresenta una profonda innovazione<br />

rispetto al passato, basti pensare al concetto di Aufhebung, e alla relativa idea di “auto-movimento”; anche<br />

per Hegel è centrale la questione del “metodo”: lo reputa il “cammino” mediante il quale si “manifesta”<br />

l’assoluto (così se è vero che Heidegger si allontana dal modo della fenomenologia di Husserl, è<br />

altrettanto vero, che non abbandona completamente quello della fenomenologia di Hegel). Tutto ciò, però,<br />

non consente di definire Hegel un pensatore “anti-fondazionalista”.<br />

38


come un ente semplicemente-presente: l’esserci non è l’animale dotato di<br />

razionalità, ma è qualcosa di totalmente diverso. L’esserci è innanzitutto<br />

“esistenza”, egli è caratterizzato dal suo “aver-da-essere”, dal suo “poter-essere”;<br />

egli è “essere-nel-mondo”. Allora, non si possono confondere le sue<br />

determinazioni d’essere con quelle degli enti “semplicemente-presenti”.<br />

L’ontologia ha sempre usato categorie nella determinazione d’essere degli enti<br />

perché non si è mai allontanata da un certo modo di intendere l’ente, anche<br />

quell’ente che ha come cifra del suo essere l’ “esistenza”. In altre parole,<br />

l’ontologia tradizionale ha confuso l’ente che può essere un “chi”, con l’ente che<br />

è un “che cosa”, ha scambiato l’ “esistenza” con la “semplice presenza”; non ha<br />

capito che “al di sopra della realtà sta la possibilit à”.<br />

L’analitica esistenziale si pone il compito di determinare la struttura costitutiva<br />

“necessaria apriori” dell’esserci come “essere-nel-mondo”, (per Heidegger,<br />

infatti, «l’ “essere-nel-mondo” è certamente una costituzione dell’esserci<br />

“necessaria apriori”»).<br />

In sintesi, si può dire che il filosofo tedesco riprende l’idea kantiana dell’indagine<br />

trascendentale per caratterizzare l’ oggetto della sua ricerca. Attraverso di essa<br />

egli vuol arrivare a definire “le strutture necessarie e apriori” di quell’ “ente che<br />

comprendendosi nel suo essere si rapporta a questo essere”. In sostanza egli, da<br />

un lato, stabilisce una radicale alternativa tra l’ente “semplicemente-presente” e<br />

l’ “esserci”, imputa alla metafisica il torto di non aver colto questa essenziale<br />

differenza, e pensa che solo attraverso un approfondita analisi del Dasein sia<br />

possibile raggiungere l’essere; d’altro lato, per affrontare questa analisi, egli<br />

reputa necessario utilizzare una procedura di carattere trascendentale.<br />

Il pensiero di Heidegger quindi è caratterizzato da momenti di forte rottura, ma<br />

anche da elementi di continuità rispetto alla filosofia precedente. Ad esempio,<br />

come abbiamo visto, non si possono negare le assonanze con la speculazione<br />

kantiana.<br />

39


II) L’analitica esistenziale, e il mondo<br />

Il primo “esistenziale” di cui tratta Heidegger è l’ “in-essere”, che è la prima<br />

determinazione d’essere dell’esserci, in quanto “essere-nel-mondo”; la quale è,<br />

naturalmente, originaria e apriori. Egli precisa subito che l’esserci non è “nel-<br />

mondo” alla maniera in cui ad esempio l’acqua è nel bicchiere. Il rapporto non è<br />

di natura spaziale. “Essere-nel-mondo” significa “abitare presso”, “essere<br />

familiare con”. Quindi, il mondo è qualcosa che mi è “contiguo”, “vicino”,<br />

qualcosa con cui sono “in confidenza”: «L’ “essere-presso” il mondo, come<br />

esistenziale, non può in alcun modo significare l’essere presente-insieme, proprio<br />

delle cose che si presentano dentro il mondo. Non c’è qualcosa come un “essere<br />

l’uno accanto all’altro” di un ente detto “esserci” e di un altro detto “mondo”». 46<br />

Si pone una distinzione ontologica di fondo tra l’ “in-essere” come esistenziale, e<br />

l’ “essere dentro” come categoria. L’analitica del Dasein si gioca tutta su questa<br />

differenza.<br />

L’ “in-essere” è il modo originario di darsi dell’esserci, quindi tra esistenziale e<br />

categoria si pone un rapporto di derivazione. L’ “in-essere” è la modalità d’essere<br />

fondamentale, l’ “essere dentro” è il modo derivato; allora, l’esserci può darsi<br />

nel modo della spazialità (della semplice-presenza) ma così esso mostra solo un<br />

suo modo d’essere derivato (quello su cui si è basata la metafisica).<br />

Ciò significa che, tra il modo d’essere esistenziale dell’esserci e il modo d’essere<br />

categoriale (la spazialità) c’è una relazione di dipendenza. Il primo è condizione<br />

di possibilità del secondo, o come dice Heidegger: «Solo la comprensione<br />

dell’essere-nel-mondo come struttura essenziale dell’esserci rende possibile la<br />

comprensione della spazialità esistenziale dell’esserci». 47 Così, resta confermato<br />

46 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 79<br />

47 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 80. Corsivi aggiunti<br />

40


che la rottura di Heidegger rispetto all’ontologia classica non è un rifiuto del<br />

fondazionalismo, ma è la pretesa di aver trovato la condizione ultima e originaria<br />

di pensabilità dell’ente. 48<br />

L’ “ontologia fondamentale”, allora, è quell’ontologia che individua le<br />

“categorie” originarie (gli esistenziali) per la comprensione dell’esserci, e per suo<br />

tramite dell’essere. Heidegger pensa che l’aspetto fondante di ogni pretesa di<br />

conoscenza – ciò che è sempre sfuggito alle precedenti indagini ontologiche, e<br />

ciò che non poteva non sfuggire alle indagini ontiche – sia l’analisi esistenziale<br />

del Dasein.<br />

È seguendo questa impostazione che si colgono elementi di rottura e di continuità<br />

della sua filosofia. La continuità, in particolare, sta nella struttura trascendentale<br />

che egli conferisce ad Essere e tempo. Quest’opera vuole essere una sorta di<br />

“prima pietra” gettata per la fondazione dell’ontologia. Attraverso di essa la<br />

“scienza dell’essere” può aspirare finalmente a trattare l’ “oggetto” che gli è<br />

sempre stato negato.<br />

Solo in questo modo, secondo il pensatore tedesco, ci si può avvicinare alla<br />

modalità essenziale di comprensione dell’essere. L’analisi esistenziale si pone<br />

come l’ “architettura trascendentale” delle altre ontologie, le quali tematizzando<br />

direttamente l’essere, cioè predicando senz’altro dell’essere, lo confondono con<br />

l’ente, cadendo così in contraddizione. Queste ultime si basano sul concetto di<br />

ente “semplicemente-presente”, cogliendone così solo un aspetto derivato. Da ciò<br />

consegue una confusione tra la natura dell’ente e quella dell’essere: considerare<br />

l’ente come “semplice-presenza” vuol dire connotarlo immediatamente secondo<br />

una determinata interpretazione ontologica (quella derivata), alla quale è preclusa<br />

la vera essenza dell’ente.<br />

E non può che essere così, infatti, una volta che si dimentica (si fallisce), l’unica<br />

via d’accesso all’essere, non si può che cadere in un travisamento di tutte le<br />

strutture ad esso collegate. L’analitica esistenziale, allora, è “ontologia<br />

48 Bisogna sottolineare che Heidegger non distingue nettamente tra “condizioni di pensabilità” e<br />

“condizioni di esistenza” dell’ente intramondano, e ciò depone a favore delle accuse di soggettivismo<br />

rivolte ad Essere e tempo.<br />

41


fondamentale” nel senso che fonda le altre ontologie. Essa consente una analisi<br />

trascendentale delle strutture costitutive “necessarie e apriori” del Dasein, solo<br />

attraverso la quale si può giungere all’ indagine intorno all’essere.<br />

L’aspetto trascendentale dell’opera è rivelato da un ulteriore richiamo a Kant,<br />

questa volta esplicito, al quale ricorre Heidegger. Si tratta del riferimento alla<br />

“temporalità” come modalità costitutiva dell’essere del Dasein. Tematica che è<br />

riferita direttamente alla Critica della ragion pura, e con la quale egli intende<br />

emendare i limiti nella trattazione del fenomeno “tempo” da parte di Kant. Scrive<br />

Heidegger: «Il primo e l’unico che percorse un tratto di strada nel senso della<br />

ricerca della dimensione della temporalità fu Kant…Ciò dinanzi a cui egli<br />

indietreggiò, deve essere posto in chiaro tematicamente e fondamentalmente, se<br />

almeno l’espressione “essere” deve avere un senso dimostrabile…Nel corso della<br />

distruzione, condotta alla luce della problematica della temporalità, la trattazione<br />

che segue cerca di fornire un’interpretazione dello schematismo e, a partire da<br />

esso, dell’intera dottrina kantiana del tempo. Verrà anche mostrato perché Kant<br />

dovette fallire nel tentativo di penetrare nella problematica della temporalità. Due<br />

cose glielo impedirono; in primo luogo la dimenticanza del problema dell’essere<br />

in generale, e in secondo luogo la conseguente mancanza di un’ontologia<br />

tematica dell’esserci». 49<br />

In questi passi Heidegger fornisce un piano di sviluppo della sua opera. Intanto,<br />

ammette che il tema della temporalità nello studio dell’ontologia è un’intuizione<br />

kantiana (alla quale egli si è rifatto), poi ci dice che egli intende gettar luce sullo<br />

schematismo (cioè sulla fondamentale connessione tra “tempo” e “io penso”), e<br />

infine, indica i motivi per i quali Kant fallì nella elaborazione di questo<br />

problema. Ciò che gli mancò, a suo avviso, fu la capacità di vedere la<br />

connessione originaria tra l’ essere e il tempo; e per questo non riuscì a cogliere<br />

la struttura d’essere fondamentale del Dasein.<br />

49 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pagg. 42-43<br />

42


Kant, in altre parole, si limitò a un ontologia della “semplice-presenza” perché<br />

non approdò alla struttura esistenziale e temporale dell’essere del Dasein; ed<br />

ecco perché continuò ad usare “categorie” nella sua trattazione dell’essere. Il<br />

passo avanti per Heidegger sta nell’aver concepito il rapporto essenziale e<br />

originario tra tempo ed essere e aver, di conseguenza, elaborato l’ontologia<br />

dell’esserci.<br />

Ancora una volta, Heidegger non accusa Kant di aver indagato su fondamenti e<br />

strutture originarie, ma di non aver saputo cercarle nel modo adeguato; così,<br />

dopo aver esplicitato le differenze tra l’ontologia heideggeriana e quella kantiana,<br />

emerge anche il tipo di discontinuità esistente tra l’ “io penso” e l’ “esserci”.<br />

L’esserci è caratterizzato dalla sua originaria relazione col mondo, cioè dalla sua<br />

costitutiva “mondità” (oltre che da un costitutivo rapporto col tempo). L’esserci è<br />

“essere-nel-mondo”.<br />

E qui si pone l’elemento di originalità della speculazione di Heidegger. E’ il tema<br />

della mondità ad aprire quella serie di conseguenze e considerazioni che fanno di<br />

Essere e tempo un’opera profondamente innovativa. È attraverso questo concetto<br />

che Heidegger vuole uscire dal dualismo moderno, dalla contrapposizione tra<br />

“soggetto” e “oggetto”, e dalla struttura causale-sequenziale dell’argomentazione<br />

metafisica. Questo è il primo vero tentativo compiuto dalla filosofia<br />

contemporanea di emanciparsi dalla rigida struttura di pensiero moderna.<br />

Il pensatore tedesco introduce il tema della mondità partendo dall’analisi degli<br />

enti intramondani, così da mettere subito in luce la differenza tra la sua idea di<br />

ente e quella della filosofia moderna. Da Cartesio in poi l’ente viene concepito<br />

come “oggetto”, ovvero come qualcosa di separato e indipendente dal contesto<br />

che lo circonda. Heidegger nota che quest’idea è figlia dell’ontologia della<br />

“semplice presenza”, dell’idea cioè che l’ente sia ciò che “permane nella<br />

presenza”. Seguendo questa via, si perde la determinazione originaria dell’ente, il<br />

quale, “innanzitutto e per lo più” è “mezzo”. Il modo primario per avvicinarsi<br />

all’ente sta nel “comprendere” la sua “utilizzabilità”. Noi, in primo luogo,<br />

usiamo “mezzi” per i nostri scopi. Per noi il martello è innanzitutto lo strumento<br />

43


che si usa per piantare i chiodi. Ed è solo quando si rompe che cominciamo a<br />

considerarlo un oggetto semplicemente-presente; ovvero, quando viene meno la<br />

sua “utilizzabilità”, emerge la sua “semplice-presenza”. 50 Ma affinché io possa<br />

comprendere l’ente nella sua utilizzabilità, è necessario che abbia una certa<br />

familiarità con esso. E’ necessario che il mezzo faccia parte di un contesto d’uso,<br />

faccia parte cioè di un determinato “mondo-ambiente”. Di conseguenza, “un<br />

mezzo isolato non c’è. L’essere del mezzo appartiene sempre alla totalità dei<br />

mezzi, all’interno della quale un mezzo può essere ciò che è”. 51 Ogni mezzo<br />

rimanda agli altri mezzi; il martello è tale solo in relazione al contesto degli altri<br />

mezzi dell’officina.<br />

E ancora, il mezzo è tale solo se posto in relazione con un “in-vista-di-cui”, per<br />

il quale esso e utilizzato. Ci deve sempre essere lo scopo e il fruitore finale.<br />

Detto altrimenti, il mezzo è tale solo se considerato nel rapporto originario con<br />

gli altri mezzi e con l’esserci. Il martello del calzolaio è un “mezzo” in relazione<br />

originaria con i chiodi, con gli altri arnesi, con l’ambiente di lavoro, e con la<br />

scarpa che verrà venduta (e quindi col fruitore). Solo all’interno del contesto,<br />

quindi, riceve significato ogni singolo mezzo.<br />

L’idea che l’ente non possa avere significato di per sé rappresenta una rottura<br />

radicale nei confronti del modo moderno di concepire l’ente, una vera e propria<br />

“rivoluzione”. Se l’ente non contiene in sé ciò che lo può determinare esso non è<br />

più concepibile come sostanza, e nemmeno come oggetto. Così, esso non è più<br />

l’ente semplicemente-presente della tradizione moderna, ma “è” prima di tutto in<br />

virtù della relazione che lo comprende: esso “è” la sua “utilizzabilità”, la quale<br />

gli deriva dalla connessione originaria del contesto di riferimento. L’ente non ha<br />

significato di per sé non possiede “autonomia ontologica”, ma è nella relazione<br />

50 Heidegger scrive: «l’utilizzabilità è la determinazione ontologico-categoriale dell’ente così come<br />

esse è “in sé”». (Essere e tempo, pag. 98)<br />

51 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 94. Corsivi aggiunti. È opportuno far notare che<br />

Heidegger caratterizza l’oggetto come l’ente semplicemente-presente isolato dal contesto che lo circonda.<br />

L’oggetto vive una sorta di “separazione ontologica” rispetto a tutto ciò che lo circonda. E questa<br />

condizione di isolamento è la fonte di tutte le difficoltà manifestate dal pensiero moderno.<br />

44


con l’altro (altro ente, ma soprattutto altro come esserci), che l’ente trova la sua<br />

identità, cioè la sua funzione, o meglio, la sua utilizzabilità. È la relazione, il<br />

riferimento reciproco, a determinare il “che” dell’ente.<br />

E ancora, l’ente riceve la sua “appagatività” dall’utilizzo, non dalla<br />

contemplazione speculativa. La possibilità di usare l’ente è data dalla “totalità dei<br />

rimandi” della quale esso fa parte, perché la sua “significatività” è legata a questa<br />

totalità; il significato allora non si determina principalmente nel giudizio, ma<br />

nella relazione d’uso.<br />

Dopo aver spiegato il modo d’essere dell’ente, e la sua costitutiva “relazionalità”,<br />

Heidegger può introdurre la sua idea di mondo; così, egli afferma che “il mondo<br />

è la totalità dei rimandi”, cioè la totalità delle relazioni che legano gli enti. La<br />

“mondità”, quindi, è un “esistenziale”: “il mondo è ciò in base a cui l’utilizzabile<br />

è utilizzabile”, e siccome il modo di essere del mezzo è la sua utilizzabilità, il<br />

mondo è la condizione di possibilità dell’essere dell’ente. Il mondo allora è<br />

inteso come relazione reciproca, come contesto; il mondo è il riferimento, dal<br />

quale l’ente riceve la sua dimensione.<br />

È evidente, che questa costruzione filosofica segna una discontinuità netta<br />

rispetto all’ontologia della semplice-presenza: l’ente riceve “identità” all’interno<br />

della rete dei rimandi, ovvero, come abbiamo visto, è l’ente a ricevere la sua<br />

determinazione d’essere dal mondo, e non viceversa: “le analisi finora condotte –<br />

scrive Heidegger – hanno chiarito che l’essere-in-sé dell’ente intramondano è<br />

comprensibile ontologicamente solo sul fondamento del fenomeno del mondo”; 52<br />

invece, per i moderni il mondo non è niente più che la sommatoria degli enti<br />

semplicemente presenti. 53<br />

Risulta che l’idea di mondo come collezione di oggetti scaturisce dal rispettivo<br />

concetto che si possiede di “ente”: se si connota l’oggetto come indipendente e<br />

autosufficiente, lo si caratterizza in modo da rendergli superflua qualsiasi<br />

52 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 103<br />

53 Il primo filosofo che mette in questione quest’idea è Kant, il quale però, essendo prigioniero<br />

dell’ontologia della semplice presenza, non poteva spingersi lì dove è arrivato Heidegger.<br />

45


elazione. La determinazione dell’ “oggetto” non può derivargli da qualcosa di<br />

“esterno”, perché esso è già assolutamente compiuto in se stesso; l’essere<br />

dell’oggetto è perfettamente “contenuto” nell’oggetto stesso. Il mondo non gli<br />

può conferire alcunché. Anzi, il mondo stesso non può essere niente più<br />

dell’insieme degli oggetti; o meglio, la totalità del mondo è solo la somma delle<br />

sue parti. La visione moderna è fondata sul sostanzialismo, perché considera ogni<br />

ente autosufficiente rispetto a ciò che lo circonda, ed in questo modo essa perde<br />

la dimensione del rimando reciproco, essa manca totalmente il tema della<br />

mondità; e di conseguenza, si confina all’interno dell’ontologia della semplice-<br />

presenza. Heidegger, invece, sostiene che l’ente è rimando a…, è relazione<br />

con…, capovolgendo così la posizione moderna: non più separazione originaria<br />

ma relazione originaria.<br />

Nella sua analisi della filosofia di Cartesio, Heidegger osserva che l’essere della<br />

res extensa è la sostanzialità, e quindi l’essere del singolo ente è la substantia.<br />

Da ciò deriva che l’estensione è l’essenza dell’ente; e l’estensione è caratterizzata<br />

dalla “costante permanenza nell’isolamento”.<br />

Da questa ontologia nasce il concetto di “oggetto”; infatti, per il pensatore<br />

francese: “la sostanza è l’ente il quale è tale che per essere non abbisogna di<br />

nessun altro ente” (concetto di autosufficienza ontologica). Così, l’ente di<br />

Cartesio è la “semplice-presenza” di Heidegger. Ciò porta il filosofo del cogito<br />

alla confusione tra l’ “essere” e l’ “ente”, e quindi a trattare l’ “esserci” come un<br />

ente intramondano; infatti, anche la res cogitans, per Cartesio, è “sostanza”.<br />

Una volta provocato questo “capovolgimento ontologico” è chiaro che resta<br />

interdetto anche il fenomeno del mondo.<br />

Ricapitolando, il mondo, per Heidegger, può essere inteso in quattro modi:<br />

primo, “come un concetto ontico nel senso della totalità dell’ente semplicemente<br />

presente all’interno del mondo”; secondo, come “termine ontologico riferito<br />

all’essere dell’ente di cui si parla”; terzo, il mondo può avere l’ulteriore<br />

significato ontico “di ciò in cui l’esserci vive come tale”; e infine, “mondo è il<br />

46


concetto ontologico esistenziale della mondità”. In quest’ultimo caso, esso<br />

corrisponde a quell’apriori che costituisce l’esserci come tale.<br />

La rivoluzione heideggeriana si fonda su questa idea di mondo, a partire da essa<br />

il filosofo tedesco può attaccare l’ontologia della semplice-presenza,<br />

evidenziandone tutti i limiti. 54<br />

L’argomento della mondità permette ad Heidegger di esplicitare il concetto di<br />

“esistenza”. Egli sostiene che l’esistenza è propriamente “ek-sistenza”, cioè la<br />

condizione dello star già da sempre presso gli enti e gli altri (concetto della<br />

relazione originaria).<br />

In questo senso, l’essere è “trascendente”, cioè esso è sempre fuori nel mondo.<br />

Per questo, tra l’esserci e l’ente la relazione è “originaria”.<br />

Da tutto ciò emerge che l’ “io” è solo “un’indicazione formale”, nel senso che, l’<br />

“io” senza il mondo non può sussistere. L’obiettivo polemico è il concetto di<br />

“soggetto” in tutte le sue varianti da Cartesio a Hegel. Mancare il tema della<br />

mondità, infatti, porta a non comprendere l’essenza propria dell’uomo, il quale è<br />

“esistenza”, è “essere-nel-mondo”. Dire “io” per Heidegger equivale ad aprire un<br />

ambito di ricerca, non certo a definire una determinata entità. Per “soggetto” i<br />

moderni intendono un’esistenza senza mondo, cioè una contraddizione in<br />

termini, perché la mondità è una struttura costitutiva dell’esserci. Non è<br />

nemmeno concepibile un’esistenza, se non come “essere-nel-mondo”.<br />

Sul fondamento del concetto di “soggetto” si è costretti a definire l’ente<br />

intramondano come “oggetto”, e così nasce il dualismo che ha tenuto prigioniero<br />

tutto il pensiero moderno.<br />

Dualismo che si manifesta con particolare evidenza nell’epistemologia moderna,<br />

secondo la quale il soggetto per “conoscere”, deve accedere a qualcosa che<br />

originariamente non gli appartiene, a qualcosa che gli è “esterno” (nel modo della<br />

separazione): l’oggetto.<br />

54 Allora, il riferimento esplicito a Cartesio (e implicito a Husserl) hanno lo scopo di mettere in risalto<br />

la differenza tra la sua, e le loro, concezioni del mondo.<br />

47


Secondo tale paradigma, la conoscenza (“stato interno”) scaturisce dalla mera<br />

osservazione del “dato” (realtà esterna); conoscere diventa una attività<br />

“intellettuale” e “speculativa” (interna). L’uomo coglie l’ente (o il fenomeno)<br />

quando è in grado di “esprimere” su di esso “giudizi”.<br />

La conoscenza è “corrispondenza” tra l’intelletto e la realtà, perché si postula la<br />

separazione tra mondo interno e mondo esterno. In questo modo, si confonde la<br />

“conoscenza” con la “comprensione”, e si pensa all’epistemologia come ad un<br />

territorio totalmente indipendente dall’ontologia.<br />

Ma è contraddittorio pensare alla conoscenza come ad un incontro tra due realtà<br />

isolate, o come incontro tra entità originariamente estranee.<br />

Da questo dualismo, a parere di Heidegger, non si è liberato neppure Husserl, il<br />

quale ha frainteso il tema della “intenzionalità” dandone una interpretazione<br />

“cartesiana”. Se si pensa all’intenzionalità come al carattere costitutivo del<br />

rapporto tra “soggetto” e “oggetto”; se in sostanza, si pensa all’intenzionalità<br />

come ad un ponte gettato tra realtà originariamente separate, non si esce dal<br />

dualismo ma lo si rafforza.<br />

Tra chi “intenziona” e la cosa “intenzionata”, la relazione è originaria, proprio in<br />

virtù della trascendenza dell’esistenza, proprio grazie all’essere-nel-mondo.<br />

L’esserci come “ek-sistenza” è già da sempre presso gli enti che incontra; quindi<br />

se da un lato, la “conoscenza” è conseguenza del “raggiungimento” dell’oggetto<br />

esterno da parte del soggetto, è semplice “contemplazione” del “dato”; dall’altro,<br />

la “comprensione” è rapporto originario tra l’esserci e gli enti, in virtù della sua<br />

costitutiva mondità.<br />

In questo senso, l’esserci è costituito dalla “comprensione”. 55 Ancora una volta, il<br />

balzo in avanti compiuto da Heidegger è notevole. La sua idea di<br />

“comprensione” diverge profondamente da quella moderna. Quest’ultima è una<br />

sorta di “meccanicismo” applicato alle relazioni tra “soggetto” e “oggetto”. È ciò<br />

che permette di spiegare la relazione tra “semplici-presenze”. La conoscenza<br />

avviene attraverso moti e incontri, all’interno di una struttura di tipo causale;<br />

55 Ed è proprio grazie a questa caratteristica “ontologico-esistenziale” che egli si può porre il problema<br />

dell’essere.<br />

48


mentre per il pensatore tedesco, la comprensione è rapporto originario con gli<br />

enti, che si costituisce grazie alla mondità del Dasein.<br />

Il pensiero moderno ha ridotto qualsiasi tipo di incontro a relazione causale, e la<br />

teoria dell’intenzionalità husserliana non costituisce un’eccezione.<br />

Con il concetto di “ek-sistenza”, Heidegger riesce a ribaltare questa architettura e<br />

ad assestare un altro colpo decisivo all’edificio di pensiero moderno.<br />

Sul fondamento del fenomeno del mondo è possibile descrivere anche le<br />

relazioni tra gli “uomini”. Sappiamo che l’esserci è originariamente presso gli<br />

enti che incontra, ma allo stesso modo, e per le stesse ragioni, egli è già da<br />

sempre anche presso gli altri “esserci”. L’ “essere-presso” gli altri è il “con-<br />

essere”.<br />

“Essere-nel-mondo” significa essere già da sempre all’interno dell’insieme delle<br />

relazioni che lega le esistenze tra loro. La mondità permette di superare<br />

l’isolamento del Dasein, non solo rispetto agli enti intramondani, ma anche nei<br />

confronti degli altri. La mondità allora è la struttura sulla quale si fondano tutte le<br />

relazioni dell’esistenza: “ek-sistere” significa essere già da sempre fuori presso<br />

gli enti e presso gli altri.<br />

Risulta allora, che l’idea di “mondo” è da un lato il cardine dell’opera, e<br />

dall’altro la cifra della rivoluzione heideggeriana. Vedremo più avanti come<br />

attraverso questo concetto – che il Filosofo userà anche dopo Essere e tempo –<br />

sia possibile configurare il suo tentativo anti-fondazionalista.<br />

49


III) La “cura” e l’ “apertura”<br />

Heidegger distingue due modi dell’esistenza: l’essere presso le cose è il<br />

“prendersi cura”, e l’essere presso gli altri è l’ “aver cura”. Il “prendersi cura” si<br />

fonda sull’ “avvedutezza”, l’ “aver cura” sul “riguardo” e sull’ “indulgenza”.<br />

Bisogna sottolineare che usare “riguardo” e “indulgenza” non significa occuparsi<br />

degli altri sempre con amorevolezza. E’ noto che le relazioni umane non sono, di<br />

solito, improntate alla dedizione e all’aiuto reciproco, e Heidegger lo sa bene.<br />

Ciò significa che, “innanzi tutto e per lo più”, l’aver cura dell’esserci si manifesta<br />

in modo “difettivo”. L’esserci può anche ignorare gli altri, o addirittura<br />

danneggiarli, ma questo non comporta una mancanza di “cura”.<br />

Il Dasein non può prescindere dalla “cura”, perché essa è il modo di darsi<br />

originario e fondamentale dell’ “essere-nel-mondo”. L’ “ek-sistenza”, cioè<br />

l’originario “essere-presso” dell’esserci, si manifesta sempre come “cura”.<br />

Anche il concetto di “cura” rappresenta una sostanziale novità introdotta dal<br />

pensatore tedesco. Ed è un tentativo ingegnoso di superare le accuse di<br />

soggettivismo e di solipsismo che, invece, sono state rivolte a tutto il pensiero<br />

moderno. 56<br />

A partire dal fenomeno della “cura”, Heidegger riprende il tema dell’ “in-essere”<br />

che era stato solo abbozzato nel dodicesimo paragrafo. In questa parte dell’opera<br />

l’intento è quello di analizzare il “ci” dell’ “esser-ci”.<br />

Se l’esistenza si manifesta essenzialmente come “cura”, bisogna chiarire il<br />

“come” di questo esser-ci; o meglio, si tratta di spiegare il modo in cui si dà<br />

l’originario “essere-presso” del Dasein.<br />

A questo punto, Heidegger introduce il tema dell’ “apertura”, che è proprio il<br />

modo di darsi dell’esserci, cioè il modo nel quale l’esserci si relaziona al<br />

56 Tentativo non del tutto riuscito a causa della struttura “dasein-centrica” di Essere e tempo, e a causa<br />

del “tacito e angoscioso isolamento” in cui versa, a parere dello stesso Heidegger, l’esserci. Ma di questo<br />

ci occuperemo in seguito.<br />

50


mondo. 57 Essa concerne quindi la verità dell’esserci. Così, l’incontro con l’<br />

“altro” (ente o esserci) avviene nel modo consentito dalla sua “apertura”. “Esser-<br />

ci”, allora, significa essere nel mondo essenzialmente come “apertura”. 58<br />

I suoi modi fondamentali e cooriginari sono la “situazione emotiva” e la<br />

“comprensione”. L’esserci non è mai semplice-presenza isolata dal contesto (non<br />

è soggettività neutra), ma è sempre “essere-per”, “essere-con”, “esser-ci”, è<br />

sempre “in relazione a…”. L’apertura è la condizione della originaria<br />

connessione ad altro dell’esserci.<br />

Nel suo “ci” l’esser-ci” si trova “gettato”, cioè egli “si trova”, non “determina”<br />

la sua situazione emotiva. La “gettatezza” è una condizione obbligata<br />

dell’esistenza. 59 L’idea del Dasein che si “immedesima” col mondo, riceve qui<br />

ulteriore determinazione. Il “sentirsi situato” del Dasein può essere considerato<br />

un modo nel quale egli vive tale immedesimazione, è il suo porsi di fronte al<br />

mondo. “Essere-nel-mondo” non è solo un generico “essere-familiare”, ma è un<br />

“sentirsi situato presso”; Heidegger, in sostanza, ci dice che la dimensione<br />

emotiva è una condizione strutturale della nostra “partecipazione al mondo”. 60<br />

Ciò significa che il Dasein non sceglie, ma “riceve”, “accetta” la sua “condizione<br />

esistenziale”. Il “ci” è prima di tutto “situazione emotiva”.<br />

Per evitare fraintendimenti, Heidegger avverte subito che la situazione emotiva<br />

non assomiglia per niente allo stato psicologico del soggetto. Il soggetto si<br />

percepisce per riflessione mentre “nella situazione emotiva l’esserci è sempre<br />

condotto innanzi a se stesso, si è già sempre “sentito”, non però sotto forma di<br />

autopercezione, bensì di autosentimento situazionale”. 61 Non si tratta cioè di<br />

57 Nel senso che, come “poter-essere” egli è già da sempre “aperto”.<br />

58 Heidegger scrive che “l’esserci è la sua apertura”.<br />

59 L’esistenzialismo si sviluppa proprio sulla scorta di questi concetti. L’esistenza non può scegliersi ma<br />

deve accettarsi, soprattutto nella sua costitutiva dimensione di finitezza.<br />

60 “L’espressione essere gettato sta a significare l’effettività dell’essere consegnato” (Essere e tempo,<br />

pag. 173).<br />

61 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 173<br />

51


percepire uno “stato d’animo” interno al soggetto, ma di sentirsi situati nel<br />

mondo. La situazione emotiva è il modo nel quale l’ “esser-ci” vive il suo “ci”,<br />

cioè, il modo in cui egli sta nel mondo.<br />

L’esserci è presso di sé allo stessa maniera in cui è presso gli altri. Egli vive<br />

originariamente la situazione della connessione ad “altro”. L’incontro con l’altro,<br />

infatti, avviene tramite l’ “affezione” dei nostri sensi, i quali possono essere<br />

“affetti” in quanto l’esserci è emotivamente situato nel mondo. “Un’affezione<br />

non potrebbe mai aver luogo come semplice risultato dell’urto e della<br />

resistenza”, modalità che invece appartiene all’incontro dei soggetti e degli<br />

oggetti. Nell’ “incontro”, allora, siamo sempre condizionati da una tonalità<br />

emotiva, sia quando incontriamo altri esserci, che quando incontriamo enti<br />

intramondani. La conoscenza stessa (che è una forma particolare di incontro) non<br />

può prescindere dalla situazione emotiva; “anche la teoria più pura non è del tutto<br />

scevra di tonalità emotiva ”.<br />

L’idea della semplice-presenza mostra, anche sotto questo rispetto, tutta la sua<br />

superficialità: pensare l’esserci come soggetto neutro, indipendente da ogni<br />

“umore”, che elabora pensieri “interni”, immuni da qualsiasi contaminazione<br />

emotiva (da qualsiasi rapporto col mondo), il quale è in grado di raggiungere la<br />

cosa oggetto di studio come la boccia colpisce il pallino, è una ingenua<br />

astrazione. L’esserci non può non “sentirsi situato”, non può prescindere, in ogni<br />

momento della propria vita, dalla sua situazione emotiva. E quindi anche la<br />

“comprensione” (e il suo modo derivato: la conoscenza) è sempre “situata”.<br />

Arriviamo così al secondo carattere dell’apertura. Si deve precisare<br />

immediatamente che tra “situazione emotiva” e “comprensione” la relazione e<br />

reciproca: la “comprensione” non è indipendente dalla situazione emotiva, e<br />

viceversa, la situazione emotiva si manifesta sempre nel modo della<br />

comprensione.<br />

Sappiamo che la determinazione ontologica principale dell’esserci è la<br />

possibilità; adesso possiamo aggiungere che la modalità con cui l’esserci coglie<br />

52


(o fallisce) le sue possibilità è la comprensione. Il Dasein, infatti, è quell’ente che<br />

ha come carattere costitutivo la comprensione. Le possibilità aperte al Dasein e la<br />

sua comprensione sono cooriginarie. Ecco perché non si può scambiare la<br />

comprensione con la conoscenza dell’ente semplicemente presente: la<br />

comprensione implica la scoperta originaria e integrale dell’ente intramondano.<br />

L’ente è scoperto nella sua “utilizzabilità”, nella sua “impiegabilità” e nella sua<br />

“dannosità”, di modo che, la conoscenza dell’ente semplicemente presente non è<br />

che un caso particolare della comprensione. 62<br />

La natura dell’ente come “semplice-presenza” è scopribile solo sul fondamento<br />

dell’apertura originaria della comprensione.<br />

“La comprensione in quanto apertura riguarda l’intera costituzione dell’essere-<br />

nel-mondo”: essa è essenzialmente “progetto”, in quanto essa “progetta” l’esserci<br />

nella sua dimensione ontologico-esistenziale; cioè la comprensione, da un lato,<br />

ha la struttura esistenziale del “progetto”, dall’altro e contestualmente, è una<br />

struttura ontologica dell’esserci in quanto possibilità. Heidegger scrive: «La<br />

comprensione è l’essere esistenziale del poter-essere proprio dell’esserci stesso,<br />

ed è siffatta che questo essere rivela a se stesso come stanno le cose a proposito<br />

dell’essere che gli è proprio». 63<br />

Il mondo, allora, è aperto come “significatività” dell’ente, ma nella totalità delle<br />

sue possibilità. 64 Ciò implica che, se la comprensione riguarda le condizioni di<br />

possibilità del darsi del Dasein, anche l’essere dell’ente intramondano viene<br />

indagato attraverso le sue condizioni di possibilità. 65<br />

62 « “Intuizione” e “pensiero”sono due lontani derivati della comprensione. Anche la “visione delle<br />

essenze” fenomenologia si fonda nella comprensione esistenziale» (Essere e tempo, pag 187)<br />

63 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 184<br />

64 “La totalità di appagatività si rivela come il tutto categoriale delle possibilità di un insieme di<br />

utilizzabili” (Essere e tempo, pag 184).<br />

65 «Anche “l’unità” del molteplice delle semplici-presenze, la natura, non è scopribile che sul<br />

fondamento dell’apertura delle sue possibilità. E’ forse un caso che il problema dell’essere della natura<br />

tende alla determinazione delle sue “condizioni di possibilità”? Quindi, è confermato che, per Heidegger,<br />

l’indagine sulla natura dell’ente procede attraverso la determinazione di condizioni di possibilità (ciò che<br />

“Kant ha solo presupposto”, e che Heidegger vuole “giustificare nel suo fondamento”).<br />

53


In altre parole, l’indagine esistenziale ha carattere trascendentale in virtù della<br />

comprensione, nel senso che, l’esserci nella sua “gettatezza” si comprende nel<br />

suo essere a partire dal progetto; e il progetto coglie il Dasein nella sua<br />

dimensione ontologico-esistenziale. Ecco cosa intende Heidegger quando<br />

afferma che “l’esserci è già sempre progettato e resta progettante fin che è.<br />

L’esserci si comprende già da sempre e si comprenderà fin che c’è, in base alle<br />

sue possibilità”. 66<br />

In questo modo Heidegger riprende e approfondisce la questione inizialmente<br />

posta dell’esserci come ente che è costituito nel modo d’essere della<br />

comprensione. Adesso egli può affermare che l’ente che ha come modalità<br />

costitutiva la comprensione dell’essere, è l’ente che si comprende a partire dal<br />

progetto; e il progetto corrisponde, appunto, all’indagine “ontologico-<br />

esistenziale” delle strutture d’essere del Dasein; quindi l’esistenza, come<br />

modalità fondamentale dell’“essere-nel-mondo”, è “progetto gettato”.<br />

Il modo attraverso il quale avviene la comprensione è l’ “interpretazione”. 67<br />

Comprendere significa assegnare all’utilizzabile un “per-che-cosa”; ad esempio,<br />

il martello “è per martellare”. Così il martello viene compreso “in quanto”<br />

martello. Per Heidegger: «l’ “in quanto” esprime la struttura esplicativa del<br />

compreso; come tale costituisce l’interpretazione». 68 Se l’interpretazione è una<br />

esplicazione della comprensione, non può essere originaria, non può sussistere al<br />

di là della comprensione. Anche in questo caso si scorge la differenza abissale tra<br />

questo modo e quello precedente di intenderla: l’interpretazione si fonda su tre<br />

elementi; il primo è la “pre-disponibilità” del “compreso”, ovvero la pre-<br />

comprensione della totalità dei rimandi; il secondo è la “pre-visione” che<br />

assegna il pre-disponibile a una determinata interpretabilità; il terzo è la “pre-<br />

cognizione” nel senso che “essa ha già deciso per una determinata concettualità”.<br />

66 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 185. Corsivi aggiunti<br />

67 L’interpretazione quindi si fonda sulla comprensione.<br />

68 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 189<br />

54


Ciò significa che, “l’interpretazione non è mai l’apprendimento neutrale di<br />

qualcosa di dato”; la cosa interpretata non è l’oggetto che sta di fronte al soggetto<br />

interpretante, essa non esiste autonomamente prima dell’interpetazione: il dato<br />

non c’è, ci sono solo le interpretazioni del “pre-compreso”. La percezione della<br />

semplice-presenza si ha solo quando l’oggetto è al di fuori della rete dei rimandi.<br />

Essa è quindi un modo derivato della comprensione.<br />

Quando comprendiamo qualcosa diamo ad essa un senso, allora comprendere è<br />

delimitare, circoscrivere; in sostanza si comprende qualcosa quando si riesce a<br />

“misurarla”. Ma per misurare si deve aver “pre-compeso” l’unità di misura; si<br />

deve aver “contestualizzato”. Ciò implica un ruolo attivo dell’esserci. Il senso<br />

attribuito è l’attestazione dell’avvenuta comprensione; quindi, il senso inerisce<br />

sempre all’esistenza: «Il senso deve essere concepito come la struttura formale-<br />

esistenziale dell’apertura propria della comprensione. Il senso è un esistenziale<br />

dell’esserci e non una proprietà che inerisce all’ente o che gli sta “dietro” o che<br />

vaga in qualche “intermondo”». 69 Di conseguenza, è l’esistenza ad attribuire<br />

senso alla realtà, e quindi l’interpretazione è il conferimento del senso, all’ente<br />

intramondano sulla base della totalità dei rimandi.<br />

In questo modo, Heidegger può dire che l’ “asserzione” è un modo derivato<br />

dell’interpretazione. Anche l’asserzione si fonda sulla “pre-disponibilità, sulla<br />

“pre-visione”, sulla “pre-cognizione”. Ad esempio, “il martello è pesante” è un<br />

giudizio che si fonda sulla pre-comprensione del concetto di pesantezza. Ogni<br />

asserzione allora si fonda sul primario “prendersi cura” dell’ente intramondano<br />

da parte dell’esserci. Solo a partire dalla “significatività” del mondo è possibile<br />

asserire qualcosa. Posso asserire qualcosa di un ente solo quando esso è<br />

considerato al di fuori della sua utilizzabilità. Allora, L’ “in quanto” apofantico<br />

deriva dall’ “in quanto” ermeneutico-esistenziale.<br />

Dopo l’asserzione, Heidegger prende in considerazione il “discorso”, quale<br />

modalità fondamentale del dire; e così chiude il cerchio.<br />

69 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 193<br />

55


Egli mostra che l’asserzione può essere considerata solo una parte marginale<br />

all’interno della comunicazione umana. Una parte che trova la sua origine<br />

proprio nel contesto del discorso. Il quale è molto più ricco e complesso<br />

dell’asserzione, infatti, mentre quest’ultima coglie la realtà solo nell’aspetto<br />

derivato della semplice-presenza, il discorso è essenzialmente cooriginario alla<br />

situazione emotiva e alla comprensione. Ciò significa che, la “comprensione<br />

gettata” dell’esistenza si esprime, o meglio si articola, proprio nel discorso. Esso<br />

ha la funzione di articolare la significatività dei rimandi dell’ essere-nel-mondo,<br />

ed è quindi il fondamento ontologica-esistenziale del linguaggio.<br />

Parlare non è un dare nomi a oggetti, ma è scoprimento originario dell’ente<br />

attraverso l’articolazione della comprensione. Nello stesso tempo questo<br />

esistenziale è il modo della comunicazione che ci tiene originariamente presso gli<br />

altri. Esso rappresenta l’articolazione del con-essere dell’esserci. Trattare il<br />

linguaggio come l’insieme delle regole che governano il giudizio è estremamente<br />

riduttivo;<br />

Naturalmente qui l’obiettivo polemico è ancora una volta il positivismo, ed in<br />

questo caso anche il neo-positivismo. Heidegger mostra che le analisi della<br />

cosiddetta “filosofia del linguaggio” si fermano molto prima di raggiungere il<br />

fine che si sono prefissate, proprio perché esse sono fondate sull’ontologia della<br />

semplice-presenza. Allora, ciò che esse studiano non è il linguaggio ma un suo<br />

succedaneo, l’ultima derivazione di esso, quella più superficiale. Il giudizio<br />

coglie l’ente semplicemente-presente, assume l’ente che si pone al di fuori della<br />

rete della significatività; quindi, per mezzo dell’analisi del giudizio non si arriva<br />

alla “verità”, ma si manca di trattare proprio la questione fondamentale: le<br />

ricerche intorno al giudizio non sono studi sulla possibilità di raggiungere (di<br />

dire) la verità, ma tentativi portati avanti nella più totale dimenticanza del senso<br />

dell’essere.<br />

L’idea di “conoscenza” dei positivisti fallisce l’obiettivo sotto due punti di vista.<br />

Da un lato, si forma a prescindere dalla situazione emotiva, è questo le conferisce<br />

56


un carattere di astrattezza, dall’altro, si colloca al di fuori del fenomeno<br />

originario della comprensione assumendo così un aspetto del tutto superficiale.<br />

In sostanza, essa è formulata sulla totale dimenticanza del fenomeno della cura. È<br />

incapace di trattare la fondamentale struttura d’essere dell’esserci, e così non può<br />

raggiungere la relazione esistente tra l’ente e il Dasein.<br />

Per questo, il mondo per i moderni diventa un aggregato di parti indipendenti,<br />

che sono impossibili da riunire; per questo il soggetto viene concepito, o come<br />

una sorta di terminale che raccoglie gli impulsi che provengono dall’esterno, o<br />

come un fabbro che “costruisce” il proprio mondo.<br />

L’analitica esistenziale, cioè l’analisi sui fondamenti ontologico-esistenziali<br />

dell’esistenza, vuole mostrare quanto sia immatura e superficiale l’idea di<br />

“soggetto” (e quella correlativa di “oggetto”). La neutralità del soggetto, infatti<br />

appare, alla luce delle precedenti considerazioni, una ipotesi generica, priva cioè<br />

del necessario riferimento alla realtà; e appare anche una teoria basata su grosse<br />

semplificazioni, che ne rivelano l’ingenuità di fondo.<br />

IV) Cura, realtà e verità<br />

A questo punto, Heidegger riprende l’indagine dell’esserci richiamando a tema il<br />

fenomeno della cura. Egli si chiede cosa faccia dell’esserci una struttura unitaria<br />

nonostante le sue molteplici determinazioni d’essere. E la risposta cercata sta<br />

proprio nel concetto di “cura”; ciò significa che, l’ “essere-nel-mondo” è<br />

essenzialmente “cura”. Quest’ultima, infatti, viene presentata come il fenomeno<br />

originario e costitutivo dell’esistenza. Ancora una volta, Heidegger si preoccupa<br />

di chiarire la differenza tra il suo concetto di “cura” e quello tradizionale, figlio<br />

dell’ontologia della semplice-presenza. La “cura” non è un atteggiamento del<br />

57


soggetto nei confronti del mondo, né un modo di comportarsi verso l’altro da sé.<br />

La cura (o la mancanza di cura) non è il modo con cui il soggetto tratta le vicende<br />

che lo riguardano, ma la più originaria determinazione ontologico-esistenziale<br />

dell’ “essere-nel-mondo”. 70 Essa è l’originario “essere-presso” il mondo del<br />

Dasein; la sua familiarità col mondo si mostra nel continuo “prendersi” e “aver”<br />

cura. Allora, essa non è una “opzione” di comportamento nelle mani del<br />

soggetto, ma è il modo imprescindibile e costitutivo con cui l’esserci sta al<br />

mondo. La cura è “l’essere-avanti-a-sé-essendo-già-in-un-mondo”. Ovvero, la<br />

possibilità dell’esistenza si esprime nel modo più proprio nel suo esser già da<br />

sempre presso il mondo che incontra. È chiaro, che senza aver adeguatamente<br />

inquadrato il tema della mondità non si può accedere al fenomeno della cura. Il<br />

“soggetto” non può “essere cura”, perché non è concepito come “esistenza”. Il<br />

soggetto sta di fronte agli oggetti, e si contrappone al mondo come semplice-<br />

presenza che incontra altre semplici-presenze. Il soggetto come tale è senza<br />

mondo. La separazione è l’aspetto fondamentale del suo modo di essere.<br />

È per questo che attraverso l’idea di “cura” si può riprendere la questione<br />

fondamentale, il vero filo d’Arianna dell’opera, ovvero il problema del senso<br />

dell’essere. La cura è il fenomeno più originario fin’ora presentato da Heidegger,<br />

è la cifra caratteristica dell’essere dell’esistenza. Attraverso la sua esplicitazione<br />

si è potuto vedere sotto nuova luce anche l’argomento del mondo, e si è colta la<br />

struttura unitaria del Dasein. La cura è quindi la porta d’accesso principale<br />

all’analisi della questione dell’essere. A questo livello della ricerca, infatti,<br />

“emerge l’esigenza di spingere ancora più innanzi la problematizzazione<br />

ontologica, fino alla scoperta di un fenomeno ancora più originario che sottenda<br />

ontologicamente l’unità e la totalità del molteplice delle strutture della cura”. 71<br />

70 «La cura, in quanto totalità strutturale unitaria, si situa, per la sua apriorità esistenziale, “prima” di<br />

ogni “comportamento” e di ogni “situazione” dell’esserci (cioè dentro ognuno di essi)» (Essere e tempo,<br />

pag. 242).<br />

71 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 245<br />

58


Perché, allora, Heidegger, dopo aver enunciato di voler riprendere a trattare<br />

direttamente la questione dell’essere comincia a discutere il tema della “realtà”?<br />

L’ontologia della “semplice-presenza” confonde l’essere dell’ente con la sua<br />

presenza, e quindi l’essere assume il senso della “realtà materiale” (l’essere<br />

diviene sostanza). In questo modo, ogni ente (anche l’esserci) è inteso come<br />

“semplice-presenza”, e il mondo diventa l’insieme di questi enti. Ecco perché,<br />

l’indagine sul senso dell’essere deve ripartire dall’esame di ciò che si intende con<br />

il termine “realtà”. Solo dopo aver chiarito la differenza tra il concetto di<br />

“presenza” e quello di “mondità”, si può riprendere la questione dell’essere nel<br />

modo più appropriato.<br />

La base di avvio trova luogo proprio nell’idea che la connessione tra “mondo”<br />

ed “essere” è data dalla cura; solo così si può dimostrare che la realtà non è<br />

l’insieme degli enti presenti, ma qualcosa di relativo al fenomeno dell’esistenza.<br />

Ed e solo in questo modo che si può cogliere l’originalità della relazione tra<br />

l’essere dell’ente e l’essere del Dasein.<br />

Heidegger vuole far vedere, anche sotto questa prospettiva, come i problemi della<br />

metafisica, nel trattare il fenomeno del mondo, nascono da un errata<br />

interpretazione del senso dell’esserci. Mancare la questione dell’esserci porta<br />

inevitabilmente a considerare il mondo come qualcosa di esterno, di cui bisogna<br />

“dimostrare” l’esistenza. Questo fu l’intento di Cartesio, il quale partendo da una<br />

prospettiva dualistica aveva tutto il diritto di chiedersi se ciò che lo circondava<br />

fosse “reale” o “illusorio”. Il soggetto non può essere “certo” di ciò che gli sta di<br />

fronte, proprio perché egli è un ente senza mondo, egli è “semplice-presenza”; E,<br />

come abbiamo visto, una volta prodotta la frattura tra soggetto e oggetto qualsiasi<br />

tentativo di riunificazione è destinato a fallire.<br />

Per l’esserci, invece, la questione dell’esistenza delle cose esterne non deve<br />

nemmeno essere posta. L’esserci è costituito dal suo “essere-nel-mondo”, e<br />

quindi non è possibile pensarlo a prescindere dal proprio mondo. L’esserci “è” la<br />

sua apertura di mondo. Realismo e idealismo si sono alternati nel proporre ipotesi<br />

59


di soluzione senza mai avvicinarsi all’essenza della questione, perché hanno<br />

dimenticato l’aspetto fondamentale – l’ “essere” – e di conseguenza la struttura<br />

fondamentale dell’esserci. Allora, “lo scandalo della filosofia non è che non sia<br />

stata ancora data una dimostrazione dell’esistenza delle cose esterne, ma che essa<br />

venga ancora richiesta e tentata”. Nel momento stesso in cui si interroga,<br />

l’esserci svela il suo “essere-nel-mondo”, il suo “essere-presso” la totalità dei<br />

rimandi. Senza mondo l’ “esserci” non potrebbe iniziare alcuna interrogazione,<br />

anzi non “esisterebbe” nemmeno.<br />

La stessa impostazione del problema del mondo da parte di Kant manifesta una<br />

totale dimenticanza del senso dell’essere, mostra cioè, che Kant basa la sua<br />

filosofia sulla ontologia della semplice-presenza. Per questo egli tenta la<br />

dimostrazione dell’esistenza delle cose esterne, e così facendo non può che<br />

cadere in contraddizione.<br />

L’esserci non è il soggetto che pone o subisce l’esistenza dell’oggetto; e quindi<br />

l’alternativa tra realismo e idealismo riposa su fondamenti inadeguati. Non si<br />

tratta infatti di stabilire se sia il soggetto a dipendere dall’oggetto, o l’oggetto dal<br />

soggetto, ma si deve cogliere la relazione originaria che, tramite la mondità, si<br />

pone tra l’ente e l’esserci. Ed è solo così che si può impostare adeguatamente la<br />

questione dell’essere. Ciò significa che l’essere non è indipendente dal esserci:<br />

anzi, solo “finché si dà la possibilità della comprensione dell’essere, c’è essere”;<br />

di conseguenza, l’essere “si dà” nell’esistenza, l’essere riposa su una dimensione<br />

“esistenziale”.<br />

La mondità si rivela, ancora una volta, un argomento fondamentale dell’indagine,<br />

tanto da essere qui presentata come la via d’accesso al problema dell’essere.<br />

A partire dall’analisi della “realtà”, Heidegger avvia la discussione sulla nozione<br />

di “verità”. Per il pensatore tedesco si tratta di tornare alle origini del pensiero<br />

filosofico, quando la verità era intesa come “aletheia”, “non-nascondimento”; e<br />

non come “adeguazione” del pensiero alla cosa (“adaequatio intellectus et rei”),<br />

o della cosa al pensiero. La verità “s-vela” l’ente dal suo nascondimento e lo fa<br />

60


“scoprire” nella sua totalità; e il Dasein scopre l’ente grazie al suo prendersi cura<br />

di esso.<br />

L’esserci è l’ “essere scoprente”, e l’ente è l’ “essere scoperto”. La verità è<br />

l’essere scoprente dell’esserci, e solo in un “senso secondo” l’essere scoperto<br />

dell’ente. Allora, la cura è l’essere per la verità dell’esserci.<br />

Per il filosofo tedesco, il vero si dà all’esserci nella manifestazione dell’ente, ed è<br />

manifestazione perché ciò che si manifesta apre possibilità di esistenza. L’esserci<br />

nella sua apertura di mondo è già da sempre nella possibilità della verità, allora,<br />

egli non deve adeguare il suo giudizio a qualcosa di esterno e separato per<br />

raggiungerla; il Dasein coglie le possibilità che il suo costitutivo “essere-per” la<br />

verità gli offre. L’idea che il vero possa scaturire dall’ “adeguazione” è un<br />

tradimento dell’essenza originaria del concetto di verità. L’idea di “adeguazione”<br />

è figlia dell’ontologia della semplice-presenza, affermatasi nell’antichità e<br />

accolta definitivamente in epoca moderna; infatti, se si postula la divisione tra<br />

soggetto e oggetto, la verità non potrà che provenire da un qualche tipo di<br />

“corrispondenza”, cioè dalla possibilità dell’incontro tra un fatto e un giudizio,<br />

tra “interno” ed “esterno”. Ma in questo modo rimane del tutto indeterminato il<br />

modo della “corrispondenza”.<br />

L’origine della teoria adeguativa sta nella separazione tra l’ente giudicante e<br />

l’ente giudicato, e quindi si fonda sulla totale dimenticanza del senso dell’essere;<br />

tale teoria, in altri termini, non riesce a cogliere l’originaria connessione tra l’<br />

“essere” e la “verità”. Per Heidegger, ne è prova il fatto che da più di duemila<br />

anni ontologia ed epistemologia ristagnano sulle medesime posizioni.<br />

La verità è un fenomeno dell’esistenza al pari dell’essere e quindi la<br />

dimenticanza della questione dell’essere porta inevitabilmente a mancare<br />

l’essenza della verità. L’esser-scoprente della verità svela all’esserci le sue<br />

possibilità di esistenza; mentre nella separazione tra soggetto e oggetto, l’esserci<br />

è privato della sua dimensione esistenziale, egli è “semplice-presenza”, e quindi<br />

la sua verità non potrà che derivare da una modalità di adeguazione (dell’<br />

61


“interno” all’ “esterno”, o dell’ “esterno” all’ “interno”); così il soggetto<br />

“diventa” l’esserci privato delle sue possibilità.<br />

In questo modo, nasce il problema di spiegare come l’ente spirituale possa<br />

“raggiungere” l’ente reale: la separazione originaria pregiudica il risultato,<br />

perché non ci sono “ponti ontologici” che permettano al soggetto di raggiungere<br />

l’oggetto. Per poter cogliere l’ente bisogna essere già da sempre presso di esso;<br />

quindi l’ente si può manifestare all’esserci solo sul fondamento del suo<br />

costitutivo “essere-nel-mondo”.<br />

L’esserci è nel modo dell’apertura, egli è essenzialmente cura, ed è questo che gli<br />

consente l’originario rapporto con l’ente. Allora, è proprio l’apertura che porta<br />

l’esserci a raggiungere “il fenomeno più originario della verità”, e quindi a<br />

cogliere le sue possibilità.<br />

Questo non significa che l’esserci sia sempre nella verità, ma vuol dire che egli<br />

ha da sempre aperta la possibilità della verità. L’apertura gli consente tale<br />

possibilità, ma la dispersione del “si” gliela può togliere. In quanto “progetto<br />

gettato” l’esserci è sempre nella verità e nella non verit à.<br />

L’adeguazione è il tipo di relazione che caratterizza l’asserzione, infatti,<br />

quest’ultima si può adeguare o non adeguare alla verità, cioè può essere vera o<br />

falsa. Ma l’asserzione coglie l’ente nella sua semplice-presenza, quindi la verità<br />

dell’adeguazione è “non-originaria”.<br />

Se l’esserci è già da sempre presso l’ente, e la verità è lo scoprimento dell’ente,<br />

la verità è un fenomeno esistenziale, cioè, “c’è verità solo perché e fin che, in<br />

generale, l’esserci è”; allora, mancare la dimensione esistenziale dell’esserci<br />

significa non cogliere il fenomeno originario della verità. Non solo il “mondo”, e<br />

l’ “essere”, ma anche la “verità” è un esistenziale.<br />

Secondo Heidegger, questo non significa che la verità sia soggettiva, perché<br />

l’esserci è presso l’ente originariamente e genuinamente.<br />

In questo modo però, egli oscilla tra una posizione idealistica (la verità<br />

dell’esserci), e una realistica (l’uso di un ente esterno come prova della verità). È<br />

su questo tipo di impostazione che risiedono tutte le difficoltà di Essere e tempo;<br />

62


infatti, considerare l’essere e la verità degli “esistenziali” determina una deriva<br />

“soggettivistica” dell’opera.<br />

Secondo capitolo: la questione del fondamento in<br />

Heidegger<br />

I) Sul trascendentalismo di Essere e tempo<br />

Essere e tempo allora, contiene molti elementi di cambiamento rispetto alla<br />

tradizione di pensiero “metafisica”. L’analisi esistenziale, i suoi concetti di<br />

“apertura”, di “cura” e di “verità”, sono tutti momenti di profonda innovazione<br />

speculativa. Ma nel contempo, quest’opera mantiene ancora dei residui<br />

“metafisici”: in particolare, lo ripetiamo, una struttura argomentativa di tipo<br />

trascendentale, che porta Heidegger a considerare “tutti gli esistenziali<br />

fondamentali come dei trascendentali universali”. Così, gli argomenti di novità<br />

che pure egli ha prodotto assumono una veste “moderna”. La struttura<br />

trascendentale infatti non consente di superare né il “soggettivismo”, né il<br />

“fondazionalismo”. E quindi, in sostanza, egli fallisce gli obiettivi che si era<br />

proposto.<br />

Anche il mondo stesso, che è senz’altro l’aspetto più innovativo (ciò che<br />

permette tutte le altre conquiste dell’opera), viene alla fine trattato come un<br />

63


apriori, come una vera e propria “condizione di possibilità”; Heidegger, infatti,<br />

scrive che: «E’ a partire dal mondo che l’esserci si installa nelle sue<br />

possibilità». 72 E siccome l’esserci “è” le sue possibilità, il rapporto di dipendenza<br />

risulta chiaro. 73<br />

La condizione di possibilità, in quanto tale, precede “temporalmente” e/o<br />

“ontologicamente”, ciò che condiziona. La “natura” del “condizionante” è in sé<br />

diversa dalla “natura” del “condizionato”, essi procedono da due “statuti<br />

ontologici” alternativi, per definizione. Heidegger sostiene che: «Il mondo (…) è<br />

una premessa: ciò che è già prima, che è già svelato e compreso in ogni esserci<br />

esistente prima che si consideri questo o quell’ente, ciò che sempre è già svelato<br />

in anticipo e sta in rapporto con noi (…). Possiamo imbatterci in un ente<br />

intramondano solo perché, esistendo, noi siamo già sempre in un mondo». 74<br />

Questa affermazione, fatta proprio nell’anno di uscita di Essere e tempo, è molto<br />

significativa. L’ apriori deve per forza “essere prima” di ciò che viene, alla fine,<br />

ritenuto un “a-posteriori”; l’ apriori non dipende in alcun modo dall’ “a-<br />

posteriori”; esso è “pieno del suo essere” prima di qualsiasi rapporto con “altro”.<br />

Allora, necessariamente, l’ apriori è “autosufficiente”, è “completo”, al di là di<br />

ogni possibile relazione. L’apriori è una “premessa”, quindi, esso è ciò che “è”<br />

già prima, e indipendentemente da ciò che segue. Così si istaura un rapporto di<br />

subordinazione tra “cose” diverse: una completamente formata nel suo essere<br />

già da sempre, quell’altra in via di formazione, e dipendente dalla sua condizione<br />

di possibilità.<br />

72 M. Heidegger, Essere e Tempo, op. cit. pag. 243. Corsivi aggiunti<br />

73 E’, del resto ovvio, che la categoria kantiana è diversa dall’esistenziale, infatti, esse riposano su due<br />

ontologie alternative; le “possibilità” che esse consentono sono diverse, e questo proprio in virtù della<br />

differenza tra “ente semplicemente presente” e “esserci”; la differenza tra categorie ed esistenziali si basa<br />

sulla relazione che esse rispettivamente stabiliscono con i termini ai quali sono rivolte; Il rapporto tra<br />

mondo ed esistenza, ad esempio, e molto diverso dal rapporto tra categoria e io penso, come è differente<br />

quello tra mondo ed ente rispetto a quello tra categoria e fenomeno; ma una condizione di possibilità è<br />

sempre una condizione di possibilità. Essa stabilisce un rapporto di dipendenza con ciò che rende<br />

possibile. C’è comunque qualcosa che “condiziona” e qualcos’altro che “viene condizionato”.<br />

74 M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, il Melangolo, Genova, 1996, pag. 158.<br />

Corsivi aggiunti<br />

64


Questo modo di concepire le relazioni è consanguineo al principio di causa, per<br />

quante eccezioni si trovino. Certo, la causa determina necessariamente, l’apriori<br />

rende solo possibile, ma la differenza è di specie, non certo di genere. Il rapporto<br />

instaurato è comunque di dipendenza, e di derivazione.<br />

In questo tipo di relazione sta l’essenza di ogni argomentazione “metafisica”.<br />

Cercare il fondamento, o la causa non è sostanzialmente diverso dal cercare la<br />

condizione di possibilità, anche quella “esistenziale”. Concepire il mondo come<br />

“un dato” già da sempre compreso e disvelato, prima che si consideri questo o<br />

quell’ente, tale anzi da permetterne la comprensione, significa stabilire un<br />

rapporto di derivazione tra due entità che differiscono nettamente nel loro essere,<br />

e che non possono in nessun modo venir confuse. Significa ricadere in un altro<br />

tipo di dualismo, quello tra cose che “permettono” e cose che “sono permesse”.<br />

Significa, in buona sostanza, riproporre un’altra versione dell’argomentazione<br />

metafisica.<br />

L’idea che ci sia qualcosa come l’apriori non ha nessuna necessità evidente; la<br />

convinzione che ci debbano essere condizioni di possibilità è solo un modo<br />

sbrigativo di spiegare le relazioni tra fenomeni, e ciò vale generalizzando per<br />

ogni tipo di rapporto di dipendenza. Dove riposa la “consistenza”, e l’<br />

“indipendenza” ontologica dell’ apriori? Essa è solo postulata, non dimostrata. Si<br />

pensa che “ci debba” essere, ad un certo punto, qualcosa come una<br />

giustificazione, o un incipit, un imprimatur, o un sine qua non. Ma chi ha<br />

dimostrato l’esistenza o la necessità della “condizione”? E perché non la si<br />

dovrebbe dimostrare? Può bastare la semplice postulazione? Non è troppo poco<br />

affermare che la condizione (il fondamento) non può essere a sua volta<br />

condizionata (fondato)? Certo, nella logica metafisica un punto di partenza deve<br />

essere necessariamente fissato pena la regressione all’infinito. Ma essa ha posto<br />

precedentemente un ordine di argomentazione “causale-sequenziale” – un<br />

sistema di pensiero che deve svilupparsi in linea retta, e che quindi ad un certo<br />

punto deve fermarsi. La necessità della condizione “si fonda” nelle premesse del<br />

ragionamento.<br />

65


In altri termini, è solo perché premetto la necessità della condizione, che mi<br />

condanno a cercarla ( e poi le devo considerare risolutiva). Il rapporto di<br />

subordinazione è solo postulato, è quindi diventa una petitio principi, perché si<br />

presuppone ciò che si deve dimostrare: prima postulo la “dipendenza”, poi per<br />

dimostrarla uso la condizione di possibilità, la quale a sua volta si basa sulla<br />

postulazione iniziale. Ma così facendo si elimina un’aporia introducendone<br />

un’altra. Anche questa, allora, è una sorta di regressione.<br />

Allora, la logica sequenziale non è il modo di argomentare che se svolto<br />

correttamente porta alla “Verità”, non è la procedura di ragionamento che<br />

rispecchia la natura più intima del cosmo. Non c’è nessuna corrispondenza tra la<br />

cosiddetta realtà esterna (la “realtà”) e le logiche deduttive, sillogistiche o più in<br />

generale “consequenziali”. Tale procedura alla fine non garantisce nemmeno<br />

migliori risultati rispetto a quella “circolare”, tanto vituperata dai “logici”.<br />

Ciò che non funziona è il sistema di ragionamento, che si mette a cercare “ciò<br />

che è venuto prima”, e che essendo venuto prima, “condiziona” (causa, fonda)<br />

ciò che “viene dopo”. 75 Così facendo, si mette in piedi una struttura inferenziale<br />

che non ha alcuna necessità né logica, né ontologica, e che anzi è contraddittoria.<br />

Il concetto di mondo di Heidegger non si emancipa totalmente da questa<br />

debolezza. Egli, infatti, lo concepisce proprio come un dato, autosufficiente e<br />

perfettamente formato al di là di qualsiasi rapporto con l’ente, e con l’esserci. Il<br />

mondo è quell’apriori che costituisce l’esserci in quanto tale. E’ quindi una vera<br />

e propria condizione di possibilità rispetto al Dasein. Il mondo “è già prima”, “è<br />

una premessa”, “è già da sempre svelato e compreso in ogni esserci”; ciò<br />

significa che è già da sempre compiuto nel suo essere prima della comprensione<br />

del Dasein. Il mondo che mi accoglie non può in nessun modo dipendere<br />

dall’ente. La relazione che esso instaura col Dasein – che consente al Dasein di<br />

comprendere (di utilizzare) gli enti – è una relazione di dipendenza “univoca” (a<br />

senso unico). La comprensione del Dasein dipende dal mondo. “L’essere<br />

dell’ente è comprensibile (dall’esserci) solo sul fondamento del fenomeno del<br />

75 Tutto ciò si basa sul post hoc ergo propter hoc, cioè si trasforma una relazione temporale (che tra<br />

l’altro possiede un’evidenza solo presunta) in una condizione logica e poi ontologica.<br />

66


mondo”, scrive Heidegger. Quindi, l’esserci “comprende”, nella “totalità dei<br />

rimandi”, cioè “ek-siste” (è già da sempre presso l’ente), solo grazie alla<br />

apriorità del mondo. Il mondo non può venir condizionato dal singolo rimando,<br />

perché ogni rimando è da sempre facente parte del mondo.<br />

La familiarità che il Dasein ha col mondo, gli proviene dal mondo (che, infatti, lo<br />

“accoglie”), non è il frutto di una relazione di reciprocità. 76<br />

«L’espressione “sono” è connessa a “presso”. “Io sono” significa, di nuovo:<br />

abito, soggiorno presso…il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o<br />

quel modo». 77 La familiarità col mondo è la familiarità con l’insieme de i<br />

rimandi, ma l’esserci non incide, a parere di Heidegger, in nessun modo<br />

sull’essere di tali rimandi. Essi “sono” indipendentemente dall’esserci, anche se<br />

l’esserci è già da sempre accolto presso di loro. «Essere-nel-mondo significa:<br />

immedesimarsi in modo non tematico e secondo l’avvedutezza (umsicht) coi<br />

rimandi costitutivi dell’utilizzabilità propria della totalità dei mezzi». 78<br />

Immedesimarsi vuol dire identificarsi, rendersi uguale, diventare una cosa sola,<br />

cioè il Dasein, in qualche modo, si identifica col (e quindi si relaziona al) mondo,<br />

nel modo della sua avvedutezza.<br />

Se il mondo è già da sempre “scoperto” (seguendo l’etimologia del verbo<br />

“scoprire”), significa che è anche già da sempre dato, perché si scopre, si “rende<br />

visibile”, ciò che già è presente; ancora una volta, all’esserci è dato il mondo<br />

come un apriori.<br />

Heidegger si spinge ancora più a fondo, in questo tipo di caratterizzazione,<br />

quando per introdurre il tema della “comprensione” usa la nozione di<br />

“significatività”. Ad ogni “rimando” infatti corrisponde un “significato”, e<br />

76 Del resto, ciò e provato dal fatto che il modo della reciprocità, nell’incontro tra mondo ed enti diventa<br />

importante per Heidegger solo molto più tardi. Ed è solo verso la fine del suo cammino filosofico che egli<br />

metterà esplicitamente a tema questo tipo di relazione, parlando di mondo che “mondeggia”, e di cosa che<br />

“coseggia”; cfr. il paragrafo quarto del terzo capitolo.<br />

77 M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit. pag. 78<br />

78 M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit. pag. 103<br />

67


l’insieme dei rimandi costituisce la “significatività”. Il significato allora<br />

scaturisce dalla totalità delle relazioni, cioè ogni significato dipende dal<br />

contesto, dipende dalla mondità.<br />

Al significato del rimando fa riscontro l’utilizzabilità del mezzo, ed entrambe<br />

dipendono dalla totalità; l’esserci è l’ “in-vista-di-cui” di ogni ente intramondano.<br />

Ciò implica che la significatività, come la mondità, è un momento costitutivo del<br />

Dasein.<br />

Per esistenza si intende l’essere già da sempre presso il mondo (“ek-sistenza”),<br />

cioè l’essere presso la totalità dei significati. L’esserci è già da sempre nella<br />

significatività, è già da sempre nella comprensione, ma ciò che comprende (i<br />

molteplici significati) non dipende in alcun modo da lui.<br />

La “significatività”, in altri termini, è un tutto compiuto, al quale l’esistenza è<br />

legata, o meglio, dal quale l’esserci è chiamato in causa. L’insieme dei significati<br />

è una premessa, non dipende in alcun modo dall’azione del Dasein nel mondo.<br />

L’esserci comprende significati, ma il significato è la caratteristica costitutiva del<br />

rimando, sul quale egli non ha alcun potere (egli lo può solo “ricevere”, o meglio<br />

il significato gli viene “donato” dalla significatività); l’esserci utilizza mezzi, ma<br />

l’utilizzabilità del mezzo è una caratteristica propria del mezzo che egli deve<br />

accettare, sulla quale egli non ha alcuna giurisdizione. L’utilizzabilità inerisce<br />

direttamente al mezzo ed è determinata esclusivamente dalla totalità dei rimandi.<br />

L’esistenza è comprensione di qualcosa che è già dato nella significatività, e<br />

quest’ultima non dipende dall’esserci, perché è apriori. Allora, “mondità”,<br />

“totalità dei rimandi”, “significatività”, sono modi diversi per indicare l’<br />

“apriori” che consente all’esserci di “comprendere”. La mondità in quanto<br />

apriori non dipende in alcun modo dall’esserci, anche se l’esserci è già da<br />

sempre presso di essa.<br />

Heidegger afferma: «Né la descrizione ontica dell’ente intramondano né<br />

l’interpretazione ontologica dell’essere di questo ente investono come tali il<br />

fenomeno del “mondo”. In ambedue questi “esseri obiettivi” il fenomeno del<br />

“mondo”, se pur in modi diversi, è già “presupposto”»; e aggiunge: «La mondità<br />

68


è un concetto ontologico e denota la struttura di un momento costitutivo<br />

dell’essere-nel-mondo». 79 Queste affermazioni sono piuttosto chiare e tolgono<br />

ogni dubbio sulla natura della mondità. 80<br />

Quindi Heidegger da un lato guadagna, rispetto al pensiero moderno, il fenomeno<br />

della mondità (l’ente semplicemente presente è l’ente “demondificato”, quello<br />

che viene a trovarsi al di fuori della totalità dei rimandi), e in questo modo supera<br />

il dualismo “soggetto”-“oggetto”; dall’altro, considera il mondo come un apriori,<br />

rimanendo così all’interno della struttura logica concepita dalla metafisica<br />

(all’interno cioè del dualismo tra “condizione di possibilità”e “fenomeno<br />

condizionato”).<br />

Ed è proprio in questa caratterizzazione trascendentale del “mondo” che naufraga<br />

il suo tentativo anti-fondazionalista. La possibilità di uscire dalla “prigione della<br />

metafisica” è stata solo sfiorata, e poi lasciata cadere. L’idea della mondità era la<br />

giusta via per superare il fondazionalismo, ma nel momento in cui essa viene<br />

configurata come un apriori, si ritorna sul sentiero della metafisica.<br />

Heidegger alla fine è tornato alla ricerca di “origini” e “principi”. Si è messo a<br />

cercare ciò che rimane nascosto, ciò che si ostina a non manifestarsi, e che per<br />

questo crea tutti quei grattacapi a chi lo vuol trovare.<br />

Perché se è “evidente” che tutto ciò che “è”, “è” in virtù di qualcosa, diventa<br />

“imbarazzante” il fatto che quel qualcosa sia così sfuggente. Se è “pacifica”<br />

l’affermazione che l’essente deve avere un “origine”, è altrettanto “ingombrante”<br />

l’incapacità di cogliere quell’origine.<br />

Sorge allora spontanea questa domanda: perché ad una “cosa” così “chiara” come<br />

la necessità di un qualche principio, corrisponde una difficoltà altrettanto<br />

79 M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit. pag. 89<br />

Concetto ripetuto anche a pagina 118: “la mondità è una determinazione esistenziale dell’essere-nelmondo,<br />

cioè dell’esserci”.<br />

80 Del resto, questo impostazione trascendentale fa sorgere dei dubbi: come può l’esserci essere già da<br />

sempre presso il suo apriori? Heidegger ricorre al concetto di “pre-comprensione”, oppure alla<br />

“familiarità originaria” per giustificare la “cooriginarietà” di Dasein e mondo. Ma cosa significa<br />

precisamente “pre-comprensione”? E in che modo si può essere già da sempre presso il proprio apriori?<br />

Un apriori non dovrebbe, in quanto apriori, venire prima? Come può l’ apriori essere condizione di<br />

possibilità di ciò che gli è “cooriginario”?<br />

69


“palese” nel riuscire a scovarlo? Perché quasi tremila anni di errori, e di tentativi<br />

falliti?<br />

Ma è veramente necessario spiegare quello che si manifesta, in funzione di quello<br />

che non si manifesta? E’ proprio così pacifica l’idea dell’esistenza di una qualche<br />

“origine”? 81<br />

II) “Cura” e “temporalità”<br />

Procedendo nell’indagine intorno al senso dell’essere, Heidegger introduce il<br />

fenomeno della “temporalità”. Egli aveva già detto in precedenza che<br />

un’indagine intorno al problema dell’essere non può prescindere dalla trattazione<br />

di questo fenomeno, in quanto modalità d’essere principale del Dasein. Allora,<br />

nella seconda sezione dell’opera egli ribadisce la necessità dell’approccio ontico<br />

alla questione dell’essere proprio analizzando la più originaria delle dimensione<br />

d’essere dell’esserci: la “temporalità”.<br />

Heidegger afferma che nella prima sezione si è raggiunta, con l’esplicitazione del<br />

fenomeno della “cura”, l’unità delle strutture d’essere dell’esserci; tuttavia<br />

l’analisi risulta ancora incompleta (l’unità non è sinonimo di completezza).<br />

L’ulteriore passo da compiere, nell’indagine fenomenologia dell’esserci, riguarda<br />

proprio l’aspetto temporale delle sue strutture costitutive. Ciò significa che la<br />

“cura” (il fenomeno che conferisce unità a queste strutture) trova la sua<br />

completezza nella temporalità.<br />

Detto altrimenti, per determinare il senso ontologico della cura è necessaria<br />

l’analisi della temporalità esistenziale. “La sicurezza dell’originarietà del<br />

81 Il “secondo” Heidegger in effetti mostra di avere dubbi di questo genere, infatti dopo la “svolta”<br />

abbandona la struttura “trascendentale” e “soggettivistica” di Essere e tempo. Ma anche il “secondo”<br />

Heidegger, alla fine, non riesce a divincolarsi dalla presa della “logica metafisica” (il perché di questo<br />

“fallimento” verrà trattato in seguito).<br />

70


fenomeno della temporalità è raggiunta dimostrando che tutte le strutture<br />

fondamentali dell’esserci finora analizzate risultano fondamentalmente temporali<br />

quanto alla possibilità della loro totalità, della loro unità e del loro sviluppo, e<br />

che costituiscono altrettanti modi della temporalizzazione della temporalità”. 82<br />

La temporalità è intesa da Heidegger come apriori, nel senso che solo attraverso<br />

di essa si rende possibile la costituzione della struttura unitaria della cura. Allora<br />

è solo attraverso l’acquisizione della “dimensione” temporale che la cura assume<br />

il suo carattere autentico.<br />

A questo punto, Heidegger avverte di non confondere il concetto ordinario del<br />

tempo, con la sua idea di temporalità. Ancora una volta, la differenza si<br />

manifesta a livello ontologico. Il tempo ordinario è una successione di istanti<br />

semplicemente presenti, così il passato è il tempo che non c’è più, il presente è il<br />

tempo attuale, e il futuro è il tempo a venire. In questo modo, si tratta il tempo<br />

come un ente, qualcosa cioè, che può essere definito, e di cui si può predicare;<br />

qualcosa che “c’è”. È chiaro che questa idea di tempo proviene dall’ontologia<br />

della semplice-presenza, la quale riduce tutto ad ente predicabile. E altresì<br />

evidente che questo modo di intendere il tempo sta alla base della “separazione”<br />

che caratterizza il mondo moderno. La successione degli istanti, infatti, è la<br />

scansione cronologica che permette di separare ciò che originariamente è unito, e<br />

consente la rappresentazione soggettivistica del reale.<br />

Per Heidegger la temporalità non “è”, nel senso che essa non è un ente. Il tempo<br />

non può essere separato nelle regioni giustapposte del “passato” del “presente” e<br />

del “futuro”. Non ci sono tempo passato, presente, e futuro, ma la temporalità<br />

nella sua costante unità si “temporalizza” nell’ “avvenire”, nell’ “esser-stato”, e<br />

nel “presente”. Essa ha il carattere fenomenico dell’ “ad-sé-in”, dell’ “indietro-<br />

verso”, e del “venire incontro del”; quindi essa è l’originario “fuori di sé”, “in sé”<br />

e “per sé”.<br />

82 M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit. pag. 368<br />

71


La temporalità si temporalizza nel senso che la sua natura è “estatica” e non<br />

“ontica” (solo in modo derivato il tempo può essere inteso come ente).<br />

In questo modo, il pensatore tedesco chiude il cerchio: in primo luogo ha<br />

mostrato che l’esistenza – “essere-nel-mondo” – è “ek-sistenza”, cioè grazie al<br />

presupposto della mondità, l’esserci è un originario “essere-fuori-presso-gli-<br />

enti”, poi ha definito la cura come struttura unitaria del Dasein (cioè il modo<br />

originario dell’ “esser-presso”) in quanto “avanti-a-sé-essendo-già-in-un-<br />

mondo”, e da ultimo ha spiegato perché la temporalità permette questo essere<br />

unitario della cura: l’ “avanti-a-sé” si fonda nell’ “avvenire”; l’ “esser-già-in” fa<br />

assegnamento nell’ “esser-stato”; e infine l’ “esser-presso” è reso possibile dalla<br />

“presentazione”. E così, Heidegger può affermare che la temporalità costituisce<br />

l’unità originaria della struttura della cura. Essa è la “condizione di possibilità” di<br />

tale struttura (la quale a sua volta è la dimensione originaria dell’esistenza), in<br />

quanto le dimensioni costitutive della cura trovano la loro ragion d’essere nelle<br />

modalità fondamentali della temporalità. Ciò vuol dire che, le mod alità in cui si<br />

temporalizza la temporalità rendono possibili i vari modi d’essere dell’esserci.<br />

La natura estatica della temporalità coincide con la natura estatica dell’esistenza,<br />

e contestualmente, il “tempo” è “esistenziale” (come l’ “essere” e la “verità”):<br />

esso si temporalizza finché si dà esistenza. Quindi, per un verso, l’estasi<br />

temporale si manifesta nella familiarità dell’esserci con l’ente intramondano<br />

(nella sua mondità), così da renderlo “essente nel tempo”, “intratemporale”; 83<br />

per l’altro, essa è permanenza unitaria dei sui “momenti” costitutivi, non il<br />

succedersi di istanti: l’avanti-a-sé (fondato sull’avvenire) non è un “futuro” che<br />

deve giungere, ma è il senso primario dell’esistenza, in quanto l’esserci è<br />

“progetto”, è “possibilità” di esistenza; così come l’esser-già non è un passato<br />

che prima c’era, ma ora non c’è più. L’esser-già dell’esserci è la sua condizione<br />

di “gettatezza” nella quale esso “è” già da sempre. Fin che esiste, l’esserci non<br />

può prescindere dalla suo “esser-gettato”, quindi l’ “esser-stato” ha il senso<br />

dell’”io-sono-stato”; da ultimo, il decadimento dell’ “essere-presso”, in cui versa<br />

83 “La determinazione del tempo propria dell’ente intramondano costituisce l’intratemporalità” (Essere<br />

e tempo, pag. 400)<br />

72


l’esserci nel momento presente è originariamente incluso nell’ “avvenire” e nell’<br />

“esser-stato”. 84<br />

L’idea inautentica del tempo infinito deriva dalla natura autentica del tempo<br />

finito, mediante il quale il carattere estatico della temporalità viene livellato in<br />

una serie di “ora”. Il tempo cronologico che si basa sulla successione degli<br />

istanti non è che la traduzione del tempo estatico, una volta che si perde la<br />

dimensione ontologica originaria. Se l’esserci è inteso come soggetto egli perde<br />

il suo carattere estatico e quindi il tempo diventa una successione anonima e<br />

meccanica di “punti-tempo”, alla quale egli si deve adeguare.<br />

III) L’ipseità<br />

Heidegger affronta la questione dell’ “unità” della struttura della cura (e della<br />

temporalità) anche attraverso l’analisi del concetto di “io”. Per questo propone un<br />

confronto tra “cura” e “ipseità”.<br />

Storicamente l’ “io” è considerato come ciò che tiene insieme tutti gli aspetti<br />

della persona, e quindi, dal punto di vista ontico, svolge la funzione che<br />

Heidegger attribuisce alla cura. Sappiamo però che la concezione tradizione dell’<br />

“io” (il “sub-jectum”) è il principale obiettivo polemico dell’Analitica<br />

esistenziale. Il “soggetto” è inteso, infatti, come ciò che regge e sostiene.<br />

Cartesio le definisce “sostanza pensante” per indicare proprio la sua natura di<br />

“struttura portante”: il cogito è ciò che rimane sempre uguale a se stesso nel<br />

variare dei pensieri. Ed è proprio questo ciò che Heidegger non condivide. L’<br />

“io” non può essere considerato come sostrato altrimenti lo si isola dal mondo.<br />

84 “La temporalità non è un ente che poi esce fuori di sé; la sua natura essenziale è la temporalizzazione<br />

dell’unità delle estasi” (Essere e tempo, pag. 395)<br />

73


A parere di Heidegger, Kant compie un passo avanti perché cerca di mostrare che<br />

l’io penso non è una sostanza, ma la sua analisi ha il torto di fermarsi al piano<br />

ontico. Kant, in altri termini, mette in evidenza il contenuto fenomenico del dire<br />

“io”, ma nello stesso tempo, non riesce a liberarsi dell’ontologia della presenza;<br />

così continua a considerare l’io come soggetto; e il suo “io penso” diventa<br />

“soggetto logico”, e quindi un “io collego” (categorie con intuizioni sensibili).<br />

Il “soggetto trascendentale” coincide con la funzione del collegare gli apriori con<br />

le percezioni sensibili, ma egli non spiega come ciò possa avvenire. E non può<br />

spiegarlo perché nel momento in cui egli assegna all’ “io” la natura del<br />

“soggetto” si condanna al dualismo metafisico. Anche il soggetto di Kant, alla<br />

fine, ha la forma del “substrato” (subjectum), di ciò che sta sotto e sostiene; e ciò<br />

significa che soggetto e rappresentazioni empiriche stanno affiancati come due<br />

semplici presenze.<br />

Quindi, dal punto di vista ontologico egli fallisce l’obiettivo, proprio perché l’io<br />

penso è una “semplice-presenza”. 85<br />

Qual è la ragione del fallimento di Kant? Egli non è riuscito a vedere il<br />

“presupposto ontologico” che permette il pensare: se pensare è sempre “pensare<br />

qualcosa” , allora la condizione che rende possibile l’ “incontro” con l’ente<br />

intramondano è la mondità (e Kant questo no n l’ha capito).<br />

In altri termini, l’ “io penso qualcosa” è possibile solo sul fondamento del<br />

mondo. Non cogliere il presupposto del mondo porta a mantenere l’io isolato<br />

dagli enti intramondani. Per questa via il soggetto viene a possedere solo una<br />

“presunta stabilità”, in quanto, la “permanenza” della semplice-presenza<br />

determina lo “stare” di un soggetto senza mondo: la mondità si rivela, ancora una<br />

volta, la condizione fondamentale dell’esistenza.<br />

A quanto si è appena detto, si deve aggiungere che c’è un modo “autentico”, e<br />

uno “inautentico” di “stare” al mondo. L’esserci è portato, innanzi tutto e per lo<br />

più, a perdersi nella dispersione del “Si”, e quindi a vivere in modo non-<br />

85 «Determinare ontologicamente l’io come soggetto, significa assumerlo come già da sempre<br />

semplicemente-presente. L’essere dell’io è concepito come la realtà della res cogitans» (Essere e tempo,<br />

pag. 385)<br />

74


autentico: nella quotidianità “si è ciò di cui ci si prende cura”: Dicendo “io ” nella<br />

quotidianità l’esserci dimentica se stesso, e si perde nell’inautenticità. Anche la<br />

cura quindi è, innanzi tutto e per lo più, nel modo della quotidianità media.<br />

L’esserci allora si deve manifestare nel suo “poter essere autentico” perché<br />

l’ipseità venga intesa in senso proprio: perché il “dire io” non rimanga una<br />

“indicazione formale” e venga colta invece la sua “totalità” e “stabilità”, è<br />

necessario che l’esserci si dia nel modo della cura autentica.<br />

Allora, bisogna addivenire al senso autentico della costituzione ontologica del<br />

“se-stesso”, per poter cogliere il nesso essenziale tra “ipseità” e cura; e il se-<br />

stesso autentico sta nell’essere dell’esserci in quanto cura. Una volta che l’io si<br />

comprende come “esistenza” egli si assume nel modo della cura autentica.<br />

Così si chiarisce anche che la “stabilità” dell’esserci non è la semplice-presenza<br />

del soggetto ma il mantenimento dello stato del poter essere autentico da parte<br />

dell’esserci. «L’esserci si fa “essenziale” nell’esistenza autentica, che si<br />

costituisce nella decisione anticipatrice. Questo modo dell’autenticità della Cura<br />

importa la stabilità e la totalità originaria dell’esserci ». 86<br />

La “stabilità” e la “totalità” del Dasein sono permesse dalla cura autentica, e<br />

hanno il significato dell’ “essere-per” (della decisione anticipatrice). Riferito alla<br />

temporalità, ciò implica che se predomina la dimensione del presente, l’esserci<br />

vive in modo inautentico, se invece, prevale la dimensione dell’avvenire egli<br />

raggiunge l’autenticità dell’esis tenza. 87<br />

86 M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit. pag. 389. Corsivi aggiunti<br />

87 Sulla scorta, e a compendio di tutto ciò Heidegger scrive: «L’esserci è autenticamente se-Stesso solo<br />

nell’isolamento originario della decisione tacita e votata all’angoscia. L’esser se-Stesso autentico essendo<br />

come tale tacito, non può dire “io-io”, ma “è”, nel silenzio, l’ente gettato che può essere in quanto<br />

autentico» (Essere e tempo, pag. 388).<br />

Se l’esserci è autenticamente se stesso solo nell’isolamento dell’angoscia, egli è presso gli enti, e<br />

soprattutto, presso gli altri, si in modo originario, ma in-autentico; e al di là delle poco opportune<br />

considerazioni etiche, da queste affermazioni emerge una sorta di “solipsismo esistenzialistico” del<br />

Dasein. Sembra che l’esserci sia un esser-presso solo nella contingenza del “Si”, e quindi in modo<br />

precario, mentre la sua dimensione autentica è quella dell’isolamento (E’ vero che autenticità e<br />

inautenticità sono dimensioni esistentive del Dasein, mentre esistenzialmente egli è comunque nel modo<br />

della comprensione dell’essere, ma se vuole vivere in modo autentico egli si deve isolare). Allora,<br />

l’esserci diventa nel suo esistere autentico un “mondo separato” che, con tutte le precisazioni del caso,<br />

viene a somigliare “pericolosamente” all’essere del soggetto. Il soggetto è necessariamente isolato in<br />

75


Emerge da queste righe l’importanza che Heidegger assegna alla “stabilità” e alla<br />

“unitarietà” dell’esserci.<br />

Egli ripete più volte che il soggetto è un esserci senza il suo “ci”, ovvero è un<br />

esserci senza mondo, così ribadisce che la differenza tra l’esserci e il soggetto sta<br />

proprio nella mondità. Il mondo è, infatti, ciò che permette di collegare<br />

originariamente soggetto e oggetto, e quindi di consegnare il soggetto alla sua<br />

dimensione esistenziale.<br />

L’attacco portato da Heidegger all’io penso kantiano conferma questa ipotesi.<br />

Egli contesta a Kant di aver concepito il soggetto come “substrato” per poter<br />

spiegare la sua relazione con i fenomeni, mancando in questo modo la costitutiva<br />

relazione col mondo.<br />

Ma, nello stesso tempo, Heidegger non rifiuta il carattere di permanenza della<br />

struttura dell’io penso; anzi la vuole rinforzare attraverso il concetto di “stabilità<br />

esistenziale”.<br />

Il problema della soggettività sorge, a suo avviso, da un’errata comprensione di<br />

ciò che significa “stabilità”. Infatti, il soggetto permane come la “cosa”<br />

semplicemente-presente, nel più totale isolamento dal mondo; e da ciò derivano<br />

tutte le contraddizioni filosofiche che abbiamo incontrato. Si tratta allora di<br />

contrapporre all’idea di “permanenza”, quella di “stabilità”, per guadagnare il<br />

senso autentico in cui il Dasein può “stare” (come possibilità) nel mondo.<br />

Egli definisce “presunta stabilità” la permanenza nella semplice-presenza del<br />

soggetto per marcare la differenza con l’ “effettiva stabilità” dell’ “essere-per”<br />

del Dasein.<br />

quanto privo del mondo, l’esserci si isola una volta scoperta l’inautenticità in cui versa innanzi tutto e per<br />

lo più il suo esistentivo “essere-nel-mondo”; ma sempre di isolamento si tratta.<br />

L’esserci, in altre parole, guadagna la dimensione della mondità, ma si trova nel mondo nella dispersione<br />

del “Si”, allora capisce che può raggiungere l’autenticità dell’esistenza solo “nell’isolamento originario<br />

della decisione tacita votata all’angoscia”.<br />

Il Dasein rispetto al soggetto possiede la consapevolezza del suo “essere-nel-mondo”, ma scoprendosi<br />

“gettato” vuole comunque l’isolamento. L’essere-nel-mondo lo costituisce esistenzialmente, ma l’unico<br />

modo che Heidegger gli concede per vivere autenticamente è quello dell’isolamento, e quindi egli deve<br />

rinunciare, anche se a livello esistentivo, alle sue prerogative esistenziali. Egli diventa così “esistenza<br />

isolata nel mondo”.<br />

76


Da ciò si evince che la “stabilità” è un concetto da definire, e poi un valore da<br />

conservare. 88<br />

In altre parole, Heidegger, introducendo l’idea di mondo, vuole superare<br />

l’isolamento (almeno quello inconsapevole) del soggetto, non il suo “essere<br />

stabile”. Il concetto di “mondo”, infatti, configura una rete di rapporti “stabili”<br />

per il Dasein.<br />

Il mondo è la totalità dei rimandi nei quali egli è “situato” (gettato), ma sappiamo<br />

che questa totalità è “data”, non dipende dal Dasein, egli la deve “accettare”. Il<br />

mondo del resto è un apriori dal quale l’esistenza dipende. Allora enti<br />

intramondani ed esistenza possono relazionarsi grazie alla loro stabilità nel<br />

mondo.<br />

Nell’affermazione “Il soggetto è permanente nella semplice-presenza”, ciò che<br />

non va, per Heidegger, non è l’idea, ma il modo della “permanenza”; infatti, la<br />

permanenza della “semplice-presenza” conferisce al soggetto solo una “presunta<br />

stabilità”. L’essere subjectum (e quindi sostrato) fisso e costante di tutte le<br />

rappresentazioni è solo un modo derivato di intendere la stabilità.<br />

La vera stabilità si ottiene solo nel “poter essere autentico” del Dasein, (in quanto<br />

anche la condizione di decadimento della gettatezza è fonte di instabilità).<br />

Allora, il fenomeno della cura diventa la “condizione di possibilità” dell’unità e<br />

della stabilità dell’io. Senza cura autentica non è possibile esistenza autentica.<br />

A questo punto però, è la condizione di possibilità a dover essere innanzitutto<br />

“stabile” a dover permanere, se si vuol conservare l’autenticità dell’esistenza. Ma<br />

cosa garantisce la stabilità della condizione di possibilità?<br />

In altre parole, anche la ricerca della “stabilità” (come la ricerca della<br />

“permanenza”, o della “personalità”) è indice di pensiero “metafisico”.<br />

88 «L’ipseità deve esser esistenzialmente rintracciata nel poter-essere-se-stesso autentico, cioè<br />

nell’autenticità dell’essere dell’esserci in quanto cura. E’ qui che la stabilità del se-stesso, cioè la<br />

presunta permanenza del soggetto, è chiarita nella sua natura genuina. Il fenomeno del poter-essere<br />

autentico permette di gettare lo sguardo anche sulla stabilità del se-stesso nel senso del mantenimento in<br />

un determinato stato. La stabilità del se-stesso, nel duplice significato di persistenza e di mantenimento in<br />

uno stato, è l’autentica contropossibilità della instabilità della indecisione deiettiva» (Essere e tempo,<br />

pag. 388)<br />

77


Ancora una volta si vede che, ciò che non funziona in questo tipo di<br />

argomentazioni è il procedimento adottato: la ricerca a ritroso di condizioni (e di<br />

fondamenti) lascia sempre la questione indeterminata. Cercare ciò che “rende<br />

possibile” significa assumere un sistema di relazioni tra essenti (pensieri, enti<br />

ecc.) fondato sulla dipendenza. In questo modo, ci si condanna in partenza al<br />

fallimento, perché si inizia un cammino senza fine. 89<br />

“Stabilità”, “permanenza”, “unità” (in questo caso dell’esistenza) non sono valori<br />

assoluti, ma concetti elaborati dall’uomo, da quell’uomo che tenta poi di<br />

giustificarli cercando le loro condizioni di possibilità o i loro fondamenti. Cosa si<br />

intende infatti per “stabilità”? In che senso la cura garantisce “unità” e<br />

“stabilità”? Come si può dimostrare che l’ipseità sia qualcosa di più di un<br />

concetto appreso? Cosa “fonda”, o caratterizza, in senso proprio l’ipseità?<br />

Cartesio pensa che il soggetto debba essere “sostanza” per giustificare la sua<br />

permanenza e la sua unità. Sostanza in latino si dice substantia, ciò che<br />

“permane” al variare degli accidenti. Il cogito è infatti “ciò che è in sé e si<br />

concepisce di per sé”. Per Kant la situazione cambia: L’io ha carattere solo<br />

funzionale, l’essere sostanza non è più necessario per mantenere la permanenza e<br />

l’unità. Il soggetto trascendentale è solo un collettore di sensazioni, e un<br />

produttore di pensieri. L’unità è garantita dall’appercezione trascendentale.<br />

Heidegger procede lungo questo cammino. Attribuisce a Kant il merito di aver<br />

reso problematico il concetto di “io”, di aver cercato di togliergli la natura<br />

sostanziale, ma gli rimprovera di non esserci riuscito. Afferma che il tentativo di<br />

Kant di liberarsi della “sostanzialità” fallisce perché egli continua a considerare<br />

l’io penso come “soggetto”. E il “soggetto” (subjectum) non può che essere un<br />

“substrato”.<br />

Kant non ha saputo dimostrare che l’ “io penso” è sempre un “io penso<br />

qualcosa”. Il suo fallimento, quindi, sta tutto nella incapacità di giustificare “il<br />

89 L’unica conclusione possibile è quella “imposta”, attraverso l’argomento classico del fondamento<br />

infondato: “il fondamento trovato non può, in quanto fondamento, essere a sua volta fondato”; ma questa<br />

è appunto una postulazione non una dimostrazione, questa è una affermazione che non ha alcuna “validità<br />

fondativa”, è soltanto una soluzione di ripiego.<br />

78


qualcosa” che l’io deve necessariamente pensare. Egli, in altre parole, non ha<br />

colto il “presupposto ontologico” dell’io penso qualcosa: «Infatti, l’assunzione<br />

dell’ “io penso qualcosa” non può ricevere determinazione adeguata se il<br />

“qualcosa” resta indeterminato. Se invece il “qualcosa” è inteso come l’ente<br />

intramondano allora porta con sé inespresso il presupposto del mondo». 90<br />

Heidegger non contesta a Kant l’impostazione trascendentale, ma l’incapacità di<br />

cogliere il “presupposto ontologico” dell’io penso; non l’accusa di cercare<br />

condizioni di possibilità, ma di non aver saputo vedere la più originaria di esse.<br />

Per Heidegger il concetto di “io penso” è solo un modo derivato di intendere il<br />

Dasein, in quanto mancante della struttura apriori fondamentale: il mondo.<br />

Concretamente, egli aggiunge un’ulteriore condizione di possibilità a quello che<br />

Kant considerava il suo apriori fondamentale. Per lui il fondamento “io penso”<br />

non è abbastanza originario; infatti, porta ad una realtà composta di semplici-<br />

presenze, le quali sono solo un modo derivato d’essere degli enti. Il vero<br />

fondamento (chiamato “presupposto ontologico”) è la mondità dell’esserci.<br />

E’ chiaro che in questo modo, trattando il mondo come un apriori, egli rimane<br />

all’interno del procedimento metafisico, il quale consiste proprio nella ricerca a<br />

ritroso di “fondamenti” e “condizioni” sempre più originari.<br />

Heidegger cerca di completare il lavoro di Kant attraverso l’idea di mondità, alla<br />

quale aggiunge quelle di “cura” e di “temporalità”. Argomenta che se l’esserci è<br />

“essere-nel-mondo”, egli è già da sempre presso gli enti, e non ha bisogno di<br />

essere considerato sub-jectum; e poi grazie alla cura egli è “totalità”, e in virtù<br />

del suo essere “temporale” (il suo originario essere-per) egli è “stabilità”.<br />

Il mondo nel quale è “situato” è la “totalità dei rimandi”. Egli è nel mondo come<br />

“poter-essere” (per merito della totalità egli “progetta”, a causa della totalità egli<br />

“è gettato”). Il rapporto originario tra esserci e mondo si “realizza” quindi tra<br />

“totalità stabili”. 91<br />

90 M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit. pag. 386<br />

91 La volontà di salvare la stabilità delle strutture è una nota caratteristica del primo Heidegger, solo più<br />

tardi infatti egli introduce il concetto di “evento”, per caratterizzare l’essere nella sua dimensione storica<br />

ed esistenziale, per mettere cioè in evidenza la coappartenenza di essere e uomo. Ma anche in questo<br />

caso, egli non rinuncia alla nozione di stabilità, la rende solo meno rigida.<br />

79


Questa è in sintesi l’architettura elaborata per superare il dualismo kantiano, la<br />

quale però, nonostante le geniali intuizioni, conserva un assetto di tipo<br />

trascendentale. Il mondo, in sostanza, viene caratterizzato come la “condizione”<br />

della relazione tra esserci ed enti, cosi come l’appercezione è la condizione della<br />

relazione tra soggetto e fenomeni; certamente è più plausibile l’impostazione di<br />

Heidegger, ma l’impianto logico è simile. 92<br />

L’ipseità, allora, trova la sua “singolarità” e “individualità” nell a cura autentica:<br />

«La struttura della cura non contraddice all’essere-un-tutto possibile, anzi è la<br />

condizione della possibilità di un poter-essere esistentivo del genere». 93<br />

Gli esistenziali dell’ “in-essere”, possono essere fonte di “inautenticità<br />

esistentiva” (e quindi di instabilità), perchè l’autenticità (e di conseguenza la<br />

stabilità) si ottiene solo nell’ “angoscioso isolamento” dell’ “essere-per”. Anche<br />

qui emerge chiaramente la volontà di salvare la stabilità dell’ “ipseità” attraverso<br />

la temporalità; e questa è una preoccupazione tanto antica per la filosofia, quanto<br />

il concetto stesso di “io”, e di “individuo”.<br />

Da tutto ciò si evince che Heidegger non vuole confutare il valore della<br />

permanenza del soggetto ma fondarlo su basi nuove, più sicure, perché reputa<br />

quelle moderne malferme e instabili.<br />

Una volta di più, traspare che la sua non è una impostazione “anti-<br />

fondazionalista”, ma una critica ai diversi modi di intendere il “fondamento”.<br />

In sintesi, si può dire che Heidegger rifiuta l’impostazione dualistica, ne<br />

denuncia i limiti, ma mostra di rimane prigioniero della sua struttura logica<br />

quando si mette a cercare condizioni “di stabilità” e “di unitarietà” (o più in<br />

generale “condizioni di possibilità”). Egli non ha saputo pensare fino in fondo<br />

92 Tanto più che la mondità è solo una condizione necessaria, ma non sufficiente, per ottenere la stabilità<br />

del Dasein. Per raggiungere unità e stabilità l’esserci ha bisogno della cura autentica, ha bisogno di<br />

scoprirsi nel suo costitutivo “essere-per-la-morte” (ha cioè bisogno di comprendersi nel suo essere<br />

temporale).<br />

93 M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit. pag. 383<br />

80


quel concetto di “mondo” che lui stesso ha proposto; e per questo fallisce la sua<br />

sfida alla modernità.<br />

IV) Alcune valutazioni<br />

Il soggetto, abbiamo detto, è un “essere senza mondo”, che una volta guadagnata<br />

la mondità diventa capace di relazionarsi (mantenendo la sua stabilità). Egli<br />

“permane” non più isolato dal contesto, ma collocato (inserito) nel mondo, in<br />

grado di stare con gli altri. Egli si trasforma in Dasein, e si situa così<br />

“originariamente” presso il mondo.<br />

L’ “essere-nel-mondo” esprime quindi la “relazionalità” originaria dell’esistenza.<br />

Esserci e mondo sono nel modo della stabilità e si trovano “da sempre” in<br />

relazione. Quale ente stabile, il Dasein incontra gli enti nel mondo, li utilizza e li<br />

osserva. 94<br />

Heidegger nell’ Analitica esistenziale ci spiega in che modo avviene l’incontro<br />

tra l’esserci e gli enti, ci dice che i moderni hanno confuso l’essere con la<br />

semplice-presenza, e di conseguenza hanno perso la dimensione originaria del<br />

mondo.<br />

Per Heidegger la relazione continua ad essere un incontro tra essenti stabili, e la<br />

mondità consente la “pre-comprensione” necessaria a tale incontro.<br />

Quando si descrivono le relazioni in questo modo però si invertono i termini<br />

della questione. Infatti, non sono l’unità e la stabilità dell’esiste nza a permettere<br />

le relazioni, ma è l’insieme delle relazioni che consente di acquisire la<br />

dimensione esistenziale. E qui sta il fraintendimento di Heidegger.<br />

94 Ripetiamo che la permanenza del “soggetto” nel mondo è una stabilità astratta e vuota, in quanto<br />

incapace, ad esempio, di cogliere la natura originaria dell’ente: la sua utilizzabilità.<br />

81


Anche sotto questa prospettiva si coglie la contiguità tra il suo pensiero e la<br />

tradizione metafisica, cioè si manifesta l’influenza che il paradigma metafisico<br />

esercita ancora sulla sua filosofia. Inseguire il principio dell’ “unità” e della<br />

“stabilità” esistenziale significa essere ancora solidali con quella tradizione.<br />

L’esistenza non è qualcosa di “stabile”, che si presenta di volta in volta nelle<br />

diverse vicende della vita. L’esistenza non “incontra” enti, ma “si fa” nelle<br />

continue relazioni che la coinvolgono. L’esistenza non prende parte ad eventi, ma<br />

è un insieme di eventi. Ciò che Heidegger definisce “esistenza” è l’insieme delle<br />

vicende che la interessano; di conseguenza, essa non “permane” al variare degli<br />

eventi ma “si fa”, e si manifesta, solo all’interno di eventi. Una relazione tra<br />

esistenze è qualcosa di unico ed irripetibile.<br />

Una relazione quindi non è mai un incontro: l’incontro avviene tra enti stabili,<br />

che perdurano prima e dopo di esso; la relazione si costituisce tra termini che non<br />

perdurano; e anche i termini, come la relazione, si danno, si manifestano una sola<br />

volta. Ad esempio, ogni colloquio costituisce una relazione unica, tra<br />

“partecipanti” unici. Le “persone” che prendono parte a quel colloquio non<br />

saranno mai più le stesse, perché esse non hanno nulla di stabile da conservare:<br />

esse sono “interpreti” che si relazionano, si influenzano reciprocamente, e si<br />

adattano al contesto che le accoglie; a sua volta, il contesto non è qualcosa di<br />

stabile, ma si “conforma” agli “accolti”; quindi, una relazione è un farsi continuo<br />

ed imprevedibile. 95<br />

La “permanenza del sé” è una comoda astrazione, qualcosa di utile che viene<br />

insegnato e appreso, come molte altre nozioni utili nella vita, non una<br />

caratteristica “naturale”, o necessaria dell’esistenza. Noi impariamo a diventare<br />

“individui”. Le nozioni di “personalità”, di “carattere”, di “temperamento” sono<br />

portati della cultura, non elementi costitutivi dell’ “animale uomo”.<br />

In che cosa consiste allora l’identità personale? In che senso possiamo definirci<br />

esistenze singole? Innanzitutto, non si deve confondere la consapevolezza di sé,<br />

95 Sulla differenza tra incontro e relazione ci dilungheremo maggiormente in seguito; soprattutto nella<br />

terza parte.<br />

82


con la stabilità e l’unicità dell’esistenza; le due cose divergono profondamente.<br />

La consapevolezza di sé è un concetto appreso, nel senso che si impara a<br />

riconoscersi. L’identità personale non è un elemento fondativo della natura<br />

umana, ma il frutto dell’educazione. Ogni “esistenza” impara ad essere un “sé”.<br />

Infatti, il bambino impara a riconoscersi attraverso una sorta di “imprinting”. E la<br />

consapevolezza che egli ha di sé cambia nel tempo, continuamente.<br />

Ognuno di noi guardandosi non ha mai di fronte la stessa “persona”, cioè non si<br />

rapporta mai con qualcosa di “stabile”. Ciò che lo riguarda è un insieme di<br />

episodi, di eventi, con i quali si confronta, e attraverso i quali impara a<br />

“conoscersi” (e a riconoscersi). L’esperienza individuale non è altro che<br />

l’insieme dei giudizi e delle considerazioni espresse a posteriori sugli eventi che<br />

ci hanno interessato. La consapevolezza di sé nasce da un continuo confronto col<br />

proprio modo di comportarsi. Allora, la cosiddetta “stabilità” dell’esistenza<br />

deriva proprio da questa “mutevole” consapevolezza di sé.<br />

L’insieme dei preconcetti che abbiamo sull’ “esistenza” (e più in generale sulle<br />

caratteristiche degli enti) trovano la loro origine nel cosiddetto “senso comune”<br />

(attraverso di esso, ad esempio è nata l’idea di “stabilità”): si concepisce l’<br />

“esistenza” come qualcosa di unitario, continuo e stabile perché così siamo<br />

abituati a “vederla”, a “percepirla” e a considerarla; ma quante volte nella nostra<br />

storia, l’esperienza quotidiana si è rivelata fallace?<br />

Anche Heidegger crede che l’ “esserci” sia fondato sulla stabilità dell’esistenza.<br />

Da questo punto di vista, egli considera l’uomo con lo stesso parametro dei<br />

moderni.<br />

L’idea della “stabilità” (anche quella esistenziale) si può probabilmente mettere<br />

in relazione con i concetti di “spazio” e “tempo” pre-relativistici. I quali sono<br />

giudicati come “continui”, “permanenti” e “assoluti”.<br />

Anche la “temporalità” (heideggeriana) possiede queste caratteristiche. L’esserci,<br />

nelle sue dimensioni temporali costitutive, vive stabilmente nel tempo, anche se<br />

in modo difforme dal soggetto. Anzi, abbiamo visto che l’esistenza che vive nel<br />

presente è instabile e inautentica, perché non sa cogliere il suo costitutivo<br />

83


“essere-per”, mentre la stabilità e l’autenticità si ottengono prop rio guadagnando<br />

la dimensione dell’avvenire (cioè si ottiene stabilità quando si vive in modo<br />

autentico la propria realtà temporale). Sappiamo altresì che in Essere e tempo, il<br />

tempo non è dato dall’insieme giustapposto delle regioni del passato del presente<br />

e del futuro, ma che si “temporalizza”. 96 Quindi Heidegger coglie nella nozione<br />

tradizionale del tempo il germe della discontinuità, e concepisce invece la<br />

“temporalità originaria” come “unità estatica”; 97 così l’esserci può “essere-nel-<br />

mondo” come “cura” proprio grazie alla “temporalità”. 98<br />

La “temporalità” è la condizione di possibilità della relazione originaria tra<br />

esserci e mondo, proprio grazie alla sua “unità estatica”.<br />

Allora, la sua è sicuramente una visione innovativa ed originale del tempo,<br />

perché permette di spiegare il modo della relazione tra enti, e quindi il senso da<br />

attribuire al fenomeno della cura, ma questo non implica che egli rifiuti la<br />

proprietà della “assolutezza”, che la tradizione attribuisce al tempo. 99<br />

L’idea dell’ assolutezza del tempo (nello spazio permanente) però, non è niente<br />

di più che una rispettabile opinione; anche in questo caso si tratta di concetti<br />

appresi non di caratteristiche della natura. Ciò è dimostrato, per esempio, dalla<br />

Teoria della relatività che dà del tempo una configurazione affatto diversa. Per la<br />

Relatività, infatti, il tempo non è né invariante né assoluto. Esso “si fa”,<br />

contestualmente allo spazio, in relazione al sistema di riferimento e al suo<br />

“contenuto”. In realtà, “spazio”e “tempo” sono un’unica cosa, sono indivisibili,<br />

essi costituiscono lo “spaziotempo”; e per di più, sono in reciproca connessione<br />

col “contenuto” del sistema di riferimento, essi si co-determinano, uno in<br />

funzione dell’altro, e non possono stare separati.<br />

96 Heidegger afferma che “La temporalità è la temporalizzazione nell’unità delle estasi” ( Essere e<br />

tempo, pag. 395).<br />

97 Quindi Heidegger non rifiuta la stabilità e l’assolutezza del tempo, anzi, egli vede proprio nell’idea<br />

tradizionale di tempo l’origine della sua disgregazione.<br />

98 La temporalità è concepita come “il senso della cura autentica”.<br />

99 Per “assolutezza” si intende la “continuità” o l’ “invarianza” nello spazio.<br />

84


L’unità fondamentale in Relatività è l’ evento, e solo all’interno dell’ evento si<br />

definisce lo “spaziotempo”. Ogni evento è singolare, unico, perché si verifica in<br />

condizioni spaziotemporali irripetibili. Ogni evento fa parte di una determinata<br />

“regione” spaziotemporale. In questo modo il tempo non è qualcosa che “scorre”<br />

per tutti allo stesso modo, anzi propriamente, non è nemmeno qualcosa che<br />

“scorre”; Quindi, per la Relatività, la realtà è descrivibile come un insieme di<br />

regioni spazio-temporali che “accadono”, non come un insieme di enti che stanno<br />

nello spazio e si susseguono nel tempo.<br />

Si deve tener presente che questa non è la visione allucinata di un pazzo, né una<br />

ipotesi (più o meno fantasiosa) in attesa di conferma sperimentale, ma la più<br />

solida e precisa teoria sul tempo che sia stata formulata fin’ora; Essa è<br />

“corroborata” ormai da moltissime verifiche sperimentali, nelle quali è risultata<br />

sempre più precisa della sua concorrente “newtoniana”. Sicuramente essa urta<br />

contro il senso comune, ma non per questo la dobbiamo considerare erronea (Del<br />

resto, non è la prima teoria scientifica che va contro il senso comune, basti<br />

pensare alla rivoluzione copernicana). 100<br />

L’assolutezza del tempo porta a pensare alla stabilità degli enti nel tempo. Gli<br />

enti infatti nel tempo “continuo” “stanno”, “permangono” e “durano”; mentre in<br />

un “ambiente” come quello relativistico non ci possono essere enti che<br />

“permangono” (anzi è persino improprio parlare di “enti”). La differenza è data<br />

proprio dai rispettivi concetti di spazio, tempo e di “spaziotempo”. Questo per<br />

dire che non è assurdo e fuori luogo contestare concetti come quello di “stabilità”<br />

e di “continuità”. Essi sono, appunto, concetti, prodotti della cultura, idee<br />

acquisite grazie all’educazione, non caratteristiche della natura.<br />

Considerare l’esistenza stabile vuol dire rappresentarla come i moderni<br />

concepivano il soggetto (e l’oggetto). E’ vero, Heidegger guadagna la<br />

dimensione “esistenziale” (la mondità) però, sostanzialmente, mantiene la<br />

100 Molti scienziati e filosofi, ormai dubitano della stabilità dello spazio e del tempo. Essi escludono che<br />

ci siano relazioni temporali assolute come quelle necessarie per sostenere che esista qualcosa come il<br />

“passato”, il “presente” e il “futuro”; Questi scienziati concedono la possibilità, una volta fissati con<br />

precisione i sistemi di riferimento, di avvalersi di rapporti temporali “relativi” come il “prima di questo” e<br />

il “dopo di quello”.<br />

85


permanenza. Egli suppone che l’esserci sia un tutto unitario in relazione col<br />

mondo – infatti pensa all’ “ipseità” (il “se-stesso”) come a qualcosa di posseduto<br />

“originariamente” sul piano esistenziale 101 – invece l’ipseità non è posseduta<br />

originariamente perché l’ “io” non è qualcosa né di stabile, né di originario.<br />

L’ “ipseità” è il frutto della consapevolezza di sé, e questa, si acquista nelle<br />

situazioni che ci coinvolgono (educazione, cultura, esperienza); viceversa,<br />

l’insieme degli eventi che ci riguardano sono tenuti insieme dalla consapevolezza<br />

di sé. Le due cose stanno in relazione di reciprocità, si fanno “osmoticamente”, e<br />

sono complementari.<br />

L’esistenza è “evenemenziale” cioè, è “evento” e contemporaneamente,<br />

“insieme di eventi”. 102<br />

L’ “esistenza è relazione”, nel senso che, non è concepibile “isolatamente”<br />

(nemmeno come “essere-nel-mondo”), essa è sempre in riferimento a qualcosa<br />

che la chiama in causa; quindi essa è “risposta” e si dà nel modo della risposta.<br />

La risposta è ciò che “avviene” nell’evento, in ogni singolo evento, non è<br />

determinabile come l’effetto di una causa, essa è aperta e libera. La risposta<br />

configura una relazione tra termini evenemenziali. A sua volta essa apre<br />

possibilità, ma sempre originarie, e imprevedibili, in quanto nasce da un’<br />

“interpretazione” della domanda. Noi ascoltiamo parole che “interpretiamo” in<br />

relazione al contesto e ai nostri limiti, e rispondiamo sempre in relazione al modo<br />

in cui ci sentiamo interpellati.<br />

Il linguaggio non è un “ente”: non è una totalità di termini con significato, tenuti<br />

insieme da un gruppo di regole stabilite; il linguaggio non è una “cosa” definita<br />

che si deve conoscere per poter comunicare; e non è neppure un “oggetto” che<br />

precede l’esistenza, e che essa deve acquisire per poter stare al mondo. Ogni<br />

esistenza è un’esperienza unica di linguaggio che può comunicare con gli altri<br />

101 E che si può acquisire “autenticamente”, a livello esistentivo grazie alla cura autentica.<br />

102 Ciò che si intende qui col termine “evento” è spiegato nella terza parte.<br />

86


nella misura in cui riesce a farsi capire ( al di là di grammatica, sintassi e<br />

semantica).<br />

In sostanza, è l’insieme degli episodi comunicativi (tutti a carattere<br />

evenemenziale) che fa essere qualcosa come il linguaggio, e non il linguaggio<br />

che permette la comunicazione. 103<br />

La relazione “avviene” in modo evenemenziale. I termini della relazione non<br />

preesistono e non sopravvivono alla relazione. D’altra parte, la relazione è<br />

sempre relazione di termini, quindi si dà nel modo in cui si danno i suoi termini.<br />

Anch’essa ha il carattere della complementarietà e della reciprocità.<br />

All’interno della relazione i termini non sono “enti dati”, ma si configurano<br />

mutuamente, uno in funzione dell’altro. Tutto ciò mostra un farsi evenemenziale<br />

della realtà, nella quale non esiste niente di “stabile”, niente di “continuo”, niente<br />

di “separato”, e per di più niente che sia in un qualche rapporto di dipendenza.<br />

L’ “identità” dei parlanti si definisce (reciprocamente) “nel” discorso che li tiene<br />

in relazione, le parole che proferiscono sono ciò che in quel momento loro<br />

manifestano di essere. Il parlante “è” solo all’interno di ogni singolo evento che<br />

lo chiama a rispondere, a “interpretare”.<br />

Heidegger afferma che l’esserci si comprende a partire dalla totalità dei rimandi<br />

di cui fa parte, si comprende nel modo permesso dalla sua apertura. Così egli<br />

concepisce un sistema gerarchico nel quale la mondità permette al Dasein di<br />

comprendere. Invece, se la realtà è evenemenziale, no n ci possono essere<br />

condizioni di possibilità; non si possono configurare rapporti di dipendenza di<br />

nessun tipo; perché questi ultimi ci siano è necessario che qualcosa permetta e<br />

qualcos’altro venga permesso, è indispensabile che qualcosa preceda e<br />

qualcos’altro segua; è inevitabile, altresì, ipotizzare strutture permanenti che si<br />

“incontrano”; mentre nell’evento tutto “si fa” contestualmente, e tutto viene<br />

meno contestualmente.<br />

103 Anzi per meglio dire, il linguaggio (come insieme di regole e di significati appresi), e la<br />

comunicazione (gli episodi comunicativi), sono uno in funzione dell’altra, sono complementari e si<br />

implementano reciprocamente.<br />

87


Nell’evento non ci può essere un mondo che accoglie l’esistenza, né nel senso<br />

moderno del contenere, e neanche in quello heideggeriano dell’ “essere familiare<br />

con”. Nell’evento tutti i termini si danno contestualmente e si influenzano<br />

reciprocamente. Allora, nella realtà evenemenziale il cosiddetto “mondo” non<br />

accoglie più di quanto non venga accolto, e l’esistenza non si “immedesima” 104<br />

col mondo, più di quanto il mondo non si “immedesimi” con essa. Il “contesto”<br />

(ciò che accoglie) non è più “solido” o “permanente” del “tessuto” (ciò che viene<br />

accolto); nel senso che, il contesto è in funzione del tessuto, quanto il tessuto è in<br />

funzione del contesto.<br />

Il “contesto” può essere inteso come l’insieme delle relazioni in cui è coinvolta<br />

l’esistenza. Esso è l’ “intreccio”, l’ “ordito” che permette di “sviluppare” il<br />

“tessuto”. 105<br />

Il contesto secondo il vocabolario, è l’insieme delle idee di uno scritto che<br />

permette di comprendere (determinare il senso di) un brano, una frase o una<br />

parola; oppure, è il complesso degli avvenimenti in cui si svolge un determinato<br />

fatto. Il “tessuto”, invece, è il “composto”, ciò che è “legato” insieme; quindi, un<br />

gruppo di cose strettamente collegate e connesse. 106 E chiaro che essi sono<br />

aspetti della stessa “cosa”, e come tali sono inscindibili. Non posso separare la<br />

trama di un racconto, dagli episodi di quel racconto: trama ed episodi sono due<br />

modi diversi di considerare la stessa “realtà”. Quindi, il “tessuto” (o il testo) si<br />

forma sul “contesto”, e viceversa se non ci fosse un “tessuto” non ci sarebbe<br />

nemmeno un “contesto”.<br />

Essi sono in “relazione reciproca”, nel senso che, un “contesto” è tale solo in<br />

“riferimento” a un “tessuto”, e viceversa il tessuto (il testo) può darsi solo se<br />

“riferito” al “contesto”. Allora, qualsiasi “testo” per essere “compreso” deve<br />

104 L’espressione usata da Heidegger in Essere e tempo è: «L’ “esser presso” il mondo, nel senso<br />

dell’immedesimazione col mondo» (Essere e tempo, pag. 78)<br />

105 Contesto deriva dal latino contextum, participio di contexere che significa “collegare”, “tessere<br />

insieme”, “intrecciare”.<br />

106 Dal latino textum, participio di texere, da cui “testo”.<br />

88


essere situato nel suo “contesto”, e viceversa, senza i singoli brani del “testo” non<br />

ci sarebbe possibilità di un “contesto”. 107<br />

Il “contesto” non può essere concepito come l’ apriori (che permette l’esistenza)<br />

del “testo”, perché con questo sta in una relazione di mutua influenza; ciò vuol<br />

dire, generalizzando, che il “mondo” è in una relazione “sistemica” e<br />

“funzionale” con l’esserci: L’uomo non “incontra” un mondo già formato, nel<br />

quale “installarsi”, ma il suo agire, il suo essere, contribuisce a “fare” il mondo<br />

(il mondo si manifesta in ciò che avviene ogni giorno, continuamente), nella<br />

misura in cui quest’ultimo forma l’uomo, perché l’azione dell’uomo non è<br />

“individuale” ma “sistemica”; l’uomo non agisce mai isolatamente, e<br />

indipendentemente dal contesto, ma “è” (“si dà” e “si fa”) in relazione ad esso:<br />

l’uomo “è” “interpretazione” e “risposta” (cioè, nell’agire umano è il sistema<br />

stesso, nel suo complesso, che si dà; sia in senso temporale -storico, che<br />

topologico: il mondo è evento del mondo).<br />

Quindi, se intendo il mondo come apriori esco dal paradigma appena illustrato.<br />

Il rapporto tra contesto e tessuto non ha niente in comune con la relazione che<br />

lega “contenitore” e “contenuto”. Il con-tenitore è ciò che “rinchiude”,<br />

“circonda”, e il “con-tenuto” è ciò che è “circondato”, “rinchiuso”; qui si verifica<br />

un rapporto tra enti stabili, e indipendenti che vengono a contatto, ed entrano in<br />

relazione solo in quel determinato momento. Ad esempio: la brocca “contiene”<br />

l’acqua; l’ “identità” della brocca non dipende in nessun modo dall’acqua, quindi<br />

la brocca rimane tale con o senza contenuto, e lo stesso vale per l’acqua. Nel<br />

primo caso invece la relazione è costitutiva; “contesto” e “tessuto” sono tali solo<br />

se presi insieme, cioè solo in virtù della relazione che li lega, (e a sua volta la<br />

relazione c’è grazie a loro). Termini e relazione costituiscono un evento, solo<br />

all’interno del quale si danno “significati”.<br />

Nell’evento il cosiddetto contesto (il mondo o l’ambiente) “si fa” in mutua<br />

relazione al cosiddetto tessuto (l’esistenza, gli enti ecc.), e al di fuori di<br />

107 E se venisse a mancarne uno solo di questi, anche il contesto non sarebbe più lo stesso. Ciò significa<br />

che essi si configurano uno in relazione all’altro.<br />

89


quell’evento tale relazione (e i suoi termini) si perde per sempre. Il contesto (e il<br />

testo) è tale solo all’interno di un determinato evento, non è qualcosa di stabile<br />

che invece ospita eventi. Quindi, se si considera la realtà come un darsi<br />

evenemenziale, è improprio parlare di “mondo” e di “esserci” nel modo in cui li<br />

intende Heidegger; infatti, nell’evento non ci può essere qualcosa come quel<br />

“mondo” e come quell’ “esserci”, perché gli “interpreti” e il contesto, (cioè i<br />

termini) dell’evento “sono” solo per quell’evento: non ci può essere niente di<br />

“stabile”, qualsiasi sia il modo in cui si intende la “stabilità”.<br />

Si può anche dire che il contesto è la manifestazione (complessiva) di un certo<br />

“modo” di stare al mondo (quindi non può mai essere un “contenitore”), e il testo<br />

è quel “modo” che si manifesta. Non c’è una separazione tra i due, e quindi non<br />

ci possono essere rapporti di derivazione tra loro. Possono essere considerati<br />

“aspetti” di una stessa realtà, la quale si dà sempre come evento. Ciò sta a<br />

significare che, primo, è impossibile separare l’ “uomo” dal suo “mondo”,<br />

secondo, che la loro “unità” è sempre “evenemenziale”.<br />

La “totalità dei rimandi” allora “si fa” contestualmente a ciò a cui essa rimanda.<br />

La “totalità dei significati” non è qualcosa di “dato”, di stabile, a cui l’esserci “si<br />

affida”, per “dare senso a…”; ma l’esserci usufruisce di questa totalità sempre in<br />

modo diverso, perché la “totalità”, e l’esserci, sono sempre qualcosa di diverso<br />

(in quanto “sono” nel modo della relazione reciproca). 108<br />

Si attribuisce ad Eraclito il detto che un uomo non può bagnarsi due volte nello<br />

stesso fiume; quel fiume infatti non è mai lo “stesso identico” fiume;<br />

parafrasando si potrebbe dire che un uomo non può “incontrare” due volte la<br />

108 Ogni episodio comunicativo, dice ad esempio Davidson, è sempre il risultato di una “interpretazione<br />

radicale”. E come se in ogni colloquio (anche in quello tra coniugi), si parlassero persone diverse (mai<br />

incontrate prima) che non hanno un solo significato, una sola parola, in comune. Ciò significa che queste<br />

persone non ricorrono ad una significatività comune, e che, quindi, non condividono un mondo comune.<br />

Oppure, se lo condividono, esse non interpretano i significati offerti dal mondo (cioè dalla lingua<br />

comune) allo stesso modo. E forse questo implica che non ci può essere, comunque, questa comune<br />

significatività del mondo. Allora, per Davidson, ogni episodio comunicativo è un “evento” che deve<br />

essere ricostruito di volta in volta. Questo implica che per ogni evento si deve “ricontestualizzare” tutto<br />

(appunto, il contesto è tale solo in relazione a… qualcosa - gli interlocutori - che si dà sempre in modo<br />

diverso, quindi esso è sempre qualcosa di diverso: contesto e interlocutori sono in relazione di<br />

reciprocità); cioè, si deve cercare di farsi capire dall’interlocutore ogni volta con il bagaglio di esperienze<br />

che si ha a disposizione, senza fare affidamento sulla presunta “lingua comune”. Ogni volta si deve<br />

cercare di “interpretare” ciò che il nostro interlocutore ci vuol dire. Ogni evento fa storia a sé.<br />

90


stessa persona, e nemmeno può usare due volte una stessa parola (ma nemmeno<br />

quell’uomo è mai lo stesso uomo, e il suo mondo non è mai lo stesso mondo).<br />

Ogni relazione è un evento singolare tra termini unici.<br />

Questa metafora può contribuire a chiarire cosa si intende per “farsi<br />

evenemenziale” della realtà.<br />

Per Heidegger, l’esserci è l’ente che “esiste” relazionandosi (grazie alla sua<br />

mondità) ad altro; l’esserci è stabilmente ed originariamente presso il mondo. Ed<br />

è proprio questo che gli permette di “esistere”. Egli è nel modo della continuità e<br />

della stabilità (autentica o inautentica) presso gli enti e gli altri. La stessa idea di<br />

“temporalità”conferma la stabilità del Dasein. La Temporalità, infatti, gli<br />

conferisce la dimensione “storica” ed “esistenziale”. L’ “esser-ci”, “ci” è<br />

stabilmente situato nel mondo. Allora, il mondo non può essere identificato col<br />

“contesto” (almeno nell’accezione vista sopra).<br />

Il mondo è “la totalità dei rimandi”, e quindi è il fondamento di ogni commercio<br />

con l’ente intramondano. Per questo Heidegger lo considera un esistenziale. Esso<br />

è inteso come condizione di possibilità del commercio intramondano, e della<br />

conoscenza: si possono utilizzare gli enti se essi sono da sempre collocati<br />

all’interno di una rete di rimandi; posso conoscere solo sul fondamento di una<br />

determinata pre-comprensione, quindi l’esserci può relazionarsi ad altro (può<br />

comprendere) grazie alla mondità.<br />

Il contesto invece non è un insieme di rimandi dati, altrimenti sarebbe ancora un<br />

trascendentale. Il contesto non è la totalità dei significati a disposizione<br />

dell’esistenza, non è il fondamento della comprensione dell’esserci; ma esso<br />

cambia in relazione agli eventi di cui fa parte. La sua “identità cangiante” può<br />

essere definita solo a posteriori, (come a posteriori è acquisibile la<br />

consapevolezza di sé). Il contesto è una “totalità” che si modifica di evento in<br />

evento: questo implica che c’è un unico contesto, ma che ogni evento ha il suo<br />

contesto.<br />

La relazione tra i contesti dei diversi eventi può essere “posta”, non “scoperta”.<br />

91


E’ chiaro che tra l’idea heideggeriana di mondo e quella di contesto c’è solo una<br />

affinità potenziale.<br />

Allora, il rapporto “Dasein-mondo” si pone a metà strada tra la relazione<br />

“contenitore-contenuto” e quella “contesto-testo”. La prima si dà tra enti<br />

permanenti e separati, la seconda è una “relazione evenemenziale”, in mezzo, si<br />

pone la relazione tra l’esserci permanente, ma non separato dal mondo, con il<br />

quale è in relazione costitutiva e originaria.<br />

Heidegger abbandona l’idea degli enti come oggetti indipendenti e separati, si<br />

emancipa dalla visione del mondo come sommatoria di parti; comprende che il<br />

“paradigma moderno” è contraddittorio, e concepisce un tipo di rapporto<br />

originario tra gli enti per superarne le aporie, ma non riesce a raggiunge la<br />

dimensione evenemenziale, perché rimane legato al modello metafisico<br />

trascendentale, e della permanenza. Il limite sta proprio qui: nel non aver colto la<br />

dimensione evenemenziale del mondo e di ciò che sta in relazione ad esso.<br />

In altre parole, il mondo per Heidegger è “relazionalità” e “apriorità”. Ma il<br />

mondo può essere relazionalità senza per forza essere apriorità. Cioè l’idea della<br />

relazionalità originaria dell’ “esser-ci”, non deve essere necessariamente<br />

combinata con la trascendentalità del mondo. Il mondo “è” relazione, non<br />

“permette” la relazione, esso “si dà” nella relazione non “condiziona” la<br />

relazione.<br />

E per emanciparsi dal trascendentalismo bisogna guadagnare la “reciprocità” e l’<br />

“evenemenzialità”.<br />

92


Terzo capitolo: sul fondazionalismo del “secondo”<br />

Heidegger<br />

Per uscire dal modello metafisico “causale-sequenziale”, bisogna rifiutare la<br />

ricerca dei fondamenti, delle origini, e delle condizioni di possibilità, e quindi si<br />

devono evitare i “luoghi” che costringono a tale ricerca: L’idea della<br />

“permanenza” e della “stabilità”, l’idea di “separazione”, e di “individualità”, i<br />

concetti di “soggetto” e “oggetto”, il principio di causa e qualsiasi altro modello<br />

di argomentazione basato sulla “derivazione”. Tutto ciò costituisce il bagaglio<br />

concettuale della metafisica e porta come conseguenza la necessità di cercare<br />

“quello che viene prima” o “quello che permette”.<br />

Per Heidegger 109 il concetto di causa nasce con il pensiero greco, e riceve da<br />

Platone e soprattutto da Aristotele il suo status filosofico. Essi avrebbero esteso il<br />

finalismo insito nella produzione umana all’azione della natura; allora, come gli<br />

artefatti trovano la loro origine (archè) e la loro finalità (telos) nella volontà<br />

umana, così gli altri enti trovano la loro “ragione” di esistenza nella natura.<br />

I Greci hanno cominciato a pensare la natura come il regno delle cause e degli<br />

effetti quando si sono “scoperti” produttori. L’uomo sarebbe “origine” e<br />

“dominio” dei suoi prodotti, così come la natura sarebbe origine e dominio degli<br />

enti naturali. In questo modo, uomo e natura operano secondo il medesimo<br />

schema.<br />

109 Heidegger espone quest’idea nel saggio Sull’essenza e sul concetto della physis, contenuto in<br />

Segnavia, Adelphi, Milano, 1984.<br />

93


Nella Fisica Aristotele, spiega che gli enti sono di due specie: quelli che trovano<br />

in loro stessi la causa del loro movimento e quelli mossi da altro. 110 Cioè tutti gli<br />

enti hanno un’ “origine” e delle “cause” che li governano, però i manufatti<br />

dipendono totalmente dall’uomo, gli enti naturali invece ne sono indipendenti; è<br />

la natura che governa le loro cause e i loro fini (essi del resto hanno un “luogo<br />

naturale” nel quale tendono ad andare).<br />

Lo scopo del “Grundbuch” è quello di spiegare l’origine e le cause di qualsiasi<br />

“movimento” (sia del movimento di luogo, che del mutamento di stato), perché<br />

Aristotele parte dal presupposto che tutto debba avere archè o telos.<br />

Ma, si chiede Heidegger, i presocratici la pensavano allo stesso modo? Egli<br />

sostiene che essi non usavano nemmeno il termine archè, in quanto pensavano la<br />

natura come physis, come “manifestazione”. 111 E tra i concetti di archè e physis<br />

non è possibile alcuna conciliazione. L’archè infatti da inizio e poi comanda,<br />

essa determina ciò che segue, è sempre presente e operante. Mentre la physis è un<br />

semplice esordio, un’origine che non vincola, è semplicemente ciò che permette<br />

la manifestazione, senza dominare sulla manifestazione. Essa non si manifesta,<br />

mentre porta gli enti alla manifestazione. Ad esempio l’apeiron di Anassimandro<br />

sarebbe solo l’inizio e non la causa degli elementi. Anassimandro afferma che<br />

dall’indeterminato si origina il determinato, e non che il primo governa la nascita<br />

e lo sviluppo del secondo. Sarebbero gli aristotelici ad aver trasformato l’apeiron<br />

in archè.<br />

Heidegger vuole così evidenziare la duplice valenza del termine “fondamento”: il<br />

primo – il concetto di physis – affermatosi all’origine del pensiero greco, il<br />

secondo – l’archè – frutto di una trasformazione subita dal primo ad opera di<br />

Aristotele.<br />

110 Mentre nella filosofia di Platone, il Demiurgo sarebbe la trasposizione metafisica dell’artigiano<br />

greco.<br />

111 Heidegger afferma: «Per i Greci “l’essere” significa il venire alla presenza dello svelato» (Segnavia,<br />

pag. 224).<br />

94


I) Fondamento come “principio”<br />

L’idea di “fondamento” nasce quindi da una “antropomorfizzazione” del modo di<br />

operare della natura. L’uomo è da sempre produttore di strumenti: le armi per<br />

cacciare, gli utensili per coltivare, i mezzi per spostarsi ecc. Egli quindi produce<br />

per soddisfare le sue esigenze. Egli ha dei fini e cerca, attraverso l’opera e<br />

l’ingegno, di raggiungerli.<br />

È del tutto plausibile che quando ha cominciato ad interrogarsi sulla natura abbia<br />

generalizzato il modello che gli era familiare: ogni cosa presente “in natura” c’è<br />

per un motivo, ha una sua “collocazione”. Ogni “elemento” e ogni “processo”<br />

naturale ha sicuramente un “senso”, un significato. Allora, l’uomo diventa un<br />

cercatore di senso, vuole le risposte alle domande che lo interrogano: perché<br />

questo e non quello? Perché in questo modo e non in un altro? Perché questa<br />

successione e non quest’altra? Perché la natura si “comporta” in un certo modo?<br />

Domande come questa trasformano la natura in un “agente”, in un entità capace<br />

di “progettare”, e quindi rivelano un ben preciso modo di accostarsi<br />

all’argomento.<br />

E ancora: cosa c’era “prima” di ciò che ci appare? Cosa ha “permesso”, da cosa è<br />

derivato, ciò che esiste attualmente?<br />

All’origine del pensiero le domande non erano poi molto diverse dalle attuali; ma<br />

dopo millenni di tentativi infruttuosi, qualche legittimo dubbio sul loro valore<br />

deve pur sorgere. Almeno potrebbe cambiare la prospettiva, potrebbero cambiare<br />

le aspettative che ci spingono a chiedere e a cercare.<br />

Perché la natura dovrebbe “comportarsi” come l’uomo? L’uomo pianta l’albero<br />

per ottenerne i frutti, la natura invece non ha bisogno dei frutti degli alberi,<br />

eppure essi nascono lo stesso!<br />

Qual è il “motivo” o la “causa” della vita? Qual è l’ “essenza” della vita?<br />

95


Hanno senso queste domande? Per quale ragione si deve trattare la “natura”<br />

come una “produttrice” di cose, o una “progettista” di senso? Che “senso” ha<br />

affermare che la natura “vuole”? Si può intendere la natura come un agente che<br />

dall’esterno governa su nascita e morte degli elementi? O essa è semplicemente<br />

l’ “accadere” di questi ultimi, i quali sono quindi “senza un perché”?<br />

Ogni evento è natura; essa è “a-teleologica”, non “conosce” bisogni, non ha<br />

desideri; ma semplicemente “si dà” e “si fa” continuamente. Allora chiedersi il<br />

perché dell’aratro, del treno, e di internet è profondamente diverso dal<br />

domandare sul perché dell’ente o del “mondo”.<br />

La natura è “cosmica”, spontanea e “senza perché”. È semplicemente ingenuo<br />

voler scoprire la chiave del “grande disegno” che dovrebbe dare un senso al tutto<br />

in cui siamo collocati. Inseguire il “principio” può essere utile, gratificante o<br />

rassicurante. Per quale motivo altrimenti cercare l’ “origine originaria”? Così,<br />

questo tipo di ricerca rivela di essere figlia di un determinato punto di vista, e<br />

quindi, di essere solo uno dei modi possibili del “cercare”. I concetti di<br />

“principio”, di causa (e dell’effetto) o di condizione (e del condizionato) sono<br />

tutte versioni della “logica sequenziale”, che trae spunto dall’idea di derivazione.<br />

L’uomo ha trovato rassicurante e conveniente da subito domandarsi “il perché<br />

di…”, ma questo non lo legittima a considerare questa come l’unica via<br />

d’accesso alla “verità”.<br />

L’armadio grazie alla pialla, la pialla grazie al ferro, il ferro grazie alla natura, e<br />

poi…via, via fino all’origine dell’universo e se possibile ancora più in là! Così<br />

sono nate le teorie dell’iperuraneo e del demiurgo, del motore immobile e delle<br />

quattro cause, e tutte le teorie successive; tutte “ipotesi” insoddisfacenti che<br />

hanno spinto a formularne altre di nuove. Ma la ricerca del fondamento (e di<br />

qualsiasi suo surrogato, che voglia porsi come l’origine originaria) è destinata a<br />

fallire sempre. Infatti nel momento stesso in cui ci si chiede la causa di qualcosa<br />

si è destinati, o a una risalita indefinita verso l’ignoto, oppure a cadere in<br />

contraddizione.<br />

96


Il “fondamento”, il “principio”, la “condizione” ecc. sono tutti “espedienti”<br />

trovati per interrompere la corsa a ritroso; ma nel momento in cui li si pone, si<br />

cade in un circolo vizioso. Se la giustificazione del “principio” è che non si può<br />

risalire all’indietro all’infinito, e quindi che “ci deve essere un termine”, il<br />

fondamento diventa palesemente una soluzione di ripiego. La sua necessità non è<br />

richiesta dalla “natura”, ma dalla debolezza dell’argomentazione.<br />

“La catena dei perché deve avere un termine”. E’ legittimo chiedere “perché<br />

deve”? Se la precedente affermazione è un postulato, non ha nemmeno senso<br />

cominciare ad argomentare, tanto vale porre subito l’assioma di cui si ha<br />

bisogno. La mancanza di risposta all’ultimo perché, infatti, invalida tutte le<br />

risposte precedenti: esse dovrebbero trovare la loro giustificazione nell’ultimo<br />

perché della catena; se esso è un assioma, la teoria elaborata è dogmatica, non<br />

razionale! Così ogni volta che si pone un fondamento, di fatto si rinuncia alle<br />

condizioni accettate in partenza: quelle che richiedevano di dare risposte<br />

“razionali”.<br />

Postulare un principio allora non è un atteggiamento razionale, ma dogmatico. Se<br />

mi arrendo di fronte all’ultimo dei perché, quello più importante, di fatto ho<br />

fallito l’obiettivo che mi sono posto in partenza. Porre un fondamento, in<br />

sostanza, significa alzare bandiera bianca e rinunciare alla logica del perché! E<br />

ciò è inevitabilmente contraddittorio.<br />

Adottando questo tipo di argomentazione, si incorre necessariamente in una<br />

petizione di principio: da un lato, il concetto di causa si fonda e si legittima sul<br />

concetto di principio (se non postulassi il principio non avrebbe senso la causa,<br />

pena la risalita all’infinito), dall’altro l’idea di principio si basa sul concetto di<br />

causa (è solo perché penso che ogni cosa debba avere una causa generante che<br />

posso affermare l’esistenza del principio). Causa e principio finiscono per essere<br />

dei sinonimi (ciò per cui qualcosa “è”) che si giustificano e sorreggono<br />

vicendevolmente (e la situazione non cambia se al posto del concetto di<br />

“fondamento” si usa quello di “condizione di possibilità”).<br />

97


La contraddizione sta proprio nell’affermare che qualcosa esiste in virtù di<br />

qualcos’altro, perché in questo modo non si risolve il problema ma lo si rimanda,<br />

lo si sdoppia. Se si adotta la logica principiale per spiegare fenomeni, rimane<br />

sempre il mistero del “perché” della loro successione.<br />

Ciò che sembra essere la più solida di tutte le cose – il fondamento – è invece la<br />

conseguenza forzata di una argomentazione superficiale.<br />

Allora non è vero che la catena dei perché deve avere un termine, piuttosto, essa<br />

non dovrebbe avere neppure inizio!<br />

II) Telos, archè, physis<br />

La natura è “cosmica” cioè il contrario di “teleologica” (e di principiale). Solo<br />

l’azione del “soggetto” può essere considerata “finalistica”, ma anche qui<br />

servono delle precisazioni. Infatti, nemmeno il “soggetto”, in senso assoluto, è<br />

capace di porsi e di raggiungere obiettivi: il fine viene deciso liberamente o il<br />

risultato di una necessità? La libertà to tale è un assurdo logico, in quanto se<br />

fossimo totalmente liberi, saremmo comunque governati dal caso! 112 Ci devono<br />

essere quindi delle motivazioni, dei desideri, delle aspirazioni. Ma in che<br />

rapporto stanno le motivazioni con la libertà? Le motivazioni sono libere o<br />

necessarie? Se optiamo per la prima soluzione ci ritroviamo nella situazione<br />

precedente, se scegliamo la seconda, abbiamo il problema di stabilire “chi”<br />

governa (come sono governate) le nostre motivazioni. Nasce ancora una volta la<br />

questione del fondamento, della “condizione” che presiede l’azione del soggetto.<br />

112 E’ stato Hume, nel Trattato sulla natura umana, a mettere in evidenza questo paradosso.<br />

98


Ricadiamo così nello schema “principiale”; infatti anche il determinismo ha<br />

bisogno di un fondamento da cui partire.<br />

Da una parte risulta che siamo determinati in virtù di un qualche principio,<br />

dall’altra che tale principio è stato posto per rispondere al perché dell’agire<br />

umano! Ancora il circolo vizioso di prima. Allora, anche l’alternativa tra libertà e<br />

determinismo risulta contraddittoria, e ciò perché anch’essa è una conseguenza<br />

del dualismo moderno.<br />

Se si pensa il soggetto come l’ente che attraverso la sua “interiorità” è capace di<br />

rapportarsi a ciò che gli è esterno, si finisce inevitabilmente nel dualismo: si deve<br />

decidere se tale relazione sia caratterizzata dalla “scelta” o dalla “necessità”. Si<br />

deve oscillare tra queste due ipotesi proprio a causa della separazione tra<br />

soggetto e oggetto. Superare l’isolamento soggettivo significa superare anche<br />

quell’alternativa.<br />

In che senso il soggetto stabilisce i suoi fini? È sufficiente la consapevolezza<br />

della libertà per essere veramente liberi? Cos’è la libertà? Anche queste<br />

sembrano domande mal poste, tutte figlie di un ben noto paradigma di pensiero.<br />

Se si considera l’agire umano il risultato di una scelta “interna” al soggetto, i<br />

conseguenti concetti di “libertà” e “determinismo” mostrano di essere<br />

contraddittori. Allora la questione deve essere impostata diversamente. 113<br />

L’idea della libertà (o quella della “predeterminazione” che la accompagna) è<br />

sempre il frutto di una certa impostazione di pensiero, non una condizione<br />

esistenziale originaria. L’alternativa tra agire libero, e agire vincolato, non<br />

impegna per una scelta definitiva sulla natura umana, ma è la conseguenza di un<br />

determinato modo di intendere l’uomo. “Libertà” è infatti un concetto, il cui<br />

significato si contrappone a quello di “schiavitù”, ed entrambi si sorreggono<br />

vicendevolmente. Da cosa nasce tale contrapposizione? Nasce dall’idea che ci sia<br />

un “soggetto” – cioè un ente perfettamente compiuto – nel mondo, che si erge di<br />

fronte (si contrappone) a tutto quello che incontra. Il modo dell’incontro tra entità<br />

113 Ed è ciò che Heidegger tenterà di fare nel saggio sull’ Origine dell’opera d’arte che analizzeremo<br />

nel prossimo paragrafo.<br />

99


originariamente separate può dipendere, a seconda dei punti di vista, da un<br />

“progetto” elaborato autonomamente dal soggetto (libertà), o viceversa dal<br />

“progetto” di qualche entità superiore, esterna, o originaria, rispetto al soggetto<br />

alla quale egli si deve “adeguare”. 114<br />

L’alternativa tra libertà e determinismo è il portato del modello metafisico che si<br />

regge su cause, fondamenti, e separazioni. Se si prescinde da questi concetti<br />

quell’alternativa si dimostra contraddittoria. Così anche l’azione dell’uomo, e<br />

quindi il suo modo di correlarsi al mondo deve essere ripensato in modo radicale.<br />

Senza approfondire ulteriormente la questione, 115 diciamo che per un certo<br />

periodo della nostra storia l’idea che l’uomo (in quanto “soggetto”) potesse agire<br />

nel “mondo” in base ai suoi “scopi” non è mai stata messa in discussione.<br />

E anche se, più prudentemente, formuliamo l’idea che l’ “uomo” opera nel<br />

“mondo” in base ai suoi “bisogni” il risultato non cambia. 116<br />

In ogni caso, non siamo autorizzati a credere che anche la natura abbia bisogni o<br />

addirittura scopi. Anche se supponiamo che l’uomo coltiva, costruisce, investe,<br />

per soddisfare bisogni, dobbiamo convenire che la natura non ha né scopi né<br />

bisogni da soddisfare, la natura non ha alcuna esigenza.<br />

Detta in questo modo, la cosa è persino banale, ma su quale altra considerazione<br />

si fonda la ricerca dei fondamenti, delle cause, e dei fini in natura?<br />

Se ammettiamo che sia una forzatura estendere il modello teleologico all’<br />

“accadere” della natura, come giustificare la ricerca dei “perché” per ottenere la<br />

“Verità”?<br />

Concesso che la natura non abbia fini, essa potrebbe possedere “leggi di<br />

sviluppo”, “principi regolativi”. Le scienze studiano appunto tali leggi, cercano<br />

questi principi. Anche in questo caso il rischio è quello di estendere i (presunti)<br />

114 La storia ne ricorda molti, tra i quali il “fato” il “destino”, la “natura”, la “società”, la “storia”. In<br />

questo periodo si parla molto di “codice genetico”, come di quella “mappa” o “progetto” in grado di<br />

svelare tutti i perché – qualsiasi dettaglio – riguardo ad un certo uomo.<br />

115 Che tuttavia verrà ripresa nella terza e nella quarta parte.<br />

116 Tali concetti – scopi, bisogni, necessità - risultano essere molto vaghi perché il tipo di relazione che<br />

essi implicano rimane del tutto indeterminata, e anzi fa pensare ad una “separazione” tra uomo e mondo<br />

che è la causa di tutte le difficoltà del pensiero moderno.<br />

100


modi del comportamento umano alla natura. L’uomo ha bisogno di “progettare”,<br />

di definire piani di sviluppo, di studiare procedimenti adeguati per raggiungere i<br />

propri obiettivi. Il “soggetto” “definisce” uno scopo e trova la strada per<br />

raggiungerlo: egli impara a coltivare, a costruire e a comunicare in modo sempre<br />

più efficace, usa tecnologia e tecnica per migliorare la sua capacità di azione.<br />

La natura non ha bisogni, e quindi non deve elaborare strategie per raggiungerli.<br />

La natura non deve seguire leggi di sviluppo, e non deve adeguarsi a principi<br />

costitutivi. Nessuno ha ancora dimostrato che esistano “leggi naturali”. La<br />

scienza cerca di descrivere il funzionamento della natura formulando leggi, ma<br />

non è detto che questo sia il modo migliore di descrivere la natura (non è<br />

nemmeno detto che la natura possa essere descritta). La scienza riproduce e<br />

rappresenta, ma non è detto che la riproduzione colga l’essenza del<br />

rappresentato, dell’originale. Ci può essere l’impressione della somiglianza, ma<br />

questo non implica una “omogeneità”. Non è nemmeno detto che ipotizzare<br />

l’esistenza di un essenza consenta poi di trovarla.<br />

Le leggi danno regolarità all’azione, il “soggetto” né ha bisogno, a causa dei suoi<br />

limiti, e dei suoi obiettivi, la natura invece non ha la necessità di avere regolarità<br />

d’azione. Ma, si può obiettare, le regolarità della natura sono “evidenti”; il<br />

sorgere del sole, la caduta dei gravi, la composizione chimica degli elementi. Su<br />

questi, e su tutti gli altri argomenti in studio, sono state date però spiegazioni<br />

molto diverse nel corso dei secoli. Per gli antichi era “evidente” che il sole<br />

girasse intorno alla terra, per noi è “evidente” il contrario. Per gli antichi le cose<br />

avevano un loro luogo naturale dove andare, per i moderni è la forza di gravità<br />

che dispone le cose nel cosmo, e Einstein ha un opinione ancora diversa. La<br />

materia è stata descritta nel corso della storia in molti modi, fino alla Teoria<br />

della relatività che mette addirittura in dubbio che possa esistere qualcosa come<br />

la materia.<br />

Le congetture della fisica, allora, possono essere considerate descrizioni di leggi<br />

naturali? Primo manca la prova che tali leggi esistano; secondo nessuno ne ha<br />

ancora formulata una di inattaccabile.<br />

101


Le ipotesi sui principi e sulle leggi vincolanti, non sono più “consistenti” e<br />

“confortanti” delle teorie teleologiche.<br />

Questo metodo di ricerca, questo “approccio al mondo” e figlio del modello di<br />

pensiero metafisico e poi moderno, che prevede un soggetto autonomo che<br />

investiga e un mondo altrettanto autonomo da investigare. 117 Ma se non ci fosse<br />

questa reciproca indipendenza?<br />

Heidegger è stato il primo studioso a metterla in questione. Ha sostenuto (in<br />

modo piuttosto convincente) che la separazione originaria tra l’uomo (il Dasein)<br />

e il suo mondo, è frutto di un fraintendimento; è una semplice astrazione del<br />

pensiero, non la cifra della realtà; e ha mostrato quanto sia contraddittorio<br />

sostenere una simile tesi. In questo senso è stato il primo pensatore “ecologico”,<br />

il primo a contestato la visione principiale e dualistica della metafisica (ma anche<br />

della scienza moderna).<br />

Egli ha elaborato una filosofia che cerca di superare il dualismo connaturato in<br />

quelle posizioni. Ha individuato con grande lucidità i suoi punti deboli e li ha<br />

evidenziati in modo magistrale. Certo, non è riuscito ad emanciparsi del tutto da<br />

quel modo di pensare (soprattutto nella sua opera maggiore), ma ha aperto una<br />

strada molto proficua. Heidegger si è arenato sull’idea che un fondamento, o<br />

meglio, un’origine deve esistere. Ha creduto che rifiutare il concetto metafisico<br />

di fondamento significasse rinunciare alla logica fondazionale, e quindi ha<br />

teorizzato un altro modo di intendere l’ “origine”. Ha distinto cioè tra un modo<br />

metafisico di “dire” l’origine, e uno non-metafisico. Il primo si riconosce nel<br />

concetto di archè, il secondo in quello di physis; A suo parere, l’idea di archè<br />

sarebbe indice di fondazionalismo, mentre l’idea di physis permetterebbe di<br />

uscire da quello schema. Ha distinto tra un fondamento buono e uno cattivo,<br />

perché non ha mai pensato che si potesse prescindere da entrambi. Anzi, per lui<br />

la filosofia è ricerca di ciò che è originario, quindi negare la necessità<br />

dell’indagine sull’origine equivale a negare la necessità stessa della filosofia.<br />

Così il suo anti-fondazionalismo è rimasto solo “potenziale”.<br />

117 Lo stesso paradigma del “soggetto” indipendente che “produce”, che “ottiene”, che “consegue”<br />

obiettivi prefissati, usando il mondo come un mero contenitore di strumenti a sua completa disposizione.<br />

102


Ma gli va comunque assegnato il merito di aver messo in crisi un sistema di<br />

pensiero che, considerando tutte le varianti prodotte, durava da più di duemila<br />

anni.<br />

III) Fondamento come “origine”<br />

Il fondamento, allora, può essere concepito in due modi: o come “causa” che<br />

impone effetti, o come “origine” che fa nascere senza determinare.<br />

In entrambi i casi si tratta di “fondazionalismo”, perché il fondamento “genera”<br />

senza essere influenzato dal “generato”. Esso dà senza ricevere, è indipendente.<br />

La relazione ha un solo verso, è gerarchica e piramidale, manca l’elemento della<br />

“mutualità”. Però la differenza tra i due modelli è sostanziale.<br />

La causa impone uno sviluppo determinato, senza scampo. Le conseguenze di<br />

questo tipo di fondamento sono “prevedibili”, e si possono “descrivere” tramite<br />

“leggi”: ad un certa causa seguirà sempre lo stesso effetto; questo è lo schema<br />

usato dalla scienza moderna (e da tanta parte della filosofia, non solo moderna),<br />

che fa della capacità di previsione la sua forza. L’astronomia, la fisica, la<br />

chimica, moderne concepiscono un mondo regolato da cause ed effetti.<br />

Heidegger invece intende il fondamento come “origine”, e spiega questo concetto<br />

in modo piuttosto chiaro nel saggio sull’ Origine dell’opera d’arte. 118<br />

Per prima cosa, egli definisce il concetto di origine: «L’origine di qualcosa è la<br />

provenienza della sua essenza». Cioè l’origine continua ad essere anche per lui<br />

sia “inizio” che “elemento comune”, proprio come la intendevano i presocratici.<br />

L’origine è “fondamento”, ciò che fa essere qualsiasi cosa nella sua essenza.<br />

118 Tutte le citazioni sono tratte da questo saggio, il quale si trova in Sentieri interrotti, La nuova Italia,<br />

Firenze, 1997.<br />

103


Affermare che esiste qualcosa di questo tipo significa essere fondazionalista oltre<br />

ogni dubbio. Per il filosofo tedesco infatti l’origine è ciò che permette l’esistenza<br />

(la presenza) degli essenti (anche se non la determina), essa è un vero e proprio<br />

“principio”.<br />

Subito dopo però, sembra sostenere che tra artista e opera d’arte si instaura un<br />

rapporto di “reciprocità”: «L’artista è l’origine dell’opera. L’opera è l’origine<br />

dell’artista. Nessuno dei due sta senza l’altro». Ciò contraddirebbe il concetto di<br />

“origine” fornito in precedenza. L’artista dà l’essenza all’opera, e nello stesso<br />

tempo l’opera conferisce la sua essenza all’artista; Heidegger inclina verso la<br />

mutua dipendenza tra le due cose; ovvero sembra difendere una tesi<br />

sostanzialmente “ecologica”; infatti, l’idea che l’artista e la sua opera si<br />

definiscano e si sostengano reciprocamente è un esempio di “anti-<br />

fondazionalismo”. Ma come è possibile che questo avvenga, come può darsi tale<br />

reciprocità? Egli risponde che l’artista e l’opera sono ciò che sono in base a una<br />

terza cosa, che è in realtà “la prima”, in virtù della quale sia l’artista che l’opera<br />

traggono il loro nome: questa cosa è l’ “arte”. Ecco che siamo tornati all’interno<br />

dello schema principiale. Infatti, anche se Heidegger ammette di doversi<br />

muovere in un circolo, in realtà sta cercando di cogliere il fondamento e l’origine<br />

di questa struttura. Per tutto il resto del saggio egli si impegna a mostrare cosa<br />

sia, e dove poggi, “veramente” il concetto di “opera d’arte”.<br />

In sostanza, il suo intento è quello evidenziare il ruolo fondativo che l’arte ha nei<br />

confronti della civiltà e della storia.<br />

Egli scrive: «L’opera d’arte apre, a suo modo, l’essere dell’ente. Nell’opera ha<br />

luogo questa apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell’ente. Nell’opera<br />

d’arte è posta in opera la verità dell’ente. L’arte è il porsi in opera della<br />

verità» 119 . Allora, nell’arte sta la verità, l’arte è la verità. Nelle “allegorie” e nei<br />

“simboli” dell’arte si manifesta la verità.<br />

119 E ancora: «L’essenza dell’arte, in cui risiedono contemporaneamente opera d’arte e artista, è il porsi<br />

in opera della verità».<br />

104


Per Heidegger la verità, lo sappiamo, è l’ aletheia, è lo svelamento dell’ente, il<br />

quale non si mostra mai completamente. L’essenza della verità non sta in una<br />

adeguazione permanente e definitiva al principio, ma in una manifestazione che<br />

nel contempo è anche nascondimento. L’ente non può mai rivelarsi totalmente e<br />

definitivamente, l’essenza della verità è l’insieme della luce e dell’ombra, del<br />

giorno e della notte, non è solo luce o solo giorno. “L’illuminazione in cui l’ente<br />

si mantiene è parimenti un nascondimento”, e quindi “la verità nella sua essenza<br />

stessa è non-verità”.<br />

È questa la verità che si può svelare nell’arte. È così che l’opera d’arte “espone”<br />

un “mondo”: il tempio è il simbolo del mondo greco; nelle allegorie dei quadri di<br />

Van Gogh sta la nostra epoca.<br />

L’opera apre i significati di un mondo. “Il mondo è l’autoaprentesi apertura delle<br />

ampie vie delle opzioni semplici e decisive nel destino di un popolo storico”.<br />

L’apertura dell’arte permette agli uomini di dare senso a ciò che li circonda, e a<br />

se stessi, permette all’esserci di comprendere e di comprendersi. L’arte è apertura<br />

e quindi origine, e fondamento di ogni popolo storico. Ogni epoca è<br />

caratterizzata dalla propria arte. “Nel suo stare eretto il tempio conferisce<br />

originariamente alle cose il loro volto e agli uomini la prospettiva di sé”.<br />

Al di fuori di quel mondo l’opera non ha più valore, diventa un oggetto<br />

meramente evocativo: il tempio greco oggi, è solo il ricordo di ciò che<br />

rappresentava per quella civiltà. Nell’opera d’arte sta l’essenza di una civiltà e di<br />

un’epoca.<br />

Quindi la verità permessa dall’arte si “storicizza”. La verità dell’arte è storica.<br />

“Nella presenza del tempio si storicizza la verità…Nel quadro di Van Gogh si<br />

storicizza la verità”. “L’arte è storica, e come tale è la salvaguardia fattiva della<br />

verità in opera”. “L’arte è storia e lo è ne l senso essenziale (sopra chiarito) che<br />

essa fonda la storia”. L’arte è fonte di verità storica.<br />

Dall’arte il popolo riceve l’apertura che consente ogni comprensione. Quindi<br />

l’arte è il fondamento di ogni civiltà. Infatti Heidegger verso la conclusione del<br />

saggio afferma: «L’arte nella sua essenza è origine e null’altro: una maniera<br />

105


eminente in cui la verità si fa essente, cioè storica». Allora, egli chiude il saggio<br />

facendo vedere che la circolarità denunciata in apertura è solo presunta, perché<br />

l’arte in quanto “origine” è il vero fondamento cercato. “Ciò da cui tutto<br />

proviene nella sua essenza”.<br />

Gli obiettivi che Heidegger si pone in questo saggio sono diversi: il primo è<br />

quello di contestare il paradigma di “produzione” elaborato dai moderni (quello<br />

visto nel paragrafo precedente, e che ha dato origine al concetto di fondamento<br />

come causa): l’opera (non solo quella artistica) non è il frutto di un “fare”<br />

soggettivo, non è il risultato di una decisione (libera o vincolata) individuale, non<br />

è qualcosa che il soggetto progetta e realizza in modo autonomo, in quanto come<br />

abbiamo visto, l’opera e il suo creatore si definiscono reciprocamente. Il<br />

produttore non viene prima dell’opera, credere questo significa adottare un<br />

modello di pensiero dualistico, che divide la realtà in mondi “interni” ed<br />

“esterni”; significa, ancora una volta, contrapporre il “soggetto” all’ “oggetto”;<br />

vuol dire credere che il soggetto possa elaborare pensieri e progetti nella sua<br />

coscienza (o mente), in modo del tutto autosufficiente, per poi realizzarli nel<br />

mondo. Invece, opera e creatore sono i luoghi in cui si manifesta la verità. Non è<br />

il soggetto che “dà senso” alle cose, e quindi la verità non può essere subordinata<br />

all’esistenza (la verità non è un “esistenziale” 120 ) perché essa “accade”, si<br />

“disvela” nella manifestazione dell’essere. E nemmeno il soggetto riceve il senso<br />

dalle cose; e allora la verità non può essere subordinata alla realtà. La verità è<br />

aletheia, e l’essere è physis.<br />

Il secondo obiettivo, è quello di collocare l’arte nella sua giusta dimensione, al di<br />

la delle superficiali analisi dell’estetica che cerca nell’arte la bellezza, e la<br />

proporzione; nell’arte si dà la dimensione essenziale della verità, l’arte apre<br />

possibilità di esistenza. “La riflessione intorno all’essenza dell’arte è interamente<br />

e rigorosamente determinata dal solo problema dell’essere”, afferma Heidegger.<br />

Il terzo obiettivo è, appunto, quello di spiegare cosa egli intende per<br />

“fondamento”.<br />

120 Qui ci coglie una discontinuità evidente nei confronti del “primo” Heidegger. Il superamento delle<br />

posizioni di Essere e tempo è netto.<br />

106


L’arte ha un ruolo “cosmico”, essa è apertura di mondo, essa fonda la storia delle<br />

epoche. Essa è la condizione di ogni verità (aletheia) sull’ente.<br />

Così egli precisa anche che il modo in cui l’arte da origine non è quello<br />

deterministico della causa col proprio effetto. L’arte non causa la verità<br />

dell’ente, non la determina; l’arte (la poesia) “instaura” la verità. Ed “instaurare”<br />

significa “donare”, “fondare”, “iniziare”. Scrive Heidegger: «Lo straordinario,<br />

qui, sta nella impossibilità assoluta da parte dell’opera di influire sull’ente<br />

abituale e ordinario mediante un’azione causale. L’efficienza dell’opera non<br />

consiste nel produrre effetti. Essa consiste invece in quel mutamento del non-<br />

esser-nascosto dell’ente che è connesso all’opera: cioè in un mutamento<br />

dell’essere». L’arte è il fondamento che dà origine senza determinare. Essa<br />

genera senza condizionare; in questo senso essa è “apertura”, perché apre<br />

possibilità, mentre la causa le toglie, le chiude.<br />

Heidegger, è evidente, non sta cercando un’alternativa all’idea di “fondamento”,<br />

ma vuole proporre quello che a suo parere è l’unico modo corretto di intenderlo.<br />

Egli sostiene che la metafisica rappresenta la storia del tradimento dell’originale<br />

idea greca. Pensare che il fondamento sia la causa del reale o che sia ciò a cui<br />

tutto il resto si “adegua”, significa applicare categorie metafisiche all’originario<br />

concetto greco di physis. Significa stravolgere quel concetto. Allora, Heidegger<br />

non contesta l’idea in sé di “fondamento”, anzi vuole ripensarlo, sulla scorta<br />

dell’insegnamento greco, in modo “autentico”, in modo “essenziale”.<br />

Egli si pone il compito di ripensare l’ “origine”, avvalendosi dell’insegnamento<br />

della più antica speculazione filosofica.<br />

Bisogna raggiungere l’ “origine originaria”, al di là delle superficiali analisi della<br />

metafisica, elaborate nella totale dimenticanza del senso dell’essere. Egli vuole<br />

andare all’essenza di quel concetto, non abbandonarlo. Il fondamento della<br />

metafisica non è in senso proprio un vero fondamento, ma solo ciò che si è<br />

costretti a pensare di esso, una volta persa la dimensione costitutiva dell’essere.<br />

Allora, si deve rifiutare la metafisica (quell’esperienza filosofica che non ha<br />

saputo andare all’origine), non il pensiero “iniziale”.<br />

107


Heidegger si scaglia contro il principio di causa efficiente non perché esso sia<br />

una versione del fondazionalismo, ma in quanto è una forma derivata e<br />

inessenziale di espressione dell’ “originario”. Il principio di causa rivela un modo<br />

inadeguato di accostarsi a questo problema. Si tratta allora di individuare il modo<br />

più originario di pensare l’origine, non di cercare un’alternativa a quel<br />

concetto. 121<br />

Egli ricorre all’antica sapienza greca perché pensa che attraverso di essa sia<br />

possibile cogliere l’essenza della verità intorno all’essere. Per questo la filosofia<br />

ha senso solo in quanto ontologia. L’unico compito che Heidegger attribuisce<br />

alla ricerca filosofica, prima e dopo Essere e tempo, è l’indagine sull’essere, in<br />

quanto ricerca dell’ “originario”.<br />

Certo dopo la “svolta” cambia l’approccio. L’indagine dell’opera maggiore, lo<br />

riconosce egli stesso, è viziata dal trascendentalismo. E’ ancora prigioniera di un<br />

modo di procedere “moderno”.<br />

Il tentativo di Essere e tempo non è riuscito ad emanciparsi totalmente<br />

dall’influenza del pensiero inautentico. Quell’indagine allora si divincola<br />

all’interno di un modello non sufficientemente profondo, e in qualche misura<br />

contraddittorio. La ricerca dell’essere che parte dal Dasein, in sostanza, si espone<br />

al rischio di una deriva “soggettivistica”. E come ogni forma di “soggettivismo”<br />

inverte i termini della questione, in quanto considera l’essere solo in modo<br />

derivato. Se l’accesso all’essere è fornito dalla comprensione che il Dasein ne ha,<br />

se per adire all’essere è necessario indagare la maniera in cui il Dasein lo può<br />

comprendere, quello che si finisce per studiare non è l’essere, ma ciò che il<br />

Dasein comprende dell’essere. E le due cose sono diverse.<br />

Nell’ottica del “secondo” Heidegger gli esistenziali soffrono di questo limite:<br />

non sono sufficientemente originari, e presuppongono ciò che vogliono<br />

dimostrare. L’essere si può manifestare, nella sua essenza, senza il bisogno di<br />

condizioni vincolanti di carattere metafisico.<br />

121 In questo sta il senso dell’attacco portato al concetto di physis di Aristotele.<br />

108


Non è legittimo quindi considerare gli esistenziali come condizioni di possibilità<br />

della manifestazione dell’essere, in quanto per quella via ci si preclude proprio la<br />

possibilità di accedere all’essenza dell’ essere.<br />

L’errore di Essere e tempo è di non aver colto la questione nella sua dimensione<br />

fondamentale e risolutiva, e questo a causa del condizionamento ancora operante<br />

delle categorie di pensiero trascendentali. Allora, non bisogna cercare di fondare<br />

l’analisi dell’essere sull’ente che lo può comprendere, ma è quest’ultimo che<br />

deve essere pensato in funzione dell’essere.<br />

Nell’opera decisiva della “svolta” – Introduzione alla metafisica – Heidegger<br />

ammette: «Risulta in tal modo evidente, fin dai primordi della filosofia<br />

occidentale, come il problema dell’essere includa necessariamente la fondazione<br />

dell’esserci. Questa connessione di essere e esserci non si può raggiungere se si<br />

parte da un’impostazione della questione in termini di gnoseologia, e ancor meno<br />

in base alla constatazione estrinseca che ogni concezione dell’essere dipende da<br />

una concezione dell’esserci». 122<br />

Qui il superamento dell’impostazione “esistenziale” è netto ed esplicito.<br />

Heidegger riconosce che la sua opera maggiore si è arenata su un equivoco di<br />

fondo, che adesso egli vuole emendare. 123<br />

Per andare oltre la metafisica si devono rovesciare i canoni moderni, e ripartire<br />

dall’originaria esperienza greca, che si rivolge direttamente all’essere. Per<br />

abbandonare il soggettivismo bisogna subordinare la questione dell’ente a quella<br />

dell’essere.<br />

Ma indagando l’ “originario” non si esce dal fondazionalismo, se ne elabora solo<br />

una nuova versione. Così il nuovo modo di intendere il fondamento che egli<br />

elabora a partire dalle opere successive ad Essere e tempo, non lo porta oltre la<br />

122 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 1990, pag. 181. Corsivi aggiunti<br />

E’ interessante avvicinare questa affermazione con la seguente fatta in Essere e tempo (pag 22-23):<br />

«Elaborazione del problema dell’essere significa dunque: rendere trasparente un ente (il cercante) nel suo<br />

essere…Questo ente che noi stessi sempre siamo…lo designiamo col termine Esserci.»<br />

123 Ciò emerge con chiarezza anche se si confrontano i saggi “Dell’essenza della verità” e<br />

“Dell’essenza del fondamento” (concepiti tra il ’29 e il ’30) con l’impostazione presente in Introduzione<br />

alla metafisica.<br />

109


metafisica, ma gli consente solo di andare oltre il “trascendentalismo<br />

esistenziale”. L’idea che “l’origine di qualcosa sia la provenienza della sua<br />

essenza”, non può essere configurata come un pensiero ecologico. L’idea che la<br />

filosofia sia il pensiero dell’inizio, non può essere interpretata come<br />

un’esperienza di pensiero non fondazionale.<br />

IV) La “differenza ontologica”<br />

Heidegger con la “svolta” guadagna la dimensione della “storicità”, che gli<br />

consente di porre sui binari più opportuni la battaglia al soggettivismo: se<br />

l’esistenza si fa nella storia, il tempo perde la sua valenza esistenziale. Il Dasein<br />

viene privato della sua funzione centrale e originaria perché collocato nella<br />

storia. Allora, si ribalta il rapporto tra tempo ed esistenza: la temporalità non si<br />

dà più nell’unità delle estasi, ma trova la sua relazione originaria alla storicità.<br />

L’origine “si dà” nelle “epoche” (il riferimento è al concetto di epoché) e nella<br />

polis 124 (come luogo storico). 125 Se il tempo perde la sua caratteristica<br />

esistenziale l’essere si “storicizza”; l’uno e l’altro diventano “mondo” e “storia”.<br />

Il “secondo” Heidegger cerca di trasformare il mondo da esistenziale del Dasein,<br />

in luogo storico del Dasein. La “svolta” consiste allora nel tentativo di assegnare<br />

all’ “essere-nel-mondo” una dimensione storica.<br />

La sfida della “svolta” è il tentativo di passare da un “apriorismo esistenziale” ad<br />

un “apriorismo storico”, per uscire dal soggettivismo, e quindi dal “pensiero<br />

metafisico”. Ecco perché egli recupera il concetto di physis, cioè l’essere che si<br />

124 Per il concetto di polis in Heidegger, (del quale ci occuperemo anche più avanti) cfr. in particolare<br />

Introduzione alla Metafisica, e Parmenide.<br />

125 E più originariamente ancora essa “Si dà”, e basta.<br />

110


manifesta in modo indipendente dal Dasein. Per questa via, vuol superare le<br />

difficoltà incontrate nell’opera maggiore, e per farlo ribalta i termini della<br />

questione: la verità non è più, come in Essere e tempo, l’ aletheia esistenziale del<br />

Dasein, ma è il disvelamento della physis.<br />

Heidegger dopo la “svolta” non intende più la “realtà” come un esistenziale, ma<br />

la descrive come manifestazione storica (“epocale” ed infine “topologica”). In<br />

questo modo la verità non appartiene più all’esserci, ma si disvela nella storia,<br />

alla quale l’esserci partecipa, dalla quale l’esserci è chiamato a rispondere. La<br />

“manifestazione” (physis) infatti è condizione della comprensione, nel senso che<br />

il pensiero è inteso come risposta alle sollecitazioni dell’essere.<br />

Allora il “concetto alethiologico” dell’origine mira a mettere in evidenza la<br />

precedenza ontologica della verità (e della “realtà”) rispetto all’esistenza.<br />

L’uomo non può deviare il corso che il venire alla presenza, come modalità<br />

fondamentale dell’essere, imprime alla storia, l’uomo si può solo adeguare ad<br />

essa, facendosene interprete. Heidegger afferma: «Come potrebbe mai l’uomo<br />

inventare ciò che domina per entro a lui e sul fondamento del quale soltanto può<br />

egli stesso essere come uomo?». 126<br />

Allora, l’uomo “abita” il luogo storico dove si manifesta la verità (il luogo della<br />

polis), e da essa trae la sua stessa essenza.<br />

Così, però, il rapporto tra “essere” ed “esistenza” viene solamente rovesciato<br />

rispetto ad Essere e tempo: non più l’essere nel modo della comprensione del<br />

Dasein, ma il “Pensiero” come risposta all’appello dell’essere. Per questa via si<br />

può uscire sicuramente dal “soggettivismo”, ma la semplice inversione<br />

dell’ordine di dipendenza è utile per assicurare l’oltrepassamento delle istanze<br />

fondazionali?<br />

L’accusa che Heidegger muove al pensiero metafisico, anche dopo la “svolta”, è<br />

di aver confuso l’essere con l’ente, e di aver così trasformato la ricerca del<br />

126 M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica, op. cit. pag. 164.<br />

111


fondamento in una indagine ontica intorno al “principio”. In altre parole, da<br />

Platone in avanti si sono cercati “enti originari”; si è tentato di spiegare il perché<br />

degli enti attraverso altri enti. Così si sono succeduti l’iperuraneo, il motore<br />

immobile, il summum ens, il cogito e cosi via. In questo modo, però si è persa la<br />

dimensione originaria dell’essere. Il problema dell’origine infatti è “ontologico”.<br />

Comprendere la differenza ontologica significa raggiungere l’ “origine<br />

originaria”. L’errore della metafisica è stato quello di intendere il fondamento<br />

come un “ente” e di averlo quindi trasformato in substrato: l’ente al di là del<br />

quale non si può andare. Il problema della regressione all’infinito viene risolto,<br />

per la metafisica, individuando il “piedistallo” sul quale dovrebbero poggiare<br />

tutti gli altri enti. Tale idea è contraddittoria perché lascia sempre aperta la<br />

possibilità di mettere in dubbio la natura fondativa del presunto substrato. In<br />

sostanza, un ente per quanto perfetto, non può essere considerato il fondamento<br />

di altri enti.<br />

Heidegger allora interpreta la questione diversamente. Il suo pensiero “anti-<br />

metafisico” concepisce l’origine come physis come semplice “manifestazione”<br />

(qualcosa di non ontico per definizione), in questo modo si determina lo scarto<br />

essenziale tra l’ “ente” e l’ “essere”. L’ente “è”; L’essere non “è” ma “Si dà”<br />

nella manifestazione dell’ente. «Posto che l’iniziale governa al di là e prima di<br />

tutte le sue conseguenze, allora non è qualcosa che si trovi dietro di noi, bensì è<br />

quell’Uno e Medesimo che viene davanti a noi, verso di noi, in una misteriosa<br />

svolta». 127<br />

La differenza ontologica (a tutti i livelli nei quali è formulata da Essere e tempo<br />

fino a Tempo ed essere) è la chiave heideggeriana per andare oltre la metafisica;<br />

il tentativo di Essere e tempo si è arenato sulla configurazione esistenziale data<br />

all’essere, ma una volta recuperata la sua natura originaria, attraverso il concetto<br />

di physis, è possibile rifondare su basi solide un nuovo pensiero iniziale.<br />

Heidegger crede così di aver dato soluzione al duplice problema dell’approccio<br />

ontologico all’origine, e della natura originaria della ontologia. Detto altrimenti,<br />

127 GA 55 43; cfr. Schurmann, Dai principi all’anarchia, Il Mulino, 1995, pag. 351.<br />

112


egli pensa che l’unico modo di accostare il problema dell’origine (unico<br />

problema veramente importante per la filosofia) sia quello di partire<br />

dall’ontologia: è solo la ricerca intorno all’essere che può consentire di<br />

rispondere alla domanda sull’essenza dell’origine. I fallimenti degli approcci<br />

ontici della metafisica lo stanno a dimostrare. E viceversa, (oltre Essere e tempo)<br />

ritiene che l’ontologia debba porsi il problema dell’essenza del fondamento,<br />

direttamente senza mediazioni, in quanto l’ontologia per essere tale deve<br />

indagare l’originario, deve essere pensiero dell’ “inizio”.<br />

Allora, per Heidegger superare la via ontica dell’indagine intorno all’essere<br />

significa uscire dal soggettivismo e contestualmente dalla metafisica.<br />

Introducendo la dimensione storica egli rende “epocali” le chiavi della<br />

comprensione esistenziale (e pone su piani ben distinti il darsi ontico degli<br />

accadimenti e la loro condizione ontologica).<br />

La comprensione non è più progetto originario del Dasein, ma modalità di<br />

pensiero storica; e quindi le verità che si svelano nei diversi paradigmi epocali<br />

della storia, dipendono dalla verità del disvelamento “originario”. L’aletheia,<br />

come “svelamento-nascondimento” è ciò che l’essere manifesta di epoca in<br />

epoca. Il venire alla presenza assume un senso (una direzione) storico. L’essere<br />

quindi “accade” manifestandosi all’esistenza attraverso la sua storicità originaria.<br />

Ogni epoca si riconosce in una determinata manifestazione dell’essere. Ma<br />

l’apriori del darsi epocale è physis.<br />

La dimensione temporale dell’essere allora è originaria e non mediata<br />

dall’esistenza. L’essere e il tempo non sono più esistenziali, e la differenza<br />

ontologica viene a coincidere con una sorta di differenza temporale, perché la<br />

differenza tra essere e ente si dà proprio in chiave temporale: l’essere è il tempo<br />

che conferisce determinazioni epocali (storiche) agli enti (ai fatti, agli<br />

avvenimenti, alle opere, ecc.).<br />

In ogni epoca è riconoscibile una configurazione ontica dell’essenziale natura<br />

ontologica della physis. I “fatti”, gli “avvenimenti” della storia, sono i “luoghi”<br />

che caratterizzano le diverse epoche, e rappresentano i molteplici modi del darsi<br />

113


ontico dell’essere. Così ogni verità epocale “svela” e “copre” in modo ad essa<br />

peculiare. Ogni verità epocale mostra e nel contempo nasconde l’essere.<br />

Il tempio greco, la cattedrale medievale, la macchina moderna, sono derivazioni<br />

ontiche della verità ontologica, mentre l’essere in se stesso è astorico, è ciò che<br />

“lega” e “raccoglie” i diversi modi dell’accadere storico. È la condizione del<br />

darsi ontico delle epoche. La verità ontica è storica, la verità ontologica è<br />

astorica. L’una si fonda sull’altra, e contestualmente, l’una manifesta l’altra.<br />

La physis è ciò che raccoglie originariamente e che manifesta temporalmente. La<br />

verità si dà, si disvela a livello ontico proprio nel suo nascondersi ontologico.<br />

Ecco il senso nuovo in cui il “secondo” Heidegger determina il rapporto tra<br />

essere ed ente. L’essere allora rimane l’apriori dell’ente, ma in senso<br />

“temporale”, “storico”, non più esistenziale.<br />

È solo nella physis, come venire alla presenza, che si può “installare” l’alternarsi<br />

delle manifestazioni ontiche epocali. Ogni epoca è un diverso “stampo” del<br />

medesimo “essere”. L’essere non si dà nel tempo ma “è” tempo. Questa è<br />

l’architettura impostata da Heidegger dopo Essere e tempo. Questo è il percorso<br />

compiuto, grazie alla “svolta” , oltre l’Analitica esistenziale.<br />

Ma il radicamento puramente ontologico della questione dell’origine può forse<br />

toglierle la sua natura fondazionale? E la trasformazione del trascendentale da<br />

“soggettivo-esistenziale” a “storico-topologico” è sufficiente per uscire dal<br />

fondazionalismo? E’ possibile teorizzare l’esistenza di un trascendentale non-<br />

principiale?<br />

In altri termini, il cammino compiuto dagli anni trenta in direzione anti-<br />

soggettivistica ha veramente consentito di superare i limiti fondazionali di Essere<br />

e tempo? O meglio, si può veramente stabilire un’equivalenza tra soggettivismo e<br />

fondazionalismo?<br />

Heidegger ha compiuto sicuramente una “svolta”, nella seconda fase del suo<br />

pensiero, ma non così radicale da poter essere considerata come un<br />

oltrepassamento delle prerogative fondazionali.<br />

114


Egli continua a parlare di “condizioni” e di apriori, anche se cerca di mostrare la<br />

differenza tra una condizione ontologica, e una condizione ontica. Il<br />

fondazionalismo a suo parere sarebbe sconfitto, dalla via ontologica<br />

all’originario, sarebbe superato raggiungendo la dimensione essenziale<br />

dell’essere. Ma il raggiungimento dell’originario è proprio l’obiettivo che si sono<br />

posti tutti i pensatori che egli ha definito “metafisici”; ognuno di loro è partito<br />

dalle stesse sue premesse: smascherare il falso fondamento raggiunto dai suoi<br />

predecessori.<br />

Cosa conferirebbe all’indagine heideggeriana sull’ “origine originaria” un<br />

carattere anti-fondazionale?<br />

Egli reputa la filosofia la scienza dell’ “inizio”, ma giudica quelli trovati non<br />

sufficientemente “originari”: in che modo l’eventuale reperimento della vera<br />

origine, del vero inizio, può essere considerato una sconfitta del<br />

fondazionalismo?<br />

V) Fondamento come mondo<br />

Il concetto di principio è stato “declinato” in molti modi dal pensiero occidentale.<br />

Ogni filosofo ha cercato di emendare le lacune delle argomentazioni di chi lo ha<br />

preceduto. Ma l’esistenza di qualcosa chiamato “origine”, “fondamento”,<br />

“cominciamento” (eccetera) non è mai stata messa in questione. Questo è una dei<br />

concetti cardine della nostra cultura; come quelli di “giustizia”, e di “verità”,<br />

vengono inseguiti senza sapere precisamente in che cosa consistano. La “società<br />

giusta”, la “verità dell’esistenza”, l’ “inizio del mondo”, tutti problemi che<br />

preoccupano l’uomo da sempre, ma cosa significa ad esempio “società giusta”?<br />

Sono state date decine di risposte, e nessuna veramente soddisfacente. Lo stesso<br />

115


si può dire delle altre due questioni. Probabilmente esse sono il risultato<br />

dell’elaborazione teorica di assillanti esigenze umane. Alla fine l’uomo sente,<br />

manifesta e poi cerca di soddisfare le proprie esigenze, attraverso concetti<br />

assoluti. Ma in questo modo non si rischia di trasformarle in vuoti “slogan”? La<br />

ricerca della “Verità”, della “Giustizia”, del “Fondamento”, (e anche dell’<br />

“Origine”) non fa forse troppo affidamento sulle nostre scarse risorse?<br />

Il sistema di ricerca che tali questioni esigono è di tipo fondazionale. Si deve<br />

necessariamente trovare l’Uno, il “Principio”, l’ “Essere” il quale può garantire<br />

risposta a qualsiasi dubbio, a qualsiasi esigenza. Tutti i problemi devono essere<br />

ridotti al “Problema Fondamentale”, perché una volta risolto quello, si sono<br />

superati anche tutti gli altri.<br />

L’idea di “adeguazione” è sembrata, ad un certo punto, il metodo più efficace<br />

(ed era forse solo il più sbrigativo) per risolvere tale questione: se c’è un<br />

“principio” non resta che adeguarsi, il resto è “fallimento” ed “errore” (e ciò vale<br />

sia per la conoscenza che per la morale). Resta però il problema di comprendere<br />

che cosa sia, a cosa corrisponda questo “principio”. Gli sforzi di duemila anni di<br />

metafisica si sono infranti proprio su questo scoglio.<br />

Heidegger recupera la lezione della filosofia presocratica, tenta un approccio non<br />

ontico all’essere, ma in questo modo evidenzia solo le aporie di un certo modo di<br />

pensare l’origine, non l’aporia del pensiero fondazionale. Egli afferma<br />

esplicitamente di cercare un sostituto a quel modo di intendere il fondamento,<br />

non al “fondamento” in se stesso.<br />

La physis dei presocratici, infatti, non è un alternativa “ecologica” all’idea di<br />

fondamento. Rappresentare l’ “inizio” come origine, piuttosto che come principio<br />

(o archè), non toglie comunque l’esigenza di trovare un “inizio”. E il problema<br />

del fondazionalismo è proprio questo. Non è contraddittoria solo la<br />

configurazione data all’origine dalla metafisica, è contraddittoria l’idea stessa di<br />

“origine”, sia essa ontica o ontologica, sia esse ente o condizione “non-ontica”<br />

della manifestazione dell’ente. È l’architettura necessaria a questo tipo di<br />

approccio che va messa in questione. Se affermo un rapporto di dipendenza, di<br />

116


qualsiasi tipo, deve adottare una struttura gerarchica: dalla condizione verso il<br />

condizionato, dall’origine all’ “originato”. La struttura gerarchica deve avere un<br />

inizio e una fine, deve svilupparsi in senso verticale: da ciò che precede verso ciò<br />

che segue. E non è per nulla determinante in questo modello il carattere del<br />

vincolo (causale o “libero”) che lega i vari gradini, o i diversi passaggi. Il<br />

problema è che in una costruzione di questo tipo si deve definire, o raggiungere<br />

la cosiddetta “origine”. Ed è il concetto di “origine” ad essere poco chiaro.<br />

Heidegger, allora, superando il modo metafisico di dire l’origine ha solo fornito<br />

un’altra “declinazione” di quel sostantivo. Una declinazione che si è aggiunta<br />

alle altre, eliminando qualche problema e lasciandone irrisolti degli altri.<br />

La vera novità della speculazione heideggeriana, non sta allora nel suo modo di<br />

“dire l’origine”, ma nel concetto di mondo con tutte le varianti elaborate a<br />

cominciare da Essere e tempo.<br />

Il mondo, cioè il modo di dire l’essere nella relazione originaria tra l’esserci e<br />

gli enti, permette di superare la disgregazione prodotta dal pensiero moderno,<br />

permette di avviare un discorso sull’ “ecologia non fondata”, perché invalida<br />

l’idea del soggetto come substrato, e dell’essere come presenza. Esso permette di<br />

oltrepassare quel tipo di rapporto che si instaura tra soggetto e oggetto, come<br />

semplici enti separati.<br />

La possibilità dell’analisi ontologica è fornita proprio dall’idea di mondo, che<br />

dall’opera maggiore in poi ha ricevuto molte interpretazioni, ma che è sempre<br />

stata usata in chiave anti-metafisica. Attraverso un lungo cammino Heidegger le<br />

ha tolto qualsiasi valenza soggettivistica, e l’ha fatta diventare il riferimento<br />

ontologico discriminante della sua proposta filosofica.<br />

Ecco perché nell’ultima fase del suo pensiero egli riconsidera anche il concetto di<br />

differenza ontologica. Egli si avvede che contrapporre l’ “essere che trascende”<br />

all’ “ente trasceso” è ancora un modo “moderno” di concepire quel rapporto.<br />

117


Così nelle sue ultime opere, 128 egli riformula quel concetto con l’intento di<br />

togliergli qualsiasi valenza metafisica: non più la differenza e quindi la<br />

separazione tra l’essere e l’ente, ma relazione tra “mondo” e “cosa”.<br />

In altre parole, egli si rende conto della deriva dualistica dei tale “differenza” e<br />

cerca di superarla. Heidegger afferma: «Con l’evento dell’appropriazione diviene<br />

necessario liberare il pensiero dalla differenza ontologica. Nella prospettiva<br />

dell’evento dell’appropriazione questa relazione si dimostra ora come una<br />

relazione di cosa e mondo, relazione che, ad una prima approssimazione, e in<br />

qualche modo, potrebbe ancora venir intesa come relazione tra l’essere e gli enti;<br />

in questo caso, però, andrebbe perduta la sua caratteristica peculiare». 129 In<br />

questo modo, egli vuol marcare lo scarto tra la “differenza” ontologica intesa<br />

come “contrapporsi” di essere ed ente (la quale sta ancora dentro al paradigma<br />

metafisico perché fondata sulla trascendenza dell’essere rispetto all’ente, e quindi<br />

su una forma di dualismo), dalla relazione tra mondo e cosa.<br />

Da questa prospettiva il mondo avrebbe la funzione di oltrepassare la dimensione<br />

puramente trascendentale dell’essere, così da eliminare l’aspetto dualistico della<br />

differenza ontologica. Egli pensa al mondo come la condizione del “coseggiare<br />

della cosa”; il mondo è il contesto non isolato dalla cosa, ed insieme la possibilità<br />

della cosa stessa nel suo darsi. Il mondo si rivela nel suo “mondeggiare” proprio<br />

nella manifestazione della cosa. Il mondo è il “come della cosa”. Così che non si<br />

possa configurare nessuna separazione tra i due. Il tentativo è quello di passare<br />

oltre la differenza tra un trascendente e un trasceso, in modo che “a partire dal<br />

Medesimo e in vista del Medesimo, diciamo il Medesimo”. 130<br />

Il mondo perde ogni valenza esistenziale, nel senso che perde la sua funzione di<br />

trascendentale dell’esistenza (ma non quella di trascendentale tout court). Il<br />

mondo è la “contestualità” nella quale si dà la cosa, il quale però può sussistere<br />

128 In particolare, in Saggi e discorsi, La questione della cosa, La svolta, Tempo ed essere.<br />

129 M. Heidegger, Tempo e essere, Guida Editori, Napoli, 1998, pag. 147. Corsivo aggiunto.<br />

130 M. Heidegger, Tempo e essere, op. cit. pag 133<br />

118


solo nel darsi della cosa: tra i due si pone un rapporto di reciprocità. Il<br />

“mondeggiare” del mondo e il “coseggiare” della cosa si coimplicano.<br />

Questa è l’ultima tappa del cammino anti-metafisico di Heidegger, infatti è a<br />

questo punto che egli reputa di essersi finalmente liberato sia del dualismo<br />

moderno (nel senso che egli formula la differenza ontologica nei termini di una<br />

relazione che “parte dal Medesimo, in vista del Medesimo”), che del<br />

trascendentalismo soggettivista (il Dasein perde la sua centralità nella struttura, e<br />

diventa un semplice elemento del “gioco” tra cosa e mondo).<br />

Ma anche in questo caso egli non riesce ad emanciparsi definitivamente dal<br />

fondazionalismo in quanto continua ancora (nonostante la reciprocità), a<br />

intendere il mondo come apriori. Egli afferma esplicitamente che anche in questa<br />

situazione, il mondo rimane comunque la “condizione” del darsi della cosa;<br />

infatti è solo “quando noi lasciamo che la cosa si dispieghi nel suo coseggiare<br />

riunente a partire del mondo che mondeggia, che noi pensiamo alla cosa come<br />

cosa”. 131<br />

Allora, è chiaro che, ancora una volta, il rapporto che si instaura tra mondo e<br />

cosa è di dipendenza; La cosa è cosa solo in virtù del mondo. Nonostante la<br />

reciprocità, il mondo è capace di “auto-strutturarsi”, e la cosa invece si<br />

“costituisce a partire dal mondo”.<br />

Anche se viene cercato un contesto di reciprocità (che costituisce un elemento<br />

fondamentale per una prospettiva “ecologica”, non essendo più questa<br />

trascendenza un “altrove” rispetto alla cosa trascesa) il mondo rimane comunque<br />

un apriori, e quindi non viene conquistato (sempre in ottica “ecologica”) il<br />

congedo definitivo dalla metafisica.<br />

Riassumendo, si può dire che il pensiero di Heidegger attraversa tre fasi (nelle<br />

quali il mondo rimane sempre un concetto cardinale): durante il periodo di<br />

Essere e tempo, il mondo è visto come esistenziale del Dasein, quindi da un lato<br />

è struttura portante, dall’altro è funzionale all’esistenza (ecco quindi il suo<br />

131 M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1991, pag. 120. Corsivi aggiunti.<br />

119


oscillare tra realismo e idealismo). Esso garantisce la relazione originaria tra<br />

l’esserci e gli enti. Per questa via Heidegger inizia il percorso di allontanamento<br />

dal dualismo. Ma nonostante questo, siamo ancora all’interno di un<br />

trascendentalismo di tipo kantiano.<br />

Immediatamente dopo la “svolta”, il mondo diventa luogo storico della<br />

manifestazione dell’uomo, attraverso le epoche. Il mondo è la polis, il “ci” in cui<br />

e per cui l’esser-ci storicamente sussiste. Qui il rapporto viene ribaltato, non più<br />

il mondo come esistenziale in funzione del Dasein, ma l’esistenza che invece<br />

sussiste in virtù del mondo (della polis). In sostanza, la mossa del “secondo”<br />

Heidegger consiste nel rovesciare il rapporto di dipendenza tra i termini nello<br />

schema trascendentale.<br />

E infine il mondo diventa il “processo” del “mondeggiare”, attraverso il quale la<br />

cosa può “coseggiare”. In quest’ultimo stadio Heidegger cerca di instaurare la<br />

reciprocità tra cosa e mondo, per non essere ostaggio di nessuna forma di<br />

dualismo. Ma questa mutualità, nei fatti, si ferma di fronte all’apriorità del<br />

mondo; ed è a questo livello che si arena la sua battaglia contro la metafisica,<br />

perché in questa sede, e definitivamente, egli ripropone in termini radicali l’idea<br />

che l’ente (anche inteso come “cosa”) può sussistere solo in virtù del mondo, e<br />

cioè egli, per l’ultima volta, configura un rapporto di dipendenza tra ciò che<br />

permette e ciò che viene permesso. Per l’ultima volta egli sfiora l’istanza<br />

“ecologica”, ma la lascia cadere per salvare l’apriorismo.<br />

Queste, a grandi linee, sono le tappe che documentano il progressivo<br />

allontanamento di Heidegger dal soggettivismo, e quindi la progressiva<br />

trasformazione dell’apriori, da trascendentale esistenziale a condizione d’essere<br />

della “cosa”: «L’apriori è il titolo dell’essenza della cosa. Al modo in cui viene<br />

afferrata la cosità della cosa e viene inteso l’essere degli enti, allo stesso modo si<br />

interpretano l’apriori e la sua apriorità». 132<br />

132 M. Heidegger, La questione della cosa, Guida Editori, Napoli, 1989, pag 186.<br />

120


Ma allo stesso tempo l’evoluzione del suo pensiero mostra che l’apriori cambia<br />

ma non scompare. Resta confermato fino alla fine che Heidegger cerca<br />

condizioni e fondamenti (anche se non-principiali), al darsi delle cose.<br />

Ciò sta a indicare che egli non vuole liberarsi della struttura gerarchica, e si<br />

limita invece a distinguere tra un apriorismo soggettivistico, e un apriorismo anti-<br />

soggettivistico. Superare il primo per Heidegger significa uscire dalla metafisica<br />

e quindi dal fondazionalismo. Mentre, la cifra caratteristica di ogni<br />

fondazionalismo sta proprio nell’impianto “gerarchico” dell’argomentazione. E<br />

anche l’ultimo apriori di Heidegger (il mondo che “mondeggia”) non sfugge a<br />

questo schema.<br />

Per andare oltre il fondazionalismo si deve rifiutare qualsiasi rapporto di<br />

dipendenza, e quindi ogni tipo di apriori. L’idea che una cosa sia “in funzione”<br />

di un’altra è sempre “fondazionalismo”. Postulare la necessità di un’origine è<br />

come credere nell’esistenza di un fine.<br />

La causa efficiente “spinge”, la causa finale “tira”, entrambe sono varianti della<br />

logica lineare-sequenziale e del fondazionalismo. Se al posto delle cause pongo<br />

gli apriori la situazione non cambia: distinguere l’origine che non vincola<br />

rispetto a quella che vincola serve per uscire dal determinismo non dalla logica<br />

fondazionale.<br />

Anche il “fondamento che non costringe” continua ad essere un “fondamento”. Il<br />

tipo di relazione che lega gli elementi è una cosa diversa dagli elementi della<br />

relazione. Se affermo che l’origine “A” non “determina” l’esito “B”, rinuncio ad<br />

un certo tipo di legame, quello causale, non alla dipendenza e alla<br />

consequenzialità tra “A” e “B”: “A” rimane sempre l’inizio, e “B” resta il suo<br />

risultato. L’elemento B “è” sempre in funzione del suo apriori. “A” è condizione<br />

dell’esistenza di “B”, anche se non lo “determina”, perché tra loro si instaura una<br />

relazione lineare, che va da un termine verso l’altro. Questo è un esempio di<br />

relazione “gerarchica”. E la ger-“archia” è la struttura che va da un’ archè verso<br />

le sue “conseguenze”.<br />

121


L’alternativa al fondazionalismo è la reciprocità, solo attraverso la quale è<br />

possibile rinunciare a qualsiasi apriorismo (la reciprocità vera, non quella che<br />

prevede comunque l’esistenza di un apriori). Per sostituire la struttura gerarchica<br />

si deve adottare una struttura simmetrica, per eliminare la sequenzialità si deve<br />

optare per la mutualità.<br />

L’alternativa “ecologica” al fondazionalismo consiste allora nel sostituire alla<br />

struttura gerarchica, che viene inevitabilmente ad assumere una argomentazione<br />

di tipo trascendentale, una struttura simmetrica, che sia priva di “origine”, e di<br />

“fine”, che sia senza elementi permanenti o separati, e che non preveda alcuna<br />

relazione di dipendenza. Per sconfiggere la teleologia e il causalismo, bisogna<br />

rinunciare alla logica sequenziale, e per riuscirci, si devono configurare solo<br />

relazioni di reciprocità “totale”.<br />

122


PARTE SECONDA<br />

La relazione secondo Dewey<br />

qualche nota sul concetto di “transazione”<br />

Primo capitolo: l’ olismo nell’epistemologia di Dewey<br />

I) Mutualità tra uomo e natura<br />

Per Dewey esiste una relazione di dipendenza reciproca tra l’uomo e il suo<br />

ambiente: nel senso che non ci sarebbe un “ambiente” senza l’ “uomo”, e non<br />

esisterebbe neppure l’ “uomo” senza il suo “ambiente”. Si può dire allora che<br />

l’uomo “è” in virtù della relazione fondamentale che ha instaurato, nella storia,<br />

col suo “contesto”.<br />

Dewey scrive: «L’esperienza è tanto della natura quanto nella natura». 133 Ciò<br />

significa che, la distinzione netta, operata dai razionalisti, tra soggetto conoscente<br />

e oggetto conosciuto è arbitraria e artificiale. Non ci può essere un soggetto<br />

autonomo e indipendente che osserva la natura dall’esterno.<br />

È ingenuo sostenere che la natura è qualcosa di dato, o che è governata da leggi<br />

immutabili, le quali devono solo essere “scoperte” da quell’osservatore esterno<br />

che si chiama uomo.<br />

L’esperienza è molto più complessa di come la pensavano i moderni; essa non è<br />

l’ “incontro” tra due enti indipendenti e autonomi, cioè non è solo “esperienza<br />

della natura” (genitivo oggettivo). Tenendo conto che noi cresciamo nella<br />

133 J. Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano, 1990, pag. 21.<br />

123


natura, e che essa ci condiziona, possiamo sostenere che la osserviamo da<br />

dentro, non da fuori: la nostra è allora, esperienza “della-natura-nella-natura”.<br />

Per Dewey, non si deve dimenticare che, l’osservazione non è il modo originario<br />

del fare esperienza, infatti precedente, e più importante è la “manipolazione”<br />

degli oggetti, “il fare” con le cose; cioè l’uomo prima di essere un animale<br />

riflessivo è un animale produttivo. L’uomo è immerso nella natura non ne può<br />

prescindere e tuttavia è in grado di interagire con essa a proprio vantaggio.<br />

Prioritario per l’uomo è l’adattamento all’ambiente, il miglioramento delle<br />

proprie condizioni di vita piuttosto che la mera “contemplazione speculativa”. 134<br />

L’uomo agisce nella natura, modificandola e usandola. Egli è utilizzatore, ma<br />

non utilizzatore “soggetto” di un mezzo “oggetto”, come pensavano i moderni.<br />

Egli, immerso nella natura, stabilisce relazioni che fanno essere anche il presunto<br />

strumento un fine. 135<br />

La natura, a sua volta, non è estranea all’uomo ma è fonte di relazioni<br />

strumentali volte al perseguimento di obiettivi. Tra uomo e natura si crea quindi<br />

un tipo di rapporto bilaterale che potrebbe essere definito di osmosi reciproca.<br />

Per capire cosa Dewey intende quando parla di relazione tra uomo e natura è<br />

forse utile usare un esempio celeberrimo tratto dalla storia del pensiero<br />

scientifico: prima della formulazione della teoria della Relatività generale<br />

nessuno si era mai preoccupato della deviazione che i raggi di luce subiscono in<br />

prossimità delle stelle, anzi non la si riteneva nemmeno una cosa possibile. Un<br />

134<br />

Bisogna ricordare l’enorme influsso che l’Evoluzionismo esercitò sul pensiero del filosofo<br />

americano.<br />

È curioso peraltro osservare che il 1859 è sia l’anno di pubblicazione dell’opera di Darwin L’origine della<br />

specie, che quello di nascita di Dewey.<br />

135 Già a questo punto sarebbe interessante confrontare il concetto di “utilizzabilità” di Heidegger con<br />

quello di “manipolazione” di Dewey. Sarebbe interessante analizzare il motivo per il quale due modi di<br />

far filosofia così diversi arrivino ambedue a considerare precedente la natura strumentale del “mezzo” che<br />

la presenza dell’ “ente”.<br />

Probabilmente, ciò è dovuto al fatto che entrambi adottano una prospettiva anti-metafisica, e diventa<br />

quindi conseguente l’attacco all’idea di “presenza”. Su tale aspetto ci si potrebbe dilungare molto, ma si<br />

rischierebbe di allontanarci dalle cose che stiamo trattando; infatti qui – è bene precisarlo – non è a tema<br />

il confronto tra questi due pensatori. Non si è mai pensato a nessun tipo di paragone. Heidegger e Dewey<br />

rappresentano, a nostro modo di vedere, le due maniere più originali ed efficaci di combattere il dualismo<br />

e il fondazionalismo, che siano state proposte dalla filosofia del ventesimo secolo. Ed è solo per questo<br />

motivo che essi trovano posto in questo scritto.<br />

124


“fatto” simile non era mai stato osservato; 136 mentre, dopo la pubblicazione di<br />

questa scoperta, esso divenne un “esperimento cruciale”; eppure si trattava<br />

sempre di quello stesso “fatto”, che in precedenza non aveva mai destato alcun<br />

interesse.<br />

La relazione uomo-natura era cambiata, la teoria della Relatività generale<br />

consentiva di guardare ad un mondo diverso rispetto a quello conosciuto sino ad<br />

allora. Einstein stesso non aveva mai osservato quel fenomeno, fu il suo<br />

pensiero, la sua teoria a farlo diventare importante.<br />

E sulla scorta di argomenti come questo, il filosofo americano pensa alla non<br />

oggettività di res cogitans e res extensa: esse non sono entità immutabili e<br />

separate come sosteneva Descartes ma c’è, invece, tra loro una relazione<br />

dinamica, e “osmotica”.<br />

Dewey afferma che il nostro modo di guardare il mondo non è oggettivo, la<br />

relazione tra il soggetto osservatore e l’oggetto osservato non è neutra; insomma,<br />

noi non guardiamo il mondo così come esso è, ma più propriamente noi il mondo<br />

lo “interpretiamo”, nel senso che ci sono diversi “filtri” che ci impediscono di<br />

guardarlo in modo “trasparente”. Tali filtri sono il linguaggio, l’educazione, la<br />

tradizione, la cultura ecc..<br />

Egli osserva che tali indicazioni sono emerse studiando la società: «Soltanto<br />

l’analisi sociale dimostra che i modi in cui noi crediamo e aspettiamo hanno<br />

un’influenza fortissima su ciò che crediamo e aspettiamo. Abbiamo infine<br />

scoperto che questi modi vengono posti in essere, quasi inevitabilmente, da<br />

fattori sociali, dalla tradizione e dall’influenza dell’educazione. Così, noi<br />

scopriamo che si crede a molte cose non perché quelle cose siano così, ma perché<br />

siamo diventati abituati ad esse, sotto il peso dell’autorità, dell’imitazione, del<br />

prestigio, dell’istruzione, dell’inconscio effetto del linguaggio». 137<br />

136 E probabilmente anche se fosse stato osservato sarebbe stato ritenuto o un anomalia o un fenomeno<br />

di nessuna importanza.<br />

137 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 30<br />

125


Ciò significa che, alla radice della separazione moderna tra soggetto e oggetto sta<br />

un’errata idea del concetto di esperienza, la quale viene intesa come qualcosa di<br />

secondario e derivato rispetto alle operazioni del pensiero e agli stati mentali.<br />

Tale divaricazione, è fittizia, artificiale, e alla fine “comoda” perché consente di<br />

far quadrare un sistema filosofico – quello razionalistico – che altrimenti non<br />

funzionerebbe.<br />

Per Dewey la parola esperienza ha “due facciate in quanto, nella sua primaria<br />

integrità non riconosce alcuna divisione tra atto e materiale, soggetto e oggetto,<br />

ma li contiene entrambi in una totalità non analizzata”. 138 Il passo è<br />

particolarmente importante perché enuncia una della idee fondamentali del<br />

pensiero di questo filosofo, e cioè, che il rapporto tra soggetto e oggetto non è<br />

causale-sequenziale, ovvero non c’è un soggetto definito in sé ab origine nella<br />

sua integrità, che fa esperienza della natura, ma “si” dà esperienza dell’ “io” e<br />

delle cose contestualmente, esse sono reciprocamente correlate, non è possibile<br />

l’una senza l’altra, quindi il soggetto perde la sua funzione di centro motore del<br />

pensiero e dell’esperienza, e diventa anch’esso frutto di ciò che “si” esperisce.<br />

Per Dewey c’è un’esperienza primaria, la quale è il nostro originario contatto col<br />

mondo, e il primo e costitutivo rapporto tra uomo e natura; segue poi un<br />

esperienza secondaria, frutto della riflessione e del pensiero. Tra le due non c’è<br />

separazione netta, ma continuo scambio, “infatti in ogni oggetto dell’esperienza<br />

primaria ci sono sempre delle potenzialità che non sono esplicite; ogni oggetto<br />

manifesto è carico di possibili conseguenze nascoste; anche l’atto più esplicito<br />

contiene dei fattori non espliciti”. 139<br />

138 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 27<br />

139 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 35<br />

La separazione tra un’esperienza primaria e una secondaria però, può essere considerata un elemento di<br />

continuità con il dualismo, perché l’esperienza primaria viene a configurarsi come una sorta di apriori nei<br />

confronti di quella secondaria. In questo modo si determina un rapporto di “derivazione” pericolosamente<br />

vicino a quelli “postulati” dai filosofi moderni. Da un lato quindi, si può apprezzare lo sforzo di uscire<br />

dalla “prigione moderna”, fatta di soggetti e oggetti, cause e fondamenti, dall’altro si deve ammettere che<br />

tale tentativo non è completamente riuscito (come vedremo meglio in seguito).<br />

126


Dewey definisce il suo metodo filosofico “empirico” e sostiene che esso è<br />

l’unico che può render ragione di questa inclusiva integrità dell’esperienza. In<br />

alte parole, se da un lato i moderni partono dalla opposizione tra natura e<br />

pensiero, egli invece li concepisce come un’ “originaria totalità”. Totalità che si<br />

crea a livello di esperienza primaria, quando non siamo in grado di distinguere<br />

ciò che è “io” da ciò che è “natura”, ciò che dovrebbe essere “interno” da ciò che<br />

dovrebbe essere “esterno”.<br />

Lo sforzo che deve essere fatto, allora, è di “riunificare” tutto quello che secoli di<br />

pensiero filosofico hanno pervicacemente tenuto separato. Si tratta di pensare alla<br />

divisione interno-esterno, esperienza-natura, non come un “dato”, non come un<br />

inconfutabile aspetto della realtà, ma solo alla stregua di un’idea espressa da una<br />

determinata scuola filosofica. 140<br />

II) Il pensiero umano tra mito e filosofia<br />

Dewey considera la metafisica un prodotto storicamente collocato. Essa ha<br />

sostituito la magia e il mito come strumento degli uomini per difendersi dalla<br />

precarietà e dall’instabilità dell’esistenza umana e della natura. L’uomo vive<br />

nell’incertezza e nella paura, in balia degli eventi, quindi è naturale che sia alla<br />

continua ricerca di ordine e di stabilità. La filosofia si pone il compito di trovare<br />

quell’ordine che la natura sembra nascondergli. 141 Essa allora, non dipinge la<br />

realtà com’è in sé, ma appone alla natura la configurazione preferita, quella che<br />

140 Resta il fatto che la riunificazione qui proposta porta ad una “rottura” tra due tipi di esperienze, che<br />

potrebbero causare una altrettanto problematica separazione.<br />

141 Anche qui si nota l’impostazione evoluzionistica del suo pensiero<br />

127


corrisponde meglio all’esigenza di fissità. Così si crea la separazione (del tutto<br />

artificiale) tra il transeunte e l’immutabile; il primo, dominio della “gretta”<br />

esperienza, il secondo, patrimonio della “nobile” ragione. La filosofia quindi<br />

separa il conoscibile in due parti, da un lato mette ciò che considera dominio<br />

della razionalità, il carattere vero del cosmo –l’essere – dall’altra pone<br />

“l’immediato”, ciò che appare a prima vista, che viene considerato il regno<br />

dell’opinione. 142 Dewey considera questo un “trucco classificatorio” basato sul<br />

desiderio, e messo in atto dall’immaginazione riflessa. Infatti, la storia della<br />

metafisica parte dalla distinzione netta tra episteme e doxa, e continua con altre<br />

distinzioni, tutte dello stesso tenore: lo spirituale contrapposto al materiale,<br />

l’assoluto al relativo, il trascendentale al positivo, l’ideale all’empirico, ecc..<br />

Allora, “filosofie diverse possono essere considerate modi differenti di fornire<br />

formule che neghino all’universo quel carattere di contingenza che esso<br />

possiede”. Ciò che viene eliminato – essendo per definizione escluso dalla<br />

“realtà” – viene assegnato ad un grado inferiore dell’essere, appunto quello<br />

empirico.<br />

“Uno degli aspetti più caratteristici del pensiero filosofico è la ricorrente<br />

associazione dell’unità, della permanenza (ovverosia dell’“eternità”), della<br />

compiutezza col pensiero razionale, mentre da un altro alto vengono associati il<br />

molteplice, il mutamento e ciò che è temporale, parziale, manchevole, la<br />

sensibilità e il desiderio”. 143<br />

La metafisica non è, allora, la ricerca della verità ultima dell’essere, ma una<br />

discendente del mito; tra mito e filosofia non c’è una differenza di genere ma<br />

solo di specie. Nella via intrapresa dall’umanità per esorcizzare l’angoscia e lo<br />

smarrimento di fronte all’incertezza, alla provvisorietà e alla drammaticità del<br />

142 Questa naturalmente è una critica nemmeno molto velata alla opposizione platonica tra conoscenza<br />

razionale e opinione.<br />

143 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 64<br />

128


nostro vivere, la filosofia è solo un mezzo più sofisticato rispetto a quelli<br />

concepiti precedentemente.<br />

Dewey allora considera il pensiero come un processo di evoluzione attraverso il<br />

quale l’uomo si è prima appellato a forze magiche ed ha costruito miti che, una<br />

volta caduti, ha cercato di rimpiazzare con altre idee rassicuranti quali<br />

l’immutabilità dell’essere, il progresso universale, la razionalità inerente<br />

dell’universo, l’universo regolato da leggi necessarie e universali.<br />

Dewey scrive che la maggior parte dei sistemi filosofici tradizionali pone e pensa<br />

la “realtà”, come statica e definitiva, assoluta ed eterna, con un intento<br />

consolatorio. Queste filosofie sono, per Dewey, filosofie della paura,<br />

ipersemplificatorie e deresponsabilizzanti. Esse trasformano un elemento della<br />

realtà nella realtà nella sua totalità, confinando così nell’apparenza (nel<br />

secondario, epifenomenico, illusorio) tutto ciò che non risulta compatibile con il<br />

loro rispettivo schema di immutabilità, di ordine di razionalità, di necessità;<br />

mentre, per il filosofo americano, la conoscenza è un processo di indagine che<br />

consiste in una forma di adattamento all’ambiente. La conoscenza è una pratica<br />

che mira al successo, che si pone, l’obiettivo di risolvere problemi. Il processo<br />

conoscitivo non è allora contemplazione, ma partecipazione alle vicissitudini di<br />

un mondo da cambiare e riorganizzare senza sosta.<br />

Si coglie così lo “strumentalismo” di Dewey. L’uomo è immerso nel mondo e<br />

nello stesso tempo agisce, non contempla il mondo. La relazione che si viene a<br />

creare è “biunivoca” e “osmotica”. Le idee sono interpretate come strumenti utili<br />

a risolvere problemi, hanno sempre uno scopo pratico, devono essere “fruibili”. È<br />

per questo che non ha senso riferirsi alle idee in termini di verità o di falsità. Le<br />

idee possono essere efficaci, dannose, economiche, non vere o false.<br />

È chiaro il tentativo di rompere con la tradizione “metafisica”. Dewey considera<br />

il dualismo “soggetto-oggetto” il risultato di una determinata impostazione di<br />

pensiero, che deve essere superata per poter ottenere strumenti più validi, più<br />

efficaci, nell’affrontare le difficoltà che ci assillano.<br />

129


Per Dewey, non ci sono realtà immutabili o verità eterne da ricercare e da<br />

contemplare. Le idee devono essere utili; si pensa, e quindi si fa filosofia per<br />

risolvere problemi, non per cercare di consolarsi al cospetto di enti immutabili<br />

ed eterni.<br />

III) Il linguaggio<br />

In questo contesto, il linguaggio assume una posizione fondamentale. Dewey<br />

afferma che l’esperienza umana è possibile solo grazie al linguaggio. Senza il<br />

linguaggio la realtà di fronte a noi avrebbe l’aspetto di un magma indistinto, o di<br />

qualcosa di insignificante. La nostra relazione col mondo è possibile solo in virtù<br />

delle parole che usiamo.<br />

Le parole quindi possiedono una natura funzionale, “sono” in virtù delle cose che<br />

denotano, e a loro volta, le cose “sono” grazie alle parole che le mostrano. Il<br />

linguaggio allora esprime relazioni, il linguaggio è relazione.<br />

Dewey attacca l’idea che del linguaggio avevano i moderni, i quali crearono una<br />

frattura tra il mentale e il reale, tra interno ed esterno, pensando che il mondo<br />

interno avesse una esistenza autonoma e indipendente rispetto al mondo esterno,<br />

e che anzi lo precedesse.<br />

Secondo il razionalismo e l’empirismo le istituzioni sociali (tra le quali il<br />

linguaggio) sono un prodotto del pensiero umano, cioè sono il risultato di una<br />

specifica attività mentale originaria. Per la filosofia moderna l’uomo nasce con<br />

un propria facoltà di pensiero autonoma rispetto al linguaggio. L’uomo pensa e<br />

poi comunica il pensato. Così la relazione tra la realtà e il pensiero è non-<br />

discorsiva. La lingua serve solo a trasportare il flusso dei pensieri, un po’ come i<br />

tubi portano l’acqua dalla sorgente al rubinetto. Quindi, il linguaggio ha la<br />

130


funzione di esprimere pensieri già completamente articolati nella mente. Di<br />

conseguenza, la configurazione delle idee diventa una misteriosa realtà parallela<br />

che si accompagna, agli eventi fisici, senza che tra i due ordini vi sia alcuna<br />

comunicazione e alcuna relazione reciproca. Da ciò emerge l’insanabile dualismo<br />

tra le entità mentali e gli enti reali.<br />

In che modo viene a costituirsi la relazione tra queste due categorie di enti? Sono<br />

classi entrambe originarie, o c’è un rapporto di dipendenza dell’una rispetto<br />

all’altra? Se si, qual è l’originaria? Ma non è contraddittorio porre una relazione<br />

temporale tra questi due ordini della realtà?<br />

È a questi interrogativi che i filosofi moderni hanno cercato di rispondere. Il<br />

“dualismo” è il problema che ha occupato gran parte dei filosofi da Cartesio in<br />

poi.<br />

I pensatori moderni si sono trovati in difficoltà proprio per aver sostenuto<br />

l’esistenza di tali entità mentali, e poi per aver inteso il linguaggio come un<br />

semplice mezzo di “trasporto” neutrale nei confronti degli oggetti che<br />

trasportava.<br />

Questa concezione ha portato allo scetticismo di Hume, il quale non vedeva<br />

come, in questa situazione, l’uomo potesse dire qualcosa di sicuro sulla natura;<br />

Se l’ordine del mentale è indipendente rispetto all’ordine del reale, non esiste,<br />

per il filosofo inglese, alcun legame necessario tra i due. Diventa quindi<br />

impossibile ottenere una conoscenza certa dell’oggetto indagato. Kant, cercò di<br />

far fronte alle obiezioni di Hume rendendo “problematico” il concetto di “realtà”,<br />

attraverso la separazione tra “fenomeno” e “noumeno”. In questo modo però, egli<br />

sostituì un dualismo con un altro.<br />

Hegel considerava artificiosa la divisione kantiana tra mondo fenomenico e<br />

mondo noumenico, ma l’alternativa proposta consisteva nella teorizzazione di<br />

entità “assolute”, come il pensiero e lo spirito, e la postulazione dell’identità tra<br />

reale e razionale.<br />

L’idealismo assoluto di Hegel non rappresenta per Dewey che un primo passo,<br />

un’indicazione di percorso, ancora infarcita dei preconcetti dell’impostazione<br />

131


moderna. Egli ha apprezzato, nei primi anni della sua carriera il pensiero<br />

hegeliano, proprio in virtù del suo impianto dialettico, tendente a raggiungere “la<br />

totalità finale”, ma con l’andar del tempo si è reso conto dell’enorme debito che<br />

il filosofo tedesco doveva ancora scontare nei confronti del sistema dualistico<br />

cartesiano, soprattutto riguardo alla tematica del linguaggio.<br />

Per Dewey, non si può prescindere da un adeguato approfondimento del rapporto<br />

tra realtà e linguaggio. Se gli si dà il giusto peso, se si comp rende il suo carattere<br />

strumentale, e la sua origine sociale, comunitaria, storica, si coglie nella giusta<br />

maniera il rapporto esistente tra pensiero e realtà, e si capisce che esse non sono<br />

cose autonome, né sono entità astrattamente coincidenti, ma stanno in rapporto di<br />

reciproca dipendenza.<br />

La loro relazione è analizzabile solo storicamente, ogni civiltà ha conosciuto e<br />

conosce il mondo in base al linguaggio che aveva ed ha a disposizione (quindi<br />

esso non è neutrale rispetto al pensiero, anzi non può darsi pensiero senza<br />

linguaggio); e il linguaggio è il risultato della convivenza, e della interazione<br />

sociale, non qualcosa di interno o mentale. Ciò perché il comportamento umano<br />

è, per Dewey, “cooperativo”, nel senso che “la reazione umana all’azione<br />

dell’altro include una contemporanea reazione ad una “cosa”, in quanto essa<br />

entra a far parte del comportamento dell’altro e questo da entrambe le parti”: la<br />

relazione è quindi triangolare, ci sono i due interlocutori, e la cosa che essi<br />

condividono; i significati, e la comunicazione, possono sorgere solo in virtù di<br />

questa relazione “osmotica” tra i tre vertici del triangolo. Ma la relazione è anche<br />

“temporale”, nel senso che la triangolazione non è data una volta per tutte, ma si<br />

realizza, e si “implementa” nel tempo; cioè, la griglia persone-cose è un continuo<br />

farsi, è un work in progress: la sua denotazione è sempre la stessa (è sempre<br />

“griglia” o se si vuole “triangolo”), però cambia continuamente la sua<br />

connotazione (la configurazione di tale griglia è in continuo divenire).<br />

Il sistema che qui si viene a delineare è “autopoietico”, nel senso che, le relazioni<br />

che lo costituiscono e lo formano non vengono prodotte dall’esterno ma sono di<br />

132


origine interna. Tale sistema è “autoreferenziale”, vale a dire, che provvede da<br />

solo al suo equilibrio, non ha bisogno di un organizzatore esterno.<br />

Dewey dice che: «Il cuore del linguaggio non è “l’espressione” di qualcosa di<br />

antecedente, meno che mai l’espressione di qualche pensiero antecedente. Il<br />

linguaggio è comunicazione; l’instaurarsi di un rapporto di cooperazione in una<br />

attività in cui ci sono degli agenti compartecipi e in cui l’attività di ciascuno<br />

viene modificata dalla partecipazione». 144<br />

Si intuisce la radicale novità della posizione di questo pensatore rispetto alla<br />

filosofia moderna. Non ci sono più soggetti autonomi che si relazionano usando<br />

un linguaggio neutro all’interno di un mondo oggettivamente dato, ma i<br />

protagonisti della scena si co-implicano e si co-dedeterminano. La struttura della<br />

realtà diventa relazionale; viene superata l’idea di soggetto e di oggetto, e il<br />

conseguente dualismo, in virtù della funzione relazionale del linguaggio, e della<br />

sua genesi sociale.<br />

Tanto più che, tra gli eventi fisici che hanno come propria condizione il<br />

linguaggio, c’è anche l’esperienza che si fa di sé stessi. L’ “io pensante”, l’incipit<br />

supremo e invalicabile, l’estrema certezza cartesiana e di tutti i suoi seguaci,<br />

diventa anch’esso il frutto di una “attività”. Dire “io penso”, per il filosofo<br />

americano, è un modo errato di esprimersi, sarebbe più corretto dire “si pensa”.<br />

Dire “io penso” non significa affermare che l’io crea un pensiero, piuttosto è<br />

avanzare una pretesa, secondo la quale l’io identifica sé stesso (in quanto né<br />

accetta le conseguenze) con una credenza di origine esterna e indipendente.<br />

Questo risulta chiaro, afferma Dewey, se noi analizziamo espressioni come “io<br />

non penso”, “io non credo”, nelle quali è contenuta una relazione di<br />

incompatibilità fra due oggetti distinti e denotati. In sostanza, quando io affermo<br />

di non credere a qualcosa è ovvio che mi riferisco ad un contenuto che non<br />

faceva originariamente parte del mio pensiero, che quindi era ad esso “esterno”, e<br />

144 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 98<br />

133


dicendo “non credo” stabilisco un relazione con questo “oggetto esterno”. 145<br />

Pensare allora non è creare pensieri, ma è “mettere in relazione”.<br />

E non si tratta di mettere in relazione oggetti (sostanze) mentali con oggetti<br />

dell’ambiente, (oggetti “interni” con oggetti “esterni”) ma la relazione si pone<br />

sempre tra entità linguistiche, che certamente non provengono dall’esterno, ma<br />

che non sono nemmeno interne: esse semplicemente non hanno un luogo di<br />

collocazione (proprio perché non sono sostanze). Non sono entità interne perché<br />

l’idea di una mente che contiene parole e pensieri in modo del tutto autonomo<br />

rispetto all’ambiente, implica l’esistenza del linguaggio privato, e riduce quindi il<br />

linguaggio a una creazione esclusivamente dell’individuo; e in più, presuppone<br />

che le parole siano riferite a sostanze, e/o siano esse stesse sostanze.Tutte cose<br />

che Dewey contesta radicalmente. 146<br />

IV) Assonanze interdisciplinari<br />

È comunque interessante notare la corrispondenza di questo modo di vedere le<br />

cose con le idee che si stavano sviluppando in quel periodo, all’interno della<br />

cosiddetta “nuova antropologia”. Studiosi come Boas, Malinowski, Sapir, Whorf<br />

cominciano a criticare l’idea che l’osservatore sia in grado di conoscere i popoli<br />

che sta studiando (l’oggetto di studio) con assoluta obiettività. 147<br />

Ciò che essi propongono come elemento caratterizzante del loro criterio di<br />

indagine è il radicale mutamento della posizione dell’osservatore. Essi<br />

145 Dire “oggetto esterno” al pensiero significa affermare che tale oggetto non è stato pensato fino a un<br />

determinato momento.<br />

146 Come è noto, l’idea dell’esistenza di un “linguaggio privato” è stata criticata con grande efficacia e<br />

persuasività anche da Wittgenstein.<br />

147 Criticavano cioè la cosiddetta teoria etnocentrica.<br />

134


sostengono che lo studioso non può non tener conto del “punto di vista”<br />

dell’osservato. Non si tratta più di studiare un fenomeno, ma di partecipare,<br />

vivere, comprendere una cultura diversa dalla propria. Si deve partire dal<br />

concetto di scambio: non si tratta di “assimilare” e magari poi “acculturare” una<br />

civiltà “inferiore”, ma di creare una relazione “osmotica”, “biunivoca”, cioè, di<br />

scambio reciproco. Malinowski parla di “osservazione partecipante”, nel senso<br />

che tra osservatore e osservato non si può prescindere da una reciproca influenza.<br />

Ciò porta a riconoscere la parzialità del proprio punto di vista, e la impossibilità<br />

di raggiungere un sapere oggettivo sulla civiltà studiata.<br />

In questo modo, si mette in discussione proprio l’atteggiamento moderno che<br />

concepisce la realtà come un oggetto di studio neutrale rispetto al soggetto<br />

indagatore. In altri termini, anche l’antropologia avverte tutti i limiti di<br />

quell’approccio. Così diventa fondamentale studiare i rapporti esistenti tra<br />

cultura, linguaggio e ambiente sociale. Boas, per primo, mette in evidenza i<br />

rapporti esistenti tra linguaggio e visione del mondo. Malinowski riconosce la<br />

funzione pragmatica e contestuale della parola. Whorf afferma che ogni lingua<br />

possiede caratteristiche costruttive universali. Egli arriva a dire che ogni lingua<br />

contiene una “metafisica nascosta”. Il che conduce a sostenere che la lingua di un<br />

popolo riflette la sua visione del mondo, e quindi che “parlare lingue diverse<br />

significa vivere realtà diverse”. Si configura così l’ipotesi che lo “sguardo<br />

scientifico” non sia prerogativa solo del mondo occidentale e che le modalità con<br />

cui ogni popolo classifica e conosce la realtà abbia legittimità di sapere.<br />

Un ulteriore passo viene compiuto dall’ “antropologia interpretativa” di Clifford<br />

Geertz, il quale sostiene che non c’è contraddizione tra sapere nomotetico e<br />

sapere idiografico, si tratta invece di riconoscere questa polarità e di assumerla<br />

all’interno del processo di ricerca, che così diventa “comprensione” e capacità di<br />

mediare le polarità. Ciò significa che, mentre indaga le espressioni altrui,<br />

l’antropologo deve tener presente il senso del proprio pensiero. Deve osservare<br />

l’altro partecipando “empaticamente” al suo sistema di significati, ma al<br />

contempo, deve riconoscersi osservatore distaccato portatore dei propri<br />

135


significati. In questo gioco di “rimandi”, l’antropologo “costruisce” una<br />

“descrizione densa” dell’oggetto della propria ricerca e dei modi in cui essa si<br />

svolge; così la traduzione cercata mantiene sempre una certa indeterminazione: il<br />

significato non è già dato ma viene prodotto nella stratificazione delle<br />

interpretazioni. 148<br />

Non è importante qui stabilire se sia la cultura che influenza il linguaggio, o<br />

viceversa, il linguaggio che influenza la cultura (questa era la polemica sorta tra<br />

Boas e Whorf), oppure discutere sul presunto relativismo sotteso da tali<br />

posizioni. Basta far notare l’analogia con la posizione deweyana. 149<br />

Anche questi antropologi pongono l’accento sulla natura reticolare, relazionale<br />

della realtà, e sulla funzione che in tale contesto viene ad assumere il linguaggio.<br />

Ogni uomo apprende, conosce grazie ad un linguaggio acquisito, il quale è a sua<br />

volta il risultato di un lungo processo di evoluzione all’interno di ogni singola<br />

comunità. Non esiste un mondo oggettivo che tutti gli uomini (e magari anche gli<br />

animali) vedono allo stesso modo. Ma, ognuno di noi – occidentale, orientale,<br />

esquimese o aborigeno – impara a guardare il mondo in funzione del linguaggio e<br />

della cultura che apprende.<br />

Del resto, essi pensano che il mondo non sia qualcosa di “costruito” dagli uomini<br />

(come sostenevano gli idealisti), senza una propria consistenza, ma sia invece l’<br />

“orizzonte”, lo “sfondo” che permette la conoscenza umana; e solo in quanto<br />

orizzonte o sfondo il mondo è “comune” a tutti gli uomini. Esso conserva una sua<br />

“durezza” e “forma”, è però diverso il modo con cui ogni linguaggio permette di<br />

“interpretare” questa forma. Potrebbe valere la metafora dell’uomo in uniforme:<br />

noi possiamo “conoscere” solo l’uomo in uniforme, non l’uomo senza uniforme,<br />

anzi è perfino dubbio se ci possa essere l’uomo senza la sua uniforme: ciò<br />

significa che al di là del linguaggio non si può andare.<br />

148 Si possono trovare delle assonanze con le teorie del linguaggio e della comunicazione di Quine e<br />

Davidson. Soprattutto con la teoria della traduzione radicale di Quine.<br />

149 Non a caso Dewey conosceva e citava questi studiosi.<br />

136


La circolarità si sviluppa in questo modo: l’uomo conosce attraverso il<br />

linguaggio, ma il linguaggio è un prodotto sociale, comunitario. Il mondo fisico,<br />

il mondo delle cose c’è, ma può essere conosciuto solo per mezzo del linguaggio,<br />

quindi tra uomo e mondo esiste una relazione di dipendenza reciproca. Ogni<br />

cultura ha elaborato, nel corso del tempo, un proprio linguaggio, quindi è<br />

impossibile comparare le diverse società. Noi occidentali, per giudicare, per<br />

misurare dobbiamo usare il nostro linguaggio, il quale non ci può garantire<br />

obiettività, essendo un prodotto della nostra cultura.<br />

Questo è relativismo? Sicuramente non è etnocentrismo. Sicuramente, è un modo<br />

di vedere le cose diverso rispetto a quello dei moderni, nel senso che non si fonda<br />

su una logica “gerarchica”. Se l’impossibilità di costruire ordini logici causali-<br />

sequenziali è relativismo, se l’ammissione che non si può arrivare sempre a una<br />

conoscenza “chiara e distinta” delle cose, e cioè che non si può “fondare” ogni<br />

forma di sapere (o ogni asserzione), è relativismo; allora, gli antropologi citati<br />

sono relativisti. Ma dopo aver assegnato questa etichetta cosa si è dimostrato? Si<br />

è forse salvata la possibilità di giungere alla Verità? Si è forse mantenuta aperta<br />

la strada maestra dell’ episteme filosofica?<br />

V) Linguaggio e percezione di sé<br />

Per Dewey, allora, la relazione tra ambiente e organismo è linguistica, il pensare<br />

coinvolge parole non sostanze, e ogni parola è essa stessa relazione; in pratica,<br />

essa non si riferisce alle sostanze che dovrebbero precederla, ma nel momento in<br />

cui è usata essa implica, ed è, una relazione tra ambiente, organismo e persona.<br />

Facciamo un esempio: l’uso della parola “montagna”. A prima vista, sembra che<br />

tutti quando parlano della montagna si riferiscano alla stessa cosa, perché il<br />

137


significato del vocabolo ha un riferimento ben preciso: l’ “ente” montagna. Ma<br />

poniamo il caso di un colloquio tra un abitante di Badia Polesine (paese immerso<br />

nella pianura padana), poco avvezzo ai monti, e un cittadino di Cortina<br />

d’Ampezzo. Ciò che richiama alla mente del cortinese l’idea di “montagna” sarà<br />

totalmente diverso – per intensità, per varietà, per affettività, ecc. – da quello che<br />

la stessa parola evoca al polesano. Per l’abitante di Cortina la montagna è un<br />

elemento cardinale della sua cultura, della sua educazione, dei suoi costumi, della<br />

sua terra, mentre l’abitante di Badia la avvertirà come qualcosa di lontano e di<br />

insignificante. Quando il primo parla della montagna esprime un determinato<br />

mondo, si riferisce a certe immagini, la sua percezione è precisa, accurata,<br />

dettagliata, elaborata, mentre per il secondo lo stesso concetto sarà un riferimento<br />

molto più sfumato.<br />

Non si può certo dire che l’ “oggetto” montagna (al quale la parola dovrebbe<br />

riferirsi) sia lo stesso per entrambi. La relazione che il cortinese ha con questo<br />

vocabolo è diversa dalla relazione che con esso ha il polesano.<br />

Del resto, anche tra gli abitanti di Cortina ci saranno percezioni e rapporti diversi<br />

con la “stessa” montagna. E ciò vale, anche se in misura diversa, per tutte le<br />

parole, perché esse sono, appunto, il frutto e l’origine della relazione reciproca<br />

tra ambiente e organismo. È assurdo, quindi, pensarle come riferimenti oggettivi<br />

a entità date e perfettamente definite. Esse rappresentano la storia, l’educazione,<br />

l’esperienza di ciascuno di noi. Ognuno di noi è quello che è proprio grazie al<br />

susseguirsi di tali relazioni reciproche. 150<br />

Nello stesso tempo, la relazione è tale in quanto avviene tra i suoi termini, è in<br />

funzione dei suoi termini. Quindi esiste l’ambiente ed esiste l’organismo, essi<br />

sono gli “estremi” della relazione, sono enti “reali”, pur non essendo “sostanze”;<br />

ed essi “vivono” come “ambiente” e come “organismo” (cioè denotati in quel<br />

modo specifico) perché termini di relazioni, perché continuamente termini di<br />

150 E’ per questo che, come sostiene Davidson, ogni evento comunicativo è un evento interpretativo,<br />

anche quando si parlano due fratelli.<br />

138


elazioni; viceversa, queste ultime si danno solo in funzione dei termini che<br />

correlano.<br />

Tutte le relazioni che vedono protagonista l’ “io” – in quanto da esse trae origine<br />

e nello stesso tempo esse genera – sono relazioni linguistiche.<br />

Il “sé” non è più un ente originario dal quale si parte, per fare esperienza del<br />

mondo, ma l’esperienza del mondo e l’esperienza di se stessi sono correlate.<br />

Sono in funzione una dell’altra. Tra loro si crea un rapporto di feed-back. La<br />

consapevolezza di sé non è originaria, ma si matura col tempo.<br />

Scrive Dewey: «L’esperienza è un processo seriale di faccende, con le loro<br />

caratteristiche proprietà e relazioni, viene a compimento, accade, ed è quello che<br />

è. Tra questi accadimenti e all’interno di essi, non fuori di essi né a fondamento<br />

di essi vi sono degli eventi denominati io. Per alcuni specifici aspetti e per alcune<br />

specifiche conseguenze, questi io, suscettibili di denotazione oggettiva, come i<br />

bastoni, le pietre, le stelle, assumono la cura e la gestione di certi oggetti e di<br />

certi atti dell’esperienza». 151 Così, l’essere umano è un “soggetto” che “dà” (e<br />

riceve) – progressivamente – forma e significato a se stesso oltre che al proprio<br />

mondo.<br />

Anche l’esperienza di sé quindi dipende dallo strumento linguistico che si ha a<br />

disposizione.<br />

Quanto abbiamo appena detto coinvolge, quindi, molteplici elementi: l’io,<br />

l’ambiente, l’organismo, il linguaggio, la mente, l’esperienza. Tutte entità che si<br />

reputava avessero una loro conformazione “oggettiva”. Esse sono, invece,<br />

funzione una dell’altra, tra di loro il nesso è dato da rapporti di azione e<br />

retroazione: ciò significa che esse non sono legate da rapporti di causa, e quindi,<br />

è fuorviante ritenere che ce ne sia una che precede e “produce” le altre: esse<br />

vengono a costituirsi, a formarsi una in relazione all’altra, senza che tra loro sia<br />

possibile stabilire dei rapporti di sequenzialità.<br />

Nessi di successione causale sono possibili tra “sostanze”, tra “entità oggettive”;<br />

il punto di vista che Dewey tenta di difendere nega proprio l’esistenza di fatti di<br />

151 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 175<br />

139


quel tipo. 152 Non ci sono cause che precedono effetti, non ci sono fenomeni che<br />

causano altri fenomeni, ma la “realtà” è un farsi contestuale, progressivo,<br />

correlato, dove non c’è niente di separato, di isolato che possieda una sua forma<br />

autonoma.<br />

Abbiamo visto che, anche l’io è un esperienza che si produce continuamente, non<br />

un ente originario. Tale esperienza è il frutto delle relazioni tra ambiente e<br />

organismo, ma questi ultimi non precedono l’io, essi danno tanta consistenza<br />

all’io, quanta dall’io ne ricevono.<br />

È chiaro che qui non si è ancora raggiunta la reciprocità che si ottiene con il<br />

concetto di transazione; infatti, si parla ancora di “azione”, “retroazione”, e<br />

“interazione”, tutti termini che appartengono alla tradizione di pensiero moderna.<br />

Dewey in questa fase è ancora alla ricerca della strada che gli consenta il<br />

superamento definitivo del dualismo.<br />

In tale contesto ha un’importanza fondamentale il linguaggio, ma nemmeno<br />

questo può essere considerato una realtà, una cosa che precede le altre. Il<br />

linguaggio non è dato dalle regole grammaticali di una lingua, o dall’insieme dei<br />

significati delle parole, ma è l’insieme degli episodi comunicativi che si<br />

susseguono giorno per giorno all’interno delle singole comunità.<br />

Senza il colloquio non c’è il linguaggio. Esso, quindi, è sorto con l’uomo e<br />

cambia continuamente in relazione alle esigenze di quest’ultimo. Quindi, anche il<br />

linguaggio non può essere analizzato a prescindere dal contesto ambientale nel<br />

quale viene usato, non può essere studiato, né formalizzato come un “oggetto”<br />

autonomo e definito, non può essere costruito, “sintetizzato” in laboratorio come<br />

pensavano di fare i filosofi del linguaggio neo-positivisti. Questo perché esso non<br />

può essere il prodotto di un soggetto, né semplicemente il contenuto dato della<br />

sua mente.<br />

152 Anche se la difesa non è sempre accurata.<br />

140


Da tutto quello che si appena detto si evince che la mente non è ciò che Cartesio<br />

intendeva quando parlava di res cogitans (o una delle sue varianti successive).<br />

Essa non è un’entità autonoma che si differenzia nettamente dal corpo.<br />

La natura della relazione organico-ambientale di cui abbiamo parlato (che<br />

“provoca” e viene “provocata” dall’io), non permette di separare mente e corpo<br />

(o se si vuole mente e cervello); perché essa non consente di intendere la mente<br />

come un luogo o un ricettacolo all’interno del quale possa risiedere alcunché, e<br />

nemmeno come una sorta di motore che possa, ex professo, causare, dare origine<br />

a qualcosa.<br />

Di conseguenza, l’antica diatriba, sul rapporto mente-cervello, tra monisti e<br />

dualisti non potrà avere soluzione finché verrà impostata all’interno dello schema<br />

cartesiano. Essa dovrebbe essere affrontata in maniera diversa. La mente è una<br />

delle “facce” del “sé”, quest’ultimo è già stato definito come prodotto e<br />

produttore di relazioni, esso non è in nessun modo un “soggetto” ed è per questo<br />

che non può possedere una mente del tipo del cogito cartesiano. Del resto, non si<br />

può nemmeno sostenere che la mente si identifichi col cervello, perché essa non<br />

ha un origine e una natura esclusivamente organiche. Nel definire “il mentale” si<br />

dovrebbe tener conto del contesto ambientale, oltre che del “soggetto”. La mente<br />

non è un affare privato dell’individuo. La sua esistenza coinvolge molti fattori,<br />

tutti correlati. È fuorviante, quindi, intenderla come una sostanza autonoma. La si<br />

dovrebbe inserire all’interno delle relazioni che la vedono coinvolta e che<br />

contribuiscono a formarla.<br />

L’ambiente, l’educazione, la cultura, i costumi, il linguaggio, si relazionano al<br />

corredo genetico, all’esperienza, alle vicende personali, ai casi fortuiti della vita,<br />

dando vita a risultati, a dinamiche complesse, articolate, che non possono essere<br />

ridotte al dualismo mente-cervello. Si tratta, ancora una volta, di tener conto delle<br />

relazioni che continuamente legano e reciprocamente condizionano tutti questi<br />

elementi.<br />

141


VI) Il linguaggio come cosmos<br />

Abbiamo già accennato al fatto che Dewey considera l’uomo un animale<br />

“utilizzatore”, un animale in grado di costruirsi degli strumenti per sopravvivere<br />

e per migliorare le proprie condizioni di vita. Tra questi strumenti riveste un<br />

ruolo particolare il linguaggio, che egli definisce come “l’utensile degli<br />

utensili”; lo strumento, cioè, che rende possibile utilizzare gli altri strumenti in<br />

modo continuativo e ripetuto.<br />

Non si deve commettere l’errore, però, di considerare lo “strumento” come un<br />

semplice “oggetto”: tra oggetto e strumento esiste una grande differenza; ad<br />

esempio, il fuoco considerato come semplice oggetto perde molte delle valenze<br />

che possiede come strumento: «Il fuoco brucia attualmente e realmente; invece il<br />

fuoco che viene adoperato per cucinare o riscaldare, soprattutto quando altre<br />

cose, come lo strofinio di due bastoni, vengono usate come mezzo per generarlo,<br />

è un’esistenza che ha un significato e un essenza potenziali». 153<br />

In altre parole, lo strumento implica relazioni, reiterazione, l’oggetto invece può<br />

essere considerato solo nella sua accidentalità.<br />

Per acquisire tali potenzialità lo strumento ha bisogno del linguaggio; perché solo<br />

il linguaggio gli può conferire le sue proprietà costitutive: relazionalità e<br />

ripetitività (vale a dire, la capacità di mettere cose in rapporto, di creare legami, e<br />

di poter essere utilizzato in diverse occasioni, ripetutamente). Infatti, la<br />

relazionionalità è figlia della comunicazione, e la reiterazione è inimmaginabile<br />

senza la memoria. Per questo Dewey considera il linguaggio l’utensile degli<br />

utensili: «Lance, urne, ceste, trappole possono aver avuto origine accidentale nel<br />

corso di qualche conseguenza consumatoria degli eventi naturali. Ma solo la loro<br />

utilizzazione ripetuta mediante l’azione concertata spiega il fatto che siano<br />

153 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 106<br />

142


venute istituzioni e strumenti e questa azione concertata dipende dall’uso della<br />

memoria e della comunicazione linguistica». 154<br />

Il linguaggio però, è un mezzo che l’uomo non ha trovato bell’e pronto nella<br />

propria mente. Un utensile va costruito, va adattato alle condizioni in cui viene<br />

usato, così l’uomo ha prima costruito e poi migliorato gli strumenti di caccia, di<br />

coltivazione, di trasporto ecc. L’esperienza, il rapporto con l’ambiente, hanno<br />

giocato un ruolo fondamentale in questo processo. L’uomo non si è trovato a<br />

disposizione immediatamente un linguaggio perfettamente formalizzato, non ha<br />

avuto la fortuna di poter usare subito questo strumenti. Ma c’è stato un lento<br />

processo di evoluzione, che ricorda ciò che è avvenuto per la moneta (e per ogni<br />

altra istituzione sociale). L’uomo non è nato con la carta di credito in tasca! Né<br />

c’è stato un “inventore”, che ad un certo punto, ha intuito l’utilità di questo<br />

mezzo di scambio, e ha cercato di introdurlo e spiegarlo ai suoi compagni. È<br />

servita invece un lunga catena di piccoli miglioramenti, il più delle volte<br />

accidentali e fortuiti. 155<br />

Dewey è convinto che le “essenze logiche” siano il risultato dell’azione sociale,<br />

della cultura e della storia di una comunità. Il logos è nato per l’esigenza degli<br />

uomini di migliorare la collaborazione reciproca, esso si è rivelato un mezzo<br />

sempre più potente per prevenire i pericoli e per volgere le condizioni ambientali<br />

a proprio vantaggio. Quindi, è nato nella comunità, ma ha anche permesso alla<br />

comunità di affermarsi e di crescere.<br />

Il linguaggio è “un opera d’arte sociale”, non è stato inventato da un cervello<br />

superiore, né esiste nella nostra mente da sempre. Quindi la comunicazione non è<br />

un’estensione del soliloquio. Non è vero che l’introspezione precede il dialogo. È<br />

154 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 145<br />

Dewey cita esplicitamente Franz Boas: «I due tratti esteriori in cui si esprime la distinzione tra lo spirito<br />

degli animali e lo spirito dell’uomo sono l’esistenza nell’uomo del discorso organizzato e articolato e<br />

l’uso di utensili dalle molteplici applicazioni» (Esperienza e natura pag. 132).<br />

155 Hayek definisce istituzioni come il linguaggio e la moneta “istituzioni spontanee”, nate senza uno<br />

specifico intervento umano, e usa il concetto greco di cosmos per definirle. L’ istituzioni spontanea si<br />

contrappone a quella “prodotta”, chiamata invece taxis, parola che si riferisce, appunto, ad un tipo di<br />

organizzazione concepita, e progettata dall’uomo, come ad esempio le società di capitali o gli ospedali.<br />

143


assurdo pensare ad un uomo che si costruisce un linguaggio privato da<br />

condividere poi con gli altri uomini. È invece, vero il contrario, solo l’educazione<br />

alla comunicazione permette all’uomo di parlare a se stesso. 156<br />

Se non ci avessero addestrato a parlare con gli altri non potremmo mai parlare a<br />

noi stessi. 157 “A causa del discorso con gli altri, dei mutui rapporti sociali,<br />

molteplici atteggiamenti organici diventano un insieme di persone impegnate nel<br />

colloquio, che conferiscono l’una con l’altra, che si ascoltano reciprocamente.<br />

Attraverso il linguaggio una persona si identifica drammaticamente con possibili<br />

azioni e imprese; può recitare molte parti, non in scene che si seguono in<br />

successione nel corso della vita, ma in un dramma che viene rappresentato<br />

contemporaneamente. In tal modo emerge la mente”. 158<br />

Bisogna notare che le parti in corsivo sono molto importanti; l’affermazione<br />

“molteplici atteggiamenti organici diventano un insieme di persone”, infatti,<br />

denota una visione straordinariamente innovativa dell’essere umano e del suo<br />

modo di relazionarsi agli altri; in quanto, da essa, si può ricavare la mutualità tra<br />

l’aspetto sociale e quello biologico dei caratteri umani. 159<br />

Quindi, Dewey vorrebbe mostrare che tra linguaggio e mente si crea una<br />

relazione di reciprocità. Abbiamo già visto che il linguaggio è dato da una<br />

interazione organizzata tra persone all’interno del contesto sociale e che il<br />

linguaggio è ciò che permette di dare senso alla realtà. La mente, allora, è la<br />

156 Nel periodo in cui Dewey scrive queste cose, Vygotskij, studiando lo sviluppo del bambino, scopre<br />

che la funzione interpsichica del linguaggio precede quella intrapsichica, pur essendo basata su elementi<br />

strutturali innati; scopre cioè, che il linguaggio nasce dalle relazioni uomo-ambiente e solo<br />

successivamente diventa strumento “interno”, che il giovane usa anche per “strutturare” il suo pensiero.<br />

157 Per inciso si può osservare che questa posizione è simile a quella che Wittgenstein, occupandosi del<br />

linguaggio privato, espone nelle Ricerche Filosofiche. Anche per il filosofo austriaco è assurdo sostenere<br />

che il linguaggio (privato) abbia preceduto la comunicazione sociale, e che esistano delle entità originarie<br />

nella nostra mente. Anzi, Wittgenstein attacca duramente il concetto stesso di realtà mentale.<br />

158 Ed è proprio in virtù di tali considerazioni che non si può ritenere il linguaggio come una<br />

“condizione” dell’esperienza. J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 134. Corsivi aggiunti.<br />

159 Questa posizione ricorda quella sviluppata da Maturana. Il rilievo è importante perché il biologo<br />

cileno è il padre di un approccio epistemologico reticolare, affine a quello difeso in questo scritto.<br />

144


capacità di usare questo strumento, è l’insieme dei significati che si hanno a<br />

disposizione. Così, è vero che il cervello mi permette di “sentire” emozioni e<br />

sensazioni, esse però rimangono indistinte fino a quando non maturo quella<br />

determinata struttura linguistica che chiamo “mente”.<br />

Dewey, quindi, ribalta l’idea moderna secondo la quale sarebbe la mente umana<br />

a creare il linguaggio, e giudica ridicolo credere alla possibilità che il soggetto sia<br />

in grado di crearsi un linguaggio privato.<br />

Anzi, come abbiamo visto, egli sostiene che il soggetto non è nemmeno in grado<br />

di distinguere emozioni e sensazioni finché non acquisisce una sufficiente<br />

capacità linguistica. Egli afferma che dolori, colori, rumori, suoni, sono tali solo<br />

proletticamente senza il linguaggio. La situazione non cambia se passiamo a<br />

considerare gli oggetti del cosiddetto mondo esterno: anche le montagne, le case,<br />

gli alberi, i prati possono venir identificati solo grazie al linguaggio.<br />

Tale posizione però comporta il rischio di ricadere nella dipendenza opposta: se<br />

tutto viene ad “essere” a causa del linguaggio si perde necessariamente la<br />

reciprocità tra gli elementi in questione.In questo modo infatti, il linguaggio<br />

diventa una sorta di apriori, 160 e assume un ruolo prioritario il contesto sociale (e<br />

le sue istituzioni), che si viene concepito come luogo nel quale ogni persona<br />

viene accolta e addestrata.<br />

Da ciò che asserisce Dewey, sembra che tale contesto abbia una consistenza<br />

autonoma rispetto al singolo (sembra che sia una cosa che esiste indipendente da<br />

ciò che ospita, una sorta di sostrato), sembra sia una struttura già forma ta che<br />

riceve ogni nuovo elemento senza subire alcuna perturbazione; ma come<br />

abbiamo già visto, tra contesto e testo la relazione è sempre di mutualità. Il<br />

contesto non possiede una configurazione univoca, oggettiva e permanente, ma è<br />

ciò che ospita ogni singolo evento, non potendo sopravvivere ad esso. Ognuno di<br />

noi è in relazione dinamica ed evenemenziale con un certo contesto sociale.<br />

160 E’ chiaro che egli mira a confutare l’idea di una divisione tra mondo interno e mondo esterno. Ma la<br />

sua posizione risulta viziata da un eccesso di “convenzionalismo” (ed è così passibile del tipo di accuse<br />

che sono state mosse al convenzionalismo).<br />

145


Il contesto sociale come realtà data non esiste, è un’astrazione. 161<br />

Allora, in questo momento, egli non pensa ancora la reciprocità in modo<br />

compiuto, pur avendo superato il dualismo tra mondo interno e mondo esterno.<br />

VII) La realtà “corporeo -mentale”<br />

Dewey cerca di sostenere che il mondo non è una struttura parcellizzata, nella<br />

quale non si capisce, né come si producono, né come si possano conoscere, le<br />

relazioni tra i singoli elementi. Egli tenta di mostrare come la natura sia, in realtà,<br />

un insieme di relazioni originarie nelle quali è coinvolto anche l’uomo:<br />

«Raramente non è diventato un mistero il fatto che la natura oggettiva si<br />

sottoponga alle operazioni mentali quel tanto che basta per essere<br />

conosciuta…Proprio per il fatto che è stata precedentemente introdotta un<br />

arbitraria divisione per la quale il mondo viene prima concepito come diverso da<br />

ciò che ostensibilmente è, appare poi strano che dopo tutto debba proprio essere<br />

quello che è. Il mondo è il contenuto oggettivo della conoscenza, perché la mente<br />

si è sviluppata nel mondo». 162<br />

L’uomo non è l’incontro di una vita organica e di una vita mentale, ma è vita<br />

organica-mentale, esse non possono esistere l’una senza l’altra. I processi mentali<br />

161 Dal nostro punto di vista, La mente si forma nell’uomo contestualmente all’acquisizione del<br />

linguaggio, in un farsi processuale, ed evenemenziale, sia a livello filogenetico che a livello ontogenetico.<br />

Anzi se si accetta l’ipotesi “ecologica” si deve dire che non è nemmeno possibile pensarli una senza<br />

quell’altro. Il linguaggio non è infatti un oggetto o un insieme di oggetti che l’ “ente mente” può pian<br />

piano “assorbire” (o che già possiede apriori); né la mente è un’entità indipendente dal linguaggio. Mente<br />

e linguaggio si “fanno” mutuamente, parlando, non sono concepibili una senza l’altro. Quella “cosa”<br />

chiamata “lingua” che un ragazzo impara, e che gli servirà per comunicare, non esiste come entità<br />

autonoma nella società, ma è invece un insieme variegato di diverse esperienze linguistiche che si<br />

producono e aggiornano continuamente in ogni evento al quale partecipa anche quel ragazzo. La “società”<br />

è un insieme di eventi linguistici, non ha nulla di stabile e permanente.<br />

162 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 203<br />

146


sono inscindibili dai processi organici, e anzi, potrebbero essere definiti processi<br />

organico-mentali. Guardando da un’altra prospettiva, si può dire che vita e<br />

mondo sono correlati, non sono concepibili l’uno senza l’altro. Quindi, il mondo<br />

non è un oggetto neutro di conoscenza, come credevano i realisti; né è l’intelletto<br />

a “plasmarlo” come pensavano gli idealisti.<br />

Il mondo è la base della conoscenza, quest’ultima, però, è conoscenza del<br />

mondo, di un determinato mondo. Il rapporto tra loro non è di causa-effetto ma di<br />

implicazione reciproca.<br />

Allora, si può dire che la filosofia (e più in generale il sapere) del mondo<br />

moderno era fondata sull’assunto che la verità consistesse nella corrispondenza<br />

tra un ordine esterno e un ordine interno all’individuo, che quest’ordine fosse di<br />

natura meccanica, che la mente e la natura funzionassero sulla base del principio<br />

di causalità. Dewey sostiene, invece, che il legame uomo ambiente non è<br />

riducibile ad una misteriosa corrispondenza tra “soggetto” e “oggetto”, e che tale<br />

relazione non può avvenire senza che i suoi termini non si influenzino<br />

reciprocamente.<br />

La scienza moderna distingueva tra un piano ontologico e uno gnoseologico. Si<br />

sosteneva che la corrispondenza tra enti autonomi (piano ontologico) permettesse<br />

la conoscenza (piano gnoseologico). Quindi ciò che si modificava era la<br />

conoscenza del soggetto. Ma come è possibile una relazione gnoseologica a<br />

partire da una separazione ontologica? Qual è il “ponte” che permette il<br />

collegamento? Alcuni sostenevano che il ponte fosse la percezione, ma Hume<br />

dimostrò che essa non era sufficiente per stabilire legami necessari, e che<br />

fidandosi delle percezioni ci si doveva accontentare di un mondo fondato<br />

sull’incertezza, (anche se non c’era nulla al mondo di più sicuro dell’esperienza<br />

empirica). Altri ritennero che fosse l’intelletto a stabilire il legame necessario, ma<br />

si trattava sempre di passare, con una certa disinvoltura, dal piano gnoseologico a<br />

quello ontologico senza spiegare come ciò fosse possibile.<br />

Hegel stesso era consapevole della difficoltà, ma non seppe andare oltre l’idea<br />

(cartesiana) dell’ “originaria” separazione degli enti. Nella prefazione delle<br />

147


“Scienze filosofiche in compendio”, ad un certo punto, egli sintetizzò il suo<br />

ragionamento scrivendo: “Il vero è l’intero, e l’intero è il risultato”, cioè,<br />

secondo Hegel, la verità si raggiunge solo dopo il compimento di un processo<br />

(per lui dialettico) che parte dall’originaria “disgregazione”- definita “il<br />

cominciamento” - per arrivare alla finale “totalità” - definita “risultato” . Egli,<br />

cioè, intuì la contraddittorietà dell’idea di un mondo disgregato, tuttavia sviluppò<br />

la sua proposta filosofica sull’impianto aristotelico-tomista del “terminus a quo”,<br />

e del “terminus ad quem”, e della corrispondente divisione tra “operazioni prime<br />

dell’intelletto” - il sapere noematico - e “operazioni seconde dell’intelletto” - il<br />

sapere dianoematico. Ma tale impianto era la base della disgregazione che egli<br />

voleva superare.<br />

Sostanzialmente, anche secondo Hegel, noi percepiamo il mondo come un<br />

insieme disgregato di enti, che poi grazie al processo dialettico ritrovano la verità<br />

della totalità, sul fondamento dell’identità tra reale e razionale. Così, nonostante<br />

le potenti intuizioni, dell’aporia nel ragionamento cartesiano e della verità come<br />

totalità, egli non si seppe emancipare dalla struttura profonda del pensiero<br />

moderno.<br />

Dewey ci dice che è assurdo credere che si possa instaurare una qualsiasi<br />

relazione tra due entità originariamente autonome e autarchiche; è assurdo<br />

pensare che l’uomo possa conoscere il mondo da osservatore distaccato e<br />

neutrale. In realtà, relazioni di questo tipo non si possono verificare. 163<br />

Non si può prescindere dalla reciprocità dove si sviluppa conoscenza. Conoscere<br />

è condividere, conoscere è “interagire”, o meglio “transare”.<br />

Pensare che l’uomo e il mondo siano realtà “distinte e distanti” e che l’uomo<br />

possa conoscere il mondo così come “esso è in sé” (originariamente), e senza che<br />

tale conoscenza “retroagisca” (in modi anche diversi) su di lui, è un’idea<br />

piuttosto ingenua. Se si vuol conoscere si deve entrare in relazione, ma la<br />

163 Sarebbe come pensare che in un rapporto di coppia la conoscenza reciproca possa avvenire in modo<br />

asettico, senza che quest’ultima possa influire sulla personalità delle persone coinvolte. La conoscenza è<br />

possibile grazie alla convivenza e la convivenza è la condivisione di situazioni comuni e inclusive. Le due<br />

personalità finiscono inevitabilmente per “amalgamarsi”, per influenzarsi reciprocamente.<br />

148


elazione non ci può essere senza scambio reciproco, e lo scambio altera i termini<br />

originari della relazione: «La cosa essenziale che deve essere tenuta a mente è<br />

che il processo della vita come faccenda empirica non è qualcosa che proceda al<br />

di sotto della superficie epidermica di un organismo; è sempre una faccenda<br />

inclusiva che è caratterizzata dalla connessione, dall’interazione tra ciò che si<br />

trova all’interno del corpo organico e ciò che si trova all’esterno nell’ordine<br />

spazio-temporale e con gli organismi superiori che vivono all’esterno». 164<br />

Per rendere ancora più chiari questi concetti il filosofo americano, definiva la<br />

realtà “corporeo-mentale”, e scriveva che i problemi più gravi nell’affrontare tali<br />

questioni sono relativi proprio al linguaggio. Egli si trovava costretto a usare il<br />

linguaggio al limite delle sue potenzialità per poter esprimere le sue idee. L’uso<br />

del trattino per significare lo non-separazione tra i concetti è un esempio di ciò.<br />

Egli affrontava così, negli stessi anni dello Heidegger di Essere e tempo, il<br />

problema di come poter uscire dai vincoli imposti da una terminologia permeata<br />

di significati e di teorie fondate sull’idea della separazione del corporeo dal<br />

mentale. Heidegger conierà una serie molto ampia di termini proprio per cercare<br />

di svincolarsi dalla prigione del linguaggio “moderno”, Dewey avvertiva nello<br />

stesso periodo il medesimo problema (ma lo svilupperà, in modo approfondito,<br />

164 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 207<br />

Detta così, questa cosa richiama alla mente due importanti principi della meccanica quantistica: il<br />

“Principio di indeterminazione”, e il “Principio di complementarità”. Heisemberg, infatti, si trovò a dover<br />

pensare in termini completamente diversi il rapporto tra osservatore e osservato, nel momento in cui<br />

l’osservazione riguardava il mondo sub-atomico. Infatti, tale osservazione richiedendo una precisione di<br />

misurazione assai maggiore rispetto a quella richiesta dal mondo macroscopico, non consentiva più di<br />

ignorare l’esistenza di quel rapporto. Galileo e Newton potevano considerare la relazione osservatoreosservato<br />

neutrale, perché rispetto alle grandezze misurate essa non veniva percepita; loro non si<br />

accorsero della sua esistenza. Ma il fatto che non fosse rilevabile dagli strumenti di misurazione non<br />

implicava che essa non ci fosse. Heisenberg, invece, lavorando su ordini di grandezza infinitamente più<br />

piccoli la rilevò e la fece diventare parte integrante della sua teoria fisica.<br />

Bohr trattò le grandezze fisiche come “complementari” e quindi, in un certo modo, “originariamente”<br />

correlate l’una all’altra (Bohr sosteneva che gli elementi ultimi della materia sono allo stesso tempo onde<br />

e corpuscoli, ma quando interpretiamo i fenomeni cogliamo uno solo dei due aspetti, mentre l’altro ci<br />

sfugge. Così, le contraddizioni che emergono sono solo apparenti, in quanto relative al nostro modo di<br />

interpretare e ai significati che attribuiamo, che sono validi per i fenomeni macroscopici, ma non lo sono<br />

per quelli sub-atomici).<br />

Qui non è importante stabilire la solidità di tali punti di vista, ma prendere atto che questi scienziati<br />

aprirono le porte ad un modo di guardare al mondo (e al rapporto uomo-mondo) totalmente diverso<br />

rispetto al precedente. Oggi molti fisici si ritengono sostenitori di teorie “olistiche”. Questo modo di<br />

pensare è molto vicino a quello di Dewey.<br />

149


solo nella sua ultima opera “Conoscenza e transazione”): alla fine era la stessa<br />

struttura linguistica a non consentire di superare completamente la visione<br />

moderna del mondo. Così si faceva esperienza diretta del fatto - evidenziato<br />

anche da Whorf - che ogni linguaggio sottende una determinata visione del<br />

mondo.<br />

Ciò, però, confermava l’idea di Dewey che le “faccende esterne o ambientali<br />

coinvolte nel discorso, subiscono delle modificazioni quando assumono dei<br />

significati e diventano oggetti della mente, pur rimanendo “fisiche” come sono<br />

sempre state”.<br />

Scrivere corporeo e mentale aveva un significato diverso dallo scrivere corporeo-<br />

mentale, come del resto, per riprendere il celebre esempio della Relatività, la<br />

realtà spazio -temporale di Einstein è diversa dalla realtà fondata sulle dimensioni<br />

spaziale e temporale di Newton.<br />

Un corollario di questa idea è che non si può sostenere che noi prima possediamo<br />

i significati e poi li adoperiamo. La contemplazione non precede l’utilizzazione<br />

delle parole. “Ogni significato viene posseduto nell’ambito e in funzione<br />

dell’uso”. 165<br />

Dewey scrive: «Le attività organiche e psicofisiche, con tutte le loro qualità sono<br />

delle condizioni che devono essere poste in atto prima che la mente, cioè la<br />

presenza e l’utilizzazione dei significati e delle idee, sia possibile. Queste<br />

condizioni forniscono alla mente il suo radicamento nella natura e il rapporto con<br />

essa… Ma i significati sono anche, quando sussistono, caratteri di una nuova<br />

interazione tra eventi; sono dei caratteri che nel loro far corpo con la sensibilità<br />

trasformano l’azione organica conferendole nuove proprietà». 166 Qui emerge<br />

l’originalità della sua speculazione, si fa trasparente l’esigenza di guadagnare un<br />

nuovo paradigma di pensiero.<br />

165 Anche qui si nota una certa assonanza con i temi che Heidegger tratta in Essere e tempo.<br />

166 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 213<br />

150


È chiaro che egli ha capito le difficoltà nelle quali viene necessariamente a<br />

cadere il dualismo moderno, e ha cercato di porvi rimedio. A questo fine tenta di<br />

configurare il mondo, e la sua relazione con l’uomo, in termini assolutamente<br />

inediti. L’idea della realtà “corporeo-mentale” va esattamente in questa<br />

direzione.<br />

VIII) Mente e coscienza<br />

Per cercare di chiarire ulteriormente il discorso, Dewey distingue tra “mente” e<br />

“coscienza”: la mente corrisponde all’intero sistema dei significati, mentre la<br />

coscienza si riferisce alla consapevolezza, o alla percezione di ogni singolo<br />

significato; e con ciò egli non intende dire che esistono due tipi di percezioni,<br />

uno di eventi, o esistenze e l’altro di significati, ma che quando si percepisce non<br />

si possono che percepire significati. Quindi la percezione, o la consapevolezza,<br />

del significato corrisponde alla percezione, o alla consapevolezza, dell’evento<br />

reale.<br />

La mente è permanente, stabile, la coscienza e transitiva, temporanea; la mente è<br />

la “struttura”, la coscienza è il “processo”. La mente è luminosità costante, la<br />

coscienza è luminosità intermittente.<br />

Dewey intende il significato come la capacità di prevedere le conseguenze di un<br />

determinato evento, o meglio come la consapevolezza delle conseguenze di un<br />

evento; in questo senso egli definisce l’ “oggetto” come un evento con<br />

significato: la consapevolezza delle conseguenze dell’evento si traduce nella<br />

capacità di stabilire relazioni, ed essa è anche la capacità di inserire gli oggetti<br />

all’interno di contesti significanti. Tale consapevolezza cambia nel tempo in<br />

relazione al linguaggio che si ha a disposizione.<br />

151


Le parole che assumiamo in ogni momento, entrano a far parte di una rete di<br />

significati. Questa rete si costituisce nel tempo, è sempre “in itinere”, è il<br />

risultato, mai definitivo, della relazione tra mente e coscienza: «Le faccende<br />

passate sono indirettamente presenti nell’idea momentanea con cui abbiamo<br />

rapporto nel presente in un modo che è molto più profondo, diretto e persuasivo<br />

di quanto non sia il semplice richiamare alla memoria. I casi che nel momento<br />

sono in corso realmente e integralmente portano con sé il passato». 167 Quindi,<br />

noi possiamo percepire solo grazie alla rete dei significati che già possediamo, e<br />

questa rete deriva dall’accumulazione “interattiva” di ogni singolo significato. 168<br />

La stessa percezione uditiva e visiva, ogni volta che è conoscitiva, è un giudizio<br />

inferenziale, un esempio di un modo di assumere e adoperare i significati. Così,<br />

per Dewey, l’idea che esistano oggetti dati una volta per tutte, (interni o esterni<br />

all’organismo) che il soggetto nella sua autonomia percepisce, nella loro<br />

“oggettività”, in modo neutrale, è priva di senso. Gli oggetti sono appunto<br />

“eventi con un significato”, non sono “cose” indipendenti dalla coscienza<br />

dell’uomo, né sono “cose” indipendenti tra loro. 169<br />

La relazione che si viene a creare tra coscienza ed eventi è così profonda che<br />

ogni significato acquisito equivale alla modificazione dell’atteggiamento che si<br />

ha nei confronti del “mondo”. Cogliere un nuovo significato corrisponde ad<br />

assumere un nuovo atteggiamento, perché, come abbiamo già detto, ogni nuovo<br />

significato reca nuove relazioni nella rete dei significati posseduti, e quindi porta<br />

ad un riorientamento, ad una riclassificazione dei rapporti tra loro esistenti. Ciò<br />

167 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 223<br />

168 Per “accumulazione interattiva” si intende che il guadagno di ogni significato influisce sull’insieme<br />

dei significati già acquisiti, i quali, a loro volta, definiscono “il modo” dell’inserimento del “nuovo<br />

venuto”, nel senso che tra di essi viene a porsi una inter-azione, una relazione di reciproco scambio,<br />

quindi si tratta di un concetto ben diverso da quello classico di “accumulazione”, come semplice aggiunta<br />

di uno o più oggetti a quelli già posseduti.<br />

169 Un evento accade e passa, al limite potrebbe essere considerato “senza durata”; nella sua accezione<br />

spazio-temporale, esso non ha consistenza materiale, e dipende sempre da una situazione alla quale si<br />

riferisce. Un oggetto invece è “permanente”, “materiale” e “indipendente”. Ma sul concetto di “evento”<br />

ci dilungheremo nell’ultima parte.<br />

152


conduce a cambiare anche il proprio atteggiamento, in quanto esso dipende dal<br />

tipo di “comprensione” (familiarità) che si ha del mondo; e quest’ultima cambia<br />

contestualmente al lavoro della coscienza. La quale, allora, può essere definita<br />

anche come “la differenza degli atteggiamenti adottati nel suo farsi processuale”.<br />

Un cambiamento nella architettura dei propri significati non può che portare ad<br />

un nuovo modo di guardare il mondo, o addirittura, ad un cambiamento del<br />

mondo medesimo, perché non solo si guarda il mondo con l’insieme dei<br />

significati che si hanno a disposizione, ma esso può essere interpretato come tale<br />

insieme.<br />

Tutto ciò, naturalmente, va inserito nello schema “olistico” che Dewey si sforza<br />

di mettere in evidenza: quindi, se da un lato, la relazione dinamica tra i significati<br />

cambia il nostro mondo, dall’altro, i continui aggiornamenti ai quali essa è<br />

sottoposta, cambia anche noi stessi. Così l’elemento costitutivo del rapporto<br />

uomo-mondo non è né l’uomo, né il mondo, ma la relazione (sempre) in atto tra<br />

loro, infatti, l’uno e l’altro “sono” in virtù di tale relazione di scambio reciproco.<br />

Alla fine, non siamo né soggetti in relazione con un insieme di oggetti dati, né<br />

soggetti “in” un mondo dato. Organismo, e ambiente non sono luoghi, o<br />

ricettacoli (nel senso che non sono “un dove”, e nemmeno contenitori o insiemi<br />

di parti separate) ma sono termini di una relazione.<br />

Io stesso “sono” in virtù della dinamica “correlazione” organismo-ambiente.<br />

L’autocoscienza è il risultato proprio di questa relazione, che cresce e cambia nel<br />

tempo.<br />

La difficoltà sta nel capire che non c’è un mondo separato dall’individuo ma essi<br />

sono due aspetti della medesima realtà. 170<br />

La “separazione” è la cifra caratteristica di un determinato modo di pensare e di<br />

vedere il mondo – quello moderno – non una verità assoluta; così, torna alla<br />

mente la battaglia che Heidegger ha condotto contro quel tipo di pensiero, e si<br />

coglie l’assonanza del discorso sull’autocoscienza di Dewey con il concetto di<br />

170 Ancora una volta, può servire l’esempio della Relatività speciale: sappiamo che spazio e tempo non<br />

sono dimensioni separate del cosmo, ma sono due facce della stessa medaglia: la realtà spaziotemporale.<br />

153


Dasein, che Heidegger stesso enuclea in Essere e tempo: l’ “esserci” come<br />

unione inscindibile, come relazione originaria e permanente tra l’uomo e il suo<br />

mondo, in modo che non sia possibile “individuarne” uno senza coinvolgere<br />

l’altro.<br />

Ricapitolando: la mente è l’insieme dei significati acquisiti nel tempo, ed è<br />

permanente (nel senso che garantisce la continuità del sé), la coscienza è l’azione<br />

dinamica, ed è intermittente, essa ci permette di cogliere i significati. Tra le due<br />

c’è una relazione “osmotica” di reciproca influenza-dipendenza.<br />

Il mondo si configura nel modo permesso dalla “correlazione” mente-coscienza,<br />

e nello stesso tempo, esso è (il quid) necessario affinché possa costituirsi tale<br />

relazione. Quest’ultima, non è data una volta per tutte, anzi essa è sempre in<br />

progress, in continuo sviluppo. Così, “coscienza-mente-mondo” costituiscono<br />

vertici di un triangolo sempre in relazione. Da esso proviene la consapevolezza e<br />

la conoscenza di sé e del mondo.<br />

Dire che la coscienza è percezione dei significati porta ad affermare che la<br />

conoscenza si edifica sulla coscienza. Infatti la conoscenza è uso, è<br />

“manipolazione” di significati e quindi i significati non possono essere oggetto di<br />

conoscenza: se la conoscenza si fonda sui significati, i significati non possono<br />

derivare dalla conoscenza. Anche in questo caso il rapporto è dinamico, si evolve<br />

nel tempo. Mente, coscienza e conoscenza sono interrelate, dipendono una<br />

dall’altra.<br />

154


IX) Alcuni rilievi critici<br />

Il pensatore americano vuole mostrare che all’interno della mente non ci sono<br />

“qualità” e che gli oggetti non hanno proprietà oggettive che l’uomo possa<br />

percepire. Le qualità assegnate alle cose sono frutto dell’interazione tra<br />

organismo e ambiente. Solo grazie all’esistenza della relazione inclusiva tra<br />

organismo e ambiente noi siamo in grado di individuare e di distinguere.<br />

La percezione non ha la capacità di discriminare di per sé le cose<br />

indipendentemente dal linguaggio. La sensibilità è di per sé anoetica, essa non<br />

permette di “raggiungere” la cosa, anche perché la cosa diventa quella cosa solo<br />

grazie al linguaggio: la fame diventa fame solo quando imparo che quella<br />

sensazione si placa col cibo. In questo modo io identifico la situazione grazie alla<br />

relazione inclusiva tra la sensazione dell’organismo e l’elemento ambientale – il<br />

cibo – che soddisfa la sensazione: tale relazione è definita “fame”. Allora, non si<br />

dà conoscenza senza linguaggio.<br />

Però è altrettanto vero che il linguaggio acquista la sua fisionomia nella<br />

comunicazione.<br />

Ogni singolo significato è in continua formazione, è come un cantiere sempre<br />

aperto. Esso possiede una sua identità, e quindi può essere utilizzato in ogni<br />

momento, ma tale identità non è acquisit a una volta per tutte, non è un dato<br />

immodificabile.<br />

Possiamo apprendere un nuovo significato grazie a quelli già presenti, ma questi<br />

ultimi vengono influenzati da ogni nuovo arrivo, perché con esso interagiscono.<br />

Ogni significato acquisito va a modificare il sistema dei significati (la mente); e a<br />

sua volta, il modo di questa acquisizione (e quindi le successive modalità<br />

d’impiego della parola), dipende dal sistema di riferimento, cioè dalla mente.<br />

Ad ogni ulteriore uso la parola si può arricchire di sfumature ulteriori, può essere<br />

usata dal parlante con maggiore consapevolezza, può contribuire a creare reti di<br />

rapporti più complessi con le altre parole. Ciò implica che anche la relazione<br />

mente-coscienza-conoscenza è interattiva. In più, è spaziotemporale, nel senso<br />

155


che non si realizza solo tra significati in un determinato momento, ma si sviluppa<br />

anche nel tempo.<br />

Ciò che Dewey non sottolinea a sufficienza è che il linguaggio non esiste come<br />

insieme di regole e di significati (oggettivi), indipendentemente dall’interazione<br />

tra parlanti; il linguaggio non è un “oggetto” nel senso moderno del termine.<br />

Esso “vive” nelle relazioni sociali, ed è il contenuto della discussione. Nella<br />

comunicazione si ottiene la conoscenza delle cose, dell’altro, e perfino di se<br />

stessi; ma tutto ciò avviene nei limiti posti dallo strumento linguistico che via,<br />

via si ha a disposizione; ciò significa, che anche la lingua parlata non è mai la<br />

stessa lingua. La consapevolezza linguistica cambia per ogni episodio<br />

comunicativo, è in continuo farsi. E ciò condiziona gli altri termini della<br />

relazione. Nella comunicazione si stabilisce una relazione tra i termini, che si<br />

influenzano mutuamente. E non c’è niente al di là o prima delle lingue a<br />

disposizione dei singoli parlanti. Non c’è l’entità “linguaggio sociale” che ogni<br />

individuo cerca di apprendere nel migliore dei modi, ma c’è una relazione<br />

linguistica sempre aperta tra tutti i parlanti.<br />

Detto altrimenti, nella relazione linguistica si acquista consapevolezza di sé,<br />

dell’altro, degli argomenti della discussione, ma anche dello stesso linguaggio;<br />

Questi elementi sono uno in funzione dell’altro; formano una rete di relazioni<br />

reciproche.<br />

Essi “crescono”, si definiscono, si chiarificano nel discorso, in ogni discorso,<br />

dinamicamente, storicamente. Essi sono, e divengono, quel che il discorso<br />

permette loro di essere, e di divenire. D’altro canto, il discorso è solo in funzione<br />

dei “dialoganti”. Non c’è il discorso se non ci sono i locutori, quindi il colloquio<br />

cresce, si forma in funzione di questi.<br />

Non si coglie a sufficienza nel pensiero di Dewey (almeno fino a questo punto) la<br />

reciprocità tra esperienza e pensiero: egli assume la reciprocità tra i colloquianti,<br />

tra loro e l’oggetto della discussione, ma non quella tra questi ultimi e il<br />

linguaggio.<br />

156


Ma il linguaggio vive solo nella discussione, la discussione è quello che i parlanti<br />

dicono, e i parlanti sono, ogni volta, nel modo permesso dal loro linguaggio e dal<br />

loro colloquio.<br />

A sua volta, il linguaggio non può essere un che di completamente indipendente<br />

dall’uomo, perché esso si fa, si produce, esiste solo come strumento individuale e<br />

collettivo di comunicazione; mentre Dewey sembra trattarlo come un apriori,<br />

qualcosa che precede la persona.<br />

A Dewey sembra sfuggire il fatto, che anche tra uomo e linguaggio la relazione<br />

e di reciprocità: ognuno di noi possiede un proprio modo di comunicare, e il<br />

linguaggio non è altro che l’insieme di questi modi di comunicare. Esso non è<br />

una “realtà sociale” primitiva. Esso esiste negli episodi comunic ativi, nei quali<br />

ognuno di noi partecipa con le sue abilità orali. Nessuno apprende il linguaggio<br />

come qualcosa di oggettivo.<br />

Quindi da un lato, affiora la grande lucidità del filosofo americano nello<br />

smascherare i punti deboli del razionalismo, dall’altro la sua incapacità di<br />

emanciparsi completamente da esso: infatti separare la condizione (il linguaggio)<br />

dal condizionato (l’autocoscienza) rende difficile spiegare come possano essere<br />

sorti ad un certo punto, e il linguaggio (che invece viene presentato come un<br />

prodotto sociale), e l’autocoscienza (che ha bisogno del linguaggio per<br />

affermarsi). Si ricade nella difficoltà vista prima, perché si deve accettare l’idea<br />

del linguaggio privato, e così diventa impossibile sostenere la “socialità” della<br />

sua origine.<br />

Allora, quando il pensatore americano scrive: “Si può affermare con certezza che<br />

gli eventi fisici hanno come propria condizione il linguaggio” – e poco più avanti<br />

– “Ciò che un evento fisico è immediatamente e ciò che può fare, cioè l’insieme<br />

delle sue relazioni sono cose distinte e incommensurabili” 171 , distingue tra<br />

l’evento isolato – ciò che accade in natura – e quell’evento percepito dall’uomo;<br />

il momento cioè nel quale tale evento assume un significato, assume una forma, e<br />

171 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 133<br />

157


quindi un’esistenza raggiungibile. E solo in quell’istante, a suo avviso, si crea la<br />

relazione, il contatto.<br />

Percepire, per Dewey, significa porre in relazione il presente con delle<br />

conseguenze, e perciò comportarsi in riferimento alle connessioni degli eventi<br />

(“la percezione è attenzione anticipatrice degli eventi”). Percepire una cosa<br />

significa legarla ad una serie di conseguenze; per lui, la cosa non può essere<br />

separata dalle sue potenzialità, cioè dalle situazioni nelle quali può rimanere<br />

coinvolta.<br />

Ma, come nel caso della distinzione tra esperienza primaria e secondaria, il<br />

rischio di una interpretazione moderna del suo pensiero si fa qui molto<br />

accentuato: dividere tra una esperienza “linguistica” e una realtà “pre-<br />

linguistica”, tra l’evento isolato, e l’evento percepito dall’uomo, porta a separare<br />

la natura in due piani, uno accessibile e un altro inaccessibile.<br />

In questo modo, salta subito alla mente la distinzione kantiana tra fenomeni e<br />

noumeni, anche se Dewey a differenza di Kant, imposta tale rapporto in<br />

riferimento al linguaggio.<br />

E poi se l’evento fisico ha come condizione il linguaggio, si viene a delineare una<br />

relazione tra un apriori che permette, e una conseguenza che viene permessa;<br />

Cioè veniamo ad avere due entità che, in sostanza, sono legate da un rapporto di<br />

causalità; e questo è proprio il dualismo e il fondazionalismo che egli voleva<br />

superare.<br />

Tra l’altro, sarebbe anche legittimo chiedere come può essersi formato il<br />

linguaggio se l’esperienza pre-linguistica è impossibile. Se noi “percepiamo”<br />

solo “linguisticamente”, dobbiamo aver a disposizione il linguaggio per accedere<br />

al mondo. Come è possibile allora che il linguaggio sia un “fatto sociale”?<br />

Con queste premesse si è costretti, appunto, ad abbracciare la tesi dell’esistenza<br />

del linguaggio privato; si deve ammettere che l’uomo possiede il linguaggio da<br />

sempre, a priori; altrimenti non può fare esperienza. Ci si rende così conto che<br />

158


separare e distinguere in livelli (anche se contigui) la realtà porta sempre alla<br />

contraddizione. 172<br />

Nella frase citata sopra egli espone in modo conciso l’idea che non è possibile<br />

conoscere il mondo senza la mediazione linguistica; in altre parole, sostiene che<br />

pensare è una attività linguistica, pensare è come parlare a sé stessi. Quindi per<br />

conoscere non si può prescindere dalla educazione e dall’addestramento<br />

linguistico che si riceve all’interno di una comunità. “Il linguaggio è in modo<br />

specifico un tipo di interazione tra almeno due enti: chi parla e chi ascolta; esso<br />

presuppone un gruppo organizzato al quale queste creature appartengono e dal<br />

quale esse hanno assunto i loro abiti linguistici. Esso è perciò una relazione non<br />

un fatto particolare e isolato”. 173 Ma come si è potuto formare il “gruppo<br />

organizzato”?<br />

Affermare che il linguaggio è “condizione” degli eventi fisici è improprio, infatti<br />

se il linguaggio è un fatto sociale non lo si può mettere a fondamento<br />

dell’esperienza. Esso piuttosto si trova in relazione di mutualità con l’esperienza.<br />

Di conseguenza, il linguaggio non è né un fatto esclusivamente sociale, né un<br />

fatto esclusivamente individuale. Tra linguaggio ed esperienza c’è reciprocità.<br />

Non si può sapere quale dei due preceda l’altro, né se sia corretto distinguere<br />

qualcosa come il “linguaggio” da qualcos’altro come l’ “esperienza”, altrimenti<br />

emerge un residuo razionalistico che costringe a fissare ordini di dipendenza e<br />

gerarchie tra entità diverse: sbagliano quelli che mettono prima l’esperienza e poi<br />

il linguaggio, ma sbaglia anche chi come Dewey, ribalta l’ordine della<br />

dipendenza. Se si sostiene che il linguaggio precede l’esperienza, si deve<br />

ammettere la tesi del linguaggio privato (cioè di un codice completamente<br />

formato e operante apriori), viceversa se si pensa che sia l’esperienza a precedere<br />

il linguaggio, si deve concedere che l’uomo può pensare a prescindere dal<br />

172 Bisogna precisare, del resto, che Dewey non dice che gli eventi fisici sono generati dal linguaggio,<br />

ma che tra eventi fisici e linguaggio esiste una relazione di dipendenza; ma tanto basta a metterlo in<br />

difficoltà.<br />

173 J. Dewey, Esperienza e natura, op. cit. pag. 141<br />

159


linguaggio, e che quindi quest’ultimo è solo latore di misteriose entità cerebrali o<br />

mentali. Entrambe le ipotesi sono grossolane e insoddisfacenti.<br />

“Linguaggio-realtà”, “pensiero-parola” sono alternative che rendono il mondo<br />

disgregato, popolato da entità autonome, che diventa molto difficile rimettere<br />

insieme. Abbiamo già visto, che una volta prodotta la separazione tra entità a sé<br />

stanti non c’è più la possibilità di un loro ricongiungimento.<br />

Riassumendo, possiamo dire che Dewey riesce a mostrare l’assurdità<br />

dell’esistenza di due mondi perfettamente costituiti e indipendenti, l’uno<br />

dall’altro, uno dentro la mente dell’uomo l’altro fuori, che grazie a qualche<br />

proprietà nascosta (“isomorfica”), si corrispondano perfettamente (com’è assurda<br />

l’idea che gli oggetti siano composti da caratteristiche proprie, oggettive e<br />

misurabili, e da qualità “psicologiche”, assegnate all’oggetto dalla mente umana).<br />

Nonostante questo, non riesce a pensare fino in fondo la mutualità di tutti i<br />

termini in questione – linguaggio compreso.<br />

Ancora una volta, per un verso emerge l’impianto olistico che Dewey vuol dare<br />

alla sua proposta filosofica, e per l’altro, la sua non completa emancipazione<br />

rispetto a ciò che vuol combattere.<br />

160


Secondo capitolo: L’olismo nella filosofia morale di<br />

I) L’abitudine<br />

Dewey<br />

Il rapporto uomo-ambiente può essere considerato sotto un altro punto di vista,<br />

quello morale. Dewey dedica molta parte dei suoi studi ad approfondire tale<br />

aspetto.<br />

Egli si accorge che il dualismo che caratterizzava la scienza e la metafisica dei<br />

moderni, era alla base anche delle loro filosofie morali.<br />

La separazione tra la psiche e l’ambiente era il punto di partenza di tutte le più<br />

diffuse teorie sulla morale dell’uomo dell’epoca moderna. Dewey contesta<br />

innanzitutto quest’idea, e fonda la sua proposta sui principi della “natura sociale<br />

della mente”, e della “irrealtà di un io o coscienza come soggetto o sostanza”.<br />

Egli sostiene che non c’è una divisione tra l’elemento individuale e quello sociale<br />

della nostra personalità, che anzi, essi sono correlati. Il problema fondamentale,<br />

allora, è quello di capire come nasce e come si sviluppa la relazione tra il<br />

presunto elemento interno e il presunto elemento esterno: come agisce l’ambiente<br />

sociale sulla psiche umana? E che ruolo hanno gli impulsi sulle modificazioni<br />

ambientali?<br />

Dewey scrive: «Il problema è da un lato di conoscere le modificazioni recate<br />

nella originaria costituzione dell’uomo dal fatto che gli elementi di cui è dotato<br />

operano in un determinato ambiente sociale; e dall’altro di sapere come il<br />

dominio dell’ambiente può essere meglio assicurato mediante il funzionamento<br />

di questa o di quella dote originaria». 174<br />

174 J. Dewey, Natura e Condotta dell’uomo, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pag. X<br />

161


Ci si trova, qui, di fronte ad un altro tentativo (molti altri li abbiamo visti in<br />

precedenza) di dare una descrizione reticolare della realtà.<br />

Dewey vuol far vedere che non si può istaurare una relazione di causa-effetto tra<br />

mente e ambiente sociale. Anche in questo caso, l’obiettivo consiste nel<br />

denunciare i limiti dell’impostazione moderna e di proporre una filosofia morale<br />

alternativa.<br />

Il filosofo americano definisce la mente come: «Qualcosa di acquisito, che<br />

rappresenta una riorganizzazione delle attività originarie mercé il loro<br />

funzionamento in un dato ambiente». 175 Quindi la mente rappresenta un punto<br />

di contatto tra le “attività originarie” (che egli definisce anche “impulsi” o<br />

“istinti”) e l’ambiente sociale.<br />

L’uomo nasce con degli istinti naturali, e viene educato all’interno di una<br />

comunità. La comunità tende a incanalare gli impulsi originari all’interno di<br />

determinate regole sociali. In questo modo, l’individuo acquista delle abitudini di<br />

comportamento, degli abiti sociali.<br />

Il concetto di “abitudine” è il cardine della filosofia morale di Dewey. Egli<br />

sottolinea la natura relazionale delle abitudini paragonandole alle funzioni<br />

fisiologiche; infatti, come le funzioni fisiologiche richiedono la cooperazione tra<br />

organismo e ambiente, così le abitudini sono il portato della relazione tra società<br />

e persona: come la respirazione coinvolge tanto i polmoni quanto l’aria che<br />

respiriamo, o la digestione implica tanto lo stomaco quanto il cibo, così le<br />

abitudini richiedono sia l’educazione che l’istinto (sono funzioni tanto<br />

dell’ambiente quanto della persona).<br />

Da questo si può dedurre che non ci sarebbero i termini della relazione senza la<br />

relazione medesima: non ci sarebbe il “cibo” se non in funzione dell’apparato<br />

digerente, e non ci sarebbe l’ “apparato digerente” se non in funzione del cibo;<br />

quindi, la relazione è costitutiva dei termini correlati; cioè, non è vero che prima<br />

sono nati lo stomaco e il cibo e poi s’è creata la relazione tra loro. Del resto, la<br />

175 J. Dewey, Natura e Condotta dell’uomo, op. cit. pag. 23<br />

162


elazione è possibile solo se c’è qualcosa da correlare, quindi, le “estremità” (i<br />

confini delle relazione) sono indispensabili affinché la relazione avvenga. Questo<br />

vale anche per la respirazione, per ogni altra funzione vitale, e più in generale,<br />

questa è una regola valida per qualsiasi tipo di relazione. Ogni cosa esiste in virtù<br />

della sua relazione a qualcos’altro; è assurdo pensare che possa esistere una cosa<br />

del tutto separata, e fuori da ogni contesto. Così educazione e cultura sono in<br />

rapporto di dipendenza reciproca con le pulsioni e gli istinti.<br />

Noi possiamo conoscere le cose solo come termini di una relazione, e cioè, in<br />

virtù della loro “funzione” (nel senso del legame che essa stabilisce), quindi, ogni<br />

cosa è funzione di qualcos’altro. Il senso delle cose è legato proprio a questa<br />

natura funzionale. Ciò, comunque, non significa che tra i termini e la loro<br />

relazione vi sia un rapporto diacronico, non si dà un prima e un poi tra di essi. Il<br />

rapporto è, invece, di sincronia. La relazione, come abbiamo detto, è<br />

“costitutiva” dei termini ma, naturalmente, non è precedente ai termini. Siamo,<br />

allora, di fronte a un “tutto” che si pone contestualmente, e si coimplica.<br />

Questo modo di vedere le cose è l’esatto opposto di quello moderno, che<br />

teorizzava rapporti diacronici e sequenziali tra i fenomeni, e credeva nella<br />

subordinazione dei nessi alle sostanze. I moderni pensavano che la realtà fosse<br />

composta di elementi singoli, che poi entravano in relazione. Ebbero, però, delle<br />

difficoltà enormi a spiegare come potessero nascere tali relazioni.<br />

Un’abitudine interessa gli organi motori, sensori, ecc., le abilità personali, ma<br />

anche fattori e condizioni ambientali. Le disposizioni morali non appartengono<br />

esclusivamente all’io; credere questo significa separare il “soggetto” dal suo<br />

mondo. Dewey scrive: «Onestà, castità, malizia, coraggio, volgarità,<br />

irresponsabilità non sono possessi privati di una persona: sono adattamenti attivi<br />

delle capacità personali alle forze ambientali. Tutte le virtù e i vizi sono abitudini<br />

che incorporano forze oggettive, sono interazioni di elementi relativi alla<br />

particolare struttura di un individuo con elementi forniti dal mondo circostante...<br />

Essi possono venir modificati dal mutarsi degli elementi o personali o sociali». 176<br />

176 J. Dewey, Natura e Condotta dell’uomo, op. cit. pag. 23<br />

163


Con questa affermazione viene messa in discussione la nozione di “carattere”<br />

individuale. Da essa infatti si evince che un uomo non è coraggioso “per natura”,<br />

ma il coraggio è un modo di reagire all’ambiente circostante; cioè è il frutto di<br />

una relazione organico-ambientale, la quale dipende da moltissimi altri fattori,<br />

oltre all’indole personale. Così quello che una persona manifesta di essere non è<br />

l’esposizione esterna di disposizioni interne che sono innate e oggettive (oggi si<br />

direbbe “genetiche”), ma il risultato di un “adattamento” della persona (intesa in<br />

senso lato) all’ambiente. 177<br />

E Dewey afferma che ciò vale tanto per le abitudini quanto per i principi, questi<br />

ultimi, infatti, sono il corrispondente intellettuale dell’abitudine nella condotta.<br />

Allora, avere delle abitudini fisse è altrettanto “dannoso” 178 che avere dei principi<br />

fissi.<br />

I principi sono dei metodi di ricerca, hanno un carattere sperimentale, quindi la<br />

loro validità e la loro efficacia va verificata per ogni singola situazione. Questo<br />

non equivale a rinunciare ai principi morali, non porta a dover giudicare ogni<br />

situazione senza tener conto delle regole esistenti. Ritenere che non ci siano<br />

regole fisse non vuol dire abbracciare il lassismo morale. Ci deve pur essere una<br />

via di fuga tra il considerare le norme morali intangibili, e il non considerarle<br />

affatto!<br />

Le situazioni sociali cambiano, ogni atto è singolare, unico, ogni evento è<br />

irripetibile. Mettersi nella condizione di dover giudicare ogni fatto con regole<br />

immodificabili porta alla costruzione di un mondo artificiale (naturalmente, è<br />

peggio credere di poter giudicare, o agire senza prestar fede ad alcun precetto).<br />

Il principio vale come riferimento necessario per il giudizio morale, vale come<br />

base di partenza, senza della quale si cadrebbe nell’assoluto relativismo etico, ma<br />

ogni evento in giudizio è un nuovo evento, al quale non si può applicare la regola<br />

177 Dewey abbozza soltanto questo concetto che diventerà invece cardinale per la psicologia successiva:<br />

basti pensare agli esperimenti fatti da Bateson, e alle sue stimolanti considerazioni sulla personalità e sul<br />

carattere umano.<br />

178 Si nota anche da questi aggettivi l’impostazione pragmatista, volta a ricercare sempre l’utilità della<br />

ricerca, e attenta a non perdersi nella mera e infruttuosa astrazione.<br />

164


esistente in modo acritico. Lo sforzo, allora, deve essere quello di adattare e<br />

conformare i principi alle situazioni concrete.<br />

Dewey paragona le regole fisse al letto di Procuste per dar corpo all’idea che:<br />

«Tutti i principi sono generalizzazioni empiriche dei modi in cui hanno<br />

funzionato in pratica precedenti giudizi di condotta… Tali generalizzazioni non<br />

sono regole fisse per decidere casi dubbi, ma degli strumenti per l’esame di<br />

essi…Ne seguirà che tali regole sono delle ipotesi che devono essere verificate e<br />

revisionate mediante il loro ulteriore funzionamento». 179<br />

Il principio è un riferimento costante per il giudizio e per la condotta, ma deve<br />

essere usato in maniera intelligente. Non deve essere inteso come un ukase da<br />

adempiere sempre allo stesso modo, ma come un mezzo che si ha a disposizione<br />

per orientarsi tra le scelte possibili.<br />

La configurazione data da Dewey al concetto di “principio” apre senz’altro<br />

prospettive promettenti, sia in campo morale che in quello scientifico. Il principio<br />

non viene più considerato come il fondamento inconcusso dal quale derivare tutta<br />

una serie di conseguenze, ma come uno “strumento” sempre passibile di<br />

miglioramento (del quale valutare in ogni momento l’utilità e la validità). Una<br />

sorta di “metodo flessibile” dell’agire e del pensare.<br />

Il cambiamento rispetto all’idea “metafisica” di principio è sensibile.<br />

Qui viene giudicata infruttuosa e astratta la ricerca di punti di partenza per sé<br />

chiari ed evidenti, di fondamenti inattaccabili sui quali poi costruire pletorici e<br />

fumosi edifici di pensiero. Per il filosofo americano non si deve mai perdere di<br />

vista l’utilità e la concretezza di quello che si sta pensando.<br />

In tale posizione è sicuramente riconoscibile un’impronta “pragmatista”, volta<br />

all’ottenimento del vantaggio e dell’efficienza; impronta guidata da un intento<br />

“evolutivo” e non “veritativo”; ciò nonostante si deve ammettere la radicalità e la<br />

bontà della sua proposta. Per un filosofo “classico” tutto ciò potrebbe suonare<br />

come un tradimento della peculiarità dell’indagine filosofica; resta il fatto che<br />

179 J. Dewey, Natura e Condotta dell’uomo, op. cit. pag. 256<br />

165


attraverso di essa Dewey è riuscito a evidenziare lacune e difficoltà epocali della<br />

metafisica.<br />

Così egli pensa che rifiutare la rigidità nelle norme non significa cadere<br />

nell’atomismo e nella disgregazione della morale; Non è la ripetizione<br />

pedissequa dei comportamenti, e l’applicazione reiterata delle stesse regole a<br />

garantire continuità ai codici; invece, i principi devono servire come base per il<br />

discernimento della continuità nello sviluppo della morale e dei costumi.<br />

La morale viene vista, dal pensatore americano, come un corpus in continua<br />

evoluzione, che basa la sua validità e il suo valore sulla sua compatibilità alle<br />

situazioni reali, in continua evoluzione, nella società.<br />

Alla fine, ciò che conta è l’interpretazione (vista come tentativo di “adeguazione”<br />

della regola alla situazione), non il valore in sé del principio. Ogni regola trae il<br />

proprio contenuto (e quindi il proprio significato) dalle precedenti applicazioni<br />

(tutte parzialmente diverse), così non esiste una norma che abbia valore di per sé,<br />

anche se estrapolata dal contesto sociale nel quale essa “vive”.<br />

Così Dewey vede il rapporto tra principi e abitudini, e allora diventa<br />

consequenziale affermare che le abitudini sono le linee lungo le quali si<br />

compiono le interazioni sociali.<br />

Questo è un buon modo per allontanarsi dalla rigidità delle contrapposizioni<br />

moderne tra soggetti e oggetti, cioè tra enti dotati di una propria consistenza che<br />

si ergono uno di fronte all’altro. Dewey offre molti spunti per vanificare la<br />

predominanza che il paradigma moderno esercita nella filosofia (e più in generale<br />

in tutta la cultura); ma non è ancora abbastanza per abbandonare quel mondo.<br />

Siamo nuovamente in presenza di una acuta analisi di quei limiti, non<br />

accompagnata da una totale soluzione di continuità. Rimangono dei residui che<br />

mostrano un pensatore ancora vincolato a valori passati, e a principi che peraltro<br />

egli stesso vuol combattere. Se si pensa che la flessibilità della norma sia dovuta<br />

alla possibilità di adeguarne l’interpretazione all’evoluzione sociale, si è fatto un<br />

passo avanti oltre la sclerotizzazione moderna, ma si continua ad intendere regole<br />

e situazioni come degli “oggetti”. L’idea che l’interpretazione sia l’<br />

166


“adeguazione” di una regola ad una situazione implica la convinzione che<br />

esistano una regola e una situazione “date”. Così queste ultime vengono<br />

considerate al modo di entità stabili, e individuabili nello spazio e nel tempo. E<br />

questo modo d’intendere fa parte del bagaglio concettuale dell’uomo moderno.<br />

II) Impulso e socializzazione<br />

Per Dewey, il “sociale” è l’elemento umano in cui l’impulso primitivo assume<br />

un significato. Ciò non significa che la “società” preceda l’ “individuo”, perché<br />

la società è un “sistema di interazione” che acquista fisionomia e identità proprio<br />

grazie alle relazioni individuali. Anche in questo caso, il rapporto tra gli elementi<br />

non è diacronico ma sincronico. Tutt’al più, si può dire che un determinato<br />

individuo nasce e si forma all’interno del suo gruppo di riferimento.<br />

La condotta umana è formata da abitudini e da impulsi; è, allora, necessario<br />

capire quali rapporti ci siano tra di essi. L’impulso è innato, mentre l’abitudine è<br />

acquisita, però non è vero che l’impulso precede l’abitudine. Gli impulsi nel<br />

bambino sono indeterminati, indefiniti, dispersi, sono solo una base di partenza<br />

per potere ottenere conoscenza ed esperienza, per apprendere le abilità e i<br />

costumi degli adulti, per entrare a far parte del loro mondo. Nella condotta<br />

umana, a parere di Dewey, l’elemento acquisito anticipa quello innato perché gli<br />

impulsi non possiedono una loro identità originaria. L’uomo è in grado di<br />

distinguerli solo quando il suo processo di socializzazione è ad uno stadio<br />

avanzato; “In breve - egli dice - il significato delle attività native non è nativo: è<br />

acquisito”. Così, il filosofo americano pensa che l’unico modo per spiegare la<br />

grande diversità delle istituzioni e dei codici morali esistenti sulla terra - data la<br />

167


quasi identità dei corredi genetici individuali - è quello di far ricorso ai costumi e<br />

alla cultura dei diversi popoli.<br />

Egli scrive che: «È lo sviluppo dell’impulso innato che deve essere enunciato in<br />

termini di abitudini acquisite, non già lo sviluppo dei costumi in termini di<br />

istinti». 180<br />

Le abitudini non hanno un’origine esclusivamente sociale, l’uomo non è un<br />

ricettore passivo di costumi già esistenti; altrimenti, questi ultimi sarebbero<br />

“eterni”, e il cambiamento culturale sarebbe impossibile; diciamo meglio, Dewey<br />

distingue tra due tipi di abitudini: la routine (una falsa abitudine) che è, appunto,<br />

la passiva accettazione e reiterazione dei costumi sociali esistenti; essa è figlia<br />

della separazione tra corpo e mente, tra la teoria e la prassi, tra impulso e<br />

abitudine; c’è poi, “l’abitudine intelligente”, cioè l’atteggiamento umano critico e<br />

vigile, che consiste nella cooperazione tra impulsi e costumi. Quindi, è grazie<br />

agli impulsi che è possibile modificare i nostri comportamenti, e i costumi<br />

sociali. Essi permettono di riorganizzare e riadattare l’organismo all’ambiente.<br />

Così, si può affermare che anche tra impulsi e abitudini si istaura una relazione di<br />

reciprocità: l’impulso è l’elemento innato che acquista la propria fisionomia<br />

grazie alle abitudini, dall’altra parte, l’abitudine non può che essere il risultato di<br />

una intelligente elaborazione dell’impulso, e della relazione tra impulso e<br />

costume.<br />

Ed è proprio l’abitudine intelligente che pone in atto la relazione reciproca tra<br />

organismo e ambiente, in quanto essa è un “adattamento operoso di capacità<br />

personali alle forze ambientali”; solo dal rapporto dinamico tra ambiente e<br />

organismo nasce la vera abitudine. Spieghiamo meglio: da un lato agiscono gli<br />

impulsi, dall’altro ci sono i costumi e le istituzioni sociali, l’abitudine nasce dalla<br />

mediazione consapevole e ragionata tra questi due termini. Così, gli elementi che<br />

entrano in gioco sono tre: natura, razionalità, socialità. Le relazioni tra i vertici di<br />

questo triangolo sono reciproche e dinamiche. Quindi, Dewey assegna alla<br />

180 J. Dewey, Natura e Condotta dell’uomo, op. cit. pag. 99<br />

168


morale vigente una parte importante nella regolazione delle “transazioni” sociali.<br />

La vita di gruppo dipende proprio dall’esistenza di una morale condivisa. Il<br />

processo di socializzazione al quale viene sottoposto il fanciullo ha la funzione di<br />

fargli acquisire i valori del gruppo di riferimento. Però, bisogna distinguere tra<br />

socializzazione e “ammaestramento”. Se l’insieme delle norme sociali sono<br />

concepite come un qualcosa di immutabile e intangibile la persona si trova<br />

menomata delle sue facoltà critico-razionali, essa è considerata alla stregua di un<br />

animale da addestrare.<br />

La precedente analisi vuole mettere in rilievo le difficoltà in cui incorre la<br />

filosofia morale moderna. Dewey sostiene che se si concepisce la norma come<br />

una entità “assoluta”, si finisce nel fondazionalismo, in quanto il precetto rigido e<br />

immodificabile diventa un “sostrato”. E tale rigidità mina la bontà di qualsiasi<br />

codice, perché la società non è statica, ma si sviluppa nel tempo; quindi la sua<br />

“morale” deve essere in grado di adeguarvisi. Una norma rigida ha la stessa<br />

utilità di un vestito per un corpo che sta crescendo.<br />

Allora se è sbagliato trattare come enti immodificabili i principi<br />

dell’epistemologia, lo è ancora di più considerare in quel modo le norme etiche.<br />

Dewey crede che un buon codice debba essere flessibile, cioè in grado di<br />

adattarsi alle mutevoli esigenze della comunità.<br />

Queste considerazioni vanno nella giusta direzione. Ci dobbiamo però<br />

domandare se sono sufficienti per uscire dal “paradigma” moderno. In altri<br />

termini, trasformare un principio rigido in un principio flessibile, ci consente di<br />

abbandonare la logica principiale?<br />

Dewey dimentica di sottolineare che qualsiasi “addestramento” implica un certo<br />

adattamento reciproco, e come tale richiede l’ “interpretazione”. Interpretare<br />

consiste nell’essere in relazione. Ogni persona impara a stare al mondo<br />

(acquisisce consapevolezza di sé e del mondo) interpretando il suo “vissuto”.<br />

Ognuno di noi “è” (il risultato di) questa attività sempre in itinere. L’insieme<br />

degli eventi che ci coinvolgono e l’autocoscienza sono aspetti della stessa realtà.<br />

169


Noi siamo da sempre in relazione, noi siamo interpretazione. Esistere è<br />

interpretare. Di conseguenza, noi non acquisiamo un linguaggio con il quale poi<br />

possiamo interpretare le cose che ci capitano, ma interpretiamo anche (e<br />

soprattutto) durante il nostro “addestramento”. Ogni bambino interpreta con gli<br />

strumenti che via, via ha a disposizione. E più gli strumenti (linguistici) sono<br />

“rudimentali”, più marcato diventa il ruolo dell’interpretazione (più il linguaggio<br />

diventa “formalizzato” e minore è l’apporto individuale).<br />

È chiaro quindi, che le “relazioni” vissute nell’infanzia sono fondamentali per<br />

ogni esistenza. E come abbiamo già visto, l’ego della persona si forma proprio<br />

con queste relazioni dal carattere evenemenziale: l’esistenza si compone di eventi<br />

che vengono tenuti insieme dalla consapevolezza di sé, la quale è in continuo<br />

svolgimento.<br />

Il linguaggio che ognuno di noi usa è originale, perché frutto di un insieme di<br />

relazioni tra parlanti e contesti ogni volta diversi. La realtà è un farsi<br />

evenemenziale del quale partecipa anche l’esistenza.<br />

Dimenticare questo porta a considerare la persona come un “soggetto”, come un<br />

ente stabile e continuo nel tempo, nel modo in cui lo pensavano i moderni.<br />

Allora, la norma etica diventa comunque un “oggetto”, cioè qualcosa di<br />

altrettanto stabile (e “posto di fronte”) col quale doversi confrontare. 181 Infatti,<br />

per quanto flessibile, essa è comunque qualcosa di esterno, e di isolato rispetto al<br />

soggetto. Essa vive della sua autonomia. In questo modo si configura il solito<br />

rapporto “soggetto”-“oggetto”, viziato dai limiti del dualismo.<br />

In più, rinunciare ad una caratteristica del principio non significa rinunciare alla<br />

logica sottesa dal ragionamento principiale. Anche in questo secondo caso avrò<br />

bisogno di “fondare” il comportamento su qualcosa di stabile. Il principio che si<br />

aggiorna, è comunque un principio; variare il contenuto del principio, non<br />

significa modificare la sua essenza di principio. Anche se cambia il suo<br />

“dispositivo”, un precetto rimane sempre un precetto (un oggetto che cambia<br />

rimane pur sempre un oggetto). In questo senso, anche Dewey intende la regola<br />

181 Anche se si pensa ad essa come a qualcosa di flessibile. “Flessibile” è il contrario di “rigido”, non di<br />

“stabile”.<br />

170


come un “principio”, qualcosa di “definito” (compiuto) al quale ci si deve<br />

“adeguare”.<br />

Invece, le regole vigenti, non sono per tutti le stesse regole: è il soggetto che si<br />

confronta in ogni occasione con la medesima regola, in quanto la regola (come<br />

ogni altra cosa) per il soggetto è un entità oggettiva che gli sta di fronte, e con la<br />

quale egli si deve misurare (egli la può “rispettare” o “violare”). La regola allora<br />

diventa un sostrato che sorregge l’azione individuale. Ma questo è solo un modo<br />

di intendere quel rapporto, non una verità inconfutabile.<br />

Oltre la dinamica moderna bisogna pensare che la relazione tra “azione<br />

individuale” e “regola” è evenemenziale, è contestuale. È un’ “esperienza”<br />

sempre diversa.<br />

Non c’è uno specifico “carattere individuale” (soggetto) che si rapporta ad una<br />

“data” regola (seguendola o non seguendola); ma “si dà” un evento che<br />

coinvolge “termini” – che si possono chiamare “agenti”, “regole”, “contesto” – in<br />

relazione reciproca, e non perfettamente “stabili”, “continui” e “definiti” nel<br />

tempo. Il comportamento che ne risulta, (il fenomeno osservato) è qualcosa di<br />

molto complesso, che va al di là dell’alternativa tra rispetto e violazione della<br />

norma (o della dicotomia tra “libertà” e “determinazione” nella esecuzione<br />

dell’azione).<br />

La morale come insieme di regole stabilite, o come successione di interpretazioni<br />

di quelle regole (che l’individuo può accettare o rifiutare) è un retaggio moderno;<br />

infatti ogni esistenza “è” una relazione diversa con la “stessa” regola; e siccome<br />

ogni evento implica qualcosa di unico, ogni esistenza interpreta quella regola di<br />

evento in evento, nel senso che la relazione che si crea tra agente e regola non è<br />

mai la stessa relazione (e non è sicuramente una “re-azione” di un soggetto ad un<br />

concetto percepito); ogni azione è in realtà un evento irripetibile che coinvolge<br />

termini ad esso, e solo ad esso, riferibili. Così anche l’esistenza non può essere<br />

due volte (per due eventi) la stessa esistenza.<br />

L’uomo, in ogni momento della sua vita, interpreta la norma sempre in modo<br />

originale, sulla scorta delle esperienze fatte e della situazione che si trova a<br />

171


vivere, cioè interpreta con una consapevolezza (di sé e del mondo) sempre<br />

diversa. Si può anche dire che l’uomo “è” quelle interpretazioni.<br />

È per questo che non esiste qualcosa come la morale, il diritto, la legge, ma ci<br />

sono invece una serie infinita di atteggiamenti diversi (di eventi, di relazioni) di<br />

fronte a quel precetto che “tutti” leggono – ma non interpretano – allo stesso<br />

modo. Se ogni azione è un evento, la relazione tra agente e regola sarà ogni volta<br />

diversa. Anche quella di chi si ferma ogni giorno di fronte allo stesso stop. Si<br />

deve partire dal presupposto che soggetto e oggetto perdono quella consistenza<br />

che avevano per i pensatori moderni. Se accogliamo questa prospettiva, non<br />

rimane più niente di “costituzionalmente” stabile, in quanto la stabilità diventa<br />

qualcosa di “acquisito”: la realtà si compone di eventi che l’esistenza riesce a<br />

correlare, in un farsi progressivo e reciproco. Così è solo all’interno di ciascun<br />

evento che la regola assume un significato; è solo nell’evento che l’esistenza si<br />

relaziona alla (e quindi interpreta la) regola. E nell’evento, esistenza e regola si<br />

definiscono reciprocamente (si “co-determinano”, “sono” al di là del corpo che si<br />

ferma di fronte alla striscia bianca). Quindi, anche se il comportamento di fronte<br />

allo stop è sempre lo stesso, ogni occasione nella quale ciò accade è sempre<br />

diversa. La persona che si ferma e la regola che lo fa fermare si relazionano ogni<br />

volta in modo unico, perché l’uno e l’altra sono ogni volta qualcosa di diverso.<br />

Ogni volta l’interpretazione della regola è la relazione che si manifesta<br />

nell’evento. Che questo diventi un comportamento routinario è dovuto a<br />

specifiche facoltà del cervello 182 (ad esempio la memoria), non al fatto che lo<br />

182 Cioè a facoltà organiche. Il cervello è un organo del corpo, il quale tutt’al più, può essere<br />

considerato il “luogo” dove si manifesta l’autocoscienza, non l’autocoscienza. Insomma, qui non si crede<br />

che l’organismo coincida con la persona.<br />

C’è da aggiungere che per “luogo” non si intende qualcosa di permanente, che contiene enti (come lo<br />

spazio), ma il “contesto” di una relazione (l’idea di “contesto” è stata trattata nel secondo capitolo della<br />

prima parte). Esso si definisce nella mutualità di tutti i termini; allora, il cervello svolge le sue funzione<br />

solo in reciprocità con gli altri “elementi” della relazione. Essi si co-determinano: il cervello “permette”<br />

di riconoscere il segnale stradale, lo stop “permette” di “identificare” il cervello.<br />

Lo stesso concetto di “corpo”, andrebbe rivisto alla luce delle considerazioni fatte sulla realtà<br />

evenemenziale. Anch’esso infatti non può essere considerato alla stregua di un oggetto, come qualcosa di<br />

stabile e continuo nel tempo, perché “si dà” nell’evento, e in ogni evento; la sua “identità” si manifesta<br />

in relazione ad “altro”. Non ci sono “corpi” al di fuori degli eventi, quindi il “corpo” ha le stesse<br />

caratteristiche degli altri termini ai quali si relaziona nell’evento. Così la realtà non è né una successione<br />

di “fatti” che si svolgono nel tempo (realismo), né una costruzione mentale che pone il tempo (idealismo).<br />

Il cervello non è l’organo stabile che ha la funzione di collegare ogni singolo evento, ma si manifesta<br />

172


stop sia sempre lo stesso “oggetto”, e la persona sia sempre lo stesso<br />

“soggetto”. 183<br />

Allora, diventa importante non confondere i due concetti di “interpretazione”.<br />

Una cosa è interpretare nel senso di dare un opinione personale in merito ad un<br />

“fatto”, o attribuire un determinato significato a qualcosa (cioè il concetto<br />

tradizionale di “interpretazione”); esso implica una “rappresentazione”, una<br />

“adeguazione”, e una “re-azione” al “fatto” o al testo, dati; essa determina quindi<br />

una “struttura dualistica”, tra un soggetto che interpreta e un oggetto interpretato;<br />

Un’altra cosa è il concetto che viene usato qui: “interpretare” è qualsiasi atto<br />

dell’esistenza, negli eventi che la coinvolgono, è un saper stare in relazione,<br />

cogliendo tale relazione. Qualsiasi azione all’interno dell’evento è<br />

un’interpretazione perché implica un rapporto di mutualità; ogni relazione è<br />

un’interpretazione. L’interpretazione avviene all’interno della relazione reciproca<br />

tra termini (della quale si parlava sopra), ha quindi un carattere evenemenziale.<br />

L’interpretazione manifesta la relazione, e configura l’evento. Quindi un conto è<br />

“adeguarsi” a qualcosa di esterno (che viene percepito come “oggettivo”,<br />

“dato”); un altro è “stare”, “essere”, in relazione, nel senso di “costituire<br />

anch’esso di evento in evento. D’altra parte, l’evento non è un “fatto” che accade, ma esso si manifesta<br />

come relazione dei termini coinvolti. Tutto “si fa” e “si dà” nella mutualità della relazione. Se per un<br />

verso si accetta l’affermazione che il cervello è “dentro” l’evento, per l’altro si può dire anche che<br />

l’evento è “dentro” il cervello. Ma queste relazioni spaziali sono solo il portato della logica dualistica, e<br />

rischiano di essere fuorvianti. Se gli elementi della relazione si co-determinano significa che la reciprocità<br />

non avviene nel senso “newtoniano”, di una re-azione ad un impulso tra corpi inalterabili, come prevede<br />

il terzo principio della meccanica.<br />

Per “reciprocità” qui si intende un tipo di relazione costitutiva dei termini coinvolti. In questo tipo di<br />

relazione non è possibile separare tali termini, in quanto essi non hanno nemmeno un’ identità al di fuori<br />

della relazione che li raccoglie (su tutti questi aspetti torneremo nella terza parte).<br />

183 Si potrebbe obiettare che una posizione di questo tipo renderebbe impossibile la convivenza. Certo<br />

rispetto all’ottica moderna tutto ciò diventa “caos” e “disordine”. Infatti l’idea di ordine qui sottesa è<br />

alternativa al concetto di “adeguazione”.<br />

La metafisica concepisce l’ordine e quindi la giustizia come l’adeguazione ad un principio; togliendo la<br />

necessità del principio crolla quell’idea di giustizia. Ma ci si deve chiedere se l’idea metafisica di ordine<br />

sia l’unica possibile. Lo sforzo che qui si sta facendo consiste proprio nel tentativo di proporre un<br />

modello alternativo a quello metafisico, il quale ha mostrato nel corso del tempo una serie notevole di<br />

limiti e contraddizioni.<br />

173


un’unità con”, di “essere in un rapporto di mutualità con”, o di “essere in osmosi<br />

con”. 184<br />

Il carattere evenemenziale della realtà fa premio sulla stabilità di soggetti e<br />

oggetti.<br />

Dewey cerca di guadagnare un contesto di reciprocità, tra “ambiente” e<br />

“persona”, attraverso il concetto di “natura sociale della mente” e le spiegazioni<br />

che seguono, ma cede poi alla tendenza di individuare relazioni di dipendenza, ed<br />

entità autonome. Questo è un limite della sua filosofia morale; ne è prova anche<br />

la spiegazione del rapporto tra educazione (addestramento) e personalità. Una<br />

volta guadagnato l’ambiente della reciprocità dovrebbe essere chiaro che, per<br />

quanto ci si sforzi di omologare le procedure di educazione, non si otterranno<br />

mai due “risultati” identici.<br />

Allora, l’addestramento è sempre una “relazione aperta” di scambio reciproco,<br />

del quale è impossibile prevedere gli sviluppi. E questo non a causa del<br />

“genoma” 185 individuale ma in virtù della natura “relazionale” ed<br />

“evenemenziale” dei rapporti umani. Ogni evento è unico, ogni relazione è<br />

originale. 186<br />

Se esiste reciprocità tra socialità e razionalità, tra elemento acquisito e elemento<br />

innato, non può succedere che uno faccia premio sull’altro. Anzi sarà addirittura<br />

problematica una loro divisione, o una loro separazione. Essi potranno essere<br />

distinti per fini tassonomici, ma non si potranno comunque trattare né come due<br />

aspetti separati della personalità, né in modo da configurare relazioni di<br />

184 Sulla differenza tra il concetto di relazione come “re-azione”, e quello di relazione come<br />

“compatibilità”, “osmosi”, “mutualità” e “reciprocità” torneremo nella terza parte.<br />

185 Dell’ereditarietà dei “caratteri”; che mostra di essere un modo ancora “soggettivistico” di<br />

rappresentare l’ “umano”.<br />

186 Così, ad esempio, diventa difficile distinguere tra “socializzazione” e “ammaestramento”, perché<br />

anche la procedura più rigida può portare a risultati del tutto inattesi. Ciò significa che è impossibile<br />

educare? Tutt’altro. Quanto si è detto invita solo a tener conto della reciprocità e della relazionalità<br />

dell’azione educativa (come di ogni altra azione), e della “osmosi” che si verifica tra chi “educa” e chi<br />

viene “educato”.<br />

174


dipendenza tra l’uno e l’altro. Il rischio infatti è sempre quello di ricadere nei<br />

dualismi a cui è costretto il pensiero moderno.<br />

Per poter giungere all’ “ecologia”, per superare il fondazionalismo moderno, si<br />

deve rinunciare ai “principi” della metafisica, e ci si deve rivolgere<br />

all’evenemenzialità e alla reciprocità.<br />

III) Pensiero e azione<br />

Dewey sostiene che la differenza tra l’uomo e l’animale sta nelle facoltà<br />

razionali, che nel caso della convivenza sociale si riconoscono nella capacità di<br />

modificare norme, usi e costumi divenuti obsoleti. Il pensiero riveste, allora, una<br />

posizione fondamentale in questa relazione triadica. Ma, come abbiamo vista<br />

sopra, anche il pensiero è il risultato di una continua evoluzione del rapporto tra<br />

natura e organismo. Esso non è qualcosa di dato originariamente, né di acquisito<br />

una volta per tutte, non è neppure una facoltà “interna” dell’uomo, ma è rapporto<br />

pulsante, continuamente sollecitato dallo scambio reciproco, tra ambiente e<br />

organismo.<br />

Si aggiunga che, tali sollecitazioni non sono solo di natura razional-speculativa<br />

ma sono anche d’origine morale. Le abitudini nascono dalla relazione tra<br />

ambiente sociale e istinti umani, e nello stesso tempo, sono coinvolte in questa<br />

relazione, che diventa così triadica; cioè, le abitudini non sono solo il risultato di<br />

una relazione tra elementi ad esse estranee, ma sono parte della relazione:<br />

interagiscono con l’ambiente e con gli impulsi. Abbiamo già visto, ad esempio,<br />

che non possiamo avere consapevolezza dei diversi impulsi prima di possedere<br />

delle abitudini; d’altra parte, l’abitudine è un “uso” razionale degli impulsi,<br />

quindi essa esiste in funzione di questi ultimi.<br />

175


Una relazione di reciprocità si pone anche tra ambiente e abitudini in quanto, se<br />

da un lato è vero che l’ambiente sociale plasma le abitudini, dall’altro sappiamo<br />

che possono sorgere abitudini nuove, comportamenti innovativi rispetto al<br />

contesto sociale di riferimento che, in quanto tali, vanno a modificare l’ambiente.<br />

Dewey scrive che le abitudini sono “arti” che esprimono gli “adattamenti attivi”<br />

delle capacità personali alle forze ambientali. Quindi, la relazione abitudine-<br />

impulso-ambiente si può definire “osmotica”.<br />

Allora, né la conoscenza, né la morale sono attitudini acquisite stabilmente, e non<br />

sono neppure facoltà interne dell’individuo, che si manifestano attraverso il loro<br />

uso. Sono, invece, agenti e risultati di una “cooperazione” tra diversi elementi.<br />

In questo senso, Dewey cerca di caratterizzare la “natura sociale della mente” e<br />

l’ “irrealtà di un io o coscienza come soggetto o sostanza” come principi della<br />

sua filosofia. Abbiamo visto che le relazioni fondamentali sono quelle tra azione<br />

sociale e abitudine, tra morale e conoscenza. Il pensatore americano vuol far<br />

vedere che tutti i termini di queste relazioni si coimplicano, nel senso che<br />

nessuno di loro possiede un esistenza propria, indipendentemente dalla relazione<br />

con gli altri.<br />

Le abitudini, lungi dal poter essere cambiate attraverso meri atti di volontà<br />

individuale indipendentemente dal contesto sociale e dal pensiero, possono venir<br />

modificate dal combinato di azione personale e attività sociale, ovvero,<br />

all’interno dell’ambiente di riferimento che dall’attività sociale dipende. Questo<br />

perché le abitudini di una persona dipendono dalle istituzioni sociali, dagli<br />

impulsi e dal pensiero. Quindi, anche la questione morale e lo sviluppo della<br />

conoscenza sono due facce della stessa medaglia; scrive Dewey: «La formazione<br />

di un nuovo io in qualche rispetto o misura è implicita in ogni atto di indagine.<br />

Nella situazione conoscitiva come tale l’accento aperto ed esplicito cade sulla<br />

risoluzione della situazione per mezzo del mutamento prodotto nelle circostanze<br />

ambientali, mentre nella situazione particolarmente morale esso cade sulla<br />

176


icostruzione dell’io come il mezzo particolarmente richiesto. Ma la differenza è<br />

in ogni caso una differenza d’accento». 187<br />

Mente e morale sono (e vivono di) relazioni reciproche tra fattori ambientali e<br />

componenti organiche. Cosicché, ad esse non è possibile attribuire una<br />

collocazione spaziale, esse non sono contenute in questo o quel ricettacolo, e non<br />

sono sostanze.<br />

Il codice morale non è una proprietà originaria dell’individuo, il senso etico non<br />

deriva da un insieme di norme innate che condizionano il comportamento umano.<br />

La morale è in funzione della cultura e della storia di una società (per Dewey: “ai<br />

fini pratici morale significa costumi, forme di vita popolare, abitudini collettive<br />

stabilizzate”). Ma una volta stabilito questo, non si deve commettere l’errore di<br />

credere che le norme apprese abbiano il crisma dell’inviolabilità, e che metterle<br />

in discussione sia un atto eversivo. La morale vigente è una base di partenza per<br />

l’uso intelligente dell’abitudine, è una condizione necessaria per il mantenimento<br />

della convivenza civile, è il risultato – temporaneo, contingente – dello sviluppo<br />

dei rapporti sociali. Di conseguenza, qualsiasi codice morale, fondato su precetti<br />

rigidi e immodificabili, che voglia stabilire sanzioni definitive, per ogni caso<br />

della vita fallirà il suo scopo. Nessun codice (morale, civile, penale), per quanto<br />

esteso, può prevedere e prevenire la varietà delle situazioni che si possono<br />

originare dalla convivenza sociale. Anzi, quanto più il codice è complesso, tanto<br />

più sarà inapplicabile.<br />

Non si ottiene la certezza del diritto cercando di avere una norma per ogni<br />

possibile violazione; anzi, la proliferazione delle regole porta alla confusione e<br />

alla loro conflittualità reciproca. 188<br />

Qualsiasi norma lega la sua efficacia e il suo significato alla interpretazione del<br />

caso specifico, sulla base delle applicazioni precedenti. La rigidità del codice è<br />

inversamente proporzionale alla sua efficacia. Questo perché i comportamenti<br />

187 J. Dewey, Natura e condotta dell’uomo, op. cit. pag XVIII<br />

188 Già Cicerone del resto a proposito dell’eccessiva rigidità nell’applicazione della norma sentenziò:<br />

«Summum ius summa iniuria». E la rigidità nell’interpretazione porta come conseguenza la proliferazione<br />

delle norme.<br />

177


umani non sono routinari, meramente ripetitivi di usi e costumi appresi<br />

(certamente la routine esiste ma è solo un uso distorto dell’abitudine); crede<br />

questo chi possiede una visione disgregata del mondo, chi pensa che le cose<br />

possano sussistere nella loro indipendenza senza alcuna relazione reciproca, chi<br />

ritiene che tra teoria e prassi, tra ideale e reale ci sia uno iato originario, ma<br />

abbiamo già visto, che questa è un’idea artefatta e fittizia.<br />

Piuttosto, “l’abitudine è un modo intelligente di predisporre comportamenti<br />

adeguati alle richieste del mondo circostante”, e la morale non è altro che<br />

l’insieme delle abitudini attive in un determinato momento. La realtà è un<br />

insieme di termini correlati, in continuo sviluppo.<br />

Dewey definisce “proposizione fondamentale” il principio che “la morale si<br />

connette con la realtà dell’esistenza e non con ideali, fini e obbligazioni<br />

indipendenti dalla realtà concreta”.<br />

A compendio delle argomentazioni qui svolte si può ribadire che Dewey continua<br />

a mescolare momenti di grande innovazione con richiami frequenti alla<br />

tradizione moderna. Se da una parte l’idea che “la formazione dell’io è implicita<br />

in ogni atto d’indagine” rappresenta l’apertura di una nuova via rispetto al<br />

sentiero della metafisica, in quanto toglie al soggetto la sua “sostanzialità”, la sua<br />

“stabilità”, e lo mette in “relazione” con tutto ciò che lo circonda, cioè ne fa una<br />

struttura “aperta”; 189 dall’altra, l’opinione che ci si possa “adeguare” alle<br />

richieste del mondo circostante, e che le norme servano a questo, dimostra che si<br />

crede nella capacità dell’uomo di “leggere” (di “decodificare”) e quindi di<br />

adeguarsi a tali situazioni. Allora, da un lato questo implica l’ “oggettività” della<br />

situazione da interpretare (e di conseguenza la “soggettività” di chi “interpreta”),<br />

cioè la separazione di fondo tra le due realtà coinvolte; dall’altro ciò vuol dire<br />

che si confida nella possibilità della “adeguazione”. Certo Dewey ammette che<br />

essa è una rincorsa continua, ma così mostra anche di credere in questo tipo di<br />

relazione: l’uomo si adegua alla situazione sociale per “re-azione”, dopo aver<br />

189 In questo modo si distingue dal soggetto e dalla sua indipendenza.<br />

178


constatato l’inefficacia della propria condotta. Allora questa teoria della morale<br />

non rappresenta una rottura totale rispetto a quelle che l’hanno preceduta.<br />

La conformazione al principio è il cardine della metafisica. La differenza che si<br />

riscontra nella posizione di Dewey è che egli combatte la rigidità del principio,<br />

perché la reputa dannosa. Ma, come abbiamo già detto, un conto è combattere<br />

una determinata caratteristica del principio, un altro è opporsi all’idea in sé di<br />

“principio”.<br />

Dire che il principio è qualcosa in continua evoluzione, significa comunque<br />

assegnargli uno statuto ontologico ben preciso. Sostenere che un principio deve<br />

essere trattato come uno strumento di cui potersi servire, dal quale trarre sempre<br />

la massima efficacia, non significa rifiutare la posizione “principiale”, ma vuol<br />

dire proporne una revisione. Allora quello che manca alla posizione di Dewey,<br />

per uscire dal fondazionalismo, è la necessaria radicalità: il rifiuto del<br />

“modernismo” deve essere assoluto. Bisogna rinunciare ai cardini e anche ai<br />

corollari di quel modo di intendere la realtà (cioè di quel modo di pensare il<br />

rapporto tra “esistenza” ed “ente”). E ciò è possibile abbracciando un punto di<br />

vista ecologico.<br />

179


Terzo capitolo: la transazione: il tentativo di scoprire un<br />

I) L’ultima “fatica” di Dewey<br />

paradigma<br />

Una trattazione a parte merita l’ultima opera di Dewey, Conoscenza e<br />

transazione, perché può essere considerata come il punto di arrivo di una ricerca<br />

filosofica durata sessant’anni. In quest’opera, 190 l’intento è quello di lavorare ad<br />

una terminologia rigorosa per evitare la confusione che molto spesso<br />

accompagna l’indagine scientifica. Il problema del linguaggio da usare nella<br />

ricerca era stato trattato da Dewey anche in lavori precedenti (Esperienza e<br />

natura e Logica, teoria dell’indagine), ma in questo testo diventa il tema<br />

principale. Egli comincia con un’analisi delle opere più significative scritte in<br />

quel periodo nel campo della logica da autori quali Carnap, Nagel, Morris, Tarski<br />

ecc, nelle quali scopre molte imprecisioni e leggerezze semantiche; il che è<br />

paradossale se si pensa che l’intento degli autori era proprio quello di eliminare<br />

l’ambiguità e la confusione nell’uso del linguaggio.<br />

Dewey però non attribuisce la colpa di questi insuccessi agli autori dei libri ma al<br />

“contesto” nel quale essi si sono mossi. Dewey sostiene che per uscire dai limiti e<br />

dalle incertezze insite nella logica e nella teoria della conoscenza si deve<br />

abbracciare una nuova metodologia, si devono abbandonare le fondamenta<br />

moderne che ancora informano questi campi della filosofia.<br />

Tutto ciò è in linea con le idee che il filosofo americano ha elaborato e difeso<br />

durante l’intero arco della sua carriera; in quest’ultimo libro però egli tenta di<br />

190 Scritta in collaborazione con A.F. Bentley, ma che per comodità di esposizione viene riferita solo a<br />

Dewey.<br />

180


fare un passo ulteriore. Cerca di fissare le procedure attraverso le quali il suo<br />

lavoro possa essere continuato in futuro, e applicato anche ad altri campi di<br />

ricerca.<br />

Dewey sostiene che l’ostacolo che blocca lo sviluppo della logica e della teoria<br />

della conoscenza (che per lui sono due aspetti della medesima questione) è la<br />

visione dualistica ereditata dalla tradizione razionalista.<br />

La difficoltà riguarda tutta la filosofia, ma egli ritiene che il suo campo di<br />

elezione sia la teoria della conoscenza, e che quindi risolvere il problema<br />

“epistemologico” 191 equivalga a risolvere il problema tout-court.<br />

Ciò che si deve superare è la separazione tra parlante e parole, tra parole e<br />

oggetti, tra cose e pensieri. Si deve evitare, anche, di pensare alle parole come a<br />

una terza entità che si pone tra l’uomo e la realtà. In logica, viceversa, vengono<br />

moltiplicate tali divisioni, fino ad arrivare a trattare con parole e significati, segni<br />

e riferimenti, immagini e pensieri, forme e contenuti, pensieri e frasi, enunciati e<br />

proposizioni, ecc., col risultato di non riuscire poi a delimitare il campo delle loro<br />

differenze, e a cadere inevitabilmente nelle contraddizioni che Dewey ha<br />

riscontrato nei lavori di logica che ha esaminato. Egli ritiene che gli autori citati<br />

nella sua opera – anche se hanno cercato di abbandonare le teorie<br />

epistemologiche che ipostatizzavano la realtà mentale fino a farla diventare<br />

“soggetto”, contrapponendola poi al mondo esterno come “oggetto” –<br />

mantengono, di fatto, una separazione epistemologica, caratteristica del<br />

diciassettesimo secolo, tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto che deriva a<br />

sua volta dalla separazione medievale tra “essenza spirituale” e “realtà materiale”<br />

(e che quindi, ha radici antiche).<br />

Si deve capire, invece, che la separazione tra soggetto e oggetto è fittizia ed è<br />

l’origine di tutte le contraddizioni e le difficoltà che hanno dovuto affrontare i<br />

filosofi moderni. Per cercare di superare questo dualismo Dewey introduce i<br />

primi concetti-chiave della sua proposta.<br />

191 Il termine qui viene usato nel senso americano di teoria della conoscenza.<br />

181


Egli sostiene che la “realtà” non va divisa in due entità separate: una conoscente<br />

e l’altra oggetto di conoscenza, ma che bisogna invece considerarla come una<br />

relazione originaria e evolutiva tra “i conoscere” (“knowings”) e “i conosciuti”<br />

(“knowns”). L’importanza di queste parole si deduce dal fatto che il titolo<br />

originale del libro è proprio Knowing and the known.<br />

Cosa intende dire Dewey? A questo punto si entra nel vivo dell’opera. Infatti,<br />

attraverso la “specificazione” di tali termini Dewey ci illustra la sua metodologia<br />

filosofica, e la sua concezione transazionale della realtà.<br />

Il filosofo americano scrive che non esistono facoltà autonome e indipendenti e<br />

nemmeno idee e sensazioni isolate, ma che è necessario collegare l’intera vita<br />

psichica con l’ambiente, e fare dello stesso organismo solo un momento di<br />

un’unità più complessa che abbraccia sia la vita della natura che quella della<br />

società. Così, sono “aspetti” della “medesima” “realtà” anche il “mondo” interno<br />

e quello esterno all’individuo; ciò significa che tra fatto e idea non c’è<br />

separazione; anzi “l’idea è un processo di trasformazione del fatto e la verifica di<br />

un idea è il processo che la definisce nella sua completezza”. 192<br />

Un esempio a sostegno di questa affermazione a suo avviso potrebbe venire<br />

proprio dalla fisica. I fatti osservati sono sempre condizionati dall’idea che si<br />

vuol provare o confutare. E nello stesso tempo la verifica dell’idea serve sempre<br />

al suo completamento (alla sua chiarificazione). 193<br />

192 J. Dewey, The early works, Southern Illinois University Press, 1969, vol. III, pag. 125<br />

193 Thomas Khun esprimeva lo stesso concetto dicendo che ogni osservazione è carica di teoria, nel<br />

senso che non esistono osservazioni neutrali sulle teorie che si vogliono dimostrare o falsificare.<br />

182


II) Filogenesi e ontogenesi<br />

A supporto delle affermazioni di Dewey si può dire che anche la scienza ormai<br />

non è più in grado di escludere categoricamente che vita psichica e ambiente non<br />

possano essere interpretati come “aspetti-momenti” dello stesso “fatto”.<br />

È, in ogni caso, difficile considerare la mente come una sostanza separata<br />

dall’ambiente senza fargli violenza, senza recidere le radici che la tengono legata<br />

al contesto ambientale: quando un uomo guarda la natura non osserva in modo<br />

neutrale un oggetto completamente isolato e autonomo, ma “pratica” con esso<br />

una relazione – filogenetica e ontogenetica – originaria e in continua evoluzione.<br />

Ed è solo grazie a quella relazione che egli può guardare l’oggetto. L’uomo non<br />

“percepisce” semplicemente cose (nel modo in cui pensavano gli empiristi)<br />

l’uomo “interroga”, “convive con”, “si relaziona” all’ambiente. Per pensare,<br />

l’uomo ha bisogno non solo del cervello o della mente, ma gli serve anche<br />

l’ambiente; come per respirare servono i polmoni, ma anche l’aria.<br />

La percezione non è oggettiva, ma si nutre del nostro adattamento all’ambiente, e<br />

della nostra educazione sociale; così credere che la nostra relazione con<br />

l’ambiente inizi solo quando cominciamo a “percepire” cose o parole, è come<br />

pensare che gli oggetti di una stanza sorgano quando accendiamo la luce.<br />

A questo modo di intendere le cose vengono in soccorso recenti studi di<br />

neurologia e biologia.<br />

Il nostro modo di percepire si è formato lungo tutto l’arco della nostra evoluzione<br />

genetica. Per esempio, la vista si basa su tre recettori che sono sensibili<br />

rispettivamente al rosso, al verde e al blu. Di conseguenza, il mondo per noi è<br />

popolato dei colori che l’azione combinata di tali recettori (con l’ambiente) ci<br />

permette di “vedere”. Lo stesso si può dire per gli altri sensi. Così, in natura non<br />

esistono il profumo del gelsomino, il verde dei campi, e il canto dell’usignolo. E’<br />

solo la correlazione tra l’ambiente e i nostri sensi che “produce” tali sensazioni.<br />

Il colore rosso della rosa non è una sua caratteristica intrinseca, solo l’uomo vede<br />

la rosa rossa, cioè gli attribuisce quella determinata caratteristica (ciò dimostra<br />

quanto ingenua sia l’idea di “realtà” degli antichi, e anche il concetto di<br />

183


“oggetto” dei moderni). Scrivono, ad esempio, Maturana e Varela: «La nostra<br />

esperienza di un mondo di oggetti colorati è letteralmente indipendente dalla<br />

composizione delle lunghezze d’onda della luce proveniente da ogni scena che<br />

guardiamo…Non c’è modo di mettere in relazione la stabilità dei colori con cui<br />

vediamo gli oggetti e la luce che essi riflettono…Per comprendere il modo in cui<br />

vediamo i colori dobbiamo smettere di pensare che il colore degli oggetti che<br />

vediamo sia determinato dalle caratteristiche della luce da loro riflessa, e<br />

piuttosto sforzarci di capire in che modo l’esperienza di un colore corrisponda a<br />

una configurazione specifica di stati di attività nel sistema nervoso, determinati<br />

dalla sua stessa struttura». 194<br />

Organi di senso diversi (ma anche cervelli diversi) stabiliscono con l’ambiente<br />

“relazioni” diverse e quindi producono sensazioni diverse. Il pipistrello non vede<br />

il giallo della paglia, per lui non esiste questo colore (e nessun altro colore). Egli<br />

percepisce solo ultrasuoni fino a 60000 vibrazioni al secondo; il suo è un mondo<br />

fatto esclusivamente di tali “vibrazioni”, non c’è altro per lui al mondo. E il suo<br />

mondo è completamente diverso dal nostro perché noi non percepiamo nulla (e<br />

quindi per noi non esiste nulla) di quello che è tutto il suo mondo.<br />

I nostri sensori non sono sensibili a tutti gli stimoli ambientali (e per fortuna,<br />

sennò impazziremmo) ma solo a un loro sottoinsieme. La struttura di ciascuno di<br />

essi ci permette di rispondere solo a stimoli di una certa natura, e anche tra questi<br />

solo a quelli che hanno valori compresi entro un certo ambito. Il nostro orecchio<br />

è sensibile solo a suoni di frequenza contenuti entro certi valori, e i nostri occhi<br />

vedono solamente radiazioni elettromagnetiche di una certa lunghezza d’onda,<br />

corrispondenti a ciò che chiamiamo luce; per fare un altro esempio, una farfalla<br />

194 Essi continuano così: «Gli stati di attività neuronale innescati dalle diverse perturbazioni sono<br />

determinati, in ciascuna persona, dalla sua struttura individuale e non dalle caratteristiche dell’agente<br />

perturbatore. Quanto detto è valido per tutte le dimensioni dell’esperienza visiva (movimento, struttura,<br />

forma, ecc.) così come per qualunque altra modalità percettiva. Potremmo presentare situazioni simili che<br />

ci rivelerebbero immediatamente come quello che assumiamo essere una semplice percezione di qualcosa<br />

(per esempio spazio e colore) abbia invece il marchio indelebile della nostra stessa struttura…Non<br />

vediamo lo “spazio” del mondo ma viviamo il nostro campo visivo; non vediamo i “colori” del mondo<br />

ma viviamo il nostro spazio cromatico» H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti,<br />

1999, pag. 42<br />

184


vede un fiore o un grano di polline al centro di una raggiera di cerchi concentrici<br />

di luce ultravioletta, cosa che a noi sfugge totalmente.<br />

L’arrivo di un gruppo di ultrasuoni, l’inclinazione di una radiazione ultravioletta<br />

o la variazione di intensità di un campo elettrico non sono per noi sensazioni<br />

mentre lo sono per animali come il pipistrello, l’ape o la torpedine.<br />

E ancora, sono i nostri sensi a “definire” (in un certo senso a “interpretare”) le<br />

sensazioni, quindi essi non ricevono in modo neutrale stimoli dall’esterno.<br />

Uno stimolo è un cambiamento sopravvenuto nelle condizioni dell’ambiente o<br />

nel nostro modo di rapportarci ad esso. Il nostro percepire è, alla fine, un mettere<br />

(e soprattutto un metterci) in relazione. Cioè, noi percepiamo solo nuove<br />

relazioni tra cose, se non, solo relazioni tout-court. Per “esserci”, ogni cosa deve<br />

distinguersi, e poi rapportarsi a qualche altra cosa (contano le relazioni non le<br />

sostanze).<br />

Così, il nostro mondo non è che una minima parte di ciò che “esiste”, ed esso è<br />

percepito, e successivamente elaborato, in maniera del tutto peculiare al genere<br />

umano. Ogni specie animale, quindi, abita un proprio mondo, il quale non è altro<br />

che l’insieme delle relazioni che queste hanno avuto con l’ambiente nella loro<br />

storia filogenetica (e ontogenetica). E si può aggiungere che, il mondo come<br />

l’insieme oggettivo di tutte le cose esistenti non c’è: ogni forma animale (e<br />

addirittura ogni organismo) ne conosce uno, ed esso esiste solo nei modi delle<br />

relazioni che la singola specie intrattiene con esso.<br />

Kant, lo sappiamo, definì “scandalo della filosofia”, il fatto che non esistesse<br />

ancora una dimostrazione dell’esistenza delle “cose fuori di me”. E Heidegger gli<br />

rispose che lo scandalo sta invece nel fatto che tali dimostrazioni siano sempre di<br />

nuovo richieste e ritentate, in virtù della assoluta evidenza dell’esistenza di<br />

queste cose. Come abbiamo visto, è astratta e vuota l’idea stessa di “cosa<br />

esterna”. Ogni “cosa” che noi percepiamo è il frutto di una relazione tra<br />

l’organismo e l’ambiente che si è andata definendo nel corso del tempo; le cose<br />

del mondo sono tali solo per gli uomini, non hanno nulla di “oggettivo”, le cose<br />

che noi percepiamo non sono le “cose del mondo”, ma sono il frutto di una<br />

185


elazione organico-ambientale del tutto peculiare al genere umano. Tutto quello<br />

che si può dire in merito alle “cose esterne” (se considerate come enti oggettivi) è<br />

che non esistono. La “cosa” e l’ “uomo” sono termini di una relazione reciproca<br />

mediante la quale essi si “sostengono” a vicenda. 195 La violetta così come la<br />

percepisce l’uomo esiste solo per l’uomo, essa è il frutto di una relazione unica in<br />

natura.<br />

E così possiamo dire qualcosa anche in merito ad un altro “problema<br />

fondamentale della filosofia”; quello relativo all’ “esistenza” delle cose in<br />

“funzione” dell’uomo: dalle precedenti considerazioni, risulta addirittura fuori<br />

luogo chiedersi se le violette (e ogni altra cosa) possano esistere a prescindere<br />

dall’uomo.<br />

Il mondo che vede l’uomo esiste solo per lui, e nella malaugurata ipotesi che la<br />

specie umana scompaia, non ci sarà più nessuno in grado di percepire quel<br />

mondo, non ci sarà alcun animale in grado di intessere con le cose le stesse<br />

relazioni che aveva stabilito l’uomo. È assurdo pensare ai termini di questa<br />

relazione, senza la relazione stessa. Credere che tali elementi “relazionali”<br />

abbiano una consistenza oggettiva (ontologica, indipendente e precedente la<br />

relazione) significa ripiombare all’interno della disputa tra realisti e idealisti, e<br />

quindi tornare a disquisire se esse siano “cose reali” o “idee”. Questa diatriba ha<br />

ormai fatto il suo tempo. 196<br />

Tanto più che, le diversità esistono non solo tra specie animali diverse, ma anche<br />

all’interno dello stessa specie. Se confrontiamo popoli che hanno vissuto separati<br />

per millenni, riscontriamo delle differenze nella percezione, legate alle rispettive<br />

relazioni con l’ambiente (e al loro linguaggio). Gli indigeni che vivono da<br />

195 Nel capitolo precedete abbiamo esposto un concetto simile occupandoci del rapporto tra “uomo” e<br />

“regola”, i quali si definiscono, si determinano solo se posti in relazione, mutuamente. Così, appunto, non<br />

c’è una regola fissa, data, che sta lì di fronte nel codice; ma c’è ogni volta una relazione diversa tra questi<br />

termini che si manifesta nel cosiddetto comportamento (nell’evento). La regola non è né un precetto<br />

stabile, né una stratificazione di interpretazioni di quel precetto, ma è un aspetto (tra gli altri)<br />

individuabile (ogni volta) all’interno di una relazione complessa, ed evenemenziale.<br />

196 Maturana ad esempio sostiene che le osservazioni non possono cogliere verità oggettive sul mondo,<br />

perché esse sono sempre e soltanto interazioni (le nostre relazioni) tra la struttura dell’organismo<br />

osservatore e il suo medium.<br />

186


millenni nella foresta amazzonica hanno nel loro patrimonio genetico e culturale<br />

la storia dei loro adattamenti a quell’ambiente, lo “conoscono” e lo<br />

“percepiscono” (cioè si relazionano ad esso) in modo sicuramente diverso da<br />

come lo potrebbe percepire un occidentale che si trovasse lì, per la prima volta,<br />

in vacanza. Gli indigeni, ad esempio, saranno in grado di vedere forme e colori<br />

che sfuggono all’occhio dell’occidentale.<br />

Tutto questo, proprio in virtù del diverso rapporto che ogni popolo intrattiene con<br />

il suo ambiente. E ciò vale, andando ancora più nel dettaglio, (e prendendo in<br />

considerazione il livello ontogenetico) anche tra ogni singolo uomo. Si deve<br />

sapere, infatti, che ogni persona possiede un proprio cervello notevolmente<br />

diverso da quello degli altri, perché un numero enorme di contatti sinaptici (i<br />

legami che uniscono ogni singolo neurone, e che sono responsabili della nostra<br />

capacità di vedere, di sentire, di imparare ecc.) si presenta in modo un po’<br />

diverso da individuo a individuo. E questa varietà è dovuta a cause genetiche,<br />

all’esperienza personale, alla cultura e a una non trascurabile componente<br />

casuale. Allora, una determinata esperienza, una certa educazione, o qualche<br />

altro caso della vita può influire in modo rilevante sul nostro sistema nervoso, e<br />

di conseguenza sul nostro modo di fare esperienza, cioè in pratica sul nostro<br />

modo di “percepire” gli “oggetti”; ognuno di noi è qualcosa di singolare, perché<br />

è un insieme variegato di eventi e relazioni legati a contesti e situazioni<br />

particolari. Ciò sembra scontato, ma una volta guadagnata questa posizione non<br />

si può più parlare di stabilità, di permanenza, di causa ed effetto, di dipendenza di<br />

questo da quello ecc..<br />

Tali fattori implicano rapporti (di mutualità) continui tra organismo e ambiente, e<br />

possono giustificare il fatto che persone o popoli di storia e cultura diversa<br />

abbiano “mondi” diversi, e perfino che persone diverse abbiano mondi diversi.<br />

Il nostro mondo è quindi il risultato del ripetersi nel tempo delle relazioni<br />

organico-ambientali (a livello ontogenetico e filogenetico); si può allora ribadire<br />

che non esiste il mondo come insieme di oggetti, ma tutto è configurabile come<br />

un insieme di relazioni tra una “coscienza” (la quale si forma anche per<br />

187


avvenimenti del tutto imprevedibili) e il suo ambiente (che è in relazione<br />

“osmotica” con essa).<br />

Sempre Maturana e Varela scrivono: «Il fenomeno della conoscenza non può<br />

essere concepito come se esistessero “fatti” od “oggetti” esterni a noi che uno<br />

prende e si mette in testa. L’esperienza di qualcosa là fuori è convalidata in modo<br />

particolare dalla struttura umana che rende possibile “la cosa” che emerge dalla<br />

descrizione. Questa circolarità, questo concatenamento tra azione ed esperienza ,<br />

questa indissolubilità fra essere in un modo particolare e il modo in cui il mondo<br />

ci appare, ci dice che ogni atto di conoscenza ci porta un mondo fra le<br />

mani…Tutto ciò si può condensare nell’aforisma: ogni azione è conoscenza e<br />

ogni conoscenza è azione». 197<br />

Questo significa che per poter venire a contatto con le cose l’uomo ha bisogno di<br />

informazioni “originarie”, 198 che siano in grado di “dirigere” i nostri sensi. 199<br />

L’uomo e l’ambiente non sono entità “separate” che vengono in contatto quando<br />

l’uomo comincia ad usare i propri sensi: tale relazione è atavica. Ed è in virtù di<br />

questa relazione primordiale, filogenetica, che sono possibili i “contatti”<br />

successivi.<br />

In altri termini, la filogenesi si manifesta nell’ontogenesi, e viceversa, è nei<br />

processi ontogenetici che si implementa la dimensione filogenetica; o meglio, la<br />

filogenesi è solo un insieme di ontogenesi. La struttura di ogni individuo<br />

rappresenta la sua storia evolutiva, rappresenta cioè la storia delle relazioni tra<br />

tale individuo e il suo ambiente. Del resto, il mondo nel quale esso vive si<br />

configura proprio in relazione a questa stessa struttura. Tra l’organismo e il suo<br />

ambiente c’è una relazione di reciprocità assoluta. “Ogni variazione ontogenetica<br />

197 H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag 44-45<br />

198 Sedimentate in millenni di adattamento nel nostro genoma, il quale è una sorta di linguaggio che ci<br />

“permette” di comunicare – di relazionarci – con la natura. E anche questo linguaggio è, in qualche modo,<br />

“appreso”.<br />

199 “Permettere”, “dirigere” sono tuttavia termini impropri perché noi siamo i nostri sensi, e quindi il<br />

genoma non “permette” e non “dirige” proprio nulla. Non bisogna mai dimenticare la natura relazionale<br />

ed evenemenziale della realtà.<br />

188


deriva da un modo distinto di stare nel mondo in cui si verifica, perché è la<br />

struttura dell’unità che determina sia il suo modo di interagire nell’ambiente sia<br />

la configurazione del suo mondo”. 200<br />

L’uomo, allora, viene in un certo senso “educato” non solo dall’ambiente sociale<br />

ma anche da quello naturale. Ed egli può “apprendere” comportamenti – sociali e<br />

naturali – grazie alla sua non-separatezza, grazie alla sua originaria relazione col<br />

mondo. O meglio, egli è un insieme di relazioni naturali e sociali.<br />

Così, il nostro rapporto con l’ambiente non è mai di natura puramente<br />

contemplativa, ma piuttosto è di natura interattiva. Il bambino impara a<br />

conoscere il mondo tastando e maneggiando oggetti, ma anche gli adulti hanno<br />

con il mondo un rapporto che trae origine da un’inscindibile interpenetrazione di<br />

osservazione e di intervento. Questa integrazione è stata fissata una volta per<br />

tutte nella nostra “memoria procedurale”, consolidatasi nei primi anni di vita. Se<br />

nell’infanzia ci fossero state impedite certe interazioni senso-motorie avremmo<br />

una percezione di ciò che ci circonda molto confusa; è infatti emerso che, molta<br />

parte delle nostre funzioni percettive è strettamente intrecciata a quelle motorie.<br />

Il mondo cioè, viene percepito in funzione a noi e alle nostre possibilità<br />

d’intervento. Ciò significa che, il nostro modo di interagire col mondo è<br />

strettamente legato alla nostra conformazione fisica, e che i nostri sensi si sono<br />

evoluti, in relazione di reciprocità, e in comunione con il nostro corpo. Un’altra<br />

prova del fatto che non c’è niente di “oggettivo”, di permanente e di autonomo<br />

tra noi e il mondo.<br />

La vera natura di ogni organismo non è quindi da ricercare nelle strutture del suo<br />

essere “in-dividuo”, ma nei processi del suo farsi “transazionale” (per dirla con<br />

Dewey). Non si deve perciò confondere l’ “individualità” come caratteristica del<br />

soggetto, con quella che qui abbiamo chiamato la “singolarità” di ognuno di noi.<br />

200 “Questo implica che ontogenesi di esseri viventi capaci di riprodursi e filogenesi di file riproduttive<br />

diverse sono tutte intrecciate in una gigantesca rete storica che presenta una meravigliosa varietà di<br />

piante, animali, funghi e batteri, che ci appare evidente tanto nel mondo organico che ci circonda quanto<br />

nelle differenze che osserviamo fra noi, esseri umani, e gli esseri viventi». H. Maturana, F. Varela,<br />

L’albero della conoscenza, op. cit. pagg 90, 92.<br />

189


Il soggetto è qualcosa di stabile, duraturo, e separato dal contesto che lo ospita.<br />

Egli fa della sua autonomia e della propria indipendenza l’elemento cardinale<br />

della sua identità. Viceversa qui si è sostenuto che ogni esistenza “si fa” negli<br />

eventi e nelle relazioni che la coinvolgono, più propriamente, essa è questi eventi<br />

e queste relazioni. Essa non ha niente di stabile, e non è indipendente dal<br />

contesto di riferimento. La sua identità viene acquisita nell’insieme delle<br />

occasioni che la vedono protagonista, perché la sua stessa autocoscienza sorge in<br />

tali occasioni.<br />

L’organismo allora si trova istante per istante al crocevia di due processi<br />

temporali concomitanti che coinvolgono anche l’ambiente: quello filogenetico –<br />

conseguente alla sua evoluzione – e quello ontogenetico, conseguente al suo<br />

sviluppo embrionale.<br />

In sintesi, questa analisi ha evidenziato quanto sia profondo il legame tra ogni<br />

organismo e il proprio ambiente naturale (in precedenza abbiamo visto come sia<br />

altrettanto profonda la relazione tra l’uomo e il suo ambiente sociale). Tutto ciò<br />

configura una forte compenetrazione e una costitutiva influenza reciproca tra tutti<br />

i termini in questione.<br />

In altre parole, “ogni conoscenza è un’azione per colui che conosce, e ogni<br />

conoscenza dipende dalla struttura di colui che conosce”. 201<br />

201 H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag 50.<br />

Il motivo per il quale abbiamo citato Maturana è che la sua idea di accoppiamento strutturale sembra<br />

l’implementazione biologica del concetto di transazione di Dewey. In altri termini, l’impostazione<br />

epistemologica di un biologo come Maturana è molto vicina a quella del pensatore americano, in quanto è<br />

fondata su principi quali la reciprocità e la solidarietà di tutti gli elementi del sistema oggetto di studio. I<br />

valori che orientano la proposta del biologo sono simili a quelli a cui fa riferimento il filosofo. Ecco cosa<br />

intende Maturana per accoppiamento strutturale: «Ogni ontogenesi avviene in un ambiente che noi<br />

osservatori possiamo descrivere come caratterizzato da una struttura particolare come la radiazione, la<br />

velocità, la densità, ecc…, e poiché descriviamo anche l’unità autopoietica come caratterizzata da una<br />

struttura particolare, ci sembrerà che le interazioni che intercorrono in modo ricorrente fra unità e<br />

ambiente costituiscano perturbazioni reciproche. In queste condizioni la struttura dell’ambiente innesca<br />

solamente i cambiamenti strutturali delle unità autopoietiche (non li determina né li “istruisce”) e lo stesso<br />

avviene per l’ambiente. Il risultato sarà una storia di mutui cambiamenti strutturali concordanti finché non<br />

si disintegreranno: ci sarà cioè accoppiamento strutturale» (corsivi aggiunti). L’idea di transazione che<br />

Dewey usa per descrivere i rapporti tra organismo e ambiente mostra una sicura analogia col la<br />

definizione appena citata di “accoppiamento strutturale”. Anzi leggendo il libro citato si ha<br />

l’impressione che gli autori stiano proprio rispondendo alla domanda: «Come si manifesta la transazione<br />

dal punto di vista biologico? O meglio, come si può descrivere la transazione tra un organismo<br />

pluricellulare (nella fattispecie l’uomo) e il suo ambiente?»<br />

190


III) Sul concetto di “transazione”<br />

L’aggancio con la biologia ed in particolare con l’epistemologia genetica di<br />

Maturana e Varela ci consente di avviare la discussione sull’argomento in<br />

questione avendo da un lato, specificato cosa si intende quando si parla di<br />

“organismo” e di “ambiente” (l’intento era quello di mostrare la complessità di<br />

tali concetti); e dall’altro, avendo già introdotto qualcosa che si avvicina all’idea<br />

di transazione.<br />

L’obiettivo di Dewey allora è di mostrare che l’insieme delle relazioni che<br />

intercorrono tra l’organismo e l’ambiente e paragonabile ad una complessa rete<br />

di rapporti reciproci. Anzi il riferimento alla “rete” non è del tutto casuale. Ed<br />

anche questo aspetto avvicina il filosofo americano ai biologi Maturana e Varela.<br />

Torniamo, allora, a quella che egli definisce la prima “postulazione” della sua<br />

trattazione: “i conoscere” sono sempre e dovunque inseparabili da “i<br />

conosciuti”; essi sono aspetti gemelli di un fattore comune. Ciò significa che,<br />

l’attività per mezzo della quale si conosce e la cosa conosciuta sono “aspetti”<br />

dello stesso “Fatto” (per Fatto “si intende l’intero campo di parola-e-cosa su cui<br />

si conduce l’indagine”). Dewey usa l’espressione “postulazione” per marcare la<br />

differenza nei confronti dello schema alternativo che stabiliva, senza dare alcun<br />

tipo di dimostrazione, la netta separazione tra soggetto e oggetto, e che in virtù di<br />

tale divisione ha creato una serie enorme di problemi e contraddizioni.<br />

Altre postulazione importanti sono queste: il cosmo è un sistema o campo di<br />

indagine fattuale; gli organismi sono componenti del cosmo; gli uomini possono<br />

essere considerati organismi; i comportarsi degli uomini sono eventi organico-<br />

ambientali; i conoscere sono questi “comportarsi” organico-ambientali.<br />

Da queste postulazioni si possono trarre alcune conclusioni importanti. La prima<br />

è che il rapporto tra l’uomo e il suo altro per Dewey si riduce sostanzialmente<br />

191


alla relazione “organismo-ambiente”, infatti egli afferma che gli uomini possono<br />

essere considerati organismi, e che il comportamento umano è sempre<br />

riconducibile ad un evento organico ambientale. 202 Egli quindi in questo libro si<br />

occupa di relazioni tra l’organismo e l’ambiente. E attraverso di esse egli afferma<br />

che si possono studiare tutti i fenomeni che riguardano l’uomo e il suo mondo<br />

(dall’aspetto epistemologico a quello etico). Emerge così la visione “scientifica”<br />

che egli possiede della filosofia.<br />

Sottolineare tale aspetto serve a evidenziare la differenza di prospettiva che esiste<br />

tra lui ed Heidegger. In altri luoghi, in precedenza, abbiamo fatto notare delle<br />

analogie tra i due filosofi, ora ci sembra opportuno mostrare quanto divergano i<br />

loro modi di intendere la filosofia. Da una parte il pensatore tedesco per il quale<br />

essa è ontologia, un modo di esercitare il pensiero che consente di avvicinarsi<br />

all’Essere; dall’altra parte il filosofo americano che la considera una scienza che,<br />

alla stregua delle altre scienze, deve mostrare sul campo la sua utilità, e che è<br />

tanto più importante quanto più è utile.<br />

Basti dire ad esempio, che Dewey definisce il cosmo come un “campo d’indagine<br />

fattuale composto di organismi”; e questo è un concetto molto lontano da quello<br />

che Heidegger intende col termine “mondo” (ma di differenze ce ne sono molte<br />

altre).<br />

Così emerge la diversa “provenienza”, e la conseguente differenza di approccio<br />

tra i due pensatori.<br />

Questo per dire che se per un verso, il loro modo di impostare i problemi e molto<br />

diverso, dall’altro i problemi affrontati sono analoghi. Entrambi hanno<br />

combattuto contro la metafisica, e contro il dualismo. Hanno usato armi molto<br />

diverse per affrontare nemici comuni. E nonostante ciò ambedue hanno ottenuto<br />

risultati straordinari. 203<br />

202 Bisogna dire che il significato attribuito da Dewey alla parola “evento” è diverso da quello che si<br />

assume in questo scritto. E di ciò ci si rende conto leggendo le parti dove si impiega e si spiega questo<br />

termine.<br />

192


Allora, si può fare filosofia in diversi modi e non ne esiste uno migliore di un<br />

altro, perché non ci sono canoni universali con i quali poter giudicare la bontà o<br />

la raffinatezza di una certa filosofia. Non basta, in altri termini, dichiarare<br />

l’appartenenza a una determinata “scuola” per diventare filosofi. 204<br />

L’ultima cosa che si può dire, è che Dewey “postula” il superamento del<br />

dualismo. Egli sostiene, senza volerlo dimostrare, che l’uomo non può essere<br />

scisso dal suo ambiente. I comportamenti umani non sono azioni soggettive verso<br />

oggetti esterni e indipendenti, dentro un ambiente neutrale come ritenevano i<br />

moderni; ma l’azione umana implica una relazione originaria tra l’organismo e il<br />

suo ambiente. Se non ci fosse questa relazione non ci sarebbe nemmeno la<br />

possibilità dell’azione. Il postulato recita: «I comportarsi degli uomini sono<br />

eventi organico ambientali», e questo vuol dire che nell’azione umana il ruolo<br />

dell’ambiente è fondamentale.<br />

Sappiamo che la “postulazione” di Dewey ha in realtà un carattere provocatorio<br />

in quanto egli ritiene che lo stesso dualismo tra soggetto e oggetto non sia mai<br />

stato dimostrato ma accettato per la sua (solo presunta) “evidenza”.<br />

Il filosofo americano definisce poi il linguaggio come “l’uomo-stesso-in-azione-<br />

che-tratta-con-cose”, ciò implica che parola, parlante e cosa di cui si parla siano<br />

considerati come aspetti complementari di un'unica “realtà”. «L’uomo -in-azione<br />

non è qualcosa di contrapposto ad un mondo che lo circonda, e neppure qualcosa<br />

che semplicemente agisce “in” un mondo ma è l’azione del mondo e nel mondo<br />

del quale l’uomo è parte integrante». 205 Come conseguenza di ciò, si devono<br />

introdurre altri due termini fondamentali per la trattazione: “i nominare”, e “i<br />

203 Allora qui non si pensa affatto che le armi usate da Heidegger siano più efficaci di quelle di Dewey.<br />

Si vuol solo segnalare la differenza di prospettiva che separa quelle che in questo scritto sono presentate<br />

come le due proposte filosofiche più importanti contro il dualismo moderno.<br />

204 Siamo convinti che entrambi questi pensatori abbiano raggiunto con la loro speculazioni profondità<br />

ragguardevoli e che giudicarli solo in base alla loro scuola di appartenenza, o peggio in base alla loro<br />

provenienza geografica dimostri un atteggiamento supponente, sanfedista e provinciale.<br />

205 J. Dewey, Conoscenza e transazione, La Nuova Italia, Firenze, 1974, pag. 65<br />

193


nominati”. L’attività del nominare è inscindibile dall’attività del conoscere, esse<br />

sono due facce della stessa medaglia. Quindi conoscere è “conoscere-attraverso-<br />

il-nominare”. Dewey intende dire che scindere il nominare come attività corporea<br />

dal conoscere come attività mentale è una operazione del tutto arbitraria.<br />

L’attività del nominare rigoroso è proprio l’obiettivo che Dewey si pone nella<br />

sua ultima opera.<br />

Per rendere l’idea della implicazione reciproca tra i diversi momenti, fasi o<br />

aspetti della “realtà”, Dewey utilizza il concetto di “transazione”, che viene così<br />

definita: «Il conoscere-conosciuto considerato come un unico processo, lì dove le<br />

vecchie concezioni separavano i conoscere e i conosciuti considerandoli come in<br />

rapporto di interazione. Il conosciuto e il nominato considerati a loro volta come<br />

fasi di un processo comune, lì dove si consideravano invece come componenti<br />

separati, cui si attribuivano vari gradi di indipendenza e che si esaminavano in<br />

forma di interazioni». 206<br />

La transazione rappresenta l’ultima tappa di un percorso – epistemologico – che<br />

parte dalla “auto-azione”, e passa per “l’inter-azione”. 207 Auto-azione “è un<br />

termine usato per indicare vari trattamenti primitivi del conosciuto, che<br />

considerava le cose come se agissero per proprio conto”. Dewey si riferisce alla<br />

tradizione animistica, in base alla quale si consideravano le cose fornite di una<br />

propria “anima”, la quale stava a fondamento sia delle funzioni vegetative che di<br />

quelle intellettive (l’idea che le cose fossero capaci di azione volontaria è<br />

presente ancora nel mondo classico, greco e romano).<br />

Si ha “inter-azione” quando si pensa che ad ogni cosa se ne contrappone un’altra<br />

in un rapporto di connessione causale, secondo le leggi della meccanica. Tale<br />

concetto è stato il fondamento di tutta la fisica moderna, 208 ed è stato ampiamente<br />

206 J. Dewey, Conoscenza e transazione, op. cit. pag. 79<br />

207 In quest’opera Dewey chiarisce che la parola “interazione” viene usata con un significato diverso<br />

rispetto a quello assunto nelle opere precedenti. Qui, infatti, essa si distingue nettamente dalla<br />

“transazione”; prima, invece, erano usate quasi come sinonimi. La distinzione diventa necessaria se<br />

rapportata all’uso che se ne fa nella meccanica classica.<br />

194


utilizzato anche in filosofia (ancora per Kant il rapporto di causa-effetto era una<br />

“categoria della relazione”). Esso, si fonda sull’idea che gli elementi della natura,<br />

dotati di una loro autonomia e indipendenza, possano entrare in relazione solo<br />

attraverso la trasmissione di “forze”.<br />

Per chiarire la differenza tra il concetto di inter-azione e quello di transazione, si<br />

può anche dire che mentre l’inter-azione avviene tra un insieme di oggetti<br />

indipendenti che entrano in relazione mantenendo la propria “identità”, la<br />

transazione corrisponde a un sistema di “aspetti” reciprocamente correlati che<br />

agiscono e retroagiscono l’uno sull’altro; oppure: «se l’inter-azione è un<br />

procedimento tale che i suoi elementi costitutivi inter-agenti sono posti<br />

nell’indagine come dei “fatti” separati, ciascuno dei quali è indipendente dalla<br />

presenza degli altri, allora la transazione è un fatto tale che nessuno dei suoi<br />

elementi costitutivi può essere adeguatamente specificato come fatto a<br />

prescindere dalla specificazione di altri elementi costitutivi dell’intera materia<br />

trattata; o anche – se l’inter-azione si trova lì dove i vari oggetti su cui si conduce<br />

l’indagine si presentano come se fossero adeguatamente nominati e conosciuti<br />

già prima che l’indagine cominci, si che il procedimento successivo riguarderà<br />

quel che risulta dalla reciproca azione e reazione degli oggetti dati, e non quel<br />

che risulta dalla riorganizzazione dello status degli stessi oggetti presupposti,<br />

allora la transazione è un’indagine che si estende, in forza dell’osservazione, che<br />

ha posizione e importanza primaria, attraverso tutte le materie che si presentano,<br />

e che procede liberamente a ri-determinare e a ri-nominare gli oggetti compresi<br />

nel sistema». 209<br />

Quindi, si passa dall’idea che le cose siano in grado di agire per proprio conto<br />

(auto-azione), a quella che esse siano indipendenti ed entrino in relazione solo<br />

grazie a forze che causano degli effetti (inter-azione), e finalmente si arriva a dire<br />

che tutto si sviluppa “transazionalmente”.<br />

208 Venne formalizzato da Newton, il quale credeva che il mondo consistesse in un insieme di forze<br />

semplici, agenti tra particelle inalterabili.<br />

209 J. Dewey, Conoscenza e transazione, op. cit. pag. 145<br />

195


Dewey ricava il termine transazione dall’economia. In una transazione<br />

economica sono coinvolti un “compratore” e un “venditore”, i quali sono<br />

“compratore” e “venditore” solo in virtù della relazione che li lega in quel<br />

momento. Essi sono due aspetti del medesimo “fatto”. Il loro ruolo dipende dalla<br />

relazione economica, la quale esiste solo come legame dei due contraenti.<br />

L’oggetto della transazione è considerato un “bene economico” solo nel<br />

momento, e grazie alla relazione. Esso è un “bene” per effetto della “domanda”<br />

di quel bene, che gli attribuisce un determinato “valore”; senza domanda esso<br />

non avrebbe valore e quindi non sarebbe oggetto di “mercato”: per l’economia<br />

esso neppure esisterebbe.<br />

La transazione modifica i contraenti e il bene scambiato. Il venditore si troverà<br />

senza un oggetto che gli garantiva determinate opportunità (ma con a<br />

disposizione il corrispettivo pattuito), viceversa, il compratore acquisterà delle<br />

facoltà che prima non aveva (in cambio del prezzo pagato). Il bene subisce<br />

mutamenti di proprietario, di luogo, di modalità di utilizzo, ecc., che altereranno<br />

la sua “fisionomia” (identità).<br />

Se allarghiamo lo sguardo, scopriamo che questa transazione e tale solo in un<br />

contesto di transazioni economiche, le quali tutte assieme costituiscono il<br />

“mercato”. Senza mercato non ci sarebbero transazioni, senza transazioni niente<br />

mercato. Nel sistema economico non ci sono “particelle inalterabili”, ma tutto<br />

“è” e “vive” in funzione delle relazioni reciproche. In questo senso, il<br />

vocabolario economico potrebbe costituire un buon surrogato di un possibile<br />

vocabolario scientifico.<br />

Tutto ciò prefigura una concezione circolare della realtà. È Dewey stesso ad<br />

usare ripetutamente questo termine.<br />

Siccome “il-mondo-viene-conosciuto-dall’uomo-che-è-in-esso”, l’indagine non<br />

può che avere natura circolare. Dewey non si preoccupa per il fatto di usare un<br />

termine così screditato presso i circoli accademici del tempo, perché ancora una<br />

volta, egli cerca un modo per segnare nettamente la discontinuità tra la sua<br />

proposta filosofica e quella “metafisica”, fondata sull’idea dell’essere come<br />

196


permanenza, su procedure argomentative gerarchiche e sequenziali, sulla verità<br />

come “oggetto” definito di ricerca e sul principio di causa. 210<br />

Il procedimento circolare di indagine è ritenuto una valida alternativa, da un lato,<br />

alla struttura argomentativa delle logiche esaminate all’inizio dell’opera (che si<br />

fondano sull’assunto della sequenzialità), dall’altro, all’epistemologia che pensa<br />

alla verità come ad una sorta di “premio” che si raggiunge solo alla fine di un<br />

determinato percorso di ricerca.<br />

Tornando alla esemplificazione, utile a chiarire il concetto di transazione, si può<br />

notare che, se l’organismo prova sensazioni, che sono generate da stimoli, non<br />

si può vedere senza che ci sia un “veduto”, né si può sentire senza che ci sia un<br />

“sentito”. Questo significa che la sensazione proviene sempre da una relazione<br />

tra organismo e ambiente (la struttura è, appunto, circolare). E per lo stesso<br />

motivo, non ci può essere un pensare senza un pensato, un nominare senza un<br />

nominato, né un conoscere senza un conosciuto; tutto ciò proprio in relazione al<br />

fatto che l’uomo indaga un modo nel quale è inserito, dal quale è compreso, e<br />

quindi non può raggiungere l’oggettività nella sua osservazione.<br />

In altre parole, l’idea dell’indagine come osservazione o studio neutrale di un<br />

oggetto esterno e inalterabile è fuori luogo;<br />

In questo modo, cambia anche il concetto di “identità personale”, infatti in tale<br />

situazione diventa impossibile sostenere l’indipendenza e l’autonomia del<br />

soggetto rispetto all’oggetto. Se non c’è un percepire senza un percepito, separare<br />

l’uomo dal suo ambiente diventa un’assurdità. Di conseguenza, si configura un<br />

legame di mutualità tra termini che si sostengono vicendevolmente. Ecco allora,<br />

compiuta la rottura con l’idea metafisica della “sostanzialità” e della<br />

“individualità” degli enti. 211<br />

210 E quindi su un sistema di argomentazione “lineare-sequenziale”.<br />

211 Nella prima parte si è sostenuto che noi siamo l’insieme di queste attività, il nostro “io” è l’insieme<br />

spazio-temporale di tali relazioni organico-ambientali. L’io non sta dentro all’organismo, né fuori<br />

dall’organismo, semplicemente non gli si addice alcuna collocazione spaziale. Ma questo Dewey non lo<br />

dice chiaramente.<br />

197


L’ambiente non è qualcosa di oggettivo. Ciò di cui facciamo esperienza è frutto<br />

dell’ interpretazione che diamo agli stimoli che i nostri sensi percepiscono (nei<br />

diversi aspetti-momenti spaziotemporali). E nemmeno gli stimoli sono oggettivi.<br />

Come sappiamo, il verde del pino è il risultato del modo nel quale i tre recettori<br />

della nostra vista interagiscono con le onde di luce provenienti dal pino. Il pino<br />

non ha questo colore come sua caratteristica intrinseca, ogni animale vede<br />

qualcosa di diverso guardando il pino (o meglio, guardando verso quella “zona”<br />

spaziotemporale, perché neanche il pino è un ente oggettivo); e nessuna di queste<br />

percezioni identifica quella zona in modo migliore delle altre.<br />

Questo non significa che, il pino sia un ente irraggiungibile (noumenico) di cui<br />

noi abbiamo solo un esperienza fenomenica (come pensava Kant), ma ciò che io<br />

considero quel pino, è l’aspetto ambientale di una inscindibile relazione<br />

spaziotemporale tra il mio organismo e l’ambiente, al di là (e al di qua) della<br />

quale non c’è niente altro! Il vedere e il veduto sono inseparabili.<br />

In natura non esistono i colori, la luce è trasparente, sono i recettori della mia<br />

vista che scompongono il raggio di luce e creano l’iride. È il mio apparato visivo<br />

che “assegna” i colori agli oggetti, nel senso che il colore dell’oggetto (e più in<br />

generale tutte le altre sue caratteristiche percepite) è il risultato della relazione tra<br />

la vista e quella porzione d’ambiente – che sarebbe più corretto definire come<br />

quel determinato “aspetto-momento”, spaziotemporale.<br />

Quando affermo che il cane non vede i colori, sto solo dicendo che i suoi organi<br />

visivi intrattengono con gli “oggetti” una relazione diversa dalla nostra. 212<br />

Il pipistrello “trasforma” i “nostri” “oggetti” in “vibrazioni”: per lui il pino non è<br />

un oggetto verde, fisso, con rami, aghi ecc., ma un insieme particolare di<br />

vibrazioni riflesse. Il pipistrello non “vede” il fascio di luce della pila che di notte<br />

lo illumina, ma “sente” l’ “oggetto” pila e il suo proprietario; e probabilmente, le<br />

sue scansioni spaziali lo portano a configurare l’ambiente in maniera<br />

completamente diversa dalla nostra. Allora, ci si potrebbe chiedere se “nella<br />

212 Frutto, probabilmente, di un adattamento filogenetico del cane all’ambiente che ha ottimizzato in<br />

quel modo le sue possibilità di sopravvivenza: nel senso che per il cane, forse, è più redditizio quel tipo di<br />

apparato percettivo rispetto al nostro.<br />

198


ealtà”, il pino sia un albero verde, un insieme di vibrazioni, o qualcos’altro. E’<br />

chiaro che la domanda è senza senso.<br />

L’uomo, il cane, il pipistrello sono caratterizzati (identificati) dall’insieme delle<br />

relazioni (o transazioni) che legano il loro organismo con il loro ambiente.<br />

Da un lato l’organismo del cane, dall’altra l’ambiente del cane, e il “cane” è la<br />

relazione che ne scaturisce. Similmente per l’uomo: da una parte il suo<br />

organismo, dall’altra il suo ambiente, intesi come termini di una transazione<br />

biologica e sociale dalla quale viene la “persona”. Un uomo prova sensazioni<br />

(fame, sete, dolore, amore, ecc.,), pensa, immagina, conosce. Tutte queste<br />

funzioni non sono circoscrivibili nell’ambito del suo organismo.<br />

Da queste considerazioni risulta chiaro cosa si intende quando si afferma che non<br />

c’è separazione tra soggetto e oggetto, tra spirito e materia, tra io e non-io; essi<br />

sono quello che sono in virtù della loro relazione reciproca. Il mondo non è un<br />

ricettacolo di enti “in-dividui” e separati che l’uomo (autonomo rispetto a loro)<br />

scopre percependo. Uomo e mondo, percepire e percepito, conoscere e<br />

conosciuto sono aspetti di un’unica “realtà” fattuale e naturale che ha nella<br />

relazione reciproca, nella “transazione” il modo della propria esistenza.<br />

Non posso considerare l’ “oggetto” che percepisco come una entità separata, che<br />

“io” “incontro” nel mondo. C’è una relazione atavica di scambio, si potrebbe dire<br />

di “adattamento reciproco”, che ci permette di entrare in contatto; quel contatto<br />

con l’ente che definiamo percezione, non è mai un incontro originario con<br />

qualcosa di estraneo, ma è il frutto di quella relazione filogenetica, ontogenetica<br />

(e culturale) che mi “permette” di (e “stabilisce le condizioni” del mio) stare al<br />

mondo; nel senso che io “sono” proprio quel modo di stare al mondo.<br />

Una conseguenza rilevante, della quale il filosofo americano parla anche in<br />

questo libro, è che non esiste qualcosa come un linguaggio privato. È impossibile<br />

che un uomo sia in grado di elaborare un proprio codice “interno”, in assoluta<br />

autonomia rispetto al contesto nel quale vive. Il linguaggio è un fatto<br />

eminentemente sociale, esso non può che essere il frutto di relazioni umane che<br />

si susseguono nel tempo. Se l’uomo potesse pensare senza parlare non userebbe<br />

199


il linguaggio – e non avrebbe elaborato questo strumento – per pensare; dovendo<br />

invece usare il linguaggio per elaborare il proprio pensiero, egli evidenzia il fatto<br />

che, l’attività speculativa dipende da quella discorsiva.<br />

E siccome, non c’è contrapposizione, e neanche netta distinzione tra interno ed<br />

esterno, non è possibile avere quei pensieri interni che dovrebbero trasformarsi in<br />

discorsi esterni. Noi non assegniamo nomi alle cose che i nostri sensi<br />

percepiscono in modo neutrale, così come esse sono nella realtà. Il nominare è un<br />

comportamento, e ogni comportamento è una transazione organico-ambientale. Il<br />

nominare e il nominato formano assieme un unico evento cosmico.<br />

Dewey indica diversi modi di nominare, che vanno da quelli meno rigorosi, usati<br />

nella vita di tutti i giorni, a quelli più rigorosi che dovrebbero essere usati<br />

nell’attività di indagine scientifica, e che sono il suo oggetto di ricerca. Tutti<br />

questi nominare rientrano nella categoria della “designazione”. Naturalmente<br />

ogni nominare-designare è inteso come un processo organico-ambientale<br />

transazionale. Ciò significa che la separazione tra il nominare e il nominato è<br />

solo strumentale e provvisoria, ci serve per poter descrivere più nel dettaglio<br />

questo processo, e non fa sicuramente riferimento a stati di fatto. Ogni nominare-<br />

designare è un “comportamento”.<br />

Dewey precisa che la sua idea di comportamento non è assimilabile a quella dei<br />

comportamentisti, né a quella dei mentalisti. La differenza fondamentale nei<br />

confronti di queste posizioni è che queste ultime separano l’azione dall’attore e<br />

ne fanno due mondi contrapposti; il filosofo americano, invece, li considera<br />

aspetti di un’unica vicenda. I comportamenti umani non vengono considerati<br />

come attività esclusivamente dell’uomo ma come processi della situazione<br />

organico-ambientale; il che significa, che l’agire umano non può essere<br />

considerato un’attività privata e individuale, ma deve essere inteso piuttosto<br />

come un “evento cosmico”, cioè come una azione del mondo, nel mondo.<br />

Il pensiero non è concepito come una attività interna, né i comportamenti sono<br />

intesi come attività esterne. Dewey, allora, non ha la necessità di stare con i<br />

200


comportamentisti o con i mentalisti, egli, invece, sulla base della sua<br />

impostazione transazionale, rifiuta entrambe queste teorie.<br />

Quindi, all’interno della inscindibile transazione organico-ambientale abbiamo,<br />

da un lato, l’aspetto che si riferisce all’organismo: il nominare, dall’altro,<br />

l’aspetto che è relativo all’ambiente: il nominato. Il nominare può essere, in<br />

ordine di precisione descrittiva, un “indicare”, un “caratterizzare”, o uno<br />

“specificare”.<br />

“L’indicazione è il più primitivo comportamento linguistico, può essere un grido,<br />

una imprecazione, o altri enunciati di una sola parola, o qualsiasi espressione<br />

fonetica onomatopeica; e nel linguaggio pienamente sviluppato può apparire<br />

come un’interiezione, una esclamazione, una espressione abbreviata, o altro<br />

espediente pratico di comunicazione”. 213 La caratterizzazione corrisponde<br />

all’uso quotidiano del linguaggio. È l’area del linguaggio dove la balena è un<br />

“pesce”, semplicemente perché vive nell’acqua come gli altri pesci. In questa<br />

regione linguistica sorge la convinzione che ad ogni nominare corrisponda un<br />

autore che nomina, dotato di mente e separato dalla cosa nominata. Per Dewey<br />

essa è estranea alla moderna pratica scientifica ma è ancora la base della logica e<br />

della filosofia della scienza.<br />

Per ultima viene la specificazione che “è quel tipo di nominare che si sviluppa<br />

quando l’indagine si impegna nel suo accurato lavoro, si concentra<br />

sperimentalmente sulla materia da essa trattata e acquisisce quella combinazione<br />

di stabilità e flessibilità dei nominare che consolida i successi del passato e apre<br />

la via agli sviluppi del futuro”. 214 In quest’area linguistica la balena diventa un<br />

mammifero, e cessa di essere un pesce. E questo non perché la balena nella<br />

“realtà” non sia un pesce, ma perché classificando la balena come mammifero si<br />

ottiene maggiore possibilità di sviluppo nella ricerca scientifica.<br />

213 J. Dewey, Conoscenza e transazione, op. cit. pag. 186<br />

214 J. Dewey, Conoscenza e transazione, op. cit. pag. 191<br />

201


Abbiamo visto la parte “organica” della transazione, resta ora da vedere quella<br />

“ambientale”; facendo attenzione che: «quel che si chiama ambiente è ciò in cui<br />

le condizioni fisiche sono intessute in condizioni culturali, e sono quindi più che<br />

“fisiche” nel senso tecnico di questa parola. “Ambiente” non è qualcosa che sta<br />

intorno e presso le attività umane, nel senso di star fuori di esse; esso è il loro<br />

elemento, o milieu, nel senso per cui un elemento è un intermediario<br />

nell’esecuzione o nell’espletamento delle attività umane, così come è il canale<br />

attraverso il quale esse si muovono e il veicolo con cui esse procedono». 215<br />

Dal lato dell’ambiente Dewey pone l’ “esistenza”, 216 che è definita come quella<br />

fase del fatto che è la fase del conosciuto-nominato. Non si deve mai pensare<br />

all’esistenza come a qualcosa di separato dal conoscere-nominare. Essa<br />

comprende tutte le cose che costituiscono “conoscenza” in una determinata<br />

epoca. È stabilita dalla designazione in relazione ad una sempre maggiore<br />

accuratezza della specificazione, nel senso che, si può passare da descrizioni di<br />

situazioni molto generali a descrizioni di oggetti molto dettagliate. Non significa<br />

mai “qualcosa di conosciuto”, o ciò che sta alla base del conosciuto, proprio in<br />

virtù della sua natura transazionale.<br />

Con il glossario proposto alla fine, Dewey chiude quest’opera. Il suo intento<br />

dichiarato è quello di fornire le basi per lo sviluppo di un nuovo approccio<br />

teorico all’indagine scientifica (un nuovo paradigma). Un approccio fondato su di<br />

una concezione rivoluzionaria della “realtà”, che dovrebbe mettere la circolarità<br />

in luogo della sequenzialità, la transazione al posto della interazione, l’olismo<br />

piuttosto che il meccanicismo, la relazione reciproca in luogo della causalità, la<br />

rete al posto della gerarchia.<br />

La proposta tenta cioè, di scuotere le fondamenta della conoscenza moderna e<br />

classica, mettendo in discussione concetti come quello di verità, di realtà, di<br />

sostanza, di oggetto, di soggetto, di causa che sono le basi di quel sapere.<br />

215 J. Dewey, Conoscenza e transazione, op. cit. pag. 313<br />

216 Termine usato anche da Heidegger, seppur con un’accezione completamente diversa.<br />

202


IV) Osservazioni<br />

Ci siamo soffermati sulle conseguenze e sulle implicazioni – almeno quello che<br />

sembrano oggi evidenti, ma se ne possono intravedere molte altre – di questo<br />

modo di pensare; esse sono affascinanti. Affascinante è, ad esempio, l’idea che<br />

Dewey dà dell’energia proprio nella sua ultima opera: «L’energia sta sempre più<br />

assumendo l’aspetto di una situazione descritta piuttosto che quella di una “cosa”<br />

di cui si asserisce l’esistenza»; il concetto di “energia” è necessario per<br />

descrivere un fenomeno in sede “interazionale”, dove è considerato la base di<br />

tutte le relazioni tra enti, e di tutte le operazioni organiche e meccaniche. In<br />

campo “transazionale”, dove si considera improprio connotare l’energia come<br />

“qualcosa che…”, dove non c’è separazione tra interno e esterno, dove non<br />

servono fluidi magici per collegare oggetti, o per spiegare effetti, questo concetto<br />

potrebbe diventare ridondante, aprendo così degli scenari imprevedibili.<br />

Gli effetti, gli esiti di questa impostazione sono, in un certo senso, anche,<br />

“liberatorie”. Liberatorie perché ci esimono dalla ricerca (almeno nel campo<br />

della razionalità e della conoscenza umana) di quelle entità assolute e fondative<br />

che hanno tenuto prigionieri gli uomini per secoli, e che peraltro, non si sono mai<br />

mostrate chiaramente. Una ricerca faustiana, 217 che si è rivelata improba; una<br />

ricerca durata millenni senza che si siano fatti “indiscutibili” passi avanti.<br />

Assumere l’idea che la ricerca (attraverso la cosiddetta “razionalità”) degli<br />

assoluti sia una ricerca senza speranza può essere gratificante, perché significa<br />

far rientrare le nostre facoltà razionali all’interno del loro alveo naturale.<br />

Significa contenere le prospettive della ricerca all’interno dell’indagabile e del<br />

conoscibile, e ciò è sicuramente un atto di maturità e di responsabilità. Anche e<br />

soprattutto perché, queste entità – come la Verità, l’Essenza, le Idee, le Sostanze<br />

– sono invenzioni dell’uomo, utili per mascherare lacune nel suo modo di<br />

217 Però Faust sa che: «La verità che è il divino non si mostra mai a noi direttamente. Noi la vediamo<br />

solo nel riflesso, nell’esempio, nel simbolo, nelle singole apparizioni affini»; e alla fine afferma: «Medita<br />

bene: e ne sarai certo. In un iride solo di riflessi, noi possedian la vita».<br />

203


argomentare, e per superare le aporie di qualche costruzione filosofica. Non sono<br />

mai servite per spiegare, o per chiarire, ma sono sempre state utilizzate per<br />

nascondere e camuffare.<br />

Moliere, con l’impareggiabile arguzia che lo distingue, dà un esempio<br />

illuminante di questa metodologia nel Malato immaginario: un dottore che deve<br />

spiegare perché l’oppio faccia dormire attribuisce, con gran sicurezza,<br />

quell’effetto alla “virtus dormitiva”, credendo così di aver dato prova della sua<br />

grande scienza: con le virtus dormitive, con le essenze, con la cause, con le forze,<br />

non si spiega nulla; anzi ad un problema che si aveva, se ne aggiunge un altro da<br />

affrontare.<br />

Non ci si rende conto che la ricerca a ritroso di una causa omnicomprensiva, o<br />

l’investigazione “introspettiva” verso qualche essenza universale, non sono<br />

necessità insite nella realtà, ma impostazioni date ad indagini umane, usate dai<br />

filosofi e dagli scienziati per superare le loro difficoltà.<br />

Allora, le perplessità che sorgono nell’assumere il sistema transazionale di<br />

Dewey (o più in generale, qualsiasi altra metodologia olistica), sembrano sorgere<br />

dal fatto che così bisogna rinunciare alle entità assolute. Appare molto più<br />

rassicurante ipostatizzare delle entità come “l’essenza” o la “sostanza” e poi<br />

mettersi alla loro disperata ricerca, piuttosto che “accontentarsi”, di volta in<br />

volta, di quello che una seria indagine scientifica mette a disposizione. Ciò è<br />

probabilmente il risultato della nostra cultura, che non riesce a liberarsi dalle<br />

cause e dagli effetti; Sembra “naturale” pensare che alla fine (o al principio) del<br />

contingente sia necessario porre il necessario, o che a fondamento del diveniente<br />

ci debba essere il permanente, e che a sostegno del transeunte e del relativo ci<br />

debba essere l’assoluto. Ma questi sono tutti concetti elaborati dall’uomo, che<br />

non hanno alcun riferimento ad una presunta “realtà esterna”.<br />

Per la verità, il cammino dell’uomo -ricercatore mostra un progressivo distacco da<br />

tali entità assolute, infatti, mentre la dipendenza era totale e indiscutibile nel<br />

mondo antico e nel medioevo, già con l’età moderna ci sono stati i primi tentativi<br />

di emancipazione. Tentativi che però sono falliti sia in ambito scientifico che<br />

204


filosofico. E il fallimento è da attribuire alle metodologie adottate, fondate su un<br />

modello (“sequenziale” e “gerarchico”) di ricerca” di cause prime, o di entità<br />

“perfette” (nel senso di complete e compiute) sulle quali basare tutto il resto.<br />

Il progetto di Dewey è proprio quello di emancipare definitivamente l’indagine<br />

scientifica da tale “bisogno”, cercando di far capire l’inutilità di quell’approccio.<br />

Il suo sforzo in tale direzione è durato l’intero arco della sua esistenza e lo ha<br />

visto affrontare il problema da molti punti di vista. Non è semplice, infatti,<br />

scardinare convinzioni sedimentate nel corso di secoli. 218<br />

Concetti simili a quello della transazione si stanno affermando anche nell’ambito<br />

delle scienze umane e di quelle naturali: la biologia di Maturana e Varela, la<br />

psicologia di Bateson, la sociologia di Luhmann, l’antropologia dei già citati<br />

Boas, Whorf, Geertz, hanno notevoli assonanze con la metodologia transazionale<br />

del filosofo americano (senza, magari, che tali studiosi avessero conoscenza<br />

diretta della filosofia di Dewey).<br />

Molti scienziati usano ormai modelli olistici per cercare di carpire i segreti del<br />

mondo sub-atomico, seguendo così la scia lasciata da Bohr e Heisemberg.<br />

È chiaro, quindi, che l’auspicio di Dewey si sta realizzando, forse proprio grazie<br />

al fatto che tale modello di ricerca permette di raggiungere risultati ai quali il<br />

precedente modello non poteva aspirare; forse esso permette una<br />

“specificazione” delle procedure di indagine maggiore, e si rivela quindi più<br />

efficace nell’affrontare i problemi che gli studiosi si trovano davanti (come<br />

riteneva Dewey).<br />

218 Per fortuna egli non è l’unico ad avere intrapreso questo cammino. Filosofi come Wittgenstein e<br />

Heidegger (e molti altri pensatori nei campi più diversi), percorrendo strade anche divergenti, hanno<br />

raccolto la stessa sfida.<br />

205


V) Conseguenze<br />

Una conseguenza rilevante del concetto di transazione, è che l’azione dell’uomo<br />

è sempre “autopoietica” (interna alla relazione che egli intrattiene con<br />

l’ambiente). L’uomo non può mai agire su enti esterni e indipendenti da se<br />

stesso, come invece ritenevano i moderni. L’uomo operando, cambia il sistema<br />

nel quale egli stesso è “compreso”. L’azione non può raggiungere una realtà<br />

esterna a quella da cui origina l’azione. L’uomo interviene sempre nel suo<br />

sistema. In altre parole, la relazione tra l’attore e l’agito non è di indipendenza<br />

reciproca, ma è “inclusiva”. L’organismo infatti sta nel proprio ambiente non<br />

come una parte “contenuta” nell’intero, ma come il testo in relazione al proprio<br />

contesto: non si può separare, o anche solo distinguere, il testo rispetto al<br />

contesto nel modo in cui è invece possibile separare la parte dall’intero. Ciò<br />

significa che, tale attività ha effetti retroattivi, sull’attore e sull’agito; cioè, ogni<br />

azione modifica la relazione e gli elementi stessi del sistema. Quindi, chi opera, il<br />

riferimento su cui opera, e il loro rapporto vengono cambiati dall’azione, e la<br />

relazione, “transazionalmente”, evolve nel tempo.<br />

Per esemplificare si può paragonare il sistema descritto ad una struttura<br />

reticolare, nella quale nodi e rete stanno in un rapporto di reciproca dipendenza<br />

(mentre in epoca moderna si concepiva la struttura come un meccanismo).<br />

Questa relazione e i suoi termini “sono” proprio in virtù del continuo scambio<br />

che li lega. Senza il loro sviluppo solidale non potrebbero nemmeno esistere.<br />

Quindi, i termini di questa relazione “sono” solo in funzione di tale relazione (la<br />

loro “identità” dipende dalla relazione che li interessa). I moderni, invece,<br />

credevano che degli enti perfettamente costituiti potessero entrare, o non entrare<br />

in rapporto, mantenendo comunque la loro “identità” e autonomia: per usare il<br />

solito esempio, essi sostenevano che la natura di due palle da biliardo non<br />

dipendesse dalle relazioni che le vedevano coinvolte. Esse rimanevano sempre e<br />

comunque palle da biliardo.<br />

Quest’altro punto di vista, considera le palle da biliardo, tali, solo durante il<br />

gioco del biliardo (durante la loro transazione), al di fuori del gioco, esse non<br />

206


possono essere considerate tali – anche se così vengono comunemente definite.<br />

Ciò significa che, esse non hanno una “natura intrinseca”, non hanno identità<br />

autonoma, esse sono “palle da biliardo” solo durante l’evento “gioco del<br />

biliardo”. La loro identità dipende dall’uso al quale sono sottoposte, ed è quindi<br />

diversa per ogni singolo evento del quale partecipano; infatti, esse fanno parte di<br />

un contesto d’uso che non può essere limitato alla loro sola relazione meccanica.<br />

Descrivere il loro entrare in contatto durante il gioco, come un fenomeno causale<br />

che provoca il movimento della palla colpita attraverso una trasmissione di forze,<br />

è solo un modo (probabilmente riduttivo) di descrivere quell’evento (che può<br />

avere comunque un’enorme utilità pratica).<br />

È nei singoli eventi che si formano le relative identità, perché l’identità dei<br />

termini non è una entità permanente, e autonoma, ma è indissolubilmente legata<br />

al contesto di riferimento (d’altra parte, sappiamo che l’evento o la relazione si<br />

costituiscono solo a partire dai termini coinvolti: non si deve mai dimenticare la<br />

reciprocità).<br />

Newton pensava che le relazioni avvenissero esclusivamente tra particelle<br />

inalterabili: aveva torto. Ogni cosa è solo in funzione della “transazione” che la<br />

interessa. Essa è, in ogni singolo evento, quello che la relazione la fa essere<br />

(quindi al limite, se considerata da un certo punto di vista, essa può essere anche<br />

particella, comunque mai solo particella).<br />

Il compratore e il venditore sono tali solo nella transazione economica, fuori<br />

della transazione non c’è né compratore, né venditore; ma, si può obiettare,<br />

restano le “persone” del compratore e del venditore: si risponde che un uomo, è<br />

sempre “per-qualcosa”, è sempre “compreso” in una relazione. L’idea dell’uomo<br />

semplicemente uomo è una astrazione metafisica, una illusione. Un uomo<br />

compra vende, ama, odia, soffre, gioisce, dorme, veglia, ecc.. È sempre “per-<br />

qualcosa”. Quindi egli “è” in funzione della relazione che lo lega a qualcosa. Egli<br />

è, sempre e solo, termine di una relazione. L’uomo non è mai solo uomo, ma è<br />

semmai, venditore, giocatore, amante, e non uomo che anche vende, uomo che<br />

anche ama, uomo che anche gioca.<br />

207


L’uomo non indossa delle “maschere” a seconda delle situazioni, o delle persone<br />

che incontra, l’uomo “è” l’insieme di quelle “maschere”, perché manca il<br />

“sostrato” che dovrebbe stare sotto a tali maschere. L’uomo non ha una<br />

“personalità” (un temperamento) con la quale caratterizza le “maschere” che<br />

veste, nelle diverse vicende che lo riguardano; ma la sua personalità è l’insieme<br />

degli atteggiamenti che vengono manifestati nel corso della sua vita, negli eventi<br />

ai quali partecipa.<br />

L’ “io”, come abbiamo visto, è un insieme “ordinato” di esperienze (portate dalle<br />

relazioni organico-ambientali, per via filogenetica e ontogenetica).<br />

L’ambiente, in relazione all’organismo, considerato sia nella sua dimensione<br />

naturale (relazione biologica con l’organismo), che nella sua dimensione sociale<br />

(relazione etico-culturale con l’organismo) è sempre un “contesto”. Anche in<br />

questo caso si tratta di due aspetti della stessa vicenda, che, appunto, può essere<br />

complessivamente definita “io”, o “persona”.<br />

Anche l’ “io” è in relazione di reciprocità col suo mondo. L’ “autocoscienza” è<br />

un insieme di vicende correlate, le quali possono essere interpretate anche come<br />

“azione del mondo, sul mondo, nel mondo”.<br />

Ad esempio, la scoperta della Relatività generale non è l’opera di un “soggetto”<br />

che osserva il mondo come suo “oggetto”. Ma è il frutto dell’indagine “del<br />

sistema”, “sul sistema”, attraverso un suo autorevole interprete. È un azione del<br />

“sistema-mondo” su sé stesso, essendo Einstein, un “prodotto” biologico e<br />

culturale del suo mondo. Tale teoria si inserisce all’interno di un “contesto” di<br />

conoscenze possedute, essa è una interpretazione nuova (dovuta magari a<br />

intuizioni geniali) di concetti, idee, credenze già presenti e condivise. Ogni nuova<br />

teoria non nasce dal nulla, non è arbitraria o casuale, ma si sviluppa su un<br />

“contesto” culturale, che la rende “significativa”. Essa rappresenta un piccolo o<br />

grande passo di un cammino che il mondo sta compiendo.<br />

Questa teoria ha reso possibili nuove osservazioni, perché ha pronosticato l’<br />

“esistenza” di fenomeni che le teorie precedenti avevano ignorato. La Teoria<br />

della relatività dà del mondo un immagine diversa da quella data dalla teoria<br />

208


newtoniana, essa considera degli elementi nuovi (ad esempio la deviazione dei<br />

raggi luce), che prima non “esistevano”. Così cambia la fisionomia del mondo,<br />

cambia la posizione dell’uomo rispetto al suo mondo, e cambia quindi la<br />

relazione uomo-mondo. Tutto questo in un contesto di assoluta e totale<br />

reciprocità.<br />

Questa è una descrizione del rapporto tra l’uomo e l’ente (e quindi dell’uomo e<br />

dell’ente) molto diversa da quelle date prima. Una prospettiva che si avvale dei<br />

contributi di grandi pensatori che si sono cimentati con questo problema.<br />

Pensare alla relazione tra l’uomo e l’ente, e quindi tra l’uomo e il suo mondo, è<br />

sicuramente uno dei luoghi più praticati dalla filosofia, e dalle scienze in<br />

generale. Le quali in ogni epoca hanno mostrato nei loro metodi, e nei loro<br />

contenuti delle evidenti analogie. Come se un paradigma epocale potesse essere<br />

esteso a diversi ambiti del sapere. Oggi, infatti, si sta sviluppando una<br />

contestazione diffusa, (interdisciplinare) del modo “moderno” di trattare tale<br />

questione (alla quale abbiamo in parte accennato).<br />

Nella sostanza, la filosofia, la fisica, la biologia, l’antropologia, di quell’epoca<br />

erano fondate sul modello dualistico “soggetto-oggetto”, che è entrato in crisi<br />

proprio nel ventesimo secolo.<br />

La proposta filosofica di Dewey si caratterizza proprio come tentativo di superare<br />

quel paradigma.<br />

209


VI) Considerazioni conclusive<br />

Resta da fare un breve commento a questo lavoro di Dewey: il concetto di<br />

transazione (guadagnato in quest’opera), rappresenta un passo decisivo verso l’<br />

“ecologia non fondata”, perché attraverso di esso si apre una prospettiva di<br />

reciprocità totale. Anzi si può affermare che l’idea di transazione è il primo<br />

tentativo riuscito, offerto dalla filosofia contemporanea, di ripensare la relazione<br />

tra persona ed ente nel modo della mutualità (al di là quindi sia del realismo che<br />

dell’idealismo). 219<br />

La transazione è la prima alternativa esplicita alla logica sequenziale, 220 in quanto<br />

è una confutazione netta del principio di “derivazione” (principio che pone<br />

sempre un rapporto gerarchico tra entità determinate); Ciò significa che, due<br />

“elementi” legati transazionalmente non possono derivare l’uno dall’altro; quindi<br />

non posso nemmeno “consistere” l’uno senza l’altro: allora, da una parte, tra i<br />

due non ci può essere un rapporto di dipendenza; dall’altra, l’uno non può “stare”<br />

(permanere) senza l’altro, e a maggior ragione non lo può neanche “precedere”.<br />

È chiaro che in questo modo si demoliscono le fondamenta del pensiero<br />

moderno, perché si mette in crisi in un colpo solo sia l’idea di fondamento che<br />

quella di causa. Non ci può essere “fondamento” perché non è possibile che<br />

qualcosa preceda assolutamente qualcos’altro. L’idea di un ente originario,<br />

assoluto dal quale derivano gli altri non è compatibile con la transazione; e di<br />

conseguenza, viene a cadere anche la possibilità di qualsivoglia rapporto di<br />

dipendenza tra enti. Così viene meno sia la derivazione ontologica che la<br />

derivazione logica tra entità determinate. Ecco superato anche il dualismo<br />

“soggetto-oggetto”.<br />

219 Fatte salve forse le ultime opere di Heidegger, nelle quali, come abbiamo visto, egli tratta concetti<br />

per certi versi simili.<br />

220 E’ chiaro che in questo modo egli ammette implicitamente che le sue opere precedenti non erano<br />

ancora immuni dal fondazionalismo metafisico. E questo del resto è emerso anche nella precedente<br />

analisi.<br />

210


Però se da un lato, la transazione consente di configurare un rapporto di<br />

mutualità tra uomo ed ente, dall’altro non fa loro perdere la caratteristica della<br />

“stabilità”. Detto altrimenti, quello che ancora manca in quest’ultimo lavoro, è la<br />

dimensione “evenemenziale”.<br />

Si è già accennato al fatto che, se la reciprocità, è “costitutiva” dei termini<br />

“facenti parte” della relazione, essa si dà anche come manifestazione di tali<br />

termini (ci deve essere una osmosi, una simbiosi, un’unità tra i due aspetti); per<br />

usare il vocabolario di Dewey: non ci sono termini in grado di transare, ma ci<br />

sono solo transazioni, le quali però sono evenemenziali; cioè, non solo i termini<br />

si danno uno in funzione dell’altro, ma anche la transazione è in funzione dei<br />

termini, essa non deve essere intesa come la “causa” dell’esistenza delle<br />

relazioni, o dell’esistenza dei termini della relazione, o della possibilità del loro<br />

“incontro”; non deve essere adombrato nessun rapporto di dipendenza, a nessun<br />

livello, altrimenti si corre il pericolo di ricade nella logica principiale. Cioè non si<br />

deve sostituire alla stabilità dei termini la stabilità della loro relazione nello<br />

spazio e nel tempo.<br />

Con la transazione cade la “derivazione tra”, e l’ “indipendenza dei” termini. Ma<br />

essi conservano la loro permanenza nello spazio e nel tempo. Dewey, quando<br />

porta l’esempio della transazione economica afferma che: «Questa transazione fa<br />

di uno dei partecipanti un compratore e dell’altro un venditore. Nessuno dei due<br />

è un compratore o un venditore se non in una transazione e a causa di una<br />

transazione in cui l’uno e l’altro sono impegnati». 221 Quasi che la transazione<br />

potesse dare un’identità ai suoi elementi. Ma se così fosse, si ipostatizzerebbe la<br />

natura della relazione, col rischio di farla diventare una specie di fondamento.<br />

Per evitare questo pericolo serve l’elemento evenemenziale, ovvero<br />

quell’elemento che consente di ottenere la completa mutualità di tutti gli elementi<br />

coinvolti (compresa la relazione che li lega, la quale è un elemento come tutti gli<br />

altri).<br />

221 J. Dewey, Conoscenza e transazione, op. cit. pag. 311. Corsivi aggiunti.<br />

211


Affinché la transazione economica si compia nel modo della reciprocità totale è<br />

necessario che essa abbia le caratteristiche dell’evento. La mutualità e la<br />

solidarietà tra i termini è possibile solo se la relazione è evenemenziale. Se si<br />

toglie questo aspetto ci si condanna a rimanere all’interno di una struttura<br />

composta da elementi stabili. E quindi si è costretti a trattare la transazione come<br />

il fondamento della loro relazione.<br />

Seguendo la descrizione di Dewey, il “compratore” dell’esempio, alla prossima<br />

occasione d’acquisto tornerà ad essere lo stesso compratore (ma il fatto che lui si<br />

senta la stessa persona nelle diverse transazioni, non significa che egli sia sempre<br />

lo stesso compratore. Abbiamo già visto – e ci ritorneremo – che tra<br />

consapevolezza di sé e soggettività c’è scarto; altrimenti la differenza col<br />

modello metafisico della stabilità nel tempo sarebbe solo di specie).<br />

In questo modo l’ “ipseità” resta ancora una specie di “sostrato”, sul quale<br />

riposano le diverse transazioni che coinvolgono quello specifico uomo.<br />

In altre parole, l’autocoscienza viene ancora intesa da Dewey come la “base”<br />

dell’esperienza personale, mentre qui si sostiene che anche l’autocoscienza<br />

(come tutti gli altri termini di ogni relazione) “si dà” e “si fa” nell’evento (nel<br />

momento in cui l’evento non è altro che la relazione che si manifesta; cioè non è<br />

niente di sostanziale, di permanente, o di fondativo. L’evento non ha alcuna<br />

identità propria – non precede, non causa, e non “perdura oltre” – è solo un altro<br />

modo di dire “relazione”).<br />

Solo se la “realtà” “si fa” ogni volta nell’evento c’è vera mutualità; viceversa ci<br />

si viene a trovare a metà strada tra la “re-azione” e la “relazione” (cioè tra una<br />

situazione dualistica e una ecologica).<br />

Il paradigma metafisico prevede enti inalterabili, autonomi, che entrano in<br />

relazione grazie ad un “impulso” (che è stato chiamato con molti nomi),<br />

mantenendo la loro identità. Si verifica cioè un “contatto” tra enti<br />

precedentemente separati. I legami sono garantiti da rapporti di dipendenza, che<br />

212


vengono descritti in diversi modi (dalle cause aristoteliche, al cogito cartesiano,<br />

fino alla dialettica hegeliana e oltre).<br />

Nel modello alternativo si rifiuta l’indipendenza degli enti, non si crede che il<br />

mondo sia popolato da sostanze separate che possono “incontrarsi”, ma si<br />

suppone che ciò che “è”, “è” sempre in virtù di relazioni reciproche nel modo<br />

dell’evento. Si pensa che ogni “entità” nel mondo non sia qualcosa di autonomo<br />

e permanente, ma un aspetto particolare di un qualche evento, cioè un modo di<br />

configurare una determinata relazione. La quale da un lato, è “costitutiva” di<br />

quella “cosa”, dall’altro è solo la sua manifestazione (non si dà quindi alcun<br />

rapporto di derivazione tra relazione ed “ente”).<br />

Ogni cosa esiste nel modo dell’evento e limitatamente a quell’evento, quindi<br />

ogni evento è, in tutti i suoi “aspetti”, qualcosa di unico e irripetibile. E d’altra<br />

parte, l’evento non è niente di più dell’aspetto che si manifesta. Quando si<br />

osserva qualcosa, si osserva sempre un evento secondo una certa prospettiva,<br />

cogliendone cioè, di volta in volta, un determinato “aspetto”.<br />

In altre parole, all’autonomia viene preferita la mutualità, alla separazione<br />

subentra la relazione, la stabilità e la permanenza vengono sostituite<br />

dall’evenemenzialità, e quindi al posto di soggetti e oggetti si pongono eventi, e i<br />

loro aspetti.<br />

La descrizione di questo “modello” alternativo è il compito che ci poniamo nelle<br />

successive parti del presente scritto.<br />

213


PARTE TERZA<br />

Dalla relazione all’ evento: reciproche implicazioni<br />

Dalla relazione all’evento senza soluzione di continuità: come può la relazione darsi senza evento,<br />

da dove l’evento senza relazione? L’evento manifesta la relazione, come la circonferenza manifesta<br />

il cerchio. L’evento è la manifestazione della relazione, la relazione avviene allora solo come evento.<br />

È possibile immaginare qualcosa separato dalla sua manifestazione? La relazione “è” nel momento<br />

e nella misura in cui si manifesta.<br />

Primo capitolo: Relazione come raccoglimento<br />

“Il rapportarsi è un modo del raccogliere [Lesen] e del riunire [Sammeln], ossia del legein” legein<br />

222<br />

I) Premessa<br />

Nelle prime due sezioni abbiamo preso in esame le filosofie di Heidegger e<br />

Dewey da un particolare punto di vista. Abbiamo cercato cioè di mettere in<br />

evidenza quale sia il loro modo di intendere la relazione “uomo-mondo”. Lo<br />

abbiamo fatto perché ci sembra che entrambi siano arrivati ad un punto di<br />

discontinuità netto nei confronti delle teorie che li hanno preceduti.<br />

Da un lato Heidegger con la nozione di “essere-nel-mondo”, dall’altro Dewey<br />

con quella di “transazione” hanno proposto un’alternativa concreta al rapporto<br />

“soggetto-oggetto” di derivazione moderna.<br />

222 M. Heidegger, Eraclito, Mursia, Milano, 1993, pag 215<br />

In questo primo capitolo vogliamo mettere in evidenza l’affinità tra i concetti di relazione e quello di<br />

raccoglimento (logos). Abbiamo citato Heidegger per la chiarezza con la quale egli esprime il darsi di tale<br />

affinità. In chiusura del paragrafo dal quale abbiamo tratto la citazione egli afferma: «Il pensiero<br />

dell’uomo – se non vuole irrigidirsi ciecamente e ostinatamente su una opinione del tutto isolata e<br />

parziale – deve esaminare fino in fondo tutto quello che l’esperienza umana e la tradizione offrono e che<br />

si presenta sotto forma di rapporto: come quel rapporto con il Λογοσ che ha la forma del λογοσ».<br />

214


Nelle prima parte abbiamo cercato di mostrare dove la speculazione di Heidegger<br />

sia da ritenere “rivoluzionaria” e dove invece conservi una continuità con il<br />

pensiero moderno. Lo abbiamo fatto concentrandoci su alcuni punti specifici,<br />

quelli inerenti al discorso che svolgeremo in seguito; ci siamo concentrati cioè<br />

sul modo di intendere la relazione che viene fuori dalla filosofia di Heidegger.<br />

Da questa prospettiva diventano determinanti le nozioni di “mondo” e di<br />

“esserci” che il filosofo tedesco ha elaborato durante tutto l’arco della sua<br />

carriera.<br />

In altre parole, per capire il concetto di relazione sotteso dalle posizioni di<br />

Heidegger è necessario esaminare anche come egli tratta i termini coinvolti in<br />

essa: il “mondo” heideggeriano diventa così una cifra distintiva del suo pensiero,<br />

qualcosa di assolutamente diverso rispetto a tutte le concezioni precedenti. Di<br />

conseguenza, nuovo risulta anche il concetto di Dasein, di quell’essere cioè che<br />

vive la relazione col suo mondo come un “prendersi cura” originario.<br />

Di tutto quello che abbiamo già detto, qui basta ribadire come mondo, esserci e la<br />

loro relazione costituiscano una trama del tutto peculiare rispetto a quella<br />

moderna. Il merito di Heidegger sta quindi nell’aver mostrato come si possa<br />

andare oltre l’idea del soggetto che “incontra” altri enti (siano essi soggetti o<br />

semplicemente oggetti), o che si pone come semplice osservatore neutrale<br />

dell’incontro di cose a lui estranee. Egli ha elaborato un nuovo modo di intendere<br />

l’uomo, il suo mondo e la relazione che si instaura tra di essi. In sostanza, egli ha<br />

rivisto dalle fondamenta il discorso filosofico fatto in epoca moderna.<br />

Per Dewey, si può fare un discorso analogo; il suo impegno principale fu quello<br />

di rivedere i concetti di soggetto, oggetto, e il tipo di rapporto che li lega. Per<br />

tutto l’arco della sua vicenda filosofica egli ha cercato un modo di configurare<br />

quel rapporto in termini totalmente nuovi. E la sua proposta si è arricchita nel<br />

corso del tempo.<br />

Analizzando i suoi scritti infatti sembra che la transazione sia il risultato di un<br />

“affinamento” progressivo del suo pensiero; qualcosa che egli ha cercato per tutta<br />

la vita.<br />

215


In altri termini, il suo lavoro filosofico è consistito nel proporre, nel corso degli<br />

anni, una spiegazione sempre più convincente e completa dei rapporti che legano<br />

l’uomo al suo ambiente. E in questo lungo cammino il concetto di transazione<br />

rappresenta il compimento dell’opera.<br />

Dal nostro punto di vista, sia il concetto di “essere-nel-mondo” che quello di<br />

“transazione” configurano un modo innovativo di intendere la relazione tra<br />

l’uomo e il suo mondo, e quindi anche l’idea stessa di relazione.<br />

Si può discutere sul fatto che questo tema sia stato, o non sia stato, un riferimento<br />

prioritario del loro pensiero; Si può sostenere che l’uno e l’altro ritenessero altre<br />

le questioni più importanti. A nostro modo di vedere, comunque, la loro filosofia<br />

può essere letta anche come un approccio originale al tema della relazione (io-<br />

mondo).<br />

E senza addentrarci in dispute filologiche e filosofiche riteniamo che proprio<br />

questi due modi di “trattare” la relazione siano contributi fondamentali alla<br />

cultura del novecento.<br />

Ecco perché li abbiamo inseriti all’interno del discorso che stiamo facendo.<br />

In questa terza parte, discuteremo di questo concetto (la relazione), mantenendo<br />

sullo sfondo ciò che abbiamo detto fin’ora.<br />

216


II) La parola “relazione”<br />

In questo paragrafo ci occuperemo della parola “relazione”.<br />

Lo Zingarelli 223 ci informa che tale vocabolo deriva dal sostantivo<br />

“relatione(m)”; il quale a sua volta viene da relatus participio del verbo refero.<br />

Da esso ad esempio deriva anche il francese relation, e di conseguenza l’inglese<br />

relation.<br />

Relazione significa “legame, attinenza tra cose, elementi, fenomeni o altro”. La<br />

relazione può essere di somiglianza, di uguaglianza, di causa effetto, ecc.<br />

Deve essere sottolineata subito l’associazione che il vocabolario opera tra il<br />

concetto di relazione e quello di legame. È indicativo cioè che venga usato<br />

proprio il termine legame per spiegare il significato di relazione; questa parola<br />

infatti implica sempre l’esistenza di una connessione, o di una comunione, di<br />

qualcosa cioè che richiama proprio l’idea della congiunzione o della vicinanza.<br />

Sarà importante mostrare in che senso può essere intesa l’associazione tra questi<br />

due termini perché l’affinità semantica tra l’idea di relazione e quella di legame<br />

ci può dare parecchi spunti.<br />

Refero (il verbo dal quale viene la parola relazione) è un composto di fero, il<br />

quale gode in latino di una serie sterminata di impieghi. Fero, come si sa, è un<br />

verbo irregolare che al perfetto fa tuli e al participio passato latum; forme<br />

irregolari che contribuiscono alla sua poliedricità.<br />

Innanzitutto dobbiamo precisare che l’indagine che ci apprestiamo a compiere<br />

intorno al fero latino è relativa ai significati che questo verbo aveva nel suo<br />

ambiente di riferimento; non vogliamo in nessun modo proporre dei collegamenti<br />

tra parole che appartengono a contesti culturali diversi. Non vogliamo cioè<br />

assegnare al nostro “portare” accezioni che appartengono invece a fero. Diverse<br />

“culture” comportano diversi linguaggi, quindi ogni estensione, ogni<br />

sconfinamento tra l’una e l’altra rappresenterebbe un’operazione azzardata.<br />

Parole collocate in luoghi diversi nello spazio e nel tempo, hanno impieghi<br />

223 N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 2000. D’ora in avanti tutte le<br />

definizioni tra virgolette sono da riferire a questo vocabolario.<br />

217


diversi, hanno valenze diverse, e di questo siamo ben consapevoli. Ciò che<br />

faremo allora consisterà nell’analizzare un verbo – fero – nella sua sede propria,<br />

nel mondo latino, al solo scopo di mostrarne la ricchezza semantica. 224<br />

Il suo participio “latum” esprime il senso della vicinanza, dell’affinità. “Latus”<br />

è per i latini il fianco, il lato, ma anche la parentela.<br />

Stare al fianco vuol dire essere vicino, essere contiguo. Fiancheggiare significa<br />

“delimitare qualche cosa ai fianchi”, “stare a lato di qualcosa”, accompagnare<br />

qualcuno, e poi appoggiare, sostenere, “supportare”. Questa parola quindi dà<br />

proprio l’idea della prossimità, e del legame tra le parti.<br />

Il perfetto “tuli” – condiviso col verbo “tollo” – suggerisce l’idea del<br />

“sollevare”, e del “raccogliere”. 225<br />

Anche grazie al contributo di queste forme quindi fero riunisce un’ampia gamma<br />

di accezioni. Oltre al semplice portare, esso esprime l’arrecare, e quindi il<br />

cagionare, il causare, ma anche l’avvicinarsi; oppure sta per “abbracciare<br />

qualcuno”; ferre oculis aliquem vuol dire sentirsi vicino, amare; fero significa<br />

poi accostarsi, offrire, porgere, incontrare, portarsi, volgersi, rivolgere, e poi<br />

riferire, raccontare, annunciare, presentare, indicare, mostrare, e altro ancora. 226<br />

Si può notare che in molte delle accezioni riportate è presente l’idea del<br />

raccogliere, dell’avvicinare e dell’unire. 227<br />

224 In sostanza, il lavoro di connessione tra contesti culturali diversi esula dagli obiettivi che ci<br />

proponiamo in questa sede. Qui vogliamo solo mostrare la complessità che il verbo aveva nella sua terra<br />

d’impiego, per poter poi trattare il tema della relazione in modo più compiuto.<br />

225 La radice di fero è *bher, quella di “tollo” è *tel, ad entrambe il Pokorny (J. Pokorny,<br />

Indogermanisches Etymologisches Worterbuch (IEW), Francke Verlag Bern und Munchen) associa il<br />

verbo tedesco “aufheben” (sollevare, raccogliere, immagazzinare, ma anche togliere). Del verbo “tollo”<br />

ci o ccuperemo nel paragrafo dedicato ad Hegel. Qui basti dire che la comunione tra tollo e fero è<br />

veramente emblematica in quanto tollo è il verbo dal quale il filosofo tedesco ricava il concetto di<br />

“Aufhebung”; concetto che egli usa nella Scienza della logica per spiegare il modo della relazione tra<br />

“soggetto” e “oggetto”.<br />

226 Tutte le locuzioni in latino sono prese dal Castiglioni-Mariotti, Vocabolario della lingua latina “IL”,<br />

Loescher, Torino, 1979<br />

227 La stessa famiglia di significati si riscontra anche per il “φερο” greco; Sarebbe possibile risalire<br />

ancora più indietro, alla radice attribuita dai linguisti a fero (*bher), e analizzare tutti i suoi derivati nelle<br />

altre lingue indoeuropee; si scoprirebbe una diffusione piuttosto omogenea di queste accezioni, ma ci<br />

asteniamo dal farlo perché si rischierebbe di uscire dalla linea di argomentazione adottata.<br />

218


Ecco perché quando si pensa a fero si dovrebbe evitare l’identificazione<br />

immediata col verbo italiano portare, che rischia di limitarne le valenze, e<br />

conservare invece la ricchezza e la complessità semantica del latino (e del greco).<br />

In italiano un sinonimo di relazione è “rapporto”, anch’esso è un composto che<br />

inerisce al “portare”. Con tale termine si indica un collegamento, una<br />

somiglianza tra determinati elementi. Il verbo relativo è “rapportare” che<br />

significa sia “riferire un fatto” che “confrontare due grandezze”. Entrambi i<br />

significati implicano, almeno in senso figurato, un collegamento tra termini.<br />

Quando una notizia viene riferita si stabilisce una relazione tra due persone, si fa<br />

in modo che esse “comunichino”; ma l’azione del riferire implica anche il<br />

“portare” tale notizia dalla fonte al destinatario. Così queste persone si<br />

avvicinano, si rendono prossime, entrano in contatto. In tale contesto allora, il<br />

“portare” è segno di congiungimento e di prossimità. Anzi, a ben vedere,<br />

qualsiasi “trasporto” ha come obiettivo un collegamento, qualsiasi cosa<br />

scambiata è l’oggetto di una relazione.<br />

Il concetto del portare quindi non può prescindere da quello del congiungere.<br />

Quando si legano delle cose si determina il loro avvicinamento e la loro<br />

connessione (fisica o astratta); ma allo stesso modo, esiste vicinanza e prossimità<br />

anche tra cose correlate. Una relazione configura sempre una comunione, una<br />

sorta di solidarietà tra gli elementi da cui è costituita.<br />

Ecco perché si può parlare di sinonimia (messa peraltro in evidenza nel<br />

vocabolario) tra il concetto di “legame” e quello di “relazione”.<br />

L’ambasciatore, ad esempio, è colui che “porta” le comunicazioni, le proposte, le<br />

offerte di una parte a quell’altra, è un messaggero, funge da trait d’union tra due<br />

termini. Egli ha il compito di mantenere e sviluppare i rapporti tra due paesi. Egli<br />

ha la funzione di gestire relazioni, di tenere i contatti.<br />

Ambasciatore in latino si dice “legatus”, mentre l’ambasciata è la “legatio” –<br />

entrambe le parole rendono evidente che il ruolo dell’ambasciatore è quello di<br />

219


col-legare (e di rapportare). La sua missione cioè compendia e fonde l’azione del<br />

portare con quella del congiungere.<br />

Quando si porta qualcosa allora si produce un legame tra una parte e l’altra.<br />

Tutto ciò aiuta a capire perché l’idea della relazione veniva espressa in latino da<br />

un composto del verbo “fero”.<br />

Per inciso, possiamo aggiungere che anche la traduzione italiana di questo<br />

composto – “riferire” – mantiene le due accezioni, infatti il verbo significa sia<br />

dare una notizia o riportare un discorso, che mostrare una relazione (per esempio<br />

quando si “riferiscono” gli effetti alle cause).<br />

Così sulla scorta dell’analisi svolta, e lavorando per astrazione, ci si potrebbe<br />

immaginare l’azione del “raccogliere” come quella di un sollevare il frutto dal<br />

terreno per portarlo verso se stessi, oppure ci si potrebbe rappresentare il cogliere<br />

dall’albero come un portare verso di sé; comunque si tratterebbe di un<br />

appropriarsi, di un disporre, di un riportare; ancora, raccogliere potrebbe essere<br />

visto come un procurarsi, un ottenere (del cibo), e poi un “apportare”, nel senso<br />

di accumulare, immagazzinare, concentrare.<br />

Allora, raccogliere potrebbe essere inteso anche come “portare” le cose nello<br />

stesso luogo, sistemarle una vicino all’altra. Quando si raccoglie si riunisce e<br />

nello stesso tempo si distingue (e si sceglie). Il riferimento non può stare senza<br />

differimento.<br />

La relazione nasce dalla vicinanza, dall’accostamento, ma anche dalla<br />

somiglianza, dalla affinità che si mostra o che nasce (tra cose differenti).<br />

Raccogliere è mostrare un’ analogia, renderla evidente (questo è il significato<br />

che “raccogliere” assume per la matematica). L’ analogia è una relazione di<br />

affinità tra due o più cose, o un’influenza che una cosa esercita su un’altra.<br />

L’analogia mostra il nesso esistente tra determinate entità. Per la grammatica<br />

antica è un principio di regolarità nella flessione e nella formazione delle parole;<br />

in fisica essa segna una corrispondenza tra due fenomeni fisici; anche in questi<br />

esempi emerge l’idea dell’accostamento, della somiglianza e dell’affinità.<br />

220


Tra analogia (parola composta da ana e logos) e relazione (che proviene invece<br />

da refero) c’è evidentemente una comunanza di ambiti semantici.<br />

Raccogliere quindi è sia mettere in relazione nel senso (fisico o astratto)<br />

dell’avvicinare, che mostrare una relazione di affinità, o anche l’evidenziare una<br />

parte comune.<br />

La relazione è una connessione che viene a porsi tra cose, o una affinità che si<br />

mostra. Essa implica un raccoglimento e un legame.<br />

Il logos nella Grecia arcaica era il legame che associava le cose secondo un certo<br />

ordine; era la fonte della relazione o della parentela tra gli elementi. Ogni tipo di<br />

raccoglimento configurava un ordine (che così mostrava sempre un certo<br />

aspetto). 228<br />

Per Eraclito, ad esempio, le cose avvengono ”kata ton logon” 229 perché il logos<br />

è ciò che accomuna (raccoglie) originariamente tutte le cose (ciò implica – e<br />

questa è una conseguenza notevole – che la nostra relazione con l’ente è<br />

originaria. Essa non viene prodotta, ma solo portata alla luce, mostrata). Egli<br />

pensa che l’essere dell’ente corrisponda al suo raccoglimento originario. Nel<br />

frammento 114 230 viene riportato l’esempio della polis. Il filosofo di Efeso<br />

sostiene che il nomos, la legge, è l’elemento “comune”, ciò che rappresenta<br />

l’essenza e permette la sussistenza della polis. Il nomos è la costituzione, è il<br />

fondamento della società; e costituire, oltre a fondare, significa anche mettere<br />

insieme (e di conseguenza mantenere unito). 231 La legge è ciò che caratterizza<br />

una città, ciò che ne delinea le sembianze, perché è la legge che dispone i modi<br />

della convivenza, che determina il modo del raccoglimento, e dell’ordine. La<br />

legge “raccoglie” nel senso che ordina, fissa la maniera delle relazioni sociali. La<br />

228 Questo concetto del “logos” è senz’altro presente in Eraclito, ma ancora Aristotele esprime un<br />

concetto di questo tipo; cfr. Fisica, I 252, a 13<br />

229 Cfr. I Presocratici, a cura di A. Lami, BUR, 1991, Eraclito, frammento 1 pag. 198<br />

230 I Presocratici, cit. pag. 232<br />

231 Anche in latino cum-statuere significa “collocare” o “disporre insieme”: un altro modo di dire<br />

“raccogliere”.<br />

221


legge stabilisce “relazioni”, e di conseguenza dà il volto alla polis (gli<br />

“conferisce” la sua identità).<br />

Per Eraclito però la legge è di provenienza divina, l’uomo la può solo applicare,<br />

la può solo usare. Allora le relazioni sociali, il raccoglimento della polis non può<br />

essere creato, o prodotto. La cosiddetta convivenza civile è il frutto di<br />

un’armonia originaria e divina sulla quale l’uomo non può intervenire, che<br />

l’uomo non può cambiare.<br />

Raccogliere, allora, significa anche configurare, sistemare, nel senso di “fare<br />

sistema”, organizzare, ma anche rendere o mostrare la compatibilità, e per un<br />

altro verso, rendere simile (nel senso dell’evidenziare la somiglianza),<br />

avvicinare.<br />

Raccogliere è “accordare” cioè mettere insieme secondo armonia, unire<br />

armonicamente, fare in modo che la relazione tra i termini avvenga secondo<br />

concordia, favorisca l’adattamento reciproco e quindi la sussistenza (gli accordi<br />

musicali sono un insieme di suoni armonici che producono la melodia).<br />

Raccogliere è raccordare e quindi collegare, congiungere, portare vicino, rendere<br />

prossimo; ma ciò deve essere fatto nel modo opportuno, seguendo itinerari<br />

consentiti, e tra cose adeguate: ammassare non è raccogliere; non tutti i gruppi di<br />

oggetti sono un insieme raccolto (le cose ammassate non sono caratterizzate dalla<br />

scelta e dalla “ri-unione”; esse non evidenziano un ordine, un’armonia); ad<br />

esempio, solo determinati insiemi di note producono un accordo. Perché ci sia<br />

una relazione gli elementi raccolti devono essere compatibili, “omogenei” (essi<br />

devono seguire una determinata legge). Ancora una volta può essere utile<br />

l’esempio della matematica: è solo tra elementi legati da una legge data (cioè<br />

collegati secondo un certo criterio) che si configura una relazione.<br />

Bisogna sottolineare – ma questo concetto verrà sviluppato meglio in seguito –<br />

che la somiglianza e l’affinità non possono essere create, prodotte, causate, ma<br />

solo manifestate, scoperte. La prossimità o la contiguità tra “enti” invece può<br />

essere mostrata, oppure può anche essere, ottenuta, conseguita. Nel primo caso la<br />

legge di relazione può solo essere “portata” in luce (resa manifesta), nel secondo<br />

222


può anche essere elaborata, composta. Ad esempio, si può intendere la “società”<br />

come una comunità originaria, tenuta insieme dalla legge divina (l’idea della<br />

polis che esprime Eraclito nel già citato frammento 114), oppure come una<br />

comunità prodotta, ottenuta mediante un accordo tra gli “individui” (il contratto<br />

sociale di Rousseau). 232<br />

Nel primo caso la relazione è complementare ai (è inscindibile dai) “termini”<br />

correlati, nel secondo caso gli “individui” possono prescindere dalla relazione,<br />

perché essi possiedono una loro autonoma identità, e sono nella condizione di<br />

scegliere se stabilire o non stabilire la relazione.<br />

Allora, è la presenza della legge che consente il raccoglimento: ogni<br />

raccoglimento avviene cioè secondo una determinata legge. Ma la legge può<br />

essere, appunto, “originaria” o “prodotta”.<br />

Questo rilievo porta a delineare due modi diversi di intendere il legame e la<br />

relazione. E tale divaricazione è foriera di conseguenze notevoli, soprattutto dal<br />

punto di vista filosofico. 233<br />

Così torniamo all’idea di partenza: raccogliere è avvicinare cose tra loro,<br />

affiancare, riunire, ma anche mostrare una somiglianza, una affinità; oppure<br />

raccogliersi è avvicinarsi, affiancarsi, riunirsi.<br />

Raccogliere è “portare in uno stesso luogo”; e la parola luogo sta ad indicare<br />

proprio il posto che raccoglie, o dove si raccoglie. Tale spazio può essere fisico,<br />

ma anche astratto. Il luogo è lo spazio dove si manifesta la relazione tra le cose<br />

raccolte: non c’è una relazione che non si manifesti in un luogo, e d’altra parte,<br />

ogni luogo è tale solo in virtù della relazione che raccoglie. Esso, in altre parole,<br />

non è un’estensione fisica indipendente da ciò che “contiene”. 234 Ciò emerge<br />

232 È chiaro però che nemmeno il contratto sociale può essere creato in modo totalmente arbitrario.<br />

Anche le leggi che si producono non possono essere libero esercizio della forza; perché nemmeno la<br />

violenza ha un potere assoluto sugli elementi raccolti. Ma su questo torneremo in seguito.<br />

233 L’analisi di questi due tipi di relazione (e dei conseguenti concetti di “ordine”, e di “raccoglimento”)<br />

è l’obiettivo che ci poniamo nei prossimi paragrafi.<br />

234 Emerge così quella reciprocità che si è già vista tra “contesto” e “testo” (vedi il capitolo secondo<br />

della prima parte); e comincia a trasparire anche quel concetto di “spazio(tempo)” definito “rete”, che<br />

esamineremo più avanti.<br />

223


chiaramente se si considera l’idea di “luogo” espressa dalla matematica e dalla<br />

geometria: il “luogo geometrico” è un insieme di punti che condividono la stessa<br />

proprietà, cioè un insieme di punti “legati”, tenuti insieme, da una caratteristica<br />

comune – ad esempio “la circonferenza è il luogo geometrico dei punti<br />

equidistanti da un punto fisso chiamato centro”; ciò che identifica, individua la<br />

circonferenza è il legame che unisce e caratterizza i suoi punti. La relazione<br />

viene stabilita da una legge di associazione precisa.<br />

Ma ci sono altri usi di questa parola che ineriscono al concetto di relazione; con<br />

la locuzione “dar luogo” si intende “provocare”, “causare”: qui si fa riferimento<br />

all’esistenza di un rapporto di causa-effetto. Il verbo “localizzare” significa<br />

individuare, circoscrivere, situare, nel senso di “rendere locale”, dare un luogo,<br />

identificare, manifestarsi in una zona. 235<br />

Riassumendo, “portare” nello stesso luogo è avvicinare, nel senso di “rendere<br />

prossimo”; “correlare” è mostrare un’analogia, una somiglianza, o manifestare un<br />

legame; entrambe le accezioni afferiscono al concetto di relazione, e possono<br />

essere rese dal verbo raccogliere.<br />

Alcune cose possono essere raccolte altre solo ammassate, accumulate. Certo,<br />

con raccogliere (usato in modo improprio), si può intendere anche l’ammassare;<br />

ma bisogna tener presente che dopo aver ammassato non si è ancora raccolto; ad<br />

esempio, il contadino raccoglie il grano, ma ammassa la sterpaglia. Implicata nel<br />

raccogliere c’è sempre l’idea della scelta e di un ordine che viene o impartito o<br />

manifestato. A sua volta, l’ordine è la manifestazione di una legge, che fissa i<br />

235 A titolo di curiosità si può notare che il verbo greco lechomai significava disporsi, raccogliersi, (e<br />

ciò mostra che il concetto di luogo era in Grecia complementare a quello di raccoglimento); e il lechos era<br />

il giaciglio, il nido, il luogo che raccoglie, che unisce, che avvicina. Anche il latino disponeva di<br />

accezioni simili: il verbo loco aveva il significato di “disporre”, dare ordine a qualcosa, come nel caso<br />

del milites in munimentis locare (disporre i militari tra le fortificazioni); in questo caso, dare ordine<br />

voleva dire stabilire particolari rapporti tra gli uomini e il luogo che li raccoglie (ad ognuno di essi viene<br />

affidato un certo “incarico”, una precisa responsabilità). Il “locus” sempre per i latini era anche il grado<br />

sociale, cioè il posto che si occupa nella società, la posizione che si ha nei confronti dei propri<br />

concittadini. In senso lato quindi, il luogo indicava, mostrava, il ruolo posseduto all’interno di un<br />

determinato gruppo. Locus era anche la situazione, la circostanza, la condizione; anche questi sono<br />

termini che si riferiscono all’esistenza di precise relazioni.<br />

224


modi del raccoglimento. E la legge si può manifestare, può venire alla luce,<br />

oppure può essere fatta, predisposta. Emerge come conseguenza il problema di<br />

sapere che cosa significa “fare una legge”. In altre parole, ci si deve chiedere fino<br />

a che punto è possibile “creare” un ordine.<br />

Fino a dove può arrivare, e in che modo può essere esercitato il potere<br />

“legislativo”? Che rapporto esiste tra la “legiferazione” e le facoltà umane? Può<br />

essere prodotto qualsiasi tipo di legame tra gli enti? Quali sono, se ce ne sono, i<br />

limiti entro cui può affermarsi una relazione?<br />

Tra le nozioni di “relazione”, “legame”, “legge”, “raccoglimento”,<br />

“manifestazione”, “ordine” abbiamo scoperto una reciprocità – un gioco di<br />

rimandi – che sembra utile approfondire.<br />

III) Raccogliere, legare, manifestare e disvelare.<br />

Il verbo greco lego sta per “raccogliere”, “scegliere” (da esso viene anche il lego<br />

latino che riproduce lo stesso significato). Il logos per Eraclito è il legame che<br />

associa, l’ordine che si mostra, è la fonte delle relazioni tra gli enti, e la<br />

manifestazione del loro essere.<br />

Raccogliere, abbiamo visto, vuol dire scegliere, porre assieme, sistemare, mettere<br />

“vicino”, quindi al limite anche “ordinare” e “collegare”. Allora, raccogliere può<br />

anche rappresentare un modo di “mettere o portare in luce una relazione tra un<br />

gruppo di cose (scelte)”. Ciò che è raccolto non è più confuso, dis-ordinato,<br />

disgregato, ma è tenuto insieme da una relazione, da una “somiglianza”. Le cose<br />

raccolte sono sempre ordinate in un certo modo; quindi mostrano un determinato<br />

aspetto. Raccogliere è “ri-unire” e sistemare in un luogo (per conservare).<br />

225


Un insieme è tale solo in virtù della relazione che lo regola, cioè solo grazie alle<br />

proprietà che i suoi elementi hanno in comune; esso non è mai un gruppo<br />

confuso e disordinato di cose (esso infatti è caratterizzato da una scelta e poi da<br />

una “ri-unione”). Ciò che identifica un insieme sono le caratteristiche condivise<br />

dagli elementi che ne fanno parte. La partecipazione non è casuale, ma vincolata<br />

da una legge, oppure dal possesso di determinate peculiarità.<br />

Insieme deriva dal latino “in-simul” 236 , ovvero: in reciproca compagnia e unione;<br />

l’insieme è un gruppo di elementi simili, che in qualche modo si assomigliano.<br />

L’insieme, quindi, indica associazione, coesione, reciprocità (nel senso che due o<br />

più cose non possono esser fatte “diventare” simili, con un intervento esterno,<br />

esse lo sono, o non lo sono, originariamente).<br />

L’insieme è una “totalità”, un “complesso”, una “unità ordinata”. In matematica<br />

un insieme è una collezione, una classe, un aggregato di elementi che<br />

evidenziano proprietà comuni. Per qualsiasi insieme si riconosce sempre una<br />

legge che disciplina la relazione, che lega in un certo modo. Quindi, la legge<br />

rende possibile individuare un insieme, un gruppo di cose raccolte sotto un certo<br />

ordine, la legge manifesta l’ordine. 237<br />

Allora, c’è un insieme solo dopo che si è riconosciuta la proprietà (o le proprietà)<br />

comune degli elementi coinvolti. Il modo migliore che abbiamo per esprimere<br />

ciò che Eraclito intendeva con la parola logos è proprio il concetto di insieme.<br />

Possiamo dire che la legge stabilisce il modo dell’ordine, l’insieme risultante è la<br />

manifestazione della legge.<br />

Quando si raccoglie si rispetta sempre una certa legge, ci si richiama sempre a un<br />

certo ordine. Se manca questa caratteristica comune, questo termine di<br />

somiglianza non c’è raccoglimento. Ogni relazione è figlia di una legge. Affinché<br />

si possa configurare una relazione c’è bisogno di una legge che la “governi”.<br />

236 Che condivide col sostantivo similis, la radice: l’insieme mostra una somiglianza.<br />

237 Il sostantivo “legge” deriva probabilmente dal verbo lego.<br />

226


Ma le proprietà comuni possono essere solo “riconosciute”, o possono essere<br />

anche “imposte”?: l’insieme dei numeri pari è l’insieme dei numeri che hanno<br />

una determinata caratteristica (divisibili per 2), e non si può certo imporre ad un<br />

numero dispari di far parte di quell’insieme. Non esiste alcuna “forza” né alcun<br />

“potere” che possa introdurre nell’insieme dei numeri pari un numero dispari. Ma<br />

qual è l’origine di questa particolare classe? Il “raccoglimento” (la possibilità di<br />

collegare le parti, cioè di costituire l’insieme) si dà solo in virtù di un “fattore”<br />

comune ai singoli elementi. In matematica, infatti, il raccoglimento può essere<br />

fatto solo “a fattore comune”, nel senso che io non posso imporre né il modo, né<br />

il tipo di legame ma posso – e devo – solo verificare l’esistenza della parte (o<br />

meglio, del fattore) comune, la quale mi consente di raccogliere. Il<br />

raccoglimento, in questo caso, non avviene mai in virtù di un “potere”, ma è<br />

sempre in funzione della pre-esistenza di una “possibilità”. Del resto, abbiamo<br />

visto sopra, che il raccoglimento mostra, non produce, l’affinità; è qualcosa che<br />

sorge spontaneamente, che è già nei fa tti, che rappresenta solo una diversa<br />

configurazione di una situazione già esistente (si tratta proprio di una “ri-<br />

unione”): raccogliere è far emergere qualcosa che prima era nascosto:<br />

raccogliere è dis-velare, o manifestare. 238<br />

Il legame della legge “mostra” non “produce” l’ordine. Il raccoglimento del<br />

logos è spontaneo, cosmico si rivela di per se stesso, esso si differenzia<br />

dall’ordine umano che è prodotto, frutto di una specifica attività, di una volontà,<br />

di un lavoro. 239<br />

238 Così si spiega anche un ulteriore significato che acquista il verbo lego: quello di “dire”,<br />

“annunciare”. Lego e logos sono “legati”, perché logos originariamente è il legame, il collegamento tra le<br />

cose e poi diventa il “discorso”, la “parola”, nel senso di ciò che rende manifesto. Legein infatti significa<br />

anche “dire”, nel senso di “manifestare il pensiero per mezzo delle parole”. Nel vangelo di Giovanni il<br />

Dio che si fa parola (Logos) mostra la Verità, e la consegna agli uomini.<br />

239 Heidegger a questo proposito dice: «Il ποιειν è pensato in primo luogo come comportamento<br />

dell’uomo. In questo senso, la ποιησισ è il contrario della ϕισισ. Ιl termine ϕισισ indica sempre il<br />

sorgere a partire da se stesso, il lasciar venir fuori, il portar fuori nel senso originario del verbo portare. La<br />

ποιησισ è quel portar fuori che viene realizzato dall’uomo». M. Heidegger, Eraclito, op. cit. pag 239<br />

227


Il legein, il raccogliere (e quindi la legge), non ha niente a che fare, non ha nulla<br />

in comune, col kratein, con l’esercizio del potere, perché raccogliere è<br />

manifestare una comunanza non “costringere” ad una vicinanza.<br />

Il kratos è la superiorità che può imporre, che determina; è l’autorità che si<br />

impone; niente in comune col legame rappresentato dal logos. Quindi il kratos<br />

“produce”, “determina” ciò che vuole, ha l’autorità per farlo, il logos invece<br />

manifesta la presenza, rende evidente la relazione. Il kratos ha, al limite, la<br />

capacità di tenere insieme delle cose che altrimenti starebbero divise, è<br />

l’esercizio dell’autorità, il logos è solo la rappresentazione delle proprietà che<br />

condividono degli elementi, le quali fanno in modo che essi costituiscono un<br />

insieme (o sistema). Tali elementi, allora, sono raccoglibili solo per la loro<br />

somiglianza reciproca non per l’intervento di una forza esterna. Gli elementi<br />

raccoglibili hanno qualcosa che li accomuna, non sono entità separate,<br />

indipendenti l’una rispetto all’altra. 240<br />

Il raccogliere, allora, non può mai basarsi sull’imposizione; e l’imporre qualcosa<br />

è sempre “kratos”, nel senso di una violenza volta a stra-volgere e a distruggere<br />

uno stato di cose esistenti per natura. Missione della volontà che è destinata al<br />

fallimento proprio perché contro-natura, o “contra legem”, essa è il tentativo di<br />

imporre una relazione non esistente, di “creare” un legame “ex-nihilo”, cioè è il<br />

tentativo di “raccogliere” in modo improprio.<br />

Ancora una volta è opportuno precisare che non stiamo portando avanti un<br />

analisi linguistica, ma stiamo cercando un modo di interpretare – questa come<br />

altre parole – che sia utile al nostro ragionamento. Noi non vogliamo suggerire<br />

legami semantici tra parole usate in ambiti culturali non confrontabili, ma<br />

semmai recuperare significati che sono andati perduti, per poter spiegare cosa<br />

intendiamo quando parliamo di relazione. Lo sforzo che stiamo facendo infatti è<br />

240 Quindi, la legge non è mai l’imposizione di un potere (né del singolo, né dei pochi, e neanche dei<br />

molti), ma è il “disvelamento” di una nuova possibilità di relazione. Così, ad esempio, l’analogia moderna<br />

tra “forza” e “sovranità” è del tutto fuori “luogo”, nel senso che il sovrano che produce e impone regole e<br />

comportamenti, esercita un potere che esorbita dalle naturali funzioni di chi è deputato a mantenere<br />

l’ordine, egli non rispetta l’antico significato di “legge”. Il dualismo storico tra common law e civil law,<br />

oppure tra diritto consuetudinario e diritto positivo riproponeva almeno in parte questo problema.<br />

228


quello di “configurare”, di “rappresentare” in modo diverso dall’usuale proprio<br />

questo concetto.<br />

IV) Themis e dike: la “legge” in Grecia 241<br />

“Legge” è reso in greco arcaico da due termini molto importanti: themis, e dike.<br />

In entrambi i casi la legge “stabilisce”, “mostra”, il volere degli dei, quindi non è<br />

il frutto della volontà umana. Themis riguarda di più l’ordine, il diritto familiare,<br />

dike quello interfamiliare. Ed è proprio il concetto di “ordine” quello che<br />

esprime meglio il significato di themis.<br />

Il concetto di ordine è un’acquisizione antica nelle società indoeuropee. “Ordine”<br />

regola il funzionamento dell’universo, dalle leggi che riguardano gli astri, a<br />

quelle che si rivolgono alle relazioni interpersonali. Ordine è quindi il<br />

fondamento della società. Senza Ordine sarebbe inevitabile la vittoria del Caos.<br />

Benveniste afferma che la radice di questa parola è *ar a cui egli associa ad<br />

esempio, l’artus (l’articolazione) dei latini, l’arthmos (legame congiunzione), e il<br />

verbo ararisko (armonizzare, aggiustare) dei greci.<br />

In tutte queste accezioni si vede come l’ordine implichi un “collegamento”, un<br />

“legame” tra le parti, ma non un legame qualsiasi, bensì un’armonia tra le parti<br />

del tutto. Tale ordine è il risultato dell’azione divina, che “accoglie” tutti gli enti,<br />

nella loro naturale “disposizione”.<br />

Torna l’idea del raccogliere esposta in precedenza, rafforzata dal fatto che tale<br />

verbo possiede un’affinità con “accogliere”: il dio accoglie nel suo ordine, cioè<br />

241 Le notizie riportate in questo paragrafo a proposito di Themis e Dike, e quelle del prossimo sui<br />

termini latini lex e ius, sono tratte da E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi,<br />

Torino, 1976<br />

229


“r-accoglie” insieme tutte le cose. Ogni cosa è “dis-posta” secondo la legge<br />

divina. Anche l’uomo quindi è parte dell’ordine cosmico. 242<br />

In greco anche “regola”, e “norma” sono resi con themis. Quindi se themis è<br />

l’ordine come armonia delle parti nel tutto, ed è di natura divina, le regole non<br />

possono essere poste, prodotte dal giudice o dal capo. 243 Il plurale themistes<br />

indica l’insieme delle leggi non scritte, delle consuetudini, dei giudizi degli<br />

oracoli; vale a dire l’insieme delle prescrizioni fissate dagli dei, e appannaggio<br />

del basileus (che ha, lo ricordiamo, origine celeste). 244 Essa dispone diritti e<br />

doveri sia nella vita quotidiana, che nelle circostanze particolari quali i<br />

matrimoni, le alleanze, le battaglie.<br />

Dike, invece ha, sempre secondo Benveniste, la radice *deik – la stessa del latino<br />

dico (in latino arcaico deico), che significa “mostrare” (con la parola), “es-<br />

porre”, cioè mostrare i propri pensieri, “esprimere”, nel senso di manifestare la<br />

propria opinione, oltre che “dire”. 245 Di conseguenza, Dike è l’ordine degli dei<br />

così come si mostra agli uomini, “volto a determinare per ogni situazione<br />

particolare ciò che deve essere”. 246<br />

Allora, da un lato themis è l’ordine stabilito dagli dei, dall’altro dike è l’ordine<br />

mostrato, detto. Ma che relazione c’è tra l’ordine e la manifestazione (e quindi tra<br />

il “dis-posizione” e l’ “es-posizione”)?<br />

Per trovare una risposta si può cominciare ad analizzare l’analogia tra il dire ed il<br />

mostrare, e tra il dire e il raccogliere. Per questo ci può venire in soccorso proprio<br />

il verbo lego con i suoi significati di “raccogliere” e “dire”. Tra le due accezioni<br />

242 Cosmos è il termine usato da Pitagora per indicare il mondo, l’universo, e quindi le sue leggi, il suo<br />

ordine.<br />

243 L’idea del diritto positivo, del diritto creato dall’uomo, era totalmente assente nella Grecia arcaica.<br />

244 Omero, ad esempio, nell’Iliade dice che Themis prescrive a Agamennone, in qualità di capo della<br />

sua armata, la condotta da tenere.<br />

245 Da questa radice deriva anche il greco deiknumi che significa sempre mostrare. Dalla stessa radice<br />

deriva, per il linguista francese, anche il sanscrito dis che sta per “direzione”, “regione”.<br />

246 E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, op. cit. pag 363<br />

230


c’è un’analogia: “raccogliere” è un mettere “insieme”, un “ordinare” (secondo<br />

una determinata regola), e si può rendere col “mostrare” un ordine (non<br />

originariamente evidente); infatti, da raccogliere deriva appunto “dire” che è<br />

proprio “manifestare” il pensiero, oppure dare “ordine” alle parole (attraverso la<br />

loro raccolta che è prima una selezione e poi una scelta); quindi raccogliere, e<br />

dire implicano un collegare, cioè legare parti, quindi assegnare o meglio mostrare<br />

(interpretare, applicare) un ordine (dal momento che l’ordine può essere solo<br />

mostrato e non prodotto dagli uomini, essendo di pertinenza divina).<br />

Allora, da un lato deiknumi (e dico) col le accezioni “dire” e “mostrare”,<br />

dall’altro lego con “raccogliere” “dire”, e “nominare”. 247 Tutti e due hanno a<br />

che fare con l’ “espressione”, con l’ “esposizione” (del pensiero), quindi parlare è<br />

sempre manifestare; ma parlare implica anche l’idea dell’ “ordinare”, del<br />

raccogliere, del “collegare” (“logicamente”) le parole; quindi dico e lego<br />

ineriscono sia all’ordinare, al raccogliere, che al manifestare. 248<br />

Dis-porre ed es-porre sono due composti di porre, il primo ha il significato di<br />

dare o anche seguire un ordine, una regola, il secondo quello di renderla<br />

evidente, mostrarla, entrambi quindi si rifanno alla preesistenza di un “ordine”.<br />

Ciò significa, che sia l’ordine di themis che quello di dike implicano un<br />

collegamento, un legame tra le parti, come manifestazione dell’armonia divina;<br />

ma mentre themis si riferisce direttamente all’azione dello stabilire, del<br />

mantenere, del rispettare l’ordine (degli dei), dike rimanda alla sua esibizione, al<br />

modo in cui esso si mostra agli uomini, e quindi a come viene inteso,<br />

interpretato. Dike è la giustizia che si rende presente ai mortali.<br />

247 Il nominare è dare un volto una sembianza a qualcosa, o anche assegnare un ruolo a qualcuno. Il<br />

nominato viene caratterizzato dal nome, e quindi può essere identificato e individuato grazie ad esso;<br />

allora anche in questo caso c’è una correlazione tra il legere e il dicere.<br />

248 Heidegger, ad esempio, afferma: «Dal momento che la parola, disgelando originariamente ed<br />

inizialmente, “riunisce” (raccoglie) il non nascosto in quanto tale, proprio per questo il riunire nella forma<br />

del dire diventa un modo particolare del λεγειν, e proprio per questo λεγειν significa fin dai tempi antichi<br />

dire [Sagen] nel senso di riunire [Sammeln]». M. Heidegger, Eraclito, op. cit. pag 240<br />

231


Tra l’altro, la giustizia si manifesta per mezzo di sentenze; e si esercita o<br />

attraverso “ordini” del capo, 249 oppure attraverso pronunciamenti del giudice. L’<br />

“ordine” si mostra in virtù della parola; e ordinare è collegare, raccogliere, dare<br />

armonia alle parti del tutto.<br />

Bisogna sottolineare che la “legge” proviene dal dio, e rivela un ordine<br />

“cosmico”; il quale esclude la possibilità che a produrre e imporre un proprio<br />

ordine siano gli uomini. L’ordine è qualcosa che si rende evidente (grazie e<br />

dike); l’armonia tra le parti è già data, non deve essere creata; non è ne lle facoltà<br />

umane produrre l’ordine, l’armonia, la relazione tra le parti.<br />

Questo è un concetto filosofico prima che giuridico o politico. L’uomo è parte<br />

dell’ordine divino, in senso lato, ad ogni livello, non solo come membro della<br />

polis, e non lo può cambiare. Quindi le leggi che garantiscono l’ordine non sono<br />

solo quelle politiche, perché in generale tutto è governato da themis e dike,<br />

l’armonia divina si estende ad ogni piano del cosmo. La relazione tra le parti è<br />

originaria, non prodotta.<br />

Allora, l’ordine stabilito dalla legge, l’ordine del logos, è un collegamento<br />

armonico delle parti, sancito dalla divinità.<br />

249 Rex, altra parola connessa, della quale però ci occuperemo più avanti.<br />

232


V) “Lex” e “ius”: la “legge” a Roma<br />

Nel mondo latino le cose cominciano a cambiare, infatti la lingua latina affianca<br />

alla parola lex, (la legge), la parola ius (il diritto). Che relazione c’è tra la lex e lo<br />

ius? Cos’hanno in comune? Il termine latino ius probabilmente ha un origine<br />

comune al greco dike: ius è il diritto, dike è la giustizia.<br />

Ius è da mettere in relazione, secondo Benveniste, al verbo iurare, che potrebbe<br />

essere una crasi tra ius e dicere (in greco dikein eipein). Da essa, a sua volta,<br />

derivano tutti i termini di questa natura quali: iu-dex, iu-dicare, iu-dicium, iuris-<br />

dictio. Così torna l’analogia tra lego e dico (tra lego e deiknumi).<br />

Ius è la “formula rituale” sulla quale si presta il giuramento; Iurare è pronunciare<br />

questa formula. Il giuramento è lo ius iurandum, cioè la “formula da formulare”.<br />

Secondo l’ Ernout-Meillet 250 ad esempio ius iurare equivale a “pronunciare la<br />

formula che impegna”.<br />

Benveniste afferma che l’origine di ius potrebbe essere la parola i.-e. *yous che<br />

significa “lo stato di regolarità, di normalità che è richiesto dalle regole rituali”,<br />

ciò verso cui ci si deve impegnare. Lo ius ha a che fare con regole e norme, e<br />

porta ad ottenere l’ordine. Lo ius determina e garantisce l’ordine; e quindi allo<br />

ius ci si deve adeguare. 251<br />

Giurare può essere allora “impegnarsi a seguire la norma”, nel senso che si<br />

pronuncia la formula con l’intento di non disattenderla più, col proposito di<br />

conformarsi ad essa. Il giuramento è una affermazione di fedeltà ad un principio,<br />

o almeno a ciò che viene riconosciuto come un principio. Attraverso il<br />

giuramento si cerca una “legittimità”. Giurare serve per aderire ad un<br />

determinato “ordine” (prima quello religioso, che faceva tutt’uno con quello<br />

politico, poi diventa quello sociale, giuridico, e militare).<br />

250 Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Editions Klincksieck, Paris 1979<br />

251 Emerge l’idea della adeguazione alla norma. L’adeguamento par mezzo del giuramento, è un’azione<br />

che implica volontà. L’uomo è naturalmente parte dell’ordine o si deve adeguare ad esso tramite<br />

giuramento? L’adeguamento è spontaneo, o procurato?<br />

233


Fare il giuramento significa acquisire lo stato di regolarità richiesto dal rituale.<br />

Giurare è appunto entrare in armonia con un ordine stabilito. L’azione del<br />

giurare è di origine religiosa, l’adeguazione viene richiesta innanzi tutto verso il<br />

precetto sacro, infatti lo ius iurandum è il giuramento come consacrazione agli<br />

dei e viene definito anche sacramentum. 252<br />

Sappiamo che dike è la manifestazione dell’ordine divino, così lo ius iurandum –<br />

la formula rituale che deve essere detta – è ciò che permette la consacrazione agli<br />

dei.<br />

Lo ius è la formula dell’adesione, che in seguito diventa l’insieme delle sentenze<br />

e dei pronunciamenti (iura) che prescrivono il comportamento del cittadino<br />

romano; esso implica comunque una forma di “partecipazione”. Il rispetto dello<br />

ius è il dovere del cittadino; anche se non si tratta più di un giuramento, rimane<br />

l’adesione e l’adeguamento alle regole della società, come condizione per la<br />

partecipazione ad essa. Lo ius è ciò che permette la convivenza sociale, e quindi<br />

permette l’armonia delle “parti della società”, l’armonia del tutto sociale;<br />

l’ordine sociale è garantito dallo ius.<br />

Le iura sono le sentenze del giudice, corrispondono alle dikai greche; sono le<br />

formule pronunciate dal giudice (sentenze) che stabiliscono il “giusto”, ciò che è<br />

conforme alla regola. Iu-dex è infatti colui che pronuncia la regola (in origine il<br />

sacerdote che pronuncia la formula che nello ius iurandum doveva essere<br />

ripetuta): il “giu-dice” dice il giusto, mostra ciò a cui ci si deve adeguare. 253<br />

Allora lo ius si esercita attraverso sentenze, pronunciamenti (ha una forma orale),<br />

e ha origini religiose.<br />

Iustus è colui che agisce in conformità al diritto; ma iustus significa anche<br />

“fondato” e “regolare”, cioè “in conformità al fondamento” o alla regola.<br />

252 A Roma, il sacramentum diventerà solo in seguito il giuramento militare.<br />

253 La giustizia è intesa come conformità al pronunciamento del giudice. L’idea di “conformità alla<br />

norma” comincia ad emergere come misura per stabilire la giustizia.<br />

234


Lo ius iurandum impone un comportamento, il giuramento impegna ad una<br />

condotta, così successivamente il diritto stabilisce i parametri della rettitudine.<br />

Lo ius “ordina” e nello stesso tempo, comanda.<br />

Ius ha senza dubbio un riferimento diretto alla legge della società, mentre lex ha<br />

un valore più esteso (anche oggi legge è un termine usato in molte discipline,<br />

oltre a quelle giuridiche). Entrambe rappresentano in qualche modo la<br />

manifestazione della giustizia (e in senso lato della verità), e quindi qualcosa a<br />

cui ci si deve adeguare.<br />

Ciò che rileva ai nostri fini è che col tempo entrambi i termini vengono a<br />

designare un “ordine” che “pretende” l’adeguazione.<br />

Per spiegare cosa intendiamo dire, potrebbe essere utile analizzare le due<br />

accezioni che viene ad assumere il verbo “ordinare”: da una parte mettere in<br />

ordine, seguire la regola, dall’altra comandare. Abbiamo visto che l’ordine è<br />

l’articolazione armonica posseduta dal tutto, è la dis-posizione secondo la norma<br />

o secondo la regola. Comandare invece consiste nell’ “imporre” la regola (il<br />

“comando” è la regola da rispettare). Ordinare allora è anche far rientrare<br />

nell’ordine.<br />

Disporre come ordinare vale nei due sensi; è sia “sistemare secondo il criterio” e<br />

“determinare in base all’ordine”, che determinare, e poi comandare per mezzo di<br />

ordini; quindi far rispettare la norma, disporre, è anche ordinare nel senso di<br />

comandare.<br />

Come al solito, il latino aiuta a chiarire: L’ordo è la disposizione, la fila, la<br />

successione, la regola. L’ordo è una disposizione armonica delle parti secondo il<br />

criterio assegnato. “Ordinare” è sistemare, disporre, come in italiano; ma da<br />

questa radice viene anche ordior che oltre a ordire, fare la trama, cioè seguire<br />

l’ordine, significa anche cominciare, dare origine. Allora per un verso, fare la<br />

trama, seguire l’ordito implica una partecipazione all’ordine, per l’altro,<br />

cominciare implica un’azione produttiva, come può essere un comando.<br />

Il nostro ordinare assume i due significati sulla scorta di questa duplice valenza<br />

del verbo latino.<br />

235


In latino comandare, ordinare si dice iubere. E iussum sta per “ordine”,<br />

“decreto”, “legge”. Iussum è il participio di iubeo. Il concetto di “ordine” sotteso<br />

da iussum è diverso da quello visto nel paragrafo precedente perché esso implica<br />

il comando, e quindi l’ordine è prodotto dal comando, l’ordine è il volere di chi<br />

comanda. Così ad un certo punto, l’ordine non viene più per emanazione dalla<br />

divinità (che il giudice manifesta attraverso le sentenze), ma rispecchia il volere<br />

di chi ha il potere di comandare.<br />

Allora, mentre il lego greco “raccoglie” e “manifesta” l’ordine, lo iubeo latino lo<br />

produce e lo impone.<br />

Quindi, lo “ius-sum” è il comando, è esercizio del potere, l’imposizione di un<br />

comportamento, invece il logos è il raccoglimento spontaneo, qualcosa di<br />

naturale, originario.<br />

L’ordine che l’uomo doveva solo “riconoscere” e “accogliere”, diventa un<br />

“prodotto”, un decreto umano, diventa kratos.<br />

Ecco ancora il doppio significato del verbo “ordinare”: da un lato e<br />

originariamente, esso sta per collocare assieme, porre o mettere vicino,<br />

raccogliere “il comune” (abbiamo visto il concetto di themis), dall’altro e<br />

successivamente, si trasforma nel “costringere”, “decretare”, “comandare”. L’<br />

“es-porre” diventa “im-porre”. L’ordine non ha più bisogno della statuizione<br />

divina, e diviene il frutto di una facoltà umana. Così anche la produzione dello<br />

ius entra a far parte dei poteri del capo, o dell’assemblea. 254<br />

Da un lato l’ordine come armonia originaria delle parti che si completano<br />

vicendevolmente nell’intero, che “stanno nell’intero”, dall’altra l’ordine voluto, e<br />

prodotto, l’ordine che deve essere raggiunto collegando opportunamente tutti i<br />

componenti. Da una parte, il collegamento (logos) è originario tra elementi<br />

raccolti, dall’altra, il legame deve essere creato (iussum) tra frammenti estranei.<br />

L’adesione all’ordine che in origine era spontanea, nella natura delle cose (nel<br />

254 L’ arconte e la bulè, per i greci, il princeps e il senato per i latini: l’uomo comanda perché capace di<br />

creare il diritto e quindi in grado di stabilire e mantenere l’ordine.<br />

236


senso che tutte partecipavano all’armonia cosmica), successivamente diventa un<br />

atto imposto dall’ “autorità”.<br />

L’adesione diventa un’adeguazione; e se c’è la necessità di imporla, significa<br />

che le parti non sono originariamente affini, correlate, conformi. “Il tutto”, allora,<br />

non è l’armonia originaria governata da themis, ma il frutto di un potere che<br />

associa parti originariamente estranee. L’ “insieme” si ottiene in virtù di un<br />

“principio” che agisce sciolto da vincoli, e impone determinate conseguenze; Da<br />

ciò anche l’idea della “causa” che produce i suoi effetti.<br />

Il legere come il “raccogliere”, nel senso di evidenziare un humus comune, uno<br />

stesso “milieu”, una somiglianza, diventa lo iubere, cioè l’ “imporre” una<br />

volontà, una regola “erga omnes”, facendo “forza” sulla natura originaria delle<br />

cose raggruppate e vincolate (non “raccolte”).<br />

Il comando è una “decisione”, l’esplicazione di una volontà. E la “de-cisione” 255<br />

è sempre una recisione, una separazione, quindi al limite, è proprio il contrario di<br />

un raccoglimento. Decidere significa prendere un verso o quell’altro, pervenire<br />

ad una scelta definitiva. Decidere significa separare, recidere, non certo<br />

raccogliere. In questo modo, lex e ius si allontanano sempre di più dal loro alveo<br />

originario.<br />

Se la regola è frutto di una decisione, essa implica una separazione tra ciò che è<br />

adeguato, “il giusto”, e ciò che invece non è adeguato, l’ “in-giusto”.<br />

La “g-ius-tizia” diventa l’adeguazione allo ius, alla norma, oppure allo iussum, al<br />

comando.<br />

Anche se tra ius e iubeo non c’è relazione etimologica, bisogna ammettere che<br />

viene a porsi nel tempo una affinità semantica; infatti iussum significa “ordine”,<br />

“decreto”, “legge”, e ius “legge”, “diritto”, “potere”, “autorità”. Lo ius alla fine<br />

deriverà dall’esercizio di un potere.<br />

255 Dal latino “caedo, is, cecidi, caesum, caedere”.<br />

237


Tale affinità si rafforza se si considera che “giusto”, si rende con “corretto”. La<br />

iustitia è la conformità al diritto, quindi conformità alle regole del diritto. Iustus e<br />

rectus sono sinonimi; entrambi significano ciò che è adeguato alla norma.<br />

Cosa cambia rispetto a prima?<br />

Nell’ordine di themis gli elementi sono compresi da sempre, il legame li<br />

costituisce, essi sono da sempre parte dell’armonia cosmica; il comando invece<br />

produce l’ordine, il quale diventa una caratteristica derivata, dipendente dall’<br />

“autorità” (e poi dal princeps o anche dal principium). I termini vengono legati<br />

per mezzo dell’ “autorità”, la quale fa premio su tutto il resto; essa è l’ “elemento<br />

originario”, indipendente e assoluto.<br />

“Autorità” è un’altra parola che aiuta a far chiarezza: l’autore è chi dà origine,<br />

causa, genera, produce qualcosa. Il latino autor deriva dal verbo augere, che nel<br />

periodo classico significa accrescere, aumentare. 256 Ma il semplice aumentare<br />

che relazione può avere con l’autorità e di conseguenza col potere? La risposta si<br />

trova ancora una volta risalendo nel tempo ai significati più antichi. In epoca<br />

arcaica augeo non sta per “aumentare” l’esistente, ma indica il “generare”, il<br />

“produrre”. Gli antichi romani pregavano gli dei per propiziare la “nascita” delle<br />

piante, quindi la “generazione” dal terreno, o per “promuovere” le loro imprese e<br />

battaglie. Augere in origine è un verbo che mostra esclusivamente una<br />

prerogativa divina. È il dio che ha la possibilità di promuovere, di generare, di far<br />

nascere. Ma anche questo verbo subisce una modificazione, fino ad assumere il<br />

semplice significato di crescere.<br />

L’accezione originaria, che si è persa nel verbo, è però rimasta nel sostantivo<br />

auctor, che infatti è colui che promuove, fa nascere e causa. L’ auctoritas è la<br />

facoltà dell’ auctor, è la capacità di causare, è ad esempio il potere di iniziativa<br />

del magistrato.<br />

256 A sua volta, secondo Benveniste, il verbo proviene dalla radice indoeuropea *aug che designa la<br />

forza.<br />

238


L’auctoritas è il potere di portare all’esistenza, con il quale si indica il potere del<br />

magistrato di promulgare una legge. Così l’autorità rappresenta una forza<br />

produttiva; ed è la prerogativa del “principe”, del magistrato, colui insomma che<br />

si pone come “fonte”, e “origine” di qualcosa.<br />

L’autorità politica consente di imporre dei comportamenti, è la facolt à di creare<br />

(e imporre) un “ordine” attraverso le leggi. Ancora una volta si manifesta una<br />

analogia tra ciò che ha la capacità di generare, di dare inizio, di cominciare<br />

(auctoritas), e ciò che ha il potere (la forza) di comandare (auctoritas).<br />

L’autorità consente di comandare e di essere principio.<br />

Questo primo elemento vincola e impone non solo a livello politico; lo stesso<br />

ragionamento vale a livello filosofico (ontologico, logico) e scientifico. Il<br />

“principio” (per i greci l’archè) è il fondamento infondato da cui “derivano” tutti<br />

gli enti. L’ordine allora si pone come conseguenza di un adeguamento al<br />

principio: in primo luogo il fondamento 257 che possiede il suo statuto ontologico,<br />

poi le conseguenze adeguate ad esso (con un altro statuto ontologico). Questa<br />

idea, appunto, si ritrova nella prassi politica, ma è anche un “principio”<br />

(postulato) “scientifico”: il fondamento si distingue e quindi produce, determina,<br />

le sue conseguenze; per conoscere il perché delle cose bisogna arrivare al loro<br />

fondamento.<br />

Dall’originale armonia si passa ad un dualismo, ad una separazione tra<br />

l’originario e il derivato.<br />

257 Che a livello politico è il princeps, e a livello filosofico è il principium.<br />

239


VI) La giustizia come rettitudine<br />

Cerchiamo di approfondire ancora: rectus è il participio di rego, 258 quindi<br />

corrisponde a ciò che è retto, diretto, guidato o comandato. 259<br />

Rectus è “retto” anche nel senso di ciò che è diritto, verticale, “ortogonale” (ciò<br />

che divide l’angolo piatto, cioè l’orizzontale, in due parti uguali); retto,<br />

perpendicolare nel senso che uguaglia, rende uguale, e quindi è giusto.<br />

“Diritto” significa poi “regolare” – cioè secondo regola – e “normale” – cioè<br />

secondo norma; “regola” e “norma” in latino sono sinonimi, entrambi hanno<br />

anche il significato di “squadra”, lo strumento che rende “quadro”, che fa gli<br />

angoli retti, perpendicolari, di conseguenza anche in questo caso, è il modello di<br />

riferimento al quale ci si deve “adeguare”, per rendere la cosa “retta”, “giusta”.<br />

Rectus è ciò che si adegua alla regola, ciò che non devia rispetto ad essa,<br />

rimanendo appunto “retto”.<br />

Lo ius diventa il “diritto” inteso come l’autorità del potere politico. Lo ius<br />

stabilisce il comportamento retto.<br />

Anche “regola” deriva dal verbo rego; essa infatti è “ciò che dirige” o “ciò che<br />

regge”; la regola stabilisce il comportamento retto; o in generale, è ciò che rende<br />

qualcosa retto; la regola, in senso lato, determina il modo della correttezza.<br />

Così, in italiano “corretto” è ciò che corrisponde alla “regola”, nel senso che non<br />

devia, non cede rispetto al principio.<br />

Retto è anche chi segue la norma diligentemente, e quindi chi è giusto, vale a dire<br />

onesto e “buono”. Da ciò emerge l’idea di “retto” come ciò che è “adeguato” alla<br />

norma morale politica o anche scientifica.<br />

Iubeo e rego si coimplicano; sono i due modi di esercitare il comando, l’<br />

“autorità”. Da iubeo abbiamo iussum (ordine imposto), da rego deriva rectum<br />

(corretto). Iubere e regere hanno funzione attiva, nel senso di “comandare a<br />

qualcuno” o “dominare su qualcosa”; iussum e rectum si possono intendere anche<br />

258 Rego, is, rexi, rectum, ere; che significa reggere, dirigere, guidare, comandare.<br />

259 Da notare, per inciso, che questo verbo condivide la radice con rex: chi ha il potere, chi regge.<br />

240


nel senso passivo, sono il regolare, il normale, nel senso che si “confanno” alla<br />

norma.<br />

L’autorità, bisogna precisarlo ancora, non è solo politica (quello che esercita il re<br />

sui sudditi), ma è più in generale l’ “azione” che svolge il principio sulle sue<br />

conseguenze. È il potere vincolante del fondamento (del generante), su ciò che da<br />

esso segue. E quindi questo ragionamento può essere esteso anche all’ambito<br />

scientifico.<br />

A questo punto, bisogna soffermarsi sulla diversa valenza della regola greca<br />

rispetto a quella latina: abbiamo visto che in greco arcaico regola si dice themis,<br />

termine che si riferisce alla giustizia divina, le regole servono a mantenere<br />

l’ordine cosmico, sono rappresentate da detti, sentenze degli oracoli ecc. Themis<br />

è la giustizia del dio e sancisce il suo ordine. Ben diversa e la valenza della<br />

regula latina; questa parola condivide la radice con rego: la regola stabilisce ciò<br />

che è retto, ciò che è secondo il modello, o il comando. La regola consente di<br />

separare il giusto dal falso, ciò che è conforme al principio da ciò che devia o<br />

“cede”; la regola è una disposizione del potere, o comunque qualcosa che<br />

proviene dall’uomo, dalla sua scienza, dalla sua razionalità; è ciò che stabilisce il<br />

giusto (rectus) e lo sbagliato.<br />

I due significati quello greco e quello latino divergono nella sostanza, i paradigmi<br />

a cui si rifanno sono alla fine alternativi. Cambia essenzialmente l’idea di<br />

giustizia e il ruolo dell’uomo: da una parte ordine divino e uomo in esso<br />

“compreso”, “coinvolto”, dall’altra uomo protagonista, creatore e interprete del<br />

suo ordine.<br />

Per esprimere la dipendenza dal comando o dalla norma, abbiamo ripetutamente<br />

usato il termine “adeguazione”: è opportuno precisare che anche questa è una<br />

parola di origine latina, che mostra un’analogia coi termini a cui si e fatto<br />

riferimento sopra: essa deriva dal verbo aequo, 260 che significa “mettere in<br />

piano”, “rendere uguale”. Aequatum, il participio, è allora ciò che è reso, o che si<br />

260 Aequo, as, avi, “aequatum”, are.<br />

241


è reso, uguale. Aequus sta per “piano”, “uguale”, “equo”, “giusto”; da collegare<br />

con iustus che significa “fondato” (secondo il fondamento), “regolare” (che<br />

segue la regola), “normale” (che si adegua alla norma), oltre che giusto, legale<br />

(che si adegua alla legge, nel senso di comando), equo. “Giusto” ed “equo” sono<br />

sinonimi. Adeguarsi alla norma significa essere “giusti”. Nel medioevo<br />

l’adequatio era il modo fondamentale di raggiungere la verità.<br />

La norma cioè non proviene, non sorge, da un humus comune, dalla “terra”,<br />

dall’ambiente di provenienza, essa non è più il “modo” di un legame, o il “modo”<br />

di una relazione che si scopre, che si manifesta (per volontà divina); ma è lo<br />

iussum, la lex, creata dalla volontà o dalla razionalità, ciò che proviene dalla<br />

capacità di comandare e di “costringere” del princeps, o dalla verità del<br />

principium; nell’un caso e nell’altra essi sono fondamento, e origine.<br />

L’etimologia di queste parole lo conferma: princeps (principe) e principium<br />

(principio) derivano da primus e da capere; 261 il principio comprende, contiene, e<br />

in qualche modo giustifica, legittima il contenuto. Può essere inteso come<br />

l’elemento fondante, costituente e originario. Il principium è ciò che viene per<br />

primo, e produce tutto il resto; esso “genera” grazie alla sua natura “causativa”;<br />

contestualmente, è ciò che “comprende dall’inizio”, nel senso di “ciò a cui si<br />

conforma tutto il resto”. Il princeps, invece, impone, comanda, dirige, proprio in<br />

virtù del suo potere, della sua “autorità”. La legittimazione al comando egli la<br />

trova in se stesso; non ha bisogno, per definizione, di poggiare su nient’altro.<br />

Il principio è il fondamento, e come tale è “perfetto” cioè compiuto in ogni sua<br />

parte, esso non manca di nulla. In quanto tale esso rappresenta la verità nella sua<br />

massima evidenza. Si dice la verità quando il giudizio è fondato, quando cioè il<br />

ragionamento procede rettamente dal fondamento.<br />

Il principe possiede l’autorità per comandare; ma anche il principio impone, nel<br />

senso che causa, determina, le sue conseguenze (quindi in un certo senso<br />

261 Capio, is, cepi, captum, ere. Significa “prendere”, “con-tenere”, “com-prendere”. Primus è il primo,<br />

l’originale, il principale; quindi ciò che precede, l’elemento originario di una serie.<br />

242


anch’esso possiede “autorità”). Il cominciare, come abbiamo visto, implica il<br />

comandare. 262<br />

Il principio è fondamento, dal principio scaturisce la verità. Una volta fissato,<br />

scoperto, determinato il principio si possiede anche la verità, in quanto tra loro<br />

esiste un rapporto di omologia: dal principio viene la verità, la verità non può che<br />

essere quella del principio. Si conferma così l’analogia tra l’originale e il vero. Il<br />

fondamento implica la verità, il fondamento è la verità. 263<br />

Il vero diventa ciò che è fondato, ciò che procede rettamente dal fondamento, dal<br />

principio; quindi, verità, giustizia e correttezza si intrecciano; ognuna di esse<br />

rappresenta un modo per indicare il principio, per mostrarne le peculiarità. 264<br />

In questo modo, nasce l’ordine gerarchico e sequenziale: dall’origine verso le<br />

conseguenze.<br />

Il fondamento è l’origine e l’essenza dell’ordine, nel fondamento si riconosce<br />

l’essere dell’ente. Il principio gerarchico diventa paradigma politico e filosofico.<br />

Quando l’uomo comincia a produrre leggi, norme, senza interpellare gli dei,<br />

guadagna una capacità nuova (egli acquista l’ “autorità”, il potere di iniziativa e<br />

di comando), egli si considera in grado di determinare l’ordine, di produrlo.<br />

Così da un lato il giudice continua ad interpretare la regola, l’ordine, dall’altro il<br />

potere politico lo può creare (in questo senso la politica è esercizio del potere, è<br />

kratos). Il giudice continua ad essere colui che ius dice, colui che si fa interprete<br />

della regola della norma, ma queste ultime non vengono più dagli dei (non sono<br />

262 Un discorso analogo potrebbe essere fatto per il verbo greco archein, che appunto significa sia<br />

cominciare che comandare.<br />

263 Per Aristotele – e siamo così in epoca classica – il fondamento è ciò che è massimamente evidente<br />

(quindi assolutamente vero), e come tale non ha bisogno di essere ricavato o dimostrato da nient’altro,<br />

tale è, ad esempio, il “principio” di non contraddizione.<br />

264 L’etimologia di questa parola è incerta, ma veritas per i latini è anche la “realtà” (oltre che la verità).<br />

Il verbo latino vereor significa “riverire”, ma anche “rispettare”, la verità va rispettata. Il “Verbo” (che<br />

traduce il Logos del Vangelo di Giovanni, parola che viene usata col significato di verità) nella teologia<br />

cristiana è la seconda persona della Trinità – Gesù Cristo – il quale è l’Incarnazione del “Principio”.<br />

Queste parole mostrano un riferimento chiaro a ciò che è principiale, fondativo, a qualcosa, comunque,<br />

che deve essere “rispettato”, venerato, “verso” cui si deve tendere.<br />

243


più thémistes) ma sono il frutto dell’ “autorità” politica; in ultima istanza, del<br />

volere umano.<br />

Ciò che si perde nel corso del tempo è l’idea che l’ordine sia il risultato<br />

dell’azione divina, che sia stabilito dagli dei, si perde in sostanza il significato di<br />

themis, come la “regola stabilita dagli dei”. L’uomo comincia così ad assumere<br />

una posizione ed un ruolo del tutto particolari nel cosmo. Egli non è più parte di<br />

un ordine che lo contiene ma è produttore di ordine, egli produce le condizioni<br />

della convivenza sociale, come l’ “ar-tigiano” produce i suoi manufatti. Il<br />

concetto di ordine perde ogni riferimento alla trascendenza, e diventa qualcosa di<br />

“immanente”. Il rapporto tra l’uomo e il mondo si “laicizza”.<br />

E questo avrà conseguenze notevoli nel corso della storia (non solo a livello<br />

sociale) perché è la prima tappa di un progressivo allontanamento dell’umano dal<br />

divino (inteso come totalità armonica).<br />

È attraverso tali passaggi che l’uomo si differenzia dal suo altro, diventa<br />

“individuo”, e poi “soggetto”. Percorrendo questa via, l’uomo comincia a<br />

separare il suo interno dal suo esterno, la psiche dal cosmo, l’ideale dal materiale,<br />

la res cogitans dalla res extensa, la mente dal mondo e cosi via. L’idea di essere<br />

una sostanza separata, individua, e autonoma, matura pian piano e porta l’uomo a<br />

domandare sulla sua natura e su quella di ciò che lo circonda; a chiedersi in che<br />

modo si ponga la relazione tra sé e gli enti “esterni”.<br />

L’individuo dispone dell’ordine sociale e può indagare quello naturale in virtù<br />

della sua nuova posizione nel cosmo; l’ordine non proviene più dal dio e quindi<br />

non è più trascendente. Il cosmo diventa qualcosa di “naturale”.<br />

Il rapporto tra l’individuo e il suo altro è destinato a subire notevoli cambiamenti.<br />

La filosofia e la scienza indagano su ciò che è sentito come prossimo e nello<br />

stesso tempo separato.<br />

È dopo aver ordinato il mondo secondo “principi” e “conseguenze” che l’uomo<br />

comincia a chiedersi “cosa viene prima”, cosa causa e cosa è causato. Da quel<br />

momento diventa importante stabilire l’ordine di precedenza tra gli enti, e tra sé e<br />

244


il mondo. Realismo e idealismo sono considerati due modi opposti di configurare<br />

quell’ordine di precedenza.<br />

Così il soggetto, in età moderna, comincia ad interrogarsi sulla “verità” delle sue<br />

percezioni. Se l’uomo è separato dal mondo, se il suo “ponte” verso di esso, è<br />

rappresentato esclusivamente dalle impressioni sensibili, chi lo può assicurare<br />

sulla “corrispondenza” tra queste e quello? 265 Un problema del tutto legittimo,<br />

una volta che si sono divise le due entità in due sfere separate, indipendenti,<br />

autonome (che per di più hanno perso il riferimento a ciò che un tempo le<br />

giustificava). Un problema che non poteva nascere nella Grecia arcaica, perché lì<br />

l’uomo era considerato la parte solidale di un tutto armonico, regolato dagli dei.<br />

L’uomo si differenzia dal suo mondo, si riconosce diverso rispetto a quello, e<br />

quindi comincia ad indagarlo per conoscerlo. Il mondo diventa un insieme di enti<br />

isolati autonomi che “producono” relazioni. La prima è quella sociale tra uomini<br />

che diventano “cittadini” grazie al diritto, alla costituzione (lo ius); poi seguono<br />

quelle tra enti materiali: la fisica moderna è la scienza che si incarica di spiegare<br />

il perché e il come delle relazioni tra gli enti; in questo contesto diventano<br />

fondamentali i concetti di “moto” e di “forza”.<br />

Sullo sfondo e prioritaria rimane sempre la questione del rapporto tra l’io e il suo<br />

altro. È questo il problema che legittima e sostanzia tutti gli altri. Il modo in cui<br />

l’uomo si pone nei confronti del suo altro determina inevitabilmente il suo modo<br />

di intendere le relazioni tra gli enti.<br />

Il cosmo non è più armonia celeste ma un gigantesco meccanismo composto da<br />

parti individuali che entrano in relazione grazie a determinate forze.<br />

L’uomo si pone come creatore dell’ordine sociale e scopritore dell’ordine<br />

cosmico. Egli può conoscere e riprodurre, perché può scomporre, separare la<br />

materia nei suoi costituenti semplici e scoprire le “leggi” che regolano il suo<br />

funzionamento.<br />

265 Il problema della “adeguazione” diventa sempre più importante: stabilire la verità infatti significa<br />

scoprire la corrispondenza tra percepito e reale. La verità deriva dall’adeguazione corretta tra interno ed<br />

esterno.<br />

245


L’uomo si pone il problema del fondamento degli enti, cioè della loro essenza e<br />

della loro origine, perché tutte queste cose rientrano nel suo dominio.<br />

Riassumendo possiamo dire di aver esaminato due modelli di relazione “io-<br />

mondo” profondamente diversi: il primo che si rifà ai concetti di themis, dike e<br />

logos, che implicano la manifestazione dell’ordine naturale spontaneo nel quale è<br />

compreso anche l’uomo; questo è il modo di intendere i rapporti tra sé e il suo<br />

mondo del greco arcaico. Il secondo basato invece sui concetti di adeguazione,<br />

principio, e correttezza che prevede un fondamento originario dal quale deriva<br />

l’ordine: esso può essere lo ius (princeps) che produce l’ordinamento sociale, o<br />

più in generale il principium dal quale deriva qualsiasi ordine razionale o<br />

ontologico. Nel primo caso c’è coerenza originaria, nel secondo un rapporto di<br />

derivazione che porta all’adeguazione verso il fondamento. Anche il secondo<br />

modello si origina in Grecia ma molto più tardi, nell’epoca classica, e comunque<br />

si afferma e si affina nel corso della storia fino a raggiungere il suo apice nella<br />

modernità.<br />

Abbiamo visto che, la relazione che tiene legati i termini del primo modello è di<br />

affinità e di somiglianza (il concetto di raccoglimento); quella che ordina gli<br />

elementi del secondo è di adeguazione e di corrispondenza.<br />

Il primo potrebbe essere definito “modello cosmico”, il secondo “modello<br />

principiale”.<br />

Il tema della relazione come adeguazione e corrispondenza verrà approfondito<br />

nel prossimo capitolo.<br />

246


Secondo capitolo: relazione come adeguazione e<br />

I) La verità come adeguazione<br />

corrispondenza<br />

La filosofia nasce, come disciplina che cerca la verità, in Grecia nel sesto secolo<br />

avanti Cristo.<br />

La storia della filosofia mostra come il modello “principiale” abbia sostituito<br />

quello “cosmico”. I primi filosofi da Talete ad Anassimandro, fino ad Eraclito,<br />

risentono ancora dell’influsso della cultura precedente, usano ancora concetti<br />

antichi (tra tutti è emblematico il logos di Eraclito), ma il loro obiettivo comincia<br />

ad essere quello di “trovare la verità”, nel senso di capire quale sia il “principio<br />

originario”, e l’elemento comune condiviso dagli enti nel mondo. Essi cercano<br />

risposte definitive, principi primi; essi inaugurano insomma quel tipo di ricerca<br />

dalla quale sorgerà la “metafisica” (o filosofia prima): la scienza che si occupa<br />

delle “cause prime”.<br />

Ciò mostra chiaramente il diverso ruolo che, in quel momento, l’uomo viene ad<br />

assumere nei riguardi del suo mondo; o meglio, il tipo di approccio dei primi<br />

filosofi mostra come sia cambiato nel corso dei secoli il modo dell’uomo di<br />

considerare il suo mondo.<br />

Si può dire che i pensatori presocratici si pongono come anello di congiunzione<br />

tra un’epoca antica, nella quale vigeva il modello “cosmico”, e quella classica –<br />

nella quale si afferma invece il modello “principiale”.<br />

L’indagine che essi compiono intorno all’ “origine”, l’idea di poter dare risposta<br />

al problema dell’inizio, al di là delle soluzioni proposte, dimostra quanto sia<br />

cambiata la loro posizione – rispetto a quella precedente – nei confronti della<br />

divinità.<br />

247


L’uomo in quanto tale, comincia ad assumere un ruolo del tutto inedito, costruito<br />

sull’indipendenza, sull’autonomia nei confronti di ciò che lo circonda. La<br />

possibilità di affermare, ad esempio, che polemos è origine di tutte le cose, e di<br />

spiegare come esso agisce nel mondo, è una facoltà esorbitante anche per l’uomo<br />

omerico, qualcosa che per quest’ultimo è inconcepibile. Per poter avanzare<br />

ipotesi (risposte ritenute esaurienti) di questo tipo si deve poter guardare al<br />

“celeste”, in modo molto diverso da come lo si guardava qualche secolo prima.<br />

Il filosofo si sente un osservatore del cosmo, per questo egli può avanzare teorie<br />

sulla sua origine e struttura; mentre, nelle epoche precedenti, l’uomo si sentiva<br />

pervaso e immerso in un certo “ordine”. La possibilità di “conoscere”, e di<br />

“speculare” in proposito esige una separazione, un’autonomia dell’osservatore<br />

rispetto all’osservato, esige che il pensatore sia in grado di “comprendere”, ciò su<br />

cui teorizza. E chi comprende deve godere di una posizione privilegiata rispetto<br />

al compreso. Si rompe così l’armonia originaria.<br />

Allora, c’è un’epoca nella quale l’uomo produce una frattura tra sé e il suo<br />

mondo, un periodo nel quale egli comincia a sentirsi indipendente, autonomo<br />

rispetto a ciò che lo circonda. Esiste un momento, insomma, nel quale l’uomo<br />

“diventa” individuo; naturalmente si deve distinguere l’istante nel quale l’uomo<br />

assume la consapevolezza di essere “individuo”, dal periodo in cui comincia<br />

effettivamente ad esserlo, o inizia a comportarsi come tale.<br />

Se pensiamo alla Umanesimo e al Rinascimento come ai luoghi nei quali egli<br />

comincia a descriversi come “individuo”, dobbiamo altresì constatare che egli<br />

inizia a percepirsi in modo diverso da ciò che lo circonda molto prima. Egli sente<br />

la differenza tra sé e il suo mondo proprio quando comincia ad interrogarsi su di<br />

esso. Egli comincia a costruire la sua identità individuale quando inizia a<br />

trasformare il mondo in un oggetto di indagine.<br />

L’uomo che si sente in grado, di trovare e di capire l’origine dalla quale egli<br />

stesso deriva, di spiegare il perché delle cose che lo circondano, è già sulla strada<br />

che lo porterà a diventare un “individuo”, in quanto ne ha già le caratteristiche<br />

distintive.<br />

248


L’individuo infatti è l’ente separato, dotato di “spirito”, in grado di indagare il<br />

cosmo; egli è già in possesso di quella volontà che gli consentirà di “ottenere” di<br />

“dominare”, di “cambiare”, di “asservire”.<br />

L’uomo comincia la strada che lo porterà a diventare “soggetto” con la nascita<br />

della filosofia, da quando cioè inizia a dedicarsi all’indagine sulla verità.<br />

E quando si afferma l’idea che la verità sia “il riflesso” 266 del principio, si<br />

registra un ulteriore allontanamento dal modello precedente.<br />

La filosofia si immedesima sempre di più con questo tipo di ricerca: l’ episteme<br />

riguarda la verità, e la verità a sua volta si rivolge al fondamento. Cambiano i<br />

nomi ad esso assegnati, ma si intende sempre la stessa cosa: ciò che precede,<br />

stabilisce, e determina.<br />

Il concetto che la verità scaturisca per adeguazione dall’ “inconcusso” si affina, e<br />

si afferma sempre più decisamente nel corso della storia; si può trattare di verità<br />

filosofica, scientifica, o morale, essa viene sempre trattata come un’emanazione<br />

del principio.<br />

Questo tipo di relazione tra verità e fondamento diventa a sua volta un principio<br />

assoluto.<br />

Abbiamo visto che, il mondo latino fornisce la terminologia per questa<br />

rivoluzione. E il medioevo, avvalendosi di questa lingua, dà coerenza al quadro<br />

filosofico. La cultura medievale, nel tentativo di coniugare cristianesimo e<br />

filosofia greca classica, stabilisce le coordinate del pensiero principiale.<br />

Agostino definisce la verità come la perfetta somiglianza delle cose con il loro<br />

“principio”; ovvero la verità si immedesima con il principio. Tommaso,<br />

interpretando molti secoli dopo, questa posizione, dice: “veritas est adaequatio<br />

rei et intellectus”, cioè il pensiero (che abbiamo visto essere stato ridotto al<br />

giudizio) coglie la verità quando si adegua alla “realtà” (ora non importa se il<br />

luogo originario della verità sia il giudizio o il mondo, ma interessa notare che<br />

essa, in un caso e nell’altro, si ottiene per “adeguazione” a qualcosa di dato).<br />

266 Nel senso dell’immagine razionale che proviene – per adeguazione – dal fondamento.<br />

249


La filosofia medievale è una forma di realismo secondo la quale qualsiasi forma<br />

di conoscenza si produce per adeguazione ad un riferimento esterno che funge da<br />

fondamento. Quindi la verità può essere raggiunta solo se attraverso l’uso di<br />

opportuni strumenti razionali si fa corrispondere il pensiero alla realtà.<br />

Sempre Tommaso asserisce: «Id quod primo intellectus concipit, quasi<br />

notissimum, et in quo omnes concetione resolvit est ens», quindi, ancora per<br />

l’Aquinate, l’ente è la massima evidenza, è il “principio” di ogni conoscenza.<br />

Anche Tommaso allora mette in relazione verità e correttezza, nel senso che egli<br />

intende come vero ciò che è corretto, giusto, adeguato ad un principio, e “falso”<br />

ciò che non lo è, ciò che non si conforma, e che quindi devia da esso.<br />

In altre parole, mentre il principio (sia esso relativo all’etica, alla politica, o alla<br />

conoscenza) si giustifica da solo in virtù della sua “perfezione”, originarietà ed<br />

“evidenza”, la verità razionale scaturisce per adeguazione, cioè deriva da esso, o<br />

vi si adegua. Il vero è ciò che è “giustificato”, cioè reso giusto dal principio<br />

stesso.<br />

La verità della conoscenza non è più aletheia – disvelamento, come traduce<br />

Heidegger 267 – ma è “adeguazione a…”, al fondamento, alla realtà, ecc. Essa<br />

trova la sua dimora nell’ “asserzione”, nel “giudizio” (che può essere vero o<br />

falso) al quale viene ricondotto l’intero pensiero. Pensare è giudicare, e giudicare<br />

è adeguare.<br />

Questa impostazione però rappresenta un’altra forma di dualismo: per conoscere<br />

la verità si deve essere in grado di adeguare (di far corrispond ere) il proprio<br />

giudizio alla realtà; quindi da una parta sta la realtà (fonte di verità), dall’altra il<br />

pensiero (che vi si adegua).<br />

In questo modo il logos diventa il giudizio. La logica diventa la scienza che<br />

permette alla ragione di non compiere passi falsi, di argomentare “rettamente”,<br />

senza deviare dal giusto sentiero, senza “cadere” in contraddizione. 268<br />

267 Dobbiamo avvertire che quando usiamo termini come aletheia e physis, ci riferiamo innanzitutto alle<br />

interpretazioni che di essi ha dato Heidegger.<br />

268 Questa struttura argomentativa comunque si dà già nel mondo greco: Aristotele è il fondatore della<br />

“logica”, cioè, della scienza del corretto argomentare; l’idea del logos come giudizio esatto prende le<br />

250


Per i medievali “il logos” diventa il discorso apofantico sulla scorta della lezione<br />

aristotelica; e così la logica come scienza della corretta argomentazione diventa<br />

la “scienza della verità”. Il giudizio corretto, vero, è quello che si adegua al<br />

principio, al fondamento. Esso così si distingue dal giudizio “falso”. La logica, è<br />

la scienza che fornisce alla filosofia gli strumenti per raggiungere la verità: in<br />

linea generale, l’idea è che iniziando la speculazione da un fondamento della<br />

massima evidenza razionale (il principio di non contraddizione) e argomentando<br />

in modo rigoroso, “rettamente” (senza deviare o cedere rispetto a tale principio)<br />

si possa raggiungere la verità su qualsiasi argomento (si può perfino dimostrare<br />

l’esistenza di Dio).<br />

Allora, se il vero è ciò che è conforme al principio, il falso è ciò che non vi si<br />

adegua, ciò che “cede”, che devia da esso; ciò che “cade” e quindi non è “retto”.<br />

La conoscenza è, allora, la capacita di distinguere il vero dal falso, nel senso di<br />

dividere ciò che è retto da ciò che non lo è.<br />

Quindi si può vedere il conoscere come l’azione del separare e del dividere<br />

correttamente. La conoscenza e discernimento. Del resto, “discernere” sta sia per<br />

separare, distinguere, che per conoscere. 269<br />

Ma questa attività è prerogativa dell’uomo, che quando si rende conto di ciò<br />

diventa definitivamente “soggetto”.<br />

Se facciamo ancora un passo avanti ci accorgiamo che l’ulteriore sviluppo<br />

introdotto dal pensiero moderno – l’idea della priorità del soggetto, della<br />

mosse proprio da lui, e rappresenta una rottura netta nei confronti del concetto di logos (raccoglimento)<br />

enunciato da Eraclito (Aristotele poi sviluppa il concetto di “causa” aprendo così le porte a tutte le<br />

derivazioni successive che abbiamo visto).<br />

269 Si deve precisare che queste speculazioni venivano fatte in una lingua che aveva tutta una serie di<br />

termini correlati e funzionali a supporto di questa teoria: “falsum” ad esempio è il participio passato del<br />

verbo fallo che significa “cadere”, “cedere” - ma significa anche dimenticare, “star nascosto”, “rimanere<br />

inosservato”, in analogia al verbo greco lanthano (“ille tamen fefellit, et latuit”: “egli tuttavia rimase<br />

nascosto e inosservato”, dice Plinio). Quindi i latini affiancano all’originaria accezione del falso come<br />

nascosto, velato, quella del “non-corretto”, “non-conforme” (al principio).<br />

Ancora, in latino scientia(m) è il sapere, tale parola deriva dal participio presente del verbo scio, il quale<br />

richiama l’idea dello scindere del separare. L’etimologia di scio (conoscere) è la stessa di scindo<br />

(“separare”, “dividere”). La radice indeuropea attribuita ai due verbi è la stessa *skei. Allora, l’idea che il<br />

conoscere sia un discernere, un separare correttamente, un distinguere ciò che è adeguato al fondamento<br />

da ciò che non lo è, viene favorita anche dalla stessa lingua.<br />

251


preminenza del cogito – ha qui le sue premesse. Il soggetto diventa il punto di<br />

riferimento della speculazione filosofica proprio in virtù di questo processo di<br />

“interiorizzazione” della verità. Quando Cartesio proclama la inevitabilità del<br />

dubbio, trasforma definitivamente (portando a compimento il viaggio<br />

medievale), la verità in una categoria dello spirito. Il soggetto diventa misura<br />

della verità, prende il posto dell’ente dei realisti.<br />

La certezza 270 (termine fondamentale per tutta filosofia moderna), cioè la<br />

conoscenza sicura del dato, è ancora il risultato della “corretta” separazione del<br />

vero e del falso, ma essa adesso dipende dall’attività del soggetto;<br />

La certezza si avvicina sempre di più al concetto di verità, perché essa diventa<br />

una proprietà dello spirito, non della realtà. La verità riguarda il soggetto, non<br />

l’oggetto. La certezza è uno stato interiore, è la consapevolezza del soggetto di<br />

conoscere l’oggetto di indagine al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò mostra<br />

come la separazione, tra uomo e mondo sia sempre più marcata, più netta. Il<br />

dualismo tra soggetto e oggetto rappresenta la massima opposizione che la<br />

filosofia abbia concepito tra questi due termini. Ma questa opposizione è<br />

contraddittoria ecco allora il tentativo dell’idealismo di ricomporla attraverso la<br />

trasformazione della realtà in una categoria dello spirito. Si tenta di superare il<br />

dualismo rimovendo uno dei due elementi in questione. Quindi una volta<br />

accettata l’assoluta evidenza della res cogitans – sulla scorta dell’insegnamento<br />

cartesiano – si deve cercare di togliere consistenza all’altro termine, che diventa<br />

“fenomeno” con Kant, e addirittura prodotto della soggettività per Hegel.<br />

La strada che separa il realismo dall’idealismo è proprio quella necessaria a<br />

trasformare completamente la “verità” in una categoria dello soggettività.<br />

Quando la verità diventa certezza si creano i presupposti sui quali fiorirà<br />

l’idealismo, perché proprio in quel momento il soggetto guadagna una posizione<br />

di superiorità nei confronti dell’ente. Il fondamento, la fonte di conoscenza, non è<br />

più l’ens, ma diventa lo spirito.<br />

270 Tale significato è accolto come sappiamo nel mondo moderno, attraverso Cartesio, il quale inseguiva<br />

il “certo scire”, il conoscere certo.<br />

252


Ciò detto, bisogna avvertire che questo ribaltamento, seppur rilevante, non sposta<br />

i termini della nostra questione. Il principio può essere esterno o interno<br />

all’individuo, resta la natura dualistica dell’impostazione filosofica. C’è sempre<br />

un principio che funziona da traino, che fa da punto di riferimento, e qualcosa di<br />

derivato che ad esso si adegua; c’è sempre la “differenza ontologica” tra un<br />

fondamento stabile e originario, e ciò che da esso proviene.<br />

Si passa dal predominio dell’ente a quello dell’uomo, ma rimane sempre<br />

l’impostazione gerarchica. Che sia l’uomo a doversi adeguare all’ente, o che sia<br />

l’oggetto a dover corrispondere alle categorie del soggetto, la dinamica del<br />

ragionamento non cambia.<br />

Così, adeguare (far corrispondere) è ancora un modo di “mettere” in relazione<br />

(abbiamo visto che per i Greci antichi legein significa raccogliere), ma con un<br />

senso completamente diverso. Il logos come verità raccogliente e disvelante<br />

(aletheia) dei Greci, diventa la relazione come adeguazione dei medievali, e poi<br />

l’attività del cogito.<br />

In altre parole, permane anche nell’idea di verità dei medievali, e poi dei<br />

moderni, il concetto del “mettere in relazione”, ma per questi e quelli ciò<br />

significa “subordinare”: o è il conoscente che si adegua all’evidenza dell’ente,<br />

oppure è l’oggetto che si conforma alle categorie logiche del soggetto, comunque<br />

c’è sempre un fondamento che determina. E l’uomo in entrambi i casi svolge un<br />

ruolo da protagonista. 271<br />

L’essenza del principio è di essere della massima evidenza, e perfezione, nel<br />

senso che non ha bisogno di ulteriore “giustificazione” o dimostrazione (è<br />

assoluto): non si può certo “giustificare” il principio, dal momento che esso è ciò<br />

in base a cui si giustifica. Supporre l’esistenza di qualcosa che possa dimostrare<br />

la verità del principium (o la giustizia del princeps), sarebbe una palese<br />

271 O meglio, la sottoposizione al principium è verità, la sottoposizione al princeps è giustizia. Il<br />

principium rappresenta l’essenza della verità, il princeps è l’essenza della giustizia. E’ su questo<br />

presupposto che, in epoca moderna, nasce l’idea di “sovranità” come “potere assolut o”, cioè sciolto da<br />

qualsiasi limitazione in quanto “perfetto”.<br />

253


contraddizione, perché non ci può essere niente di più originario del principio,<br />

per definizione. 272<br />

La massima evidenza è prima il dato reale, poi diventa il cogito, lo spirito (o più<br />

in generale la soggettività), ma c’è sempre bisogno di un fondamento dal quale<br />

partire.<br />

Mentre il mondo antico ha l’idea della verità come un’armonia originaria tra le<br />

parti; esso pensa ad un’armonia di carattere divino, della quale l’uomo si trova a<br />

far parte.<br />

La verità si svela all’uomo, il quale l’accoglie nelle forme permesse dalle sue<br />

facoltà. Lo svelamento è sempre interpretabile, la volontà del dio non è mai<br />

totalmente chiara. Lo svelamento implica sempre anche un residuo velamento<br />

(l’imperscrutabile disegno divino). L’uomo non può ambire alla completa<br />

conoscenza (e alla partecipazione) dell’ordine divino, proprio perché non è un<br />

dio. Di tutto ciò l’uomo antico è consapevole, e lo accetta. Sa che un’eventuale<br />

ribellione verrà punita, perché sarebbe il tentativo di cambiare il corso naturale<br />

delle cose, l’azione del ribelle è hybris, la quale scatena l’ira divina, e per questo<br />

va evitata. L’ordine cosmico è pervasivo ed esclusivo, e l’uomo fa parte di<br />

esso. 273<br />

Nell’Iliade, ad esempio, l’uomo non ha alcun potere d’iniziativa, egli è in balia<br />

del disegno degli dei, la sua azione trova principio nel volere divino. È Zeus che<br />

stabilisce l’esito finale di ogni vicenda umana, che determina fortuna e sventura<br />

per ogni uomo. Per portare a buon fine il proprio progetto si deve propiziare la<br />

benevolenza del dio, per vincere in battaglia si deve pregarlo, non elaborare un<br />

piano migliore di quello del nemico. L’azione umana è vincolata dal volere degli<br />

272 Qui ovviamente viene usato l’elenchos aristotelico; e questo mostra ancora una volta che il mondo<br />

latino non stravolge la lezione dei Greci, ma accoglie invece le indicazioni che di quella lezione hanno<br />

dato Platone e Aristotele.<br />

273 Se pensiamo che il filosofo medievale crede di poter raggiungere la perfezione in qualsiasi ordine di<br />

conoscenza (fino ad arrivare a quella di Dio), e lo scienziato moderno si sente in grado di scoprire<br />

(svelare) qualsiasi segreto del cosmo, ci rendiamo conto del salto compiuto.<br />

254


dei. Non esiste ancora il concetto di libertà individuale. Tutto è compreso<br />

armonicamente in un unico ordine cosmico. 274<br />

In epoca classica questa armonia si rompe definitivamente, oltre all’ordine divino<br />

viene a porsi anche quello umano. Continua ad esserci la legge divina, ma ad<br />

essa si affianca quella umana, e da questa contrapposizione nasce la tragedia.<br />

L’uomo greco, nel momento in cui diventa consapevole di questo dualismo, lo<br />

vive in modo tragico. Non crede alla possibilità di una composizione. Antigone<br />

si trova di fronte ad un problema insolubile: rispettare la legge divina significa<br />

violare quella umana, e viceversa assecondare l’ordine della polis porta a<br />

contravvenire a quello divino; legge divina e legge umana si fronteggiano senza<br />

possibilità di mediazione. L’ordine creato dai mortali che può avere la sua utilità<br />

nella conduzione delle cose terrene, prima o poi viene a confliggere con quello<br />

divino. Sofocle vive e dipinge la tragedia di questa separazione. Ma il dramma<br />

nasce proprio dalla necessità di scegliere, nel momento stesso in cui non c’è via<br />

di fuga; qualsiasi decisione porterà al fallimento, e causerà dolore.<br />

Fedeltà alla legge degli dei, o accettazione dell’ordine civile? Quale ha il diritto<br />

di precedenza? Antigone opta per il rispetto della volontà divina a costo di<br />

sacrificare la sua stessa esistenza. La scelta non dà scampo, e definitiva, i due<br />

ordini sono inconciliabili.<br />

Sofocle sembra dirci che non c’è spazio per entrambi, essi non possono<br />

coesistere, non ci possono essere due modi diversi di configurare lo stesso<br />

mondo, non ci possono essere due modi diversi di stare al mondo. Le regole che<br />

lo governano devono per forza provenire tutte da una stessa fonte, altrimenti si<br />

determina il conflitto. Non ci possono essere due giustizie, non ci possono essere<br />

due modi diversi di soddisfare la “legge”. 275<br />

274 Questi concetti sono sviluppati nel libro di Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero<br />

europeo, Einaudi, Torino, 1963.<br />

275 Per quanto concerne il tema della contrapposizione inconciliabile nell’Antigone ci siamo riferiti tra<br />

gli altri a: Cerri, Legislazione orale e tragedia greca, Liguori editore, Napoli, 1979; George Steiner,<br />

Antigoni, Garzanti, Milano, 1995.<br />

255


Da una parte l’ordine originario, nel quale l’uomo si è trovato immerso, dall’altra<br />

l’ordine creato, prodotto, che ha l’uomo come protagonista e attore principale. La<br />

storia della tragedia greca trova in questa alternativa uno dei suoi capisaldi. Ma<br />

anche la filosofia, nella stessa epoca, racconta questa contrapposizione, perché<br />

entrambe le discipline hanno come loro punto di riferimento la posizione che<br />

l’uomo viene via, via ad assumere nei confronti del mondo.<br />

La tragedia greca ci conferma che il cambiamento di ruolo che interessa l’uomo<br />

in quel periodo è per molti aspetti traumatico. Nello stesso momento in cui egli<br />

rivendica una posizione privilegiata nel cosmo, nel momento stesso in cui egli<br />

vuole essere protagonista di questo palcoscenico, nascono le difficoltà e si<br />

manifestano i problemi che questa rivoluzione comporta. È chiaro che risulta<br />

molto difficile conciliare il nuovo ruolo dell’uomo con quello antico della<br />

divinità. E tanto più drammatico è il quadro della situazione fatto dai<br />

drammaturghi, tanto più chiaro e profondo appare il senso di disagio e di<br />

smarrimento che la accompagna.<br />

Tutto ciò mostra con sufficiente chiarezza quali difficoltà abbiano accompagnato<br />

la nascita dell’ “individuo” nel mondo greco.<br />

II) Episteme e aletheia<br />

Ritornando sui nostri passi, vediamo ora come si è progressivamente affermato<br />

questo nuovo ordine in ambito filosofico.<br />

Per i greci arcaici “ordinare” sta per raccogliere, e il logos è la manifestazione del<br />

raccoglimento divino, il logos segna i limiti nei quali l’uomo può partecipare, e<br />

comprendere l’ordine divino, il logos è la traduzione umana dell’armonia divina.<br />

Successivamente il logos diventa la razionalità che permette l’adeguazione al<br />

256


principio. La logica si afferma come la scienza attraverso la quale si può<br />

raggiungere la verità. Per mezzo della ragione l’uomo può rappresentare la verità.<br />

Questa impostazione informerà tutto il medioevo e tutta l’età moderna, sia dal<br />

punto di vista etico-politico (relativamente al concetto di giustizia), che da quello<br />

filosofico-scientifico (con riferimento all’idea di verità) .<br />

Il cambiamento, come abbiamo visto, acquista i suoi presupposti con la filosofia<br />

di Platone e Aristotele e si sviluppa poi nel medioevo e nell’età moderna. 276<br />

Ad esempio, Platone sostituisce al concetto di “essere” come physis dei<br />

presocratici il termine “idea”, eidos, compiendo in questo modo un cambiamento<br />

radicale; infatti, l’ “idea” è la verità che si manifesta nella massima evidenza, la<br />

physis invece è l’ordine divino che si mostra dischiudendosi, disvelandosi. 277<br />

Mentre i presocratici pongono l’accento sul disvelamento che fa essere, e che<br />

rende percepibile, Platone ritiene l’ “evidenza” il fondamento dell’essere. E<br />

mentre il disvelamento “accade” e si rinnova continuamente, l’evidenza<br />

“permane” stabilmente (è nel modo della presenza costante).<br />

Platone si pone come obiettivo il raggiungimento definitivo della verità: egli è il<br />

primo filosofo ad elaborare un pensiero di questo tipo. E ciò testimonia di un<br />

avvenuto cambiamento nel modo di concepire la relazione tra io e mondo.<br />

Quando egli afferma che la dialettica può portare alla partecipazione all’idea di<br />

Bene, cioè all’idea somma, e indica il percorso che si deve seguire, fa qualcosa<br />

che nessuno mai aveva fatto in precedenza. Platone infatti pone un principio<br />

sommo – il Bene – e indica anche la strada per raggiungerlo, per conseguirlo una<br />

276 Heidegger afferma: «Una certa prefigurazione del pensiero metafisico dell’ «assoluto» è già presente<br />

all’inizio della metafisica occidentale in Platone e soprattutto in Aristotele. Platone conosce l’<br />

υπερουρανιοσ τοποσ, il luogo che si trova al di sopra del cielo; Aristotele, nella parte conclusiva della<br />

sua Fisica, pensa il motore immobile che si dispiega nel luogo a lui proprio. Queste indicazioni aprono la<br />

via ad ogni forma di metafisica, vale a dire aprono quella via lungo la quale la relazione dell’assoluto con<br />

il mondo è pensata come una relazione causale che crea e conserva le cose, come una relazione che è<br />

condizione delle cose. L’assoluto stesso è una cosa incondizionata. E il fatto che nella metafisica moderna<br />

- vale a dire nella metafisica di Kant prefigurata da Descartes e Leibniz – il condizionare e le condizioni<br />

siano intese facendo riferimento alla coscienza e in modo trascendentale, non cambia essenzialmente<br />

nulla nel pensiero dell’assoluto e del rapporto di tipo condizionante che esso intrattiene col mondo».<br />

M. Heidegger, Eraclito, op. cit. pag. 226<br />

277 E il disvelamento come abbiamo visto, comporta sempre anche un certo velamento.<br />

257


volta per tutte. La sua dialettica diventa, da questo punto di vista, la progenitrice<br />

della scienza logica; lo strumento, che consente, se applicato correttamente, di<br />

possedere la verità, di conseguire un sapere “epis temico” (un sapere che si staglia<br />

sopra tutti gli altri). Questo è uno degli elementi di novità rispetto alle filosofie<br />

presocratiche, elemento che apre la strada al modello di pensiero principiale e<br />

gerarchico, e alla filosofia come “scienza delle cause prime”.<br />

Platone distingue tra “evidenza” e “apparenza”, l’evidenza è l’idea, l’essenza<br />

della realtà, l’apparenza è, invece, l’opinione ingannevole (tutto questo è spiegato<br />

attraverso il mito della caverna).<br />

L’evidenza però non riguarda il vedere ma il pensare. La massima evidenza non<br />

si coglie con la vista ma con la ragione, con la speculazione. Il pensiero dialettico<br />

raggiunge l’ episteme, mentre la percezione è solo doxa (opinione, apparenza).<br />

La verità si dimostra solo dialetticamente, e quindi solo il filosofo la può<br />

cogliere.<br />

L’ “idea” è la realtà nella sua “essenza” (determina il sapere inconfutabile,<br />

l’episteme); la visione coglie il reale nella sua “esistenza” ( nel sua divenire)<br />

come doxa. L’ “essenza” è l’essere del reale nella sua “permanenza” (nel suo<br />

modo di darsi fondamentale), l’essere “sta” incontrovertibilmente, mentre ciò che<br />

appare diviene nel tempo.<br />

Ciò che appare diviene in quanto “materiale”, infatti, è materiale ciò che è<br />

destinato alla corruzione. Il divenire è, allora, la caratteristica della realtà<br />

materiale, il permanere è la cifra della realtà ideale. Per Platone l’idea è l’<br />

“essere”, è presenza costante, è permanenza nella verità dell’evidenza, è il modo<br />

di essere di ciò che realmente è (ousia).<br />

Il mondo delle idee è il modello (paradigma) sul quale si costituisce il mondo<br />

materiale. Allora, il concetto di “paradigma” è già un apertura verso l’idea di<br />

“adeguazione”. Il demiurgo, infatti, copia l’ideale per forgiare il mondo:<br />

“copiare” è, in qualche misura, un “adeguare”: l’ente materiale tende verso<br />

l’idea. La “metessi” platonica può essere considerata, in buona sostanza, una<br />

sorta di adeguazione dell’ente all’idea.<br />

258


Platone, insomma, ponendo l’idea come modello, e l’ente come copia apre la<br />

strada al concetto latino di adequatio. Il mondo delle idee nella sua permanenza e<br />

perfezione può essere accostato al principium, così che la metessi platonica porta<br />

alla adeguatio latina.<br />

In questo modo, si trasforma anche il concetto di dike, che per i presocratici è<br />

l’ordine raccogliente della physis, è armonia originaria che si mostra nell’ordine<br />

naturale (raccogliente) di tutte le cose. Essa è l’armonia che si palesa nel reale, è<br />

l’ordine universale che scaturisce dalla relazione originaria fra le cose. Anzi, dike<br />

è ciò per cui le cose sono, e il modo nel quale si palesano. L’essente è, in quanto<br />

compreso, nell’ordine cosmico governato da dike. Quindi è l’ordine di dike che<br />

fa essere le cose come sono, e come si mostrano.<br />

La verità (aletheia) è lo svelamento dell’ordine dell’armonia originaria. Aletheia<br />

è rivelazione di dike (che ai mortali non è dato di comprendere nella sua<br />

interezza 278 ).<br />

La negazione di dike è hybris cioè volontà di uscire dall’ordine cosmico, essa è la<br />

volontà dell’ente di abbandonare il proprio posto, quindi è volontà di fare<br />

violenza all’armonia originaria. Chi vuole ciò si pone contro il disegno divino, si<br />

crede superiore al dio e per questo verrà punito.<br />

La legge (il logos) è la manifestazione “raccogliente” di quest’ordine, è ciò che<br />

mette in evidenza il “modo” della relazione raccogliente, essa perciò è figlia di<br />

dike. Il logos mostra le relazioni sussistenti tra le cose nell’ordine cosmico.<br />

Mentre per Platone la giustizia è si armonia delle parti 279 ma è, ancora di più,<br />

aspirazione all’idea di bene, e anche qui, dunque, torna il concetto di<br />

adeguazione. Cercare la partecipazione all’idea di bene significa, infatti, tendere<br />

verso l’idea di bene.<br />

278 O di scoprirne ogni suo segreto. Questa idea è, come abbiamo appena visto, uno dei riferimenti<br />

principali della tragedia greca.<br />

279 Concetto espresso nel secondo libro della Repubblica, il quale mostra il debito del filosofo ateniese<br />

nei confronti della cultura che lo ha preceduto.<br />

259


Allora, il mondo latino non fa che portare alle estreme conseguenze queste idee<br />

di Platone (e quelle di Aristotele): dalla inclinazione verso l’idea di bene<br />

all’adeguazione al sommo principio non c’è una differenza profonda.<br />

Del resto, se l’essere è inteso come eidos (cioè, come ciò che si manifesta nella<br />

sua perfezione, e che permane stabilmente), la verità (l’episteme come sapere<br />

sommo e incontrovertibile) non può che scaturire da una tensione verso tale<br />

perfezione; se l’essere, viceversa, è physis, allora, la verità è il suo darsi<br />

“raccogliente-manifestante”, è il dis-velamento dell’ordine cosmico (è aletheia).<br />

III) “Ordine spontaneo” e “ordine prodotto”<br />

Abbiamo visto che tale dicotomia si origina nel corso del tempo, e porta a<br />

configurare due diversi tipi di “ordine”; lo stesso verbo “ordinare” assume così<br />

due accezioni: da un lato collocare insieme, sistemare il comune, dall’altro far<br />

derivare, far scaturire, o produrre, imporre e “co-stringere” i “separati”.<br />

Entrambe le accezioni sono espresse in latino dallo stesso verbo ordior 280 il quale<br />

significa “ordire”, “fare l’ordito”, ma anche “cominciare”, “dare inizio” (ordiri<br />

bellum è dare inizio alla battaglia), quindi per i latini ciò che è ordinato, o è fatto<br />

in conformità all’ordito, o è conseguenza appropriata del cominciamento, cioè<br />

“deriva” dal principio. Qui, si nota ancora una differenza tra l’ “essere” in<br />

conformità all’ordito (avere una appropriata collocazione all’interno di un<br />

sistema complessivo), e lo “scaturire” dal cominciamento, perché il “derivare”<br />

implica una relazione di dipendenza, che potrebbe far intuire una “adeguazione”.<br />

La struttura dei due modelli è radicalmente diversa: un conto è relazionarsi in<br />

modo armonico a ciò che è prossimo (vicino), un'altra cosa è scaturire da un<br />

280 Ordior, iris, orsus sum, iri.<br />

260


principio primo come suo prodotto e conseguenza. Nel primo caso, la relazione si<br />

sviluppa in orizzontale: all’interno della stessa architettura, le parti si confanno<br />

una all’altra, stanno in reciproca armonia; nel secondo caso, la relazione è lineare<br />

e gerarchica e quindi evolve in verticale: dal cominciamento verso le<br />

conseguenze.<br />

Il “derivare da” e “l’essere adeguato a”, sono strettamente connessi: ciò che è<br />

secondo l’origine, è anche adeguato alla regola, entrambi stanno per “conforme<br />

al principio”, che è sia “regola” che “cominciamento”.<br />

Si verifica, allora, uno scivolamento graduale che porta il significato di “ordine”<br />

da “ciò che è raccolto secondo equilibrio e armonia”, a “ciò che si sviluppa<br />

secondo l’ordito”, che è ancora, in qualche misura, un “essere in armonia nel<br />

contesto”, fino a “ciò che deriva dalla causa”, e quindi “ciò che si adegua al”, o<br />

“ciò che deriva dal principio” che perdono completamente il significato originale.<br />

A questo punto, l’ordine può essere configurato in due modi completamente<br />

distinti: l’ordine come “raccoglimento manifestante armonia” è “spontaneo”,<br />

“endogeno”, “a-teleologico”, “autoreferenziale”, “autopoietico”, ecc.; l’ordine<br />

come “adeguazione al principio” è “prodotto”, “costruito”, “gerarchico”,<br />

“piramidale”, “esogeno”, “teleologico”, “necessario” ecc..<br />

Anche la Grecia classica conosceva questa differenza (che si accentuerà, come<br />

sappiamo, più tardi) e utilizzava due vocaboli diversi per esprimere un tipo o<br />

l’altro di ordine: cosmos stava per ordine spontaneo, mentre per indicare l’ordine<br />

prodotto usava taxis.<br />

La taxis, allora, è sempre il risultato dell’opera umana, essa è, ad esempio, lo<br />

strumento costruito per un determinato scopo; di conseguenza la differenza tra<br />

taxis e cosmos non è solo di specie ma è addirittura di genere. Perché per i Greci<br />

non si può paragonare l’ordine cosmico a quello umano. L’ordine cosmico è<br />

frutto di dike, è l’ “essere” stesso (physis) che si manifesta; in quest’ordine<br />

l’uomo è “compreso”; mentre, la taxis è concepita, prodotta e utilizzata<br />

dall’uomo, e quindi si pone su di un piano totalmente diverso: essa è utilizzata a<br />

piacimento dell’uomo, ed è sottoposta alla volontà umana.<br />

261


Quindi, per la Grecia arcaica l’ordine è l’armonia originaria in cui tutto è già<br />

“com-preso”, per i Latini l’ordine è già diventato l’adeguazione al principio, nel<br />

senso che tutto deriva dal, ed è conseguenza del principio.<br />

E non si può, certo, confondere il principio, da ciò che deriva dal principio,<br />

perché sarebbe come confondere la causa con l’effetto. In questa trasformazione<br />

hanno avuto un ruolo fondamentale, come abbiamo visto, Platone e Aristotele, i<br />

quali hanno aperto le porte a tutte le conseguenze che si sono prodotte tra<br />

medioevo ed età moderna.<br />

IV) Razionalità<br />

Un altro “prodotto” della cultura latino-medievale è il concetto di “razionalità”.<br />

“Razionale” è ciò che è secondo “ragione” o ciò che ha una ragione (nel senso di<br />

una giustificazione), oppure ciò che è “logico”. Lo Zingarelli, tra le altre, riporta<br />

le seguenti definizioni: “ciò che si sviluppa per deduzione logica da principi”, e<br />

“fondato sulla scienza o su un procedimento scientifico”. Razionale allora è ciò<br />

che procede rettamente da un principio primo, da un fondamento. Ed è il frutto di<br />

una attività umana. Il concetto di razionalità mette bene in evidenza la funzione<br />

insostituibile della mente (che si può definire non a caso anche “ragione”) nel<br />

conseguimento della verità. Si tratta sempre di separare il vero dal falso, il<br />

corretto, dallo scorretto, si tratta sempre di stabilire con certezza la correttezza di<br />

una derivazione. La ragione permette di conseguire la verità. Razionalità,<br />

certezza, conoscenza, sono tutti termini che accompagnano la nascita e<br />

l’affermazione del “individuo”. Sono termini attraverso i quali si può esprimere<br />

la centralità che il “soggetto” riesce ad acquisire, in modo progressivo fino alla<br />

sua completa affermazione nel mondo moderno.<br />

262


Questa parola deriva dal verbo latino reor 281 il quale sta per giudicare, pensare,<br />

stimare o calcolare. Il calcolare è un “mettere in relazione” numeri con altri<br />

numeri. Infatti, ratio è il calcolo, la somma, il conto, ma anche il rapporto, la<br />

relazione, il legame.<br />

Ratio è anche la “ragione” nel senso di “causa”, o “motivo” (ad esempio: per<br />

quale ragione ti sei comportato così?), ed indica sempre una relazione anche se,<br />

in questo caso, di dipendenza tra la causa o il motivo, e l’effetto o la<br />

conseguenza.<br />

Ratio sta per “modo”, “maniera”, o per “sistema”, “metodo”, anche qui si<br />

manifesta il “relazionare”, o il “legare” secondo un determinata idea (cioè una<br />

ratio).<br />

Infine ratio vuol dire “progetto”, “piano”, quindi ha il significato di “dare<br />

ordine” a qualcosa secondo un fine, o per raggiungere un obiettivo.<br />

Reor e ratio possono, quindi, essere riferiti al concetto di relazione, o di rapporto,<br />

ma in un senso diverso da quello di lego. I significati attribuiti a ratio mostrano<br />

quanto sia cambiata la funzione dell’uomo all’interno della relazione tra sé e il<br />

suo mondo. La razionalità è una prerogativa dell’uomo, è ciò che lo distingue<br />

dagli altri animali. Grazie alla razionalità egli è in grado di scoprire i segreti del<br />

cosmo, e di costruire strumenti utili a migliorare la qualità della sua vita.<br />

L’attività razionale consente di capire i nessi, le relazioni tra le cose, consente di<br />

penetrarne l’intima essenza, di spiegare come si determinano certi fenomeni, di<br />

comprendere i legami di causa-effetto che si pongono tre gli eventi. Attraverso la<br />

ragione l’uomo cataloga, mette in successione, archivia, cerca di arrivare al<br />

perché delle cose. Appunto, la ragione è la facoltà umana che consente di<br />

rappresentare il mondo nelle sue esatte proporzioni, di comprendere le cause dei<br />

fenomeni, di conoscerle con sempre maggior precisione.<br />

Il calcolo matematico, e quello logico diventano il fondamento della scienza e<br />

della filosofia. La razionalità consente insomma di scoprire le cause che<br />

giustificano e spiegano tutto quello che ci circonda.<br />

281 Reor, reris, ratus sum, reri.<br />

263


È il rapporto che, ad un certo punto, l’uomo viene ad avere col suo mondo a<br />

spiegare la presenza della “razionalità”. Quando il cosmo diventa un oggetto<br />

d’indagine c’è bisogno di uno strumento che permetta di cercare con efficacia.<br />

La trasformazione di quelli che un tempo erano ritenuti legami sacri tra le cose,<br />

in rapporti meccanici e numerici, (comunque in qualche modo quantificabili e<br />

misurabili) è la conseguenza di questa nuova missione che l’uomo si assegna. Un<br />

tempo si ammirava la profonda armonia che esisteva tra le cose, in epoca<br />

moderna invece, si comincia a misurarla. Tutto e rappresentabile, tutto e<br />

riproducibile e quantificabile. Questo permette di scoprire e di usare, cioè di<br />

trarre vantaggio dalle cose della terra. Tutto diventa funzionale al calcolo, tutto<br />

deve poter essere espresso in termini numerici, in unità discrete, a totale<br />

vantaggio della specie umana. 282<br />

Ecco la trasformazione che subisce il concetto di logos tra antichità e modernità:<br />

da originaria relazione tra le cose, proprietà condivisa dagli elementi nel cosmo,<br />

manifestazione del raccoglimento originario e di armonia, a strumento di calcolo<br />

efficace nella ponderazione, e nella misurazione. Si passa cioè dall’idea del logos<br />

come manifestazione della concordanza profonda tra gli elementi del cosmo, a<br />

quella della ratio come capacità di far corrispondere, e di adeguare. Così il logos<br />

non è più la proprietà intrinseca del sistema cosmico, ma diventa una facoltà<br />

della mente umana. Non è più qualcosa di esterno all’uomo (qualcosa che<br />

addirittura lo comprende), ma diventa una sua prerogativa. Così cambia la<br />

funzione dell’uomo al cospetto dell’universo. Da testimone neutrale dello<br />

spettacolo cosmico, ad attore protagonista della sua rappresentazione.<br />

Come abbiamo visto, anche il legein greco, il raccogliere, è un mettere in<br />

relazione, quindi si può sostenere che vi sia una certa assonanza tra il “logico”<br />

che deriva da logos, e il “razionale” che deriva da reor. Ma bisogna tener ben<br />

presente la diversa natura delle due relazioni: da una parte la relazione è una<br />

derivazione, una corrispondenza tra modello e copia, dall’altra essa è una<br />

concordanza originaria tra ciò che si manifesta.<br />

282 Ecco perché in epoca moderna la ragione diventa l’idolo da venerare; perché attraverso di essa<br />

l’uomo può ambire a qualsiasi risultato, si può perfino paragonare al dio.<br />

264


In altre parole, la differenza tra l’accezione greca e quella latina sta, ancora una<br />

volta, nel modo di intendere questo “mettere in relazione”: da una parte è<br />

“manifestare un ordine raccogliente originario”, dall’altra, un dare, un stabilire,<br />

l’ordine, o addirittura un produrlo.<br />

Il verbo latino reor propende per la seconda alternativa, il lego greco<br />

(originariamente) per la prima. Resta il fatto che entrambi implicano la presenza<br />

di un “legame”, di una “relazione” tra i termini coinvolti.<br />

V) Il fondamento tra mondo antico e mondo classico<br />

Detto ciò, non si può tuttavia nascondere che, anche per i presocratici esiste<br />

qualcosa di originario da cui deriva la relazione, anche per loro esiste il<br />

fondamento unitario dal quale provengo tutte le cose. Ciò significa che tra il loro<br />

pensiero e quello che si esprime in lingua latina c’è sicuramente “differenza” ma<br />

non c’è capovolgimento completo. Tutto ciò che il mondo latino ha prodotto non<br />

costituisce una novità assoluta rispetto ai risultati raggiunti da quello greco.<br />

Persino Esiodo nella sua Teogonia parla del “caos” come “origine” degli dei.<br />

Esiodo, cioè, pone all’origine dell’ordine (cosmos), il disordine (caos).<br />

I filosofi presocratici sono convinti che ci sia “qualcosa” all’origine del mondo.<br />

Il loro obiettivo è appunto quello di trovare l’originario da cui tutto proviene, e<br />

che come tale, tutto accomuna. Qualcosa di ingenerato, unitario ed eterno a cui<br />

tutto e destinato a ritornare. La convinzione allora, da un certo punto in poi anche<br />

in Grecia, è che all’inizio si debba collocare un fondamento; “qualcosa” di<br />

inconcusso e principiale, da cui traggono origine le cose del mondo.<br />

I filosofi presocratici si pongono, quindi, come una sorta di spartiacque tra il<br />

mondo greco antico e quello classico. Sono loro infatti ad avviare quel tipo di<br />

265


icerca che poi verrà chiamata “scienza delle cause prime” , ed è questo tipo di<br />

speculazione a configurare di fatto un rapporto nuovo tra l’uomo e il suo mondo.<br />

È quel tipo di ricerca a produrre l’emancipazione e la “individuazione” della<br />

figura umana rispetto a ciò che la circonda. Perché l’uomo in grado di<br />

rappresentare il suo mondo, che sa carpirne i segreti, l’uomo capace di definire di<br />

“com-prendere”, l’uomo che sa spiegare il perché e il modo delle cose, è un<br />

essere che domina e che si sente superiore rispetto al suo altro.<br />

La filosofia comincia a cercare origini e fondamenti; e questa ricerca cambia<br />

aspetto nel corso del tempo: nei filosofi preplatonici si sente ancora l’influsso<br />

della cultura precedente; il cosmo viene ancora rappresentato come un sistema di<br />

concordanza e di armonia tra gli elementi che comprende anche l’uomo. 283 Il<br />

pensiero principale in quel periodo sta movendo solo i primi passi, il paradigma<br />

di pensiero usato non conosce ancora il concetto di “causa”, e quindi manca<br />

dell’idea della successione determinata; però si comincia ad usare il termine<br />

“archè” per indicare il “principio” ingenerabile e incorruttibile, e<br />

contestualmente l’elemento “comune” di tutte le cose: se tutte le cose derivano<br />

dall’uno, esse devono condividere qualcosa di comune. L’origine (archè) è,<br />

allora, sia principio che elemento comune (stoicheion).<br />

Per Talete questo principio è l’acqua; il suo discepolo Anassimandro, invece,<br />

afferma che principio di tutte le cose è apeiron. Anassimandro pensa, per primo,<br />

che l’origine del finito, del determinato, del limitato, deve essere l’indeterminato<br />

e l’illimitato; egli cioè per primo concepisce una “differenza ontologica” tra il<br />

principio e la sua conseguenza. E l’idea di una “differenza ontologica” tra<br />

generante e generato, è il fondamento di ogni successiva speculazione metafisica.<br />

Egli sostiene che l’archè (termine che probabilmente è stato lui a usare per<br />

primo) è trascendente rispetto alle cose generate in quanto ciò che comprende,<br />

ciò che contiene è necessariamente al di là di ciò che è compreso e contenuto. A<br />

tale principio Anassimandro dà il nome di “divino”. Ed egli spiega il perché del<br />

divenire e della morte: «Tutti gli esseri devono, secondo l’ordine del tempo,<br />

283 Ad esempio, il modo di intendere il logos di Eraclito sta lì a dimostrarlo<br />

266


pagare gli uni agli altri il fio della loro ingiustizia», cioè se apeiron raccoglie<br />

eternamente tutte le cose, esse nell’ordine del tempo sono accolte, quindi<br />

nascono. La nascita però e prevaricazione – hybris – di qualcosa su qualcos’altro.<br />

Allora, ciò che nasce deve per forza morire e far ritorno all’apeiron per pagare il<br />

fio della propria ingiustizia. Anassimandro pensa in questo modo, nel celebre<br />

frammento, il perché di nascita e morte. 284<br />

Allora l’apeiron è il primo esempio di “fondamento” della storia della filosofia.<br />

Ne riassume infatti le caratteristiche principali. Esso non ammette nulla prima di<br />

sé, è quindi ingenerato, non può avere né sviluppo né fine, proprio perché gli è<br />

estraneo qualsiasi limite, o determinazione. Da esso provengono tutte le cose, che<br />

invece proprio perché “nate”, devono morire, finire. Una “differenza ontologica”<br />

netta separa apeiron dalle cose generate.<br />

Eraclito dice che “tutte le cose sono uno” e che “tutte le cose si generano<br />

dall’uno”. Quindi, per lui la physis è sia stoicheion che archè. Egli sostiene che il<br />

logos è ciò che lega (raccoglie) tutte le cose. È la “legge” suprema che regge il<br />

tutto.<br />

È evidente che per questo filosofo il logos esprime l’armonia universale della<br />

quale l’uomo fa parte. Il logos è qualcosa di esterno all’uomo, qualcosa che lo<br />

comprende (l’impostazione cioè è ancora quella di Anassimandro).<br />

Ciò che è in comune ad ogni cosa, e che ne costituisce l’origine, è il polemos (la<br />

guerra, la contesa). Eraclito dice: «Ciò che è opposto unisce e ciò che diverge<br />

congiunge». E aggiunge: «La lotta è la regola del mondo e la guerra è comune<br />

“generatrice” e signora di tutte le cose». Tutti i contrari si originano da polemos.<br />

L’armonia allora non è la sintesi degli opposti, ma la loro opposizione. Il filosofo<br />

di Efeso, quindi, pensa si all’ordine come armonia, e al logos come legge<br />

suprema, ma sostiene anche che all’origine di ciò sta polemos, l’ archè originaria.<br />

284 Cfr I Presocratici, a cura di A. Lami, op. cit, pag. 139. La traduzione del celebre frammento qui<br />

riportata è in parte diversa: «… Principio… ha detto delle cose che sono l’indefinito… e i fattori da cui è<br />

la nascita per le cose che sono, sono anche quelli in cui si risolve la loro estinzione, secondo il dovuto,<br />

perché pagano l’una all’altra, esse, giusta pena ed ammenda della loro ingiustizia secondo la disposizione<br />

del tempo». C’è da notare che Anassimandro pur indagando sulla sua origine, considera ancora il cosmo<br />

una armonia divina, qualcosa di intangibile e quasi sacro, infatti definisce apeiron “to theion”, il divino.<br />

267


Anche Eraclito allora concepisce una struttura “gerarchica”: dal polemos<br />

derivano tutte le cose. 285<br />

E gli esempi potrebbero continuare, anzi, mano a mano che ci si avvicina<br />

all’epoca classica, si assiste ad un progressivo allontanamento dall’originario<br />

concetto di ordine come themis, e ci si avvicina a quello di “adeguazione”;<br />

quindi, alla struttura disposta in orizzontale, si sostituisce quella che si sviluppa<br />

in verticale. 286<br />

Ciò significa che non è del tutto corretto attribuire l’etichetta di “principiale” al<br />

solo pensiero latino. Anche i Greci pensano all’archè, come l’origine da cui tutto<br />

proviene (è chiaro che questi concetti acquistano la loro forma più netta<br />

soprattutto con Platone e Aristotele).<br />

La differenza tra gli uni e gli altri, sta nel rapporto che viene configurato tra il<br />

“principio” e la “conseguenza”. Sta, in altre parole, nella cogenza che viene<br />

attribuita al legame tra l’origine e la conseguenza. I Presocratici non pensano<br />

ancora l’archè come qualcosa che “determina” effetti e conseguenze, ma<br />

sicuramente come ciò che ha la capacità di generare senza essere generato, e che<br />

manifesta l’ordine originario raccogliente. 287<br />

I pensatori che si esprimono in latino, invece, credono in generale ad una<br />

relazione causale e deterministica tra il generante e il generato. 288<br />

285 Tutte le citazioni di Eraclito provengono da: I presocratici, a cura di A. Lami, op. cit., pagg. 198-237.<br />

286 Per l’interpretazione di questi pensatori ci siamo serviti, tra gli altri, ei seguenti testi: E. Severino, La<br />

filosofia antica, Rizzoli, 1990; N. Abbagnano, Storia della filosofia, primo volume, TEA, 1997; F.<br />

Laurenti, Introduzione a Talete, Anassimandro, Anassimene, Laterza, Roma-bari, 1986. M. Heidegger,<br />

Eraclito, Mursia.<br />

287 Tale “ordine manifestante raccogliente” è, comunque, un tipo di “archè”.<br />

288 Tale idea è si da attribuire alla loro speculazione, anche a quella svolta in ambito giuridico e politico,<br />

ma non si può ignorare – lo ribadiamo ancora una volta – che essa risente dei risultati del platonismo e<br />

dell’aristotelismo: il Demiurgo forgia il mondo “vincolato” dalle idee dell’Iperuraneo, ciò significa che il<br />

mondo viene “costruito” per imitazione, adeguandosi ad un modello esterno. Aristotele pone un “Motore<br />

immobile” che muove senza essere mosso, e lo chiama “causa prima”. E anche la causa aristotelica<br />

“determina” i propri effetti. Questo mostra che concetti come adaequatio, e rectitudo sono profondamente<br />

influenzati da queste filosofie.<br />

268


La differenza tra l’origine che “dona”, che lascia la spontaneità nelle<br />

conseguenze, è il principio che determina è enorme. Il fondamento della physis è<br />

di altro genere rispetto al fondamento della causa. Il primo da origine ad un<br />

ordine spontaneo, il secondo un ordine imposto.<br />

Abbiamo visto molte altre differenze, ad esempio, i due concetti di verità: come<br />

svelamento, o come adeguazione; insomma, il mondo greco è diverso dal mondo<br />

latino. Ma tutto ciò che la cultura latina ha prodotto era già in qualche modo<br />

prefigurato nella cultura precedente.<br />

Allora, l’ archè dei Greci può anche divergere dal principium dei Latini, ma<br />

sempre di un modo di intendere il fondamento si tratta.<br />

Schematizzando si possono individuare grossomodo tre fasi: la fase arcaica,<br />

durante la quale l’uomo si sente parte di un ordine divino pervasivo, nel quale<br />

egli si confonde; egli non si sente ancora “individuo pensante”; il cosmo è<br />

concepito come un’armonia sacra totalizzante, governata da themis e dike;<br />

questa è un epoca “pre-filosofica”, in cui l’uomo si sente in balia della volontà<br />

divina (ogni azione, ogni intrapresa, ad esempio, ha bisogno del supporto del<br />

dio); poi viene il periodo del pensiero presocratico, nel quale ci si comincia a<br />

chiedere da dove provenga tale ordine, quali caratteristiche abbia, come si sia<br />

costituito, e soprattutto, quale sia il ruolo dell’ “uomo” in questo contesto<br />

(Eraclito è uno dei primi pensatori ad usare il termine psychè con il significato di<br />

“spirito”, di “anima”, di centro motore delle azioni umane; sappiamo che Omero,<br />

ad esempio, attribuiva a questa parola un senso affatto diverso); ed infine, il<br />

momento nel quale si teorizza un rapporto di adeguazione tra un principio<br />

assoluto, stabile ed eterno, e la realtà terrena. Un sistema che l’uomo può<br />

rappresentare e riprodurre grazie alle sue facoltà razionali.<br />

Caratteristica particolare di questo sviluppo è proprio la progressiva<br />

individualizzazione conseguita dall’uomo. Il fatto che egli diventa sempre più<br />

riconoscibile, autonomo, indipendente; sempre più distinto rispetto a ciò che lo<br />

circonda.<br />

269


VI) “Risposta” ed “effetto”<br />

Una delle conseguenze notevoli che scaturisce dalla distinzione tra i due tipi di<br />

verità viste sopra riguarda i concetti di “effetto” e di “risposta”, e quindi, quelli<br />

di “domanda” e di “causa”. Il principio, dal quale deriva il giudizio vero, provoca<br />

conseguenze determinate, necessarie. Esso, infatti, funziona come una causa che<br />

produce effetti. L’aletheia invece, nella sua natura disvelante-occultante può<br />

tutt’al più stimolare risposte.<br />

Sia l’effetto che la risposta sono il frutto di una relazione, ma la relazione che<br />

coinvolge l’effetto è chiusa e determinata, sta già nella causa, nel senso che il<br />

rapporto causale è deterministico: ad una causa determinata non può che seguire<br />

l’effetto “corrispondente”. La relazione tra domanda e risposta è, invece, aperta e<br />

libera, flessibile e “complessa”. Certo, la domanda prevede una risposta, ma in<br />

quanto domanda, essa non costringe, essa non “ordina”. La causa dispone e<br />

impone, la domanda offre possibilità. Una domanda apre possibilità, una causa le<br />

chiude.<br />

Tra i due concetti di risposta ed effetto si ha la stessa differenza che esiste tra le<br />

due accezioni del verbo “ordinare”, che abbiamo già sottolineato: l’effetto è<br />

“ordinato” nel senso di imposto dalla causa (la causa è il principio che produce il<br />

movimento dell’effetto); la risposta raccoglie possibilità, mette in relazione,<br />

quindi manifesta e disvela nell’ “ordine” originario del logos.<br />

Le possibilità aperte dal domandare non sono, però, totalmente indeterminate,<br />

indefinite, non sono completamente “libere”, le risposte sono quelle consentite<br />

dal tipo di domanda, esse sono un insieme di possibilità “orientate”, cioè hanno<br />

un senso, una “direzione” verso la quale tendere.<br />

Una domanda apre un “contesto” (nel senso già visto di “trama”, o nel senso di<br />

“rete”), quindi raccoglie delle possibilità, e sta su di un “campo” di riferimento<br />

270


comune il quale condiziona le possibilità di risposta. 289 Allora, mentre la causa è<br />

principio e fondamento perché determina, la domanda non fonda ma<br />

semplicemente “apre” (aprire non è né creare, né produrre).<br />

La causa è autonoma nei confronti dell’effetto, cioè lo produce solo in virtù della<br />

sua natura, della sua forza, e quindi la relazione causa-effetto è indipendente da<br />

qualsiasi contesto, o ambiente di riferimento; invece, la domanda non può<br />

prescindere dal contesto che condivide con la risposta; perché la domanda possa<br />

raggiungere la risposta, nel senso di ottenere la risposta, ci deve essere un<br />

ambiente – milieu – in comune. Quindi, il domandare non è mai isolato (come<br />

invece è la causa) ma è, a sua volta, in relazione ad un contesto di riferimento,<br />

solo all’interno del quale può darsi risposta. A sua volta, il contesto non può<br />

prescindere dal continuo darsi di domande e risposte, esso è contesto “di”<br />

domande e risposte, non contesto sul quale avvengono domande e risposte. Non è<br />

possibile “separare” il contesto dal “colloquio”, più di quanto non sia possibile<br />

dividere un libro dal suo “contenuto” (o per citare l’esempio di Dewey il<br />

“mercato” dai suoi “contraenti”).<br />

Il contesto come abbiamo visto non è un contenitore autonomo ma è correlato al<br />

suo testo. Essi vivono di osmosi reciproca, essi si influenzano reciprocamente.<br />

C’è contesto in quanto c’è domandare, e il domandare si dà nel modo permesso<br />

dal contesto. Il libro è il suo contenuto, il mercato è l’insieme dei contraenti, il<br />

contesto è l’insieme di domande e risposte.<br />

In altre parole, ciò che permette la “sintonia” tra domanda e risposta è l’ “humus<br />

comune”, le stesse possibilità aperte dal domandare sono relative a tale humus,<br />

ma anche l’humus si dà e si configura nel modo permesso dalla relazione tra<br />

domande e risposte.<br />

La causa, invece, non ha bisogno del humus comune per costituirsi, né l’effetto è<br />

in nessun modo condizionato dal contesto di riferimento.<br />

Di più, tra domanda e risposta c’è una relazione di reciprocità in quanto una<br />

domanda per essere tale ha bisogno della risposta (che può anche essere il<br />

289 Lichtung è il termine usato da Heidegger per indicare la “radura” nella quale e secondo la quale si<br />

dà l’essere.<br />

271


silenzio), mentre tra causa ed effetto c’è solo una relazione di dipendenza:<br />

l’effetto deriva interamente e necessariamente dalla causa. Ciò ricorda la<br />

differenza tra l’ordine come “raccoglimento manifestante armonia”, nel quale le<br />

relazioni sono di reciprocità: non si dà nulla di autonomo e indipendente dal<br />

resto, ogni cosa è in funzione di tutte le altre; e l’ordine come adeguazione al<br />

principio per il quale si danno solo relazioni di subordinazione; e quindi il<br />

principio, conservando la sua autonomia, ha un ruolo esclusivamente causativo-<br />

produttivo nei confronti dell’effetto.<br />

Commentando Heidegger, nella prima parte, abbiamo già messo in luce la<br />

diversa natura dei due tipi di “fondamento”. Ma abbiamo anche detto che<br />

nessuno dei due può essere considerato “ecologico”. Il legame che lega la causa<br />

all’effetto è molto più stretto, di quello che lega la physis a “ciò che si<br />

manifesta”, però la “direzione” imposta da entrambi non è relazionale e mutua,<br />

ma lineare e sequenziale. In entrambi i casi il fondamento si distingue per la sua<br />

indipendenza rispetto a ciò che fonda, e la direzione è sempre dal primo verso il<br />

secondo; l’ “ecologia” invece si ottiene solo con la completa e contestuale<br />

reciprocità ed evenemenzialità dei termini coinvo lti.<br />

Per chiarire meglio la questione possiamo ritornare al tema della “mondità” in<br />

Heidegger: particolarmente perspicuo è il concetto che egli esprime in<br />

Introduzione alla Metafisica, a proposito della polis. Egli sostiene che: «La polis<br />

è il luogo, il “ci” (Da), in cui e per cui l’esserci (Dasein) storicamente sussiste.<br />

La polis è il luogo della storia, il “ci” nel quale, dal quale, e per il quale la storia<br />

accade. A siffatto luogo della storia appartengono gli dei, i templi, i preti, le<br />

feste, i pensatori, i re, il consiglio degli anziani, l’assemblea popolare, l’esercito e<br />

le navi. Tutto questo appartiene alla polis, è politico, non perché abbia a che fare<br />

con qualche uomo di stato, con un qualche stratega, o con gli affari di stato. Al<br />

contrario, tutto ciò è politico, vale a dire situato nella storia…». 290<br />

290 M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica, op. cit., pag. 160.<br />

272


Questa citazione è importante perché il modo nel quale Heidegger, definisce la<br />

polis si situa a mezza strada tra i significati che qui sono attribuiti, da un lato, a<br />

principio, e dall’altro, a contesto. Per Heidegger la polis è il luogo della storia e<br />

come tale è il “fondamento e il luogo” sul quale poggia il Dasein. In questo<br />

modo, l’esserci dipende anche se non ne è totalmente determinato dalla polis.<br />

Cioè, la polis non è un “principio” (perché non è “causa”) del Dasein, nel senso<br />

che egli agisce liberamente e volontariamente nella storia, ma la polis è il<br />

riferimento delle azioni e dei pensieri del Dasein. Non c’è per Heidegger<br />

reciprocità, e quindi la relazione tra loro, è di dipendenza. Heidegger poco più<br />

avanti scrive che: «Gli uomini eminenti in sede storica sono “apolidi”, senza<br />

città, solitari, senza casa e senza legge, senza istituzioni né frontiere, per il fatto<br />

che in quanto creatori debbono sempre di nuovo “fondare” tutto ciò». Questo<br />

significa, che l’esserci non solo e non sempre dipende dalla polis, ma nei casi<br />

“eminenti”, ne può essere il “fondatore”. Per il filosofo tedesco, allora, si tratta<br />

sempre di fondare o di essere fondati, così egli rivela di non aver completamente<br />

superato quella impostazione “metafisica” che fin da “Essere e tempo” si era<br />

imposto invece di demolire. In altre parole, quest’opera, pubblicata otto anni<br />

dopo “Essere e Tempo”, dimostra di conservare ancora una visione<br />

trascendentale del rapporto tra il Dasein e il mondo (anche se qui il rapporto di<br />

dipendenza risulta invertito).<br />

Nel Parmenide (che è il testo di un corso tenuto tra il 1942 e il 1943), Heidegger<br />

ritorna sul concetto di polis – nella parte dedicata alla Politeia di Platone – e<br />

scrive, tra le altre cose: «La polis è il sito essenziale dell’uomo storico. L’essenza<br />

della polis, la politeia, non è essa stessa determinabile in termini “politici”. La<br />

polis è tanto poco qualcosa di “politico”, quanto lo spazio stesso è qualcosa di<br />

spaziale». 291 Anche in questo caso Heidegger ragiona in termini “metafisici”<br />

usando un argomentazione di ascendenza aristotelica: Egli dice che la polis è ciò<br />

che fonda il politico e non può quindi essere definita essa stessa “politica”: se il<br />

fondamento è ciò che “fa essere” vero qualcosa, non può esso stesso essere<br />

291 M. Heidegger, Parmenide, op. cit., pag. 180<br />

273


definito “vero”; oppure, se l’essere è ciò per cui le cose “sono” esso stesso non<br />

può “essere” (“l’essere è il topos di tutto l’ente”). 292<br />

Qui vengono dette due cose importanti: primo, che è necessario dividere tra ciò<br />

che fonda e ciò che viene fondato, tra un “iniziale” e un “successivo”, secondo<br />

che il fondamento è l’in-fondato (Ab-grund) che fa essere qualsiasi cosa: lo<br />

“spazio” non ha una natura “spaziale”, ma è l’essenza della spazialità, è, quindi,<br />

ciò che fa esiste l’estensione. Cioè, prima viene il fondamento, poi tutto il resto.<br />

Dall’indeterminabile e dall’indeterminato “proviene” il determinato aveva detto<br />

Anassimandro. Questa è un ulteriore conferma dell’apriorismo del pensiero<br />

heideggeriano. Se vogliamo giustificare l’ente, dobbiamo trovare ciò che lo fa<br />

essere, altrimenti ha ragione Leibniz: “perché l’essere e non il nulla?” Quando<br />

Heidegger dice che la metafisica occidentale ha dimenticato la questione<br />

essenziale, “l’essere”, ciò per cui le cose sono, e che è necessario tornare su tale<br />

questione, si pone forse un problema diverso da quello postosi da Platone e da<br />

Aristotele? Qual è il problema in discussione nelle Meditazioni di Cartesio, nella<br />

Critica della ragion pura di Kant, o nella Fenomenologia di Hegel?<br />

A tutti questi filosofi, Heidegger imputa di non aver saputo cogliere il “senso<br />

originario” della questione dell’essere, di non aver pensato fino in fondo il<br />

pensiero delle origini, e quindi, di non aver intrapreso un pensiero abbastanza<br />

originario; ma erano forse diverse le accuse che ad esempio i moderni mossero<br />

agli antichi? L’incapacità di cogliere l’essenza vera, il fondamento originario non<br />

è forse l’accusa più comune in ambito metafisico?<br />

Heidegger scrive anche: «La polis non è né la città né lo Stato, quanto piuttosto<br />

la località del luogo della storia della grecità. Non è città né Stato, ma è senza<br />

dubbio il sito dell’essenza del mondo greco». 293 Quindi, otto anni dopo aver<br />

pubblicato Introduzione alla metafisica, ritorna l’idea dell’ “essenzialità” del<br />

292 Aristotele sostiene che non si può dimostrare la verità del principio di non contraddizione perché<br />

esso è ciò per cui esiste il vero<br />

293 M. Heidegger, Parmenide, op. cit., pag 171<br />

274


luogo della polis per il farsi della storia dell’uomo. Cioè egli continua a proporre<br />

rapporti di dipendenza e di derivazione.<br />

La polis, invece, non ha il potere di “fondare”, né i grandi spiriti possono<br />

fondarla. L’uomo, l’esserci, non può essere effetto di una causa o provenire da un<br />

fondamento (di qualsiasi tipo sia questo fondamento), né del resto, egli può<br />

essere causa della polis. La polis è l’insieme delle relazioni e degli eventi che<br />

caratterizzano quel luogo determinato. La polis è il contesto che raccoglie<br />

domande e risposte. La polis è la manifestazione del logos di un popolo; è, in<br />

altre parole, la manifestazione di ciò che lega e del modo in cui si raccoglie un<br />

certo popolo. 294<br />

La polis è la manifestazione, sempre in itinere, dei colloqui che “ospita”, essa è<br />

l’insieme di quei colloqui. La relazione è mutua, così, se i colloqui si configurano<br />

nel modo della polis, a sua volta, la polis si dà nei colloqui che vi si svolgono.<br />

Tra i termini di questa relazione c’è solidarietà e influenza reciproca. Il rapporto<br />

tra polis ed “esistenze” è dello stesso tipo di quello visto sopra, tra contesto è<br />

testo.<br />

Allora, non ci può essere l’ “uomo eminente senza leggi, istituzioni e frontiere”,<br />

l’ “apolide che, in quanto, creatore deve fondare tutto ciò”. Perché, per quanto<br />

profonda sia la sua “risposta”, egli non può che dare “risposte” alle domande che<br />

lo interpellano; per quanto rivoluzionaria sia la sua azione, essa non può<br />

prescindere dal contesto che la “ospita”; l’uomo, per quanto “eminente”, è<br />

sempre nel modo della relazione con la polis, anzi la sua stessa “eminenza” è<br />

stabilita solo in relazione alla (e dalla) polis che lo ospita.<br />

L’idea dell’uomo cosmico che agisce sulla città fondandola, assomiglia<br />

fortemente all’idea moderna del soggetto che agisce dall’ “esterno” sull’oggetto,<br />

e che è in grado di produrre e di determinare, proprio come la causa col suo<br />

effetto.<br />

294 Ma il rapporto non è quello tra un contenitore (il vaso) e il suo contenuto (acqua), infatti, qui<br />

raccogliere sta per “manifestare”.<br />

275


D’altra parte, la polis non è “fondamento e luogo dell’esserci dell’uomo stesso”,<br />

perché essa “è” solo nel momento in cui manifesta i colloqui delle esistenze, non<br />

è fondamento dell’uomo perché essa vive dei colloqui degli uomini. Essa si dà<br />

come raccoglimento, come insieme di relazioni dinamiche, in continua<br />

evoluzione; essa è ciò che accade in un certo luogo, essa è ciò che si manifesta e<br />

nel modo in cui si manifesta in quel luogo; non c’è un sostrato chiamato polis che<br />

tiene insieme gli uomini, che li fa essere cittadini, più di quanto la polis stessa<br />

non dipenda dal darsi delle loro relazioni.<br />

Il suo essere “si fa” contestualmente a quello delle esistenze (e “si fa” delle<br />

esistenze) che “ospita”. Non c’è polis senza esistenze, mentre c’è contenitore<br />

senza contenuto. Anche il venir meno di un colloquio trasforma la polis, perché<br />

essa è un insieme di eventi; ed è nel modo in cui questi si manifestano. La polis è<br />

la “complessità” delle relazioni che vi si svolgono, e non può prescindere da esse.<br />

Allora, l’uomo è chiamato a rispondere e, per quanto profonda sia la sua risposta,<br />

(per esempio quella di Heidegger stesso) egli dà solo una risposta, e in questo<br />

modo si pone in relazione all’altro nel modo che gli è concesso dal “campo”, dal<br />

contesto, nel quale viene accolta tale risposta. A sua volta, la sua risposta apre<br />

possibilità, cioè si trasforma in domanda, in apertura, per interrogazioni<br />

successive (cioè essa va a modificare il contesto).<br />

La sua non è un’azione “soggettiva”, individuale, su di un ambiente estraneo, non<br />

è un’azione di un ente autonomo su altri enti, non è un’azione che produce<br />

conseguenze su qualcosa di esterno; ma egli è l’artefice dell’azione del mondo,<br />

sul mondo, nel mondo (egli è “ambasciatore” sia nel senso di colui che pone in<br />

essere dei legami, delle relazioni che raccolgono, sia e nello stesso tempo, come<br />

agente che compie azioni “in vece di”). Egli è coinvolto e nello stesso<br />

coinvolgente. Egli è nel mondo, nel senso che non può prescindere dall’apertura<br />

del mondo, ma tale apertura è la sua apertura, essa è in sua funzione. L’azione è<br />

sul mondo perché tramite la sua apertura, e la sua risposta, essa determina nuove<br />

aperture, essa cambia il contesto sul quale agisce, cioè il contesto non è neutro<br />

rispetto all’azione dell’esserci, anche perché il protagonista dell’azione non è il<br />

276


“soggetto” (come inteso dalla filosofia moderna), ma è lo stesso mondo: l’azione<br />

è del mondo. E ogni azione avviene nel modo dell’evento. Le relazioni e i<br />

termini sono circoscritti nell’ambito dell’evento, non sopravvivono ad esso.<br />

È questa la differenza tra il binomio “domanda-risposta” e quello tra “causa-<br />

effetto”. La prima coppia da l’idea di una rete complessa di relazioni<br />

evenemenziali, che si influenzano reciprocamente; la seconda, di una catena<br />

sequenziale di fenomeni che si svolgono in successione, a partire da un’origine<br />

data.<br />

Qualsiasi uomo, anche Heidegger, è chiamato in campo, nel senso che è<br />

chiamato a rispondere al mondo, dal mondo. Quelle di Heidegger sono risposte<br />

alle domande del mondo, articolate sulla sua comprensione, quella permessa<br />

dalla apertura del suo esserci.<br />

Tali risposte, a loro volta, costituiscono domande, e quindi aperture di possibilità<br />

nuove, per tutti quelli che incontrano il suo pensiero, per tutti quelli che si<br />

intrattengono con Heidegger.<br />

L’ “apertura di mondo” di chi legge Heidegger è diversa da quella di chi non lo<br />

legge (quindi l’ “apertura” non può prescindere dall’esistenza). Heidegger<br />

chiama a delle risposte che a loro volta si trasformeranno in altre domande. Ma<br />

Heidegger è nel mondo, egli non costituisce il fondamento di una nuova epoca, e<br />

non perché il pensiero di Heidegger non sia sufficientemente profondo o<br />

innovativo, ma perché non è data a nessuno la possibilità di diventare<br />

“fondamentale”: sono solo le esigenze tassonomiche degli storici che portano ad<br />

individuare “rivoluzioni”, “cambiamenti epocali”, “trasformazioni radicali”. Solo<br />

a posteriori si possono ricostruire gli eventi in modo da far diventare il pensiero,<br />

o l’azione di qualcuno fondante o “principiale”. Solo la storia può far diventare<br />

qualche evento un momento fondativo, l’origine di una certa epoca. Solo la storia<br />

può legare gli eventi in modo sequenziale, perché essi in realtà non costituiscono<br />

mai sequenze determinate di fatti. Non ci sono nessi causali tra eventi differenti;<br />

la relazione che li lega è molto più complessa. È talmente complessa da<br />

permettere agli storici molteplici ricostruzioni e nessuna previsione. Ogni<br />

277


icostruzione storica è un tentativo di mettere in ordine certi fatti, è<br />

un’interpretazione che viene data a certi avvenimenti, la quale è sempre<br />

condizionata da molti fattori (politici, economici, ideologici). Ogni ricostruzione<br />

è sempre molto controversa, e comunque sempre opinabile, proprio per la sua<br />

astrattezza.<br />

Certo, può essere molto utile questo tipo di ricostruzione, ma essa è solo una<br />

“griglia”, o una “cornice”, che si mette sopra qualcosa per farlo apparire in un<br />

certo modo.<br />

La rivoluzione copernicana fu resa possibile da una notevole quantità di scoperte<br />

che avevano già messo profondamente in discussione l’impianto “tolemaico”;<br />

Copernico aggiunse, forse, l’ultima goccia in una brocca che era già pie na. La<br />

Relatività speciale fu resa possibile dalle scoperte di fisici quali Faraday,<br />

Maxwell, Planck, che prepararono il terreno ad Einstein. La Relatività generale,<br />

e il concetto di “spazio” che essa propone, ha un forte debito nei confronti della<br />

geometria di Riemann. 295<br />

Le rivoluzioni epocali non le fanno i filosofi, gli scienziati, o i politici, ma sono<br />

fatte dagli storici che interpretano e ordinano gli eventi in un determinato modo.<br />

Così ognuno di noi sta al mondo, nel modo della risposta alle domande che la sua<br />

apertura gli permette.<br />

Il pensiero di Heidegger apre straordinarie prospettive, dà la possibilità di<br />

rispondere in modo nuovo all’appello del mondo, ma non è né il principio, né il<br />

fondamento di una nuova epoca. Anche perché, il pensiero di Heidegger si<br />

interpreta, gli si possono dare, e gli sono state date, diverse letture, mentre il<br />

fondamento non dà scampo, determina in modo univoco. L’effetto è diverso e<br />

disgiunto rispetto alla sua causa, mentre le risposte ad un pensatore non sono<br />

determinate, sono aperte, sono risposte ad un interlocutore. E in un colloquio, io<br />

295 Secondo la quale, non esiste nessuna parallela ad una qualsiasi retta data, e non è la retta la distanza<br />

più breve tra due punti, bensì la “geodetica”, al contrario di ciò che dicono i postulati di Euclide. Per<br />

Riemann lo spazio non è un ente determinabile a priori, ma si configura in “relazione” ai fenomeni che lo<br />

coinvolgono (a differenza di quello che pensavano Newton e Kant). Questi concetti sono tutti usati, e<br />

implementati, nella teoria di Einstein.<br />

278


sono chiamato in causa dal mio interlocutore tanto quanto l’interlocutore è<br />

chiamato in causa da me. Nella mia lettura, egli viene interpellato nella misura in<br />

cui lui stesso mi chiama a rispondere, e in ragione del fatto che io rispondo per<br />

quanto posso alle sue sollecitazioni. Io interpreto il suo pensiero, quindi tra me e<br />

lui si crea una relazione paritetica; e ciò vale per tutte le domande alle quali<br />

rispondo. Domanda e risposta si influenzano reciprocamente, sono una in<br />

relazione a quell’altra. È vero che non ci può essere risposta senza domanda, ma<br />

è altrettanto vero che, la domanda è tale solo se riceve risposta, altrimenti è<br />

un’altra cosa. Esse sono una in funzione dell’altra. E come la domanda<br />

suggerisce, mostra, l’ambiente della risposta, così il tipo di risposta indica,<br />

mostra, la struttura, il peso, della domanda.<br />

Allora, il mondo ci accoglie nella misura in cui ci si fa accogliere. “Siamo”, “ci<br />

comprendiamo”, nella relazione col mondo, ma anche il mondo “è” in relazione<br />

alla (nel modo della) comprensione.<br />

Di “principi” e “fondamenti” (nel senso di qualcosa di inconcusso, di stabile e<br />

principiale) non ce ne sono; non ci sono rapporti causali e relazioni di dipendenza<br />

tra enti, tra fatti, tra fenomeni o tra epoche.<br />

279


VII) Tre livelli di approccio<br />

Abbiamo così incontrato tre livelli di approccio al problema del fondamento: Al<br />

primo livello si possono collocare i pensatori che credono nell’esistenza di<br />

fondamenti che “determinano”, e “causano”, i propri effetti. Qui il rapporto tra<br />

origine e conseguenze è, quindi, deterministico, causale. Sono tali le idee di<br />

Platone, la causa prima di Aristotele, il soggetto cartesiano, i trascendentali<br />

kantiani, ecc.. Al secondo livello troviamo i filosofi che hanno, si, posto delle<br />

origini, ma esse non determinano causalmente le loro conseguenze. Il<br />

fondamento sta, intangibile, all’origine, ma ciò che da esso promana non è<br />

completamente determinato. Fanno parte di questo livello la physis presocratica<br />

(tra cui l’ apeiron di Anassimandro) e l’ “essere”, di Heidegger.<br />

L’ultimo livello tenta un approccio, che abbiamo definito “ecologico” al<br />

problema del fondamento, secondo il quale non è possibile, e nemmeno<br />

opportuno, configurare rapporti di dipendenza, di nessun genere, tra le cose del<br />

mondo (non è nemmeno possibile separarle, ma questo verrà chiarito meglio in<br />

seguito). Il mondo, infatti, è un unico grande sistema di “elementi” che non sono<br />

né dipendenti, né indipendenti, ma “sono”, si costituiscono, nella relazione<br />

reciproca.<br />

E l’azione umana non è “indipendente” o “individuale” nel mondo, ma è azione<br />

del mondo, tramite gli elementi del mondo (è “sistemica”), ed ha carattere<br />

“evenemenziale”. Così, qualsiasi cambiamento, o variazione, implica un<br />

“riorientamento” complessivo del mondo, che trova in questo modo un equilibrio<br />

dinamico, che si fa nel tempo, per ogni evento, al suo interno.<br />

L’uomo non può agire come “soggetto” nel mondo, non può agire considerando<br />

il contesto nel quale opera indifferente alla sua azione. Perché così non è. È solo<br />

una visione ingenua che porta a considerare, gli enti indipendenti uno dall’altro,<br />

tutti questi indifferenti rispetto al contesto, e l’azione individuale produttiva di<br />

“effetti”. L’azione dell’uomo non “causa”, ma “risponde”. 296<br />

280


I pensatori presocratici erano vicini al terzo livello perché non conoscevano il<br />

concetto di causa e pensavano all’ordine come armonia ed equilibrio. Ma non<br />

riuscirono a pensare completamente la reciprocità tra gli elementi nella totalità<br />

del mondo, e non colsero la sua natura “evenemenziale”. Essi cercavano<br />

comunque l’origine del cosmo. Essa poteva essere la terra, o l’acqua, l’aria, o il<br />

fuoco ma sempre di origine si trattava. A questa impostazione non sfuggono<br />

nemmeno l’apeiron di Anassimandro e il polemos di Eraclito. Certo essi<br />

parlavano di logos e di dike come ordine raccogliente manifestante, come<br />

armonia ed equilibrio, ma ponevano sempre la necessità di un “presupposto” (di<br />

un apriori) a tale ordine.<br />

Superare la metafisica non è superare il realismo antico, o l’idealismo moderno,<br />

ma andare oltre i presupposti che li accomunano. La metafisica è la storia del<br />

dualismo tra generante e generato, tra mente e mondo, è la storia del principio di<br />

causa, è la storia dei fondamenti, e delle origini concepiti nei modi più diversi.<br />

Dall’ “essere” di Parmenide, alla causa prima aristotelica, ai trascendentali<br />

kantiani, fino ai nomi semplici russeliani, la filosofia ha sempre cercato di<br />

trovare “fondamenti in-fondati” e “originari” per spiegare il come o il perché del<br />

mondo e dell’uomo, il come e il perché della sua conoscenza. La filosofia ha<br />

cercato condizioni di possibilità, apriori, idee, sulle quali “fondare” le risposte ai<br />

quesiti che si poneva.<br />

Ciò che accomuna tutte queste esperienze è, in altre parole, il modo<br />

dell’argomentazione, il procedimento, il metodo. Tutte loro infatti<br />

presuppongono l’esistenza di un fondamento, di un’origine, dalla quale non si<br />

può prescindere (anche se è molto diverso il modo di intendere tale origine).<br />

Da Aristotele ad Heidegger, non si è mai messa in discussione l’idea<br />

dell’esistenza di un qualche principio o fondamento. Tutti gli oggetti trovano<br />

un’origine, o una causa, sia quelli naturali, che quelli prodotti dall’uomo; noi<br />

nasciamo, siamo quindi preceduti da qualcosa che, in qualche modo, sta a<br />

fondamento, o ci può spiegare il perché, della nostra esistenza; il mondo stesso<br />

296 L’azione causale, che vuole produrre effetti, si ritorce contro chi la fa, perché ad un azione di questo<br />

tipo il mondo risponde sempre nel modo del mantenimento dell’equilibrio.<br />

281


ha avuto un’origine, quindi qualcosa che lo ha preceduto: il fondamento, in<br />

questa prospettiva e fondamentale!<br />

L’essere di Heidegger, “ciò che c’è di più originario e di più essenziale” non fa,<br />

in questo senso, eccezione.<br />

La difesa di chi sostiene che la derivazione ontologica è diversa dalla derivazione<br />

temporale non è molto persuasiva, in quanto il problema non sta nella natura<br />

della dipendenza (il suo essere ontologica, o logica piuttosto che temporale) ma<br />

nel significato stesso della “dipendenza”. “Di-pendere”, vuol dire “trarre<br />

origine”, “essere conseguenza di”, “subire l’autorità di”; anche se si cerca di<br />

escludere il rapporto temporale tra condizione e condizionato, rimane sempre la<br />

di-pendenza. C’è sempre il moto da luogo, lo scaturire da, che pone la necessità<br />

della subordinazione del dipendente dall’indipendente (perché se tra le cose ci<br />

sono rapporti di dipendenza, bisogna porre un primus indipendente altrimenti si<br />

regredisce all’infinito). In questo tipo di struttura (quella lineare e gerarchica)<br />

bisogna ammettere un che di originario dal quale viene tutto il resto.<br />

Ma il mondo deve per forza avere un “fondamento infondato”? È possibile<br />

cercare qualcosa come l’ “origine originaria”? È possibile, o opportuno, costruire<br />

la vicenda cosmica nei termini di una catena di dipendenze da “qualcosa” di<br />

originario e inconcusso? C’è la necessità di sostenere che oltre il finito c’è<br />

l’infinito, facendo così “dipendere” (derivare) l’infinito dalla presenza del finito?<br />

Non è paradossale tutto ciò?<br />

Non si può dire semplicemente che il nostro “essere” “si dà” e “si fa” nel<br />

nostro modo di stare al mondo - “è” il nostro modo di stare al mondo; e l’idea<br />

dell’origine originaria non è che un modo di interpretare il nostro stare al<br />

mondo? E che allora, non c’è altro “essere” che i diversi modi di stare al<br />

mondo?<br />

In questo modo viene, ancora una volta, messa in evidenza la natura relazionale<br />

della questione che stiamo svolgendo.<br />

Il problema diventa, allora, quello di capire cosa si intende per “stare al mondo”.<br />

282


VII) L’ “io”, il “mondo”, la parola<br />

Noi stiamo al mondo nel modo della risposta alle sue sollecitazioni, e nel<br />

momento della risposta il nostro “io” e il nostro “mondo” vengono a combaciare,<br />

diventano due aspetti della stessa realtà. Sono un unico “evento”. Nella risposta<br />

l’io che risponde, e il mondo che interroga si fondono (combaciano), essi sono<br />

due modi di considerare la stesso evento, perché in fin dei conti, le risposte al<br />

mondo, è il mondo stesso che le dà, per bocca degli uomini.<br />

E prima della risposta? Non si dà né un prima, né un dopo, a questa relazione!<br />

Perché essa è parola, è colloquio; e il colloquio è l’evento della parola: ci può<br />

essere “umanità” al di fuori dell’evento della parola?<br />

La parola, può essere intesa come qualcosa che dà origine; la parola è<br />

manifestazione; gli uomini entrano in relazione, comunicano, attraverso di essa,<br />

quindi la parola mostra e nello stesso tempo raccoglie, essa è l’origine della<br />

convivenza tra gli uomini. 297<br />

Allora, si può forse sostenere che la parola è “origine” nel senso di<br />

“fondamento”? La parola genera, ma nella stesso tempo è generata; anch’essa<br />

vive del rapporto tra “io” e “mondo”, al di fuori del quale, non sarebbe nemmeno<br />

concepibile: essa è “prodotto” e “origine” di questo rapporto: la parola è il modo<br />

di darsi della relazione “io-mondo”, ma nello stesso tempo è anche il risultato di<br />

questa relazione. La parola manifesta la relazione, (il dire “raccoglie”, nel senso<br />

che dà ordine e permettere così, la manifestazione) sempre però, attraverso chi la<br />

pronuncia. Per i Greci, ad esempio, la parola è logos: ciò che manifesta<br />

raccogliendo. Allora, Ci può essere “realtà” al di fuo ri dell’evento della parola?<br />

Il mondo del bambino appena nato è confusione e disordine, fino a quando egli<br />

non acquista la parola; il mondo del bambino che dice “mamma” coincide con la<br />

sua mamma; e così, questo mondo si arricchisce in relazione alla sua capacità<br />

297 La parola riveste il significato di origine, soprattutto nella tradizione ebraico-cristiana, per la quale<br />

Dio si dà agli uomini proprio come parola. Cfr, in particolare il Vangelo di Giovanni che nel prologo<br />

dice: «In principio era la parola, e la parola era presso Dio, e la parola era Dio».<br />

283


linguistica. E come il bambino prende consapevolezza del fatto di essere un’<br />

“esistenza comprendente”?<br />

In altre parole, in che modo si rende conto di “essere” e di “esistere”, come<br />

persona? Come acquista consapevolezza di sé, se non attraverso i discorsi che lo<br />

coinvolgono, le persone che incontra, l’educazione che riceve? E come cambia,<br />

matura, si arricchisce questa consapevolezza di sé e del mondo, se non attraverso<br />

la parola?<br />

Il nostro “essere” si costituisce nel modo della relazione evenemenziale, solidale<br />

e reciproca tra noi e il mondo, “nel mentre in cui”, anche il nostro “mondo” si<br />

costituisce nella stessa relazione reciproca. Tutto ciò è un farsi reciproco e<br />

contestuale. Quindi, dire “io” significa considerare la cosa da un certo punto di<br />

vista, dire “mondo” equivale a vedere la stessa cosa da un altro punto di vista,<br />

dire “essere”, significa esaminarla da un'altra prospettiva ancora, ma è sempre<br />

della medesima cosa che si parla (ricorrendo ad una metafora si può dire che una<br />

faccia della medaglia è l’“io”, l’altra è il “mondo”, la medaglia è l’ “essere”).<br />

Questo implica che noi “dipendiamo” dal mondo, nella misura in cui esso<br />

“dipende” da noi, perché il mio io si fa contestualmente e reciprocamente al farsi<br />

del mondo.<br />

Ciò che indubbiamente ci accoglie non acquista forse “senso”, “consistenza”, in<br />

relazione a quanto noi siamo in grado di dargliene, grazie alle parole? Il mondo<br />

ha le sembianze che ogni persona gli dà, sulla base di ciò che ha appreso e di<br />

come lo ha appreso, sulla base della qualità e della quantità delle relazioni che lo<br />

coinvolgono. E, allora, qual è la “consistenza” di ciò che ci accoglie a<br />

prescindere da noi stessi, e dai nostri discorsi? 298<br />

In questo modo, posso dire che il “mondo” è l’ “insieme indefinito” (e in<br />

continua evoluzione) dei “rimandi” dell’ “io”, nel senso di ciò che sta in<br />

relazione costitutiva e imprescindibile con l’ “io”. È l’insieme delle relazioni, o<br />

delle possibilità, aperte dall’uso di qualsiasi parola: se dico “albero”, apro<br />

possibilità di relazione con altre parole, ad esempio con legno, foglie, rami,<br />

298 Ciò ricorda la relazione tra testo e contesto di cui ci siamo occupati in precedenza.<br />

284


adici, montagna; a loro volta, queste parole aprono possibilità di altre relazioni<br />

con altre parole e così via. E albero, non è per tutti lo stesso albero. Perché la<br />

stessa parola non ha per tutti lo stesso valore, le stesse sfumature, la stessa<br />

profondità (pur avendo lo stesso significato).<br />

Parlando, l’io si mette in relazione grazie ai rimandi delle parole; “mettendosi in<br />

relazione con”, egli “esiste”. D’altra parte, l’io non è un essere che possiede<br />

parole, ma è un “essere di parole”, quindi l’uso delle parole non è una condizione<br />

per l’esistenza dell’ “io”, ma è l’ “io” stesso (non bisogna confondere, infatti, l’<br />

“organismo” dell’ “io”, con l’ “io”) . Il mondo, dal canto suo, si configura<br />

proprio come l’insieme indefinito (o meglio, come l’indefinita possibilità) dei<br />

rimandi dei discorsi dell’io. Esso, cioè, non anticipa in nessun modo l’io, non è<br />

una “totalità” compiuta che lo ha preceduto, dalla quale l’io stesso può<br />

“attingere”, o grazie alla quale egli si forma; ma esso stesso cresce e prende<br />

figura, sembianza, immagine, proprio in relazione alle possibilità di<br />

comprensione dell’io (il mondo non è più originario dell’io).<br />

Se si considerasse il mondo come qualcosa dalla quale si “attinge”, si rimarrebbe<br />

dentro allo schema dualista della metafisica: da un lato il mondo (oggetto, realtà,<br />

o altro), dall’altro l’esistenza (soggetto, individuo, o altro). Il mondo non può<br />

essere “struttura dell’esistenza”, o “condizione di possibilità” dell’esistenza, più<br />

di quanto l’esistenza non sia “struttura” o “condizione di possibilità” del<br />

mondo. 299<br />

Origine, fondamento, non sono, forse, solo “parole” che la filosofia stessa ha<br />

riempito dei significati più diversi? Il modo in cui noi, da sempre, ricostruiamo il<br />

nostro stare (ed il nostro essere stati) al mondo può essere identificato col nostro<br />

stare (ed essere stati) al mondo? Arriveremo mai a dire, o meglio, è possibile dire<br />

qualcosa di “oggettivo”, di “definitivo”, sull’esistenza umana, sulla natura, sul<br />

cosmo, e sui rapporti che tra di loro si istaurano? È possibile stabilire delle<br />

relazioni di dipendenza definitive? È possibile asserire che qualcosa dipende, nel<br />

299 Certo però, che usare locuzioni come “è ciò che rende possibile”, o “è ciò in base a cui”, può trarre in<br />

inganno, perché queste sono proprio le espressioni della metafisica. Il tentativo dovrebbe essere quello di<br />

uscire da qualsiasi forma di dualismo.<br />

285


senso che deriva esclusivamente, “causalmente”, da qualcos’altro? È l’uomo che<br />

dipende dal mondo, o viceversa è il mondo che dipende dall’uomo? O più<br />

semplicemente, questo tipo di rapporti – in un senso e nell’altro – sono solo la<br />

conseguenza di un certo modo di argomentare, sono il risultato di un certo<br />

paradigma di pensiero? In altre parole, che senso può avere questo tipo di<br />

relazione, questo tipo di approccio, al di fuori della “mistica” moderna, o più in<br />

generale della matrice metafisica?<br />

IX) “In-contro” e “ri-unione”<br />

La stesso concetto può essere analizzato a partire dalla prospettiva dell’ente;<br />

infatti, possiamo dire che l’ente è, nel modo che è, grazie alla relazione tra il “sé”<br />

e il “mondo”. L’esistenza “trova” il mondo non in virtù di un incontro con<br />

qualcosa che le sta di fronte, o raggiungendo ciò che le si contrappone, ma come<br />

termine di una relazione solidale nella quale essa e il mondo si definiscono<br />

reciprocamente. Nel senso che l’esistenza “riflette”, e “si riflette” nel mondo.<br />

Abbiamo già visto che esistenza e mondo sono il darsi dello “stesso” (che<br />

possiamo anche chiamare) “essere” in due modi differenti. Ed è solo per questo<br />

che è possibile la loro “ri-unione”. È solo in virtù della loro comune natura (della<br />

loro precedente disposizione alla “ri-unione”) che essi si possono manifestare<br />

nella differenza; se esistenza e mondo fossero “sostanze” separate il loro incontro<br />

non si darebbe, sarebbe impossibile.<br />

Non è affatto paradossale pensare che la “ri-unione” avvenga tra i diversi modi di<br />

darsi dello “stesso”, anzi è paradossale pensare che l’incontro possa darsi tra<br />

entità originariamente separate.<br />

286


In altri termini, dire “mondo” significa manifestare l’essere in un modo, dire<br />

“esistenza” vuol dire manifestarlo in un altro. L’idea di “incontro” come<br />

“congiungimento dei separati” è tipicamente moderna: se pongo gli enti come<br />

“esseri autonomi” e “individui”, poi devo trovare il modo di farli “incontrare”.<br />

La “ri-unione” è, invece, il modo di darsi degli elementi dentro all’evento; si<br />

tratta di “riconoscere” e “distinguere” lo “stesso essere” nelle sue differenti e<br />

solidali possibilità di “manifestarsi”. 300 Infatti, incontro è una parola impropria<br />

per dire “ri-unione”; e il “ri-unire” è sempre un raccogliere. È solo in epoca<br />

moderna che il “ri-unire” diventa il mettere insieme ciò che è originariamente<br />

separato.<br />

Abbiamo già visto che nella Grecia arcaica il raccogliere – il “ri-unire” – è il<br />

manifestare un ordine già esistente, ma velato; e per i presocratici la physis è la<br />

manifestazione (lo schiudersi, il rivelarsi) del nascosto, dell’ordine nascosto, cioè<br />

della “natura” del nascosto. Allora, il raccogliere in Grecia era un ordinare nel<br />

senso di mostrare, di rendere evidente o far emergere una certa disposizione.<br />

A proposito di questa antica interpretazione del verbo riunire Heidegger afferma:<br />

«In un certo senso parlando del συµϕερειν, del mettere insieme o del “riunire”<br />

nel senso del mettere insieme, crediamo [noi uomini moderni] che si intenda<br />

l’azione di accostare successivamente l’uno all’altro due diversi elementi<br />

precedentemente separati, in modo che in questo caso l’ “unione” equivarrebbe<br />

al risultato della riunificazione. In verità invece la riunione dei due elementi<br />

viene determinata a partire dall’unione anticipatamente riconosciuta. “Riunire”<br />

[sammeln] significa: rendere visibile l’unità, che dispiega già la propria essenza a<br />

partire da se stessa; “riunire” significa infatti anche: mettersi insieme inserendosi<br />

in una determinata unione che non è stata prodotta da noi e che si offre a noi<br />

anticipatamente. Non facciamo attenzione al fatto che nei verbi<br />

συνιηµι, συµϕερο, metto porto insieme, e λεγο, raccolgo, proprio perché si<br />

300 Può valere ancora l’esempio della moneta: la faccia “A”, e la faccia “B”, sono unite nella moneta,<br />

nel senso che esse sono i differenti modi di manifestarsi della moneta, e nello stesso tempo, “sono” la<br />

moneta: l’“essere è lo stesso” .<br />

287


tratta di termini greci, traspare già il rapporto con la ϕυσισ, ossia col sorgere e<br />

col risplendere, in modo tale che il “riunire” e il mettersi insieme nel senso del<br />

riconciliare hanno in greco il tratto del lasciar manifestare a partire<br />

dall’unità». 301<br />

Heidegger qui sta trattando del pensiero di Eraclito. Egli vuol mostrare come la<br />

traduzione moderna tradisca completamente il “senso” che il filosofo<br />

presocratico voleva dare alle sue parole. Emerge chiaramente che l’idea della<br />

separazione tra entità e sostanzialmente moderna, e che il riunire di Eraclito<br />

aveva il significato di mostrare un’armonia, un’affinità tra termini solidali, non<br />

quello di “riunificare” cose separate. Nel commento di Heidegger si nota anche<br />

come egli “ri-unisca” il verbo lego, con un composto di fero; Ciò rende evidente<br />

il loro comune ambito semantico. L’idea del raccogliere e quella del portare<br />

insieme o del mettere in relazione, condividono l’idea della manifestazione<br />

dell’affinità e della somiglianza (raccogliendo e mettendo in relazione si rende<br />

visibile l’unità). E ciò costituisce un’importante conferma delle tesi sostenute nel<br />

precedente capitolo.<br />

“Ri-unire” è raccogliere nel senso di dare ordine a ciò che si è scelto raccogliedo.<br />

“Ri-unire” è riconoscere e poi mostrare (di nuovo) la relazione tra ciò che si è<br />

raccolto; ogni raccoglimento manifesta una nuova relazione un nuovo modo di<br />

stare insieme degli elementi raccolti. Nella “ri-unione” si mostra la differenza del<br />

raccolto. Nella “ri-unione” si distingue il differente nell’unità del raccolto. Non<br />

importa se la “ri-unione” riguarda aspetti della natura, uomini (colloquio o<br />

assemblea) o anche i differenti atteggiamenti di un unico sé: ciò che si evidenzia<br />

è sempre un certo ordine delle cose raccolte; nella loro riferimento reciproco si<br />

manifesta la loro differenza. 302<br />

301 M. Heidegger, Eraclito, op. cit. pag. 99<br />

302 “Ri-unificazione indica l’originario trattenersi nell’esser-riunito; questo trattenere definisce ogni<br />

distendersi e ogni accogliere, ma permette anche ogni dispersione e dissipazione. La riunificazione così<br />

intesa è l’essenza del raccogliere e della raccolta…In realtà non ci è affatto facile pensare subito il<br />

“riunire” in questo senso originario, originante e pieno, perché noi siamo abituati a vedere nel riunire<br />

unicamente il rimettere insieme e il riaccostare qualcosa che era precedentemente disperso».<br />

M. Heidegger, Eraclito, op. cit. pag. 177<br />

288


Anche in latino si conserva una accezione di “ri-unire” come raccogliere; ciò<br />

avviene nel verbo colligo (composto di ligo); anche se, l’originario senso greco<br />

viene via, via, perduto per lasciare il posto al riunire come “radunare ciò che è<br />

disperso”, “riunificare gli oggetti separati”, e quindi, l’ordinare come “dare” o<br />

“imporre” un ordine, e non manifestarlo.<br />

Collegare è sinonimo di “congiungere”, e congiungere vuol dire mettere insieme<br />

cose diverse, adunare, assembrare, e deriva dal latino coniungo. Si nota, anche<br />

qui, il venir meno del senso greco originario, ma anche in questo caso, viene<br />

conservata una accezione antica, infatti, al passato con ex e l’ablativo, tale verbo<br />

significa “l’essere costituito da due cose unite”, quindi, l’unità viene ottenuta<br />

dalla complementarietà dei componenti.<br />

In italiano, esiste un verbo che potrebbe richiamare l’antica accezione greca:<br />

questo verbo è “coniugare” che significa anche “congiungere”, ma non più e non<br />

solo nel senso di mettere insieme cose diverse, sparse e separate; con questo<br />

verbo cioè, non si intende solo il dare ordine, nel senso “produttivo” del termine,<br />

ma esso è inteso innanzitutto come il “manifestare l’unione, l’unità nelle sue<br />

diverse forme”: “coniugare un verbo”, ad esempio, significa dire, quindi<br />

mostrare, le forme del verbo; cioè, coniugare è mostrare, nei suoi diversi aspetti,<br />

lo “stesso” (in questo caso) verbo, raccogliendo le sue differenti voci (forme),<br />

dando loro un ordine. E quest’ordine non è “creato” ma “mostrato”; nel senso<br />

che “mettere assieme” qui non ha alcun riferimento al “produrre”, ma è solo un<br />

manifestare, un esporre. La differenza (che sta nella molteplicità delle forme) si<br />

ottiene dal loro comune riferimento allo stesso significato. Il differire non<br />

implica separazione, e autonomia, ma un comune riferimento.<br />

Allora, coniugare è proprio un “ri-unire”, nel senso di raccogliere, le diverse<br />

forme dello “stesso”, mostrando il loro ordine. Risulta chiaro che il riunire lo<br />

“stesso” attraverso la manifestazione delle sue diverse forme non è per nulla<br />

contraddittorio.<br />

Il “congiunto”, infatti, è il connesso, il fuso, ciò che non potrebbe stare diviso (ad<br />

esempio le due facce della medaglia). I congiunti sono i parenti, gli appartenenti<br />

289


alla stessa famiglia, coloro i quali hanno la stessa natura e non possono, in quanto<br />

tali, venir separati. Pensare la separazione dei congiunti è come pensare<br />

l’acutezza dell’ottuso, la rotondità del quadrato e così via, è una cosa<br />

impossibile. 303<br />

Le forme verbali condividono tutte la stessa origine nel verbo. Coniugato da<br />

questa prospettiva è un sinonimo di complementare. La vera unione si ha quando<br />

gli elementi non possono che stare uniti (nella differenza); al di fuori dell’unione<br />

perdono senso, perdono la loro stessa natura.<br />

Allora, “riunione” e “incontro” sono due parole che mostrano mondi diversi, che<br />

indicano due modi diversi di interpretare il concetto di relazione.<br />

Abbiamo visto che collegare ha due significati: il primo è mettere insieme cose<br />

diverse, riunificare ciò che originariamente è separato; il secondo è coniugare i<br />

diversi aspetti dell’ “medesimo”, o mostrare lo “stesso” nelle sue diverse forme<br />

(raccogliere). Quindi, si torna ai due diversi significati del verbo “ordinare” visti<br />

in precedenza. Da un lato, ordinare è dare un ordine, imporre; dall’altro, è<br />

manifestare l’ordine spontaneo. Da una parte c’è l’intervento fondamentale<br />

“produttivo” dell’uomo, dall’altra “si dà” la manifestazione della relazione<br />

originaria.<br />

Ogni cosa, allora, “si manifesta nella propria differenza”, e non “è la<br />

permanenza”. Esistere è “dif-ferire da” e nel contempo “ri-ferirsi a”; non c’è<br />

differimento senza il relativo riferimento; in buona sostanza, esistere è<br />

relazionarsi, è stare in relazione al proprio mondo. E la relazione si dà e si fa<br />

nell’evento. Nella relazione che è reciprocità si dà l’esistenza. L’evento è<br />

coniugazione e manifestazione di aspetti. 304 L’uomo sta in relazione al suo<br />

mondo differenziandosi e nel contempo riferendosi ad esso. Nella loro relazione<br />

si manifesta la loro ri-unione, nel loro comune raccoglimento si mostra la loro<br />

303 Anche in latino esiste il verbo coniugare che significa unire, sposare, e il suo participio ricorda nel<br />

significato l’antica accezione greca, infatti il coniugatus, è ciò che possiede la stessa origine (ma che può<br />

mostrarsi in forme diverse).<br />

304 Del rapporto tra i concetti di “riferimento” e “differimento” ci occuperemo nel primo capitolo della<br />

quarta parte.<br />

290


alterità. La relazione io -mondo ha il carattere dell’evento che accomuna aspetti, i<br />

quali si mostrano nella loro reciproca differenza (ognuno si definisce in relazione<br />

all’altro). In ogni evento si dà la relazione io -mondo. Ogni evento mostra che io e<br />

mondo sono mutuamente collegati. Ed su tale comune riferimento/differimento<br />

che l’uomo trova la sua autocoscienza e il suo mondo. Io e mondo sono riferiti<br />

l’uno all’altro, sono in relazione di mutualità, e solo su questo riferimento<br />

comune nasce la loro alterità, la loro differenza. Nel momento in cui l’uomo si<br />

differenzia dal suo mondo nasce la relazione tra sé e il mondo. Nel comune<br />

riferimento si concepisce (si realizza) la reciproca differenza, nell’alterità si<br />

manifesta il riferimento reciproco (il raccoglimento).<br />

Di conseguenza, il sé e il mondo sono realtà solidali ed evenemenziali.<br />

E il problema dell’intersoggettività?<br />

Se non ci sono soggetti (e oggetti) non c’è nemmeno qualcosa come<br />

l’intersoggettività. Le relazioni sono sempre eventi. Io conosco l’altro, allo stesso<br />

modo in cui conosco me stesso; nell’evento. Nell’evento stanno in relazione<br />

aspetti, ogni volta diversi, che hanno definizione linguistica. Confrontando<br />

aspetti l’io trova e costruisce la sua autocoscienza, conosce il mondo, e sta in<br />

relazione agli altri.<br />

Il modo nel quale l’io implementa la sua autocoscienza e quindi concepisce la<br />

sua alterità e singolarità, è lo stesso modo nel quale egli concepisce il riferimento<br />

all’altro, e quindi diventa consapevole dell’altro (e nel quale conosce il mondo):<br />

egli si relaziona all’altro, nello stesso modo in cui si relaziona a se stesso. Non si<br />

può avere, infatti, coscienza di sé senza avere coscienza degli altri (e del mondo).<br />

Allora, l’autocoscienza non precede la conoscenza dell’altro. Esse sono<br />

contestuali e in relazione reciproca.<br />

Viene così superata sia l’idea di “sostanza”, che la vecchia idea di “presenza”.<br />

291


X) Aletheia e adeguatio<br />

In questo modo, si ritorna (però da un nuovo punto di vista) al significato di<br />

aletheia, come la verità che si mostra nel raccoglimento delle sue diverse forme,<br />

la verità che viene dal “manifestare-nascondere”, dal gioco di luci e ombre, che<br />

vela e disvela; la verità che non ha un’ “essenza” al di là, al di sopra, o al di sotto,<br />

delle forme che manifesta, ma è proprio l’insieme di tali forme, perché<br />

l’esistenza è quello stesso insieme di forme.<br />

La verità dell’esistenza, è la verità che prescinde dalle “essenze”, dai sostrati e<br />

dai fondamenti.<br />

L’essere dell’ente non è, allora, la sua completa e stabile presenza, il suo darsi<br />

integralmente, ma è il mostrare un aspetto, una faccia, la quale però non è una<br />

parte, ma – in quel momento – è tutto l’ente. L’aspetto mostra l’ente, e nasconde<br />

l’ente. Lo svelamento si accompagna sempre ad un contestuale velamento.<br />

Cambia il rapporto tra parte ed intero. L’intero metafisico è la somma delle sue<br />

parti; l’aspetto è evenenzialmente e relativamente l’intero. L’aspetto manifesta<br />

l’intero, la parte mostra la sua incompletezza e la sua dipendenza. L’aspetto non<br />

è l’involucro, la confezione della sostanza, ma è la sostanza (almeno tutto quello<br />

che di “sostanziale” c’è nella realtà). La presenza non è la permanenza di un<br />

“essenza” nascosta, ma è il darsi di una prospettiva nel sottrarsi di un’altra; un<br />

aspetto può essere visto solo rinunciando a vederne un altro, il quale, a sua volta,<br />

può essere colto usufruendo di un’altra prospettiva. Perché ogni punto di vista è<br />

la manifestazione di un certo modo di stare in relazione, e quindi di esistere.<br />

Esistere è trovarsi nella relazione reciproca nell’evento. Possiamo vedere solo<br />

una faccia alla volta della medaglia. Per questo lo svelare è sempre anche un<br />

nascondere. I due momenti sono inscindibili, e non possono essere considerati<br />

dei “contrari”, degli “opposti”, nel senso di cose che stanno una di fronte<br />

all’altra, separate.<br />

Quando Platone parla dell’idea come totale sveltezza, come “essenza rivelata”<br />

abbandona il senso originario dell’aletheia (se c’è un opposto di aletheia questo<br />

292


è proprio “essenza”). I Greci antichi conoscevano il concetto di “presenza”, ma<br />

era proprio nella presenza che, secondo loro, risiedeva l’aletheia, in quanto<br />

“disvelamento” (e contestuale nascondimento) dell’ente.<br />

Lo svelamento è la totale mancanza di velamento per Platone, non per i suoi<br />

predecessori. Lo strappo di Platone consiste proprio nell’intendere l’ “idea” come<br />

completa sveltezza, quindi totale mancanza di velatezza (in questo modo velare e<br />

disvelare diventano contrari, o meglio, alternativi e non più complementari). Per<br />

Platone la verità è l’ “essenzialmente” chiaro (appunto, eidos, o idea), ciò che è<br />

presente (e anche permanente) nella massima evidenza. Per Platone l’ente viene<br />

definito dalla sua ousia, dalla sua sostanza che permane stabilmente nel tempo.<br />

Per i Greci antichi tutto ciò è inconcepibile. Per loro il presente è ciò che ha<br />

ombra, o meglio, è l’insieme inscindibile di luce e ombra. Per loro l’ente si dà nel<br />

gioco dei contrasti fra luce e ombra. Del resto, l’ente, può essere visto perché<br />

assorbe la luce, e così facendo produce ombra; la totale luminosità è la<br />

“trasparenza”, la quale è ciò che per definizione non può essere visto. 305<br />

305 Allora quando Heidegger afferma che: «lo svelato è il non assente su cui non domina più il<br />

velamento» adotta un punto di vista platonico; e quando dice: «Il disvelare viene inteso anzitutto e in<br />

primo luogo in contrapposizione al velare, così come il districare si contrappone all’intrico» (Heidegger,<br />

Parmenide, pag. 240) è già oltre Platone, e all’interno di un’ottica soggettivistica moderna, per la quale è,<br />

appunto, il soggetto a “portare” ordine nella realtà sensibile, proprio come è il soggetto a districare<br />

l’intricato.<br />

Un'altra affermazione, fatta da Heidegger nel Parmenide, sulla quale vale la pena di soffermarsi è la<br />

seguente: «Nella grecità né l’aletheia, né la lethè sono mai espressamente pensate a fondo nella loro<br />

propria “essenza” e nel loro fondamento essenziale». Cioè, non sono pensati nella loro totale sveltezza,<br />

nella loro forma più chiara, e definitiva; appunto, non ne viene raggiunta l’essenza. Il compito di pensare<br />

a fondo questi concetti è proprio il compito che si assume Heidegger in questa, come in altre sue opere.<br />

Ma potevano i Greci antichi, prima di Aristotele, pensare l’essenza dell’aletheia? E più in generale,<br />

potevano pensare l’essenza di qualcosa? Essenza è un concetto introdotto da Platone e sviluppato da<br />

Aristotele, essa indica “ciò per cui una cosa è quel che è” (ousia). L’ ousia è il carattere fondamentale<br />

dell’ente (ciò che non cambia) e si contrappone all’ “accidente”, il quale può mutare senza che la sua<br />

“natura” ne risenta. La sostanza è il sinolo di materia e forma, la materia è indeterminata, mentre la forma<br />

coincide con l’identità propria dell’ente. Quindi, l’essenza inerisce alla sostanza. Allora, la sostanza (dal<br />

latino substantia) è il fondamento dell’ente, “ciò che sta sotto”, l’hypokeimenon, ma è soprattutto<br />

“essenza” (tì esti), cioè “specie formale” (eidos), immanente e permanente in ciascun individuo.<br />

Tali considerazioni riguardano la “filosofia prima”, la scienza, cioè, che studia “l’essere in quanto essere”<br />

(questa scienza è l’ “ontologia”); la quale, per lo Stagirita, sta a fondamento delle altre scienze (della<br />

matematica che studia l’essere inteso come quantità, della fisica che studia il mutamento e il divenire<br />

dell’essere, ecc.). Queste scienze si occupano solo in modo parziale dell’essere, indagandone solo aspetti<br />

circoscritti. La filosofia prima ha invece come argomento i fondamenti del sapere e deve rispondere alle<br />

domande principali intorno allo scibile umano. Aristotele, allora, trattando i concetti di “sostanza” e di<br />

“essenza” nella “Metafisica”, vuole raggiungere il sapere supremo, quello in grado di rispondere alle<br />

domande fondamentali, e ultime: «Quali sono le cause e i principi del reale? Come si sono originate tutte<br />

le cose? Cos’è un ente? Ecc.».<br />

293


E Aristotele, va oltre il suo maestro quando prospetta l’esistenza di quattro cause<br />

(materiale, formale, causale e finale) che stanno a fondamento degli enti. Egli per<br />

giustificare la sua teoria causale, sostiene l’esistenza di una “causa prima” o<br />

“motore immobile” (“atto puro”), che muove senza essere mosso, da cui deriva<br />

tutto il resto. La Metafisica di Aristotele, allora, può essere considerata, il primo<br />

testo “principiale” della storia della filosofia, il primo testo nel quale viene<br />

concepita una teoria “causale” dell’universo, e il primo testo dove viene assunto<br />

un metodo causale-sequenziale per fondare la conoscenza. 306<br />

Il concetto di “essenza” è un punto di riferimento per questo tipo di<br />

argomentazione; “ciò per cui l’ente è quel che è”, significa ciò che ne determina<br />

la natura, l’identità, e il modo di essere; l’essenza della cosa è il suo “fondamento<br />

originario”. Anche questa idea Aristotelica verrà usata molto in seguito, durante<br />

il medioevo dalla scolastica, ma anche in epoca moderna; infatti, ad esempio per<br />

Hegel, l’essenza rivela la struttura profonda dell’ente, e del reale, e come tale si<br />

contrappone al fenomeno.<br />

Questo modo di pensare è successivo a quello della Grecia pre-platonica. L’idea<br />

di “fondamento essenziale” non fa parte di quel sapere. Se non si cercano cause<br />

prime e fondamenti assoluti non ha senso il concetto di “essenza”. Solo<br />

Per inciso, possiamo notare che Heidegger - in Essere e tempo - esprime un’idea molto simile definendo<br />

l’essere “il primo, l’ultimo e il fondamentale problema della filosofia”. La filosofia è, allora, “ontologia”<br />

e si differenzia dalle altre scienze proprio perché si occupa dell’essere in quanto essere. Le altre scienze<br />

trattano, invece, di regioni particolari dell’ente, e siccome “l’essere è sempre l’essere di un ente”, si<br />

occupano solo in modo parziale dell’essere; queste ultime sono definite, dal filosofo tedesco, “ontologie<br />

regionali”. Esse dipendono, quindi, dall’indagine “fondativa” della filosofia. Qui Heidegger rivela di<br />

essere in sintonia con la posizione fondazionalista di Aristotele. Nel Parmenide la differenza tra filosofia<br />

e scienza si acuisce, perché, in quest’opera egli toglie alle scienze qualsiasi carattere ontologico, e<br />

afferma la loro esclusiva natura e finalità, tecnica. Heidegger distingue tra “il sapere essenziale” - della<br />

filosofia - che mira a “ciò che l’ente è nel suo fondamento”, e la scienza che mira a “padroneggiare”<br />

l’ente per poterlo poi organizzare e sfruttare. Egli sostiene che: «la scienza moderna è sempre<br />

un’aggressione tecnica nei confronti dell’ente e un intervento finalizzato all’”orientamento” operativo,<br />

“produttivo”, attivo e affaristico» (Parmenide pag. 35) Nel Parmenide, quindi, la scienza è trattata come<br />

un mero affare economico. Queste posizioni compaiono sempre più di frequente nelle ultime opere di<br />

Heidegger e mostrano sempre più chiaramente la sua “ascendenza” metafisica).<br />

306 Questo metodo verrà usato e perfezionato dai filosofi moderni, in particolare da Leibniz, il quale<br />

costruisce il cosmo come una catena di cause (“nihil est sine ratione”) che derivano razionalmente da Dio.<br />

Secondo Aristotele e Leibniz, allora, ogni ente trova la sua causa in qualcosa che l’ha preceduto; e<br />

all’origine del tutto sta l’eterno e l’immutabile.<br />

294


Aristotele lo poteva concepire, e solo la filosofia medievale (grazie a quei<br />

presupposti) lo poteva sviluppare. 307<br />

Aristotele, e chi viene dopo di lui, possono pensare all’essenza di qualcosa, ma<br />

per chi lo ha preceduto ciò è impossibile. Il Greco antico non pensa di trovare<br />

essenze, e non pensa alla verità nei termini di una essenza. Non può pensare<br />

nemmeno che la verità sia un’essenza, sarebbe un controsenso, perché se<br />

l’essenza è ciò per cui una cosa è, la verità dipenderebbe da quella essenza, ci<br />

sarebbe allora qualcosa di più originario della verità. Ma “verità” per il greco<br />

antico è manifestazione originaria delle cose, è il darsi delle cose così come si<br />

danno, per lui non ha senso trovare l’essenza di questo manifestarsi (Platone<br />

comincia a indagare in quei termini). “Essenza” è un concetto che usa chi vuole<br />

“raggiungere” la verità come “principio”, la verità nel senso latino di veritas.<br />

Chi, invece, pensa la verità come aletheia sa che ogni sua indagine svelerà e nel<br />

contempo velerà, sa che ogni svelamento comporta un velamento, sa che il suo<br />

dire e il suo cercare non saranno mai definitivi.<br />

Nel frammento 123 Eraclito dice che la physis ama nascondersi, occultarsi. Essa<br />

non si dà mai interamente. Lo stesso Heidegger traduce il frammento così: «Il<br />

sorgere dona il favore al nascondersi». 308 Ciò manifesta un rapporto inscindibile,<br />

una relazione reciproca tra manifestazione e nascondimento. Tutto ciò mostra<br />

una struttura di pensiero ancora lontana dall’essenzialismo platonico.<br />

Nel mondo dell’aletheia ogni dire e ogni cercare manifestano, in qualche misura,<br />

l’aletheia (per questo non è possibile contrapporre alla verità come aletheia il<br />

falsum come ciò che non è corretto, come ciò che non si adegua al vero, come ciò<br />

307 Chi si domanda perché la Grecia arcaica non si sia posta il problema dell’ “essenza della verità”,<br />

dimostra di essere immerso in un mondo che lo condiziona. Costui vuol estendere le sue categorie ad un<br />

mondo che non le poteva pensare. Heidegger critica il concetto adeguativo di verità, e lo ritiene un<br />

tradimento compiuto dai Latini nei confronti dei Greci. Ma adeguatio ed essentia sono termini “cugini”,<br />

essi stanno a fondamento della filosofia medievale, e hanno una origine comune. Il concetto di verità<br />

come adeguazione è plausibile solo in virtù dell’esistenza di un principio al quale potersi adeguare. E il<br />

carattere costitutivo del principio è il suo essere “originario”, è il suo essere “essenza” (“ciò per cui una<br />

cosa è”). Così, non si può rigettare il concetto di “adeguazione”, senza nel contempo rifiutare anche il<br />

concetto di “essenza”.<br />

308 M. Heidegger, Eraclito, op. cit. pag. 75<br />

295


che è sbagliato irrimediabilmente). Indagare il concetto di aletheia per scoprirne<br />

l’essenza sarebbe tradire proprio l’idea di aletheia.<br />

Questo tipo di indagine viene inaugurata da Platone e Aristotele con il risultato di<br />

trasformare quell’idea di verità. La distinzione netta, la separazione, tra verità e<br />

falsità è possibile, anzi necessaria, tra verum e falsum, perché vero e falso vivono<br />

della loro radicale opposizione: o la cosa (ente, affermazione, comportamento,<br />

ecc.) è in conformità al principio, o non lo è, tertium non datur.<br />

Lo stesso concetto di “opposizione” è improprio nei confronti dell’aletheia:<br />

l’opposto è ciò che si contrappone, ciò che sta di fronte, e che si distingue<br />

nettamente. Si può dire che il falso si oppone al vero perché, se si intende la<br />

verità come adeguazione, non c’è scampo: se una cosa si adegua al principio è<br />

vera, se non si adegua è falsa. Vero e falso sono originariamente “separati” e<br />

“alternativi”. Ma se la verità è intesa come ciò che si disvela, ciò che si manifesta<br />

(lasciando comunque qualcosa di velato) non è possibile stabilire l’opposizione<br />

tra l’assolutamente vero e l’assolutamente falso. Non è possibile, in altri termini,<br />

separarli, distinguerli nettamente l’uno dall’altro.<br />

Dopo Platone, dove risiede il vero è totalmente assente il falso; per i Greci<br />

antichi, svelamento e velamento sono complementari.<br />

Se aletheia è la verità che si manifesta nello svelamento delle sue diverse forme,<br />

essa richiama il concetto di “coniugazione”, nel senso della manifestazione delle<br />

diverse forme dello “stesso”. Però la cornice dell’aletheia è l’idea di logos, il<br />

raccoglimento originario e manifestante dell’ordine originario; quella della<br />

coniugazione è invece la relazione evenemenziale. Il congiunto può essere<br />

riferito al raccolto, tenendo presente che cambia il contesto di appartenenza delle<br />

due espressioni. Tutto ciò risulterà più chiaro in seguito, quando ci occuperemo<br />

nel dettaglio del concetto di evento.<br />

296


XI) Le cose separate, il “soggetto” e l’ “oggetto”<br />

Per chiarire meglio la questione guardiamo a ciò che si intende con i sostantivi<br />

“soggetto”, “oggetto”, e col verbo “separare”. Cominciamo da quest’ultimo:<br />

separare è un verbo di derivazione latina e significa “disgiungere” o “disunire”;<br />

sappiamo che l’azione del separare è contraria a quella dell’ “unire”.<br />

L’unire implica il passare dalla molteplicità all’unità, quindi, significa anche<br />

armonizzare, fondere in un unico complesso, raccogliere insieme. Unire sta<br />

anche per congiungere, collegare; ma secondo il nostro punto di vista – come<br />

abbiamo visto – non è possibile né “congiungere” il disgiunto, né “disgiungere”<br />

il congiunto: è impossibile far diventare estranei due fratelli, o trasformare due<br />

estranei in fratelli (se non in senso figurato). Non si può assegnare la stessa<br />

natura a due cose che non la posseggono in origine. Non si possono “creare”,<br />

“produrre” relazioni tra elementi disgiunti.<br />

Tutto dipende dal senso che si attribuisce al concetto di “unione”, o a quello di<br />

“insieme”: se si intende per “insieme” un gruppo di elementi autonomi e<br />

separati, che in qualche modo vengono accostati, avvicinati, fatti incontrare,<br />

allora è possibile sia separare che unire qualsiasi cosa (si possono mettere in<br />

relazione enti che imprima non lo erano). Se invece ci si riferisce all’insieme<br />

come al raccoglimento di termini aventi un riferimento comune (o un’unica<br />

natura, che però, si può manifestare in maniere diverse), allora, il raccoglimento<br />

può essere fatto solo in un determinato modo: l’unione diventa la manifestazione<br />

di un ordine (non la produzione di un ordine), e quindi ciò che è separato non può<br />

essere unito, e ciò che è unito non può essere separato.<br />

In questo secondo caso, l’insieme è caratterizzato dalla solidarietà tra gli<br />

elementi che lo compongono; ognuno di essi è quello che è nella relazione con<br />

gli altri, nel senso che esso riceve dal contesto che lo ospita, e<br />

contemporaneamente dona a ciò che lo circonda; c’è tra “parte” e “tutto” un<br />

rapporto di mutualità evenemenziale. Essi sono reciprocamente “coordinati”;<br />

297


l’aspetto del “tutto” è funzionale all’aspetto di ogni singola “parte”, e viceversa,<br />

ogni singola “parte” è concorde ed in armonia col “tutto” che la ospita.<br />

Il “tutto” e la “parte” si danno come “evento”, sono sempre nel modo dell’<br />

“evento”; ciò significa che non possiedono la permanenza e la stabilità spazio<br />

temporale che caratterizza invece l’oggetto. “Tutto” e “parte” avvengono, si<br />

mostrano, mai in modo definitivo e stabile, mai indipendentemente da ciò che li<br />

circonda; essi “sono” solo in riferimento ad un contesto: ogni “evento” è la<br />

manifestazione “spaziotemporale” di una relazione reciproca tra termini<br />

solidali. 309<br />

Questo sistema è stato definito in precedenza “ecologico”. Possiamo aggiungere<br />

ora che con la locuzione “sistema ecologico” intendiamo un sistema “olistico”,<br />

caratterizzato appunto dalla solidarietà, dalla mutualità, e dalla evenemenzialità<br />

tra gli “elementi” coinvolti. 310<br />

Disgiunzione e congiunzione sono, dal nostro punto di vista, due situazioni non<br />

modificabili; però, il congiunto si può “raccogliere” nelle sue diverse forme, può<br />

essere coniugato (nella sua molteplicità), mentre, i disgiunti non possono trovare<br />

l’unità.<br />

Per “disgiunti” qui si intendono gli enti come li ha pensati la tradizione<br />

metafisica. Cose indivisibili, indipendenti e autonome rispetto alle altre e al<br />

contesto circostante (interpretato come contenitore spazio temporale neutro);<br />

cose che si danno nella loro completezza, e permanenza. Sono queste entità che,<br />

a nostro modo di vedere, non possono essere congiunte, proprio a causa della<br />

loro “solidità” e “impermeabilità”.<br />

309 Questa idea di insieme (che ricalca solo in parte quella espressa nel secondo paragrafo) coinvolge<br />

concetti come quelli di relazione, ordine mutualità, solidarietà, ecc.. Essa verrà sviluppata e chiarita nella<br />

quarta parte; qui abbiamo solo introdotto alcuni argomenti.<br />

310 L’uso che abbiamo fatto dei vocaboli “parte” e “tutto” può risultare fuorviante, perché noi non<br />

intendiamo assolutamente la parte come una frazione, o un frammento dell’intero, e neppure come<br />

l’ingranaggio del meccanismo o l’organo del organismo. Qui si usa provvisoriamente la parola “parte”, a<br />

causa della attuale mancanza del termine specifico, adatto a descrivere la relazione tra ogni “singolo<br />

termine” e il “tutto” in un sistema “ecologico”. Del resto, la descrizione del tipo di relazione presente in<br />

tale sistema è il compito che ci prefiggiamo in questo scritto; e quindi analizzeremo questi termini più<br />

avanti, usando ad esempio il concetto di “rete”, o quello di “evento”.<br />

298


Ma torniamo brevemente al verbo separare. “Se(d)-parare”, significa preparare a<br />

parte, preparare diviso. Il participio, separatus, indica ciò che “è a parte”, ma<br />

anche ciò che è “a sé stante”. L’ “a sé stante” è ciò che sta isolato, senza il<br />

bisogno d’altro, ciò che è autonomo da ciò che lo circonda. L’ “a sé stante” è<br />

indipendente.<br />

A questa idea si rifanno i moderni quando pensano l’ente: lo concepiscono come<br />

qualcosa di individuale e autosufficiente.<br />

L’ “oggetto” è la res obiecta, la “cosa che si contrappone”. Gli oggetti sono enti<br />

che si contrappongono l’uno all’altro. 311<br />

L’idea di “oggetto”, allora, è proprio quella di un ente autonomo e indipendente<br />

che sta isolato di fronte agli altri. L’oggetto è la cosa “a sé stante”. Il concetto di<br />

oggetto che usa il filosofo moderno è basato sull’idea di opposizione: l’ente<br />

acquista così totale autosufficienza rispetto a ciò che gli sta intorno; gli oggetti<br />

stanno isolati nella contrapposizione, e il mondo coincide con la loro somma.<br />

Inoltre, esso è anche l’ente che, nella sua autonomia, sta di fronte, contrapposto,<br />

ad un altro ente isolato e indipendente, il “soggetto”.<br />

L’oggetto è soprattutto ciò che si “para” (che si pone) davanti al “soggetto”,<br />

contrapponendovisi. Anche il “soggetto”, infatti, è “a sé stante”, ma a differenza<br />

dell’oggetto, ha la capacità di “percepire” (di ricevere dall’esterno). 312<br />

In senso lato, per soggetto si intende “ciò che è sottoposto ad un azione<br />

proveniente dall’esterno”. 313 Soggetto infatti indica, anche oggi, ciò a cui si<br />

riferisce un’azione, o il destinatario di un’azione (oltre che colui il quale compie<br />

l’atto). Soggetto ha quindi (oltre a quella attiva) un’accezione passiva; esso è chi<br />

311 “Oggetto” deriva dal participio di obicio – obiectus – che indica il “contrapposto”, l’opposto, il<br />

“posto di fronte”. Per questa analisi ci siamo avvalsi de’ “Il - vocabolario della lingua Latina”, di<br />

Castiglioni, Mariotti, op. cit. Abbiamo consultato inoltre: Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de<br />

la langue latine, Editions Klincksieck, Paris 1979, e Walde-Hofmann, Lateinisches etymologisches<br />

worterbuch, Heidelberg 1982<br />

312 Soggetto è un’altra parola di derivazione latina, che proviene dal verbo subicio (a sua volta composto<br />

di sub e iacere, gettare sotto, sottomettere) che significa sottoporre. Il participio è subiectus che sta ad<br />

indicare il sottoposto, il sottomesso.<br />

313 Cfr il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Zanichelli, Bologna, 2000<br />

299


iceve, chi “subisce” (“sub-ire” è “andare sotto”, sottoporsi sottostare) . Il<br />

soggetto è chi percepisce, chi accoglie qualcosa dall’esterno.<br />

Per i razionalisti, infatti, la realtà esterna agisce causalmente sulla mente<br />

dell’uomo-soggetto; La percezione è la recezione di qualcosa che proviene dall’<br />

“esterno”, di qualcosa cioè di “estraneo”. Grazie agli organi di senso quindi è<br />

possibile entrare in contatto con le cose che ci stanno di fronte, contrapposte.<br />

Tra questi enti separati la relazione deve essere prodotta, essa è qualcosa di<br />

eventuale, potenziale, comunque successivo alla loro comparsa; e non va in alcun<br />

modo a influenzare la loro identità.<br />

La relazione tra soggetti è indotta da un atto di volontà, 314 quella tra oggetti<br />

dall’intervento di una forza; 315 perché essa avvenga bisogna cambiare, rompere<br />

una situazione di equilibrio, e per far questo c’è bisogno di un lavoro, si deve<br />

impiegare, consumare dell’energia.<br />

Tutto ciò però genera dualismo tra spirito e materia e disgregazione tra le diverse<br />

entità. 316<br />

Allora, si rende evidente la netta discontinuità tra il nostro “sistema ecologico” e<br />

questo modello dualistico, fondato sulla separazione, sull’autonomia e sulla<br />

permanenza spazio-temporale degli enti; quest’ultimo tipo di “architettura” non<br />

dà spazio a concetti come mutualità, solidarietà, o evento;<br />

Da tutto ciò emergono modi diversi di intendere la relazione: da un lato,<br />

manifestazione evenemenziale di aspetti, nella solidarietà olistica dei termini;<br />

314 Ad esempio la stessa convivenza civile è la conseguenza di atto di volontà collettivo, il “Contratto<br />

sociale”. La società, la fonte primaria, se non unica, delle relazioni tra individui è prodotta da un accordo<br />

collettivo.<br />

315 Delle relazioni tra i corpi si occupa la meccanica; la quale cerca di trovare e spiegare le cause del<br />

loro movimento.<br />

316 La situazione cambia parzialmente con Kant, secondo il quale il “soggetto” diventa “fondamento”<br />

della realtà fenomenica, diventa substrato della realtà sensibile; in grado di ordinarla attraverso le proprie<br />

categorie; e solo così che il “sottostare” diventa un “essere a fondamento”. In questo modo, il soggetto<br />

non è più un ricettore passivo di sensazioni provenienti dall’esterno, ma diventa “legislatore” del mondo<br />

fenomenico. Bisogna dire che quello di Kant è un tentativo notevole (anche se non sufficiente) di<br />

superare il dualismo tra soggetto e oggetto che aveva angustiato i pensatori razionalisti. Sull’evoluzione<br />

del dualismo “spirito-materia” da Cartesio ad Hegel, comunque, torneremo nel prossimo capitolo.<br />

300


dall’altro, azioni e reazioni tra enti separati tra loro, autonomi rispetto<br />

all’ambiente che li contiene, e permanenti nel tempo.<br />

La filosofia moderna si costituisce e si sviluppa proprio a partire dalla<br />

separazione-opposizione tra “soggetto” e “oggetto”.<br />

Per gli antichi greci sarebbe stato impossibile immaginare un cosmo di enti<br />

contrapposti e separati. Gli enti – cose e uomini – erano “compresi” nell’ordine<br />

cosmico. Ai greci mancava anche il concetto di “individualità”; essi non<br />

pensavano che l’ente potesse sussistere nella sua “indipendenza” a prescindere<br />

dal contesto che lo ospita. Certo anche per il Greco l’ente è l’ “essente”, ciò che<br />

“è”, ciò che possiede una sua identità, ma al Greco è estranea l’idea di<br />

“opposizione”. Per lui gli enti non sono cose autonome che stanno l’uno di fronte<br />

all’altra. La physis è armonia e raccoglimento, è manifestazione di un ordine,<br />

solo all’interno del quale, ha un senso l’ente. L’ente dei greci sta in armonia nel<br />

cosmo, è raccolto secondo l’ordine originario, che si disvela nella physis, e ne<br />

dipende.<br />

E così si colgono anche le analogie esistente tra il modello greco e quello che<br />

stiamo qui proponendo (oltre alla discontinuità di quest’ultimo con quello<br />

dualistico moderno).<br />

In Grecia, si comincia a parlare di cose “indivisibili” con Democrito, il quale usa<br />

il termine “atomo” per indicare il componente semplice dell’ente. Egli distingue<br />

tra “pieno” e “vuoto”, e pensa che sia il movimento spontaneo degli atomi (il<br />

pieno che si muove nel vuoto) a costituire gli enti per aggregazione. Ma anche<br />

per Democrito il mondo è cosmos, è armonia originaria. L’atomo è ingenerabile,<br />

incorruttibile, pieno, e appunto, indivisibile. 317<br />

C’è, allora, una sostanziale differenza tra l’idea di “individuo”, e quella di<br />

“atomo”, perché l’individuo è lo stesso ente indivisibile, che si contrappone, e<br />

come tale possiede indipendenza e autonomia; l’atomo, invece, non è che una<br />

317 Come l’essere di Parmenide; ma nello stesso tempo, Democrito pensa che gli atomi siano infiniti, a<br />

differenza dell’unicità dell’essere eleatico.<br />

301


parte dell’ente (all’interno dell’equilibrio cosmico) e quindi non può stare<br />

separato. Esso non è “indipendente”.<br />

Nel mondo latino, è Cicerone a parlare di corpora individua ma, col solo intento<br />

di tradurre il concetto di “atomo” greco. Il concetto di “individuo” è estraneo<br />

anche al mondo latino. Così, l’uso di questa parola si afferma solo nel<br />

Rinascimento, ed è riferita prima di tutto alla persona umana. Scrive Montaigne:<br />

«La cosa più grande che si può fare al mondo è saper di essere sé stessi… Tutti<br />

guardano davanti a sé, io guardo dentro di me; ho a che fare soltanto con me<br />

stesso, mi osservo senza posa, mi controllo mi gusto… In parte dobbiamo noi<br />

stessi alla società ma per la parte migliore, ci dobbiamo a noi stessi. Bisogna<br />

prestarsi agli altri ma donarsi solo a sé stessi.» 318<br />

Per l’uomo moderno il mondo è un insieme di oggetti separati, individuali e<br />

autonomi. Il pensatore moderno vuole mettere in evidenza l’indipendenza<br />

dell’ente, e la superiorità dell’ente “uomo”.<br />

È così che l’uomo si trasforma in “individuo”, cioè nell’ente autosufficiente per<br />

eccellenza; la nascita del “soggetto” e quella dell’ “individuo” sono<br />

concomitanti. Il soggetto diventa, alla fine, il fondamento del mondo sensibile;<br />

l’individuo la parte costitutiva del mondo politico, economico, e giuridico. 319<br />

In Grecia il primo barlume di “individualismo” si ha con la filosofia di Socrate, il<br />

quale, per la prima volta, rivolge l’attenzione all’uomo considerato<br />

individualmente. Ma Socrate è ben lontano dal pensare a qualcosa come il<br />

“soggetto”. In altre parole, il “conosci te stesso” di Socrate è solo un progenitore<br />

remoto del cogito ergo sum di Cartesio. La res cogitans è la sostanza<br />

“alternativa” alla res extensa. La res cogitans è l’inesteso che pensa l’esteso,<br />

essendone totalmente separato.<br />

318 M. Montaigne, Saggi, Rizzoli, 1987, pag. 198.<br />

319 Anche l’individuo (l’uomo in ambito politico ed economico) è caratterizzato dall’autonomia e<br />

dall’indipendenza; infatti affinché si producano “incontri” civili ed economici c’è bisogno di opportuni<br />

strumenti giuridici: Il “contratto” (sociale ed economico) consente il collegamento tra la volontà degli<br />

individui; un incontro tra ciò che originariamente è disgiunto. Il contratto fa incontrare gli individui, come<br />

la “causa” fa incontrare gli oggetti.<br />

302


Tra l’epoca greca e la modernità c’è la mediazione operata, dal Cristianesimo,<br />

dal Medioevo, e dalla Riforma, che rivoluzionano l’idea di mondo, di uomo e, di<br />

conseguenza, anche la loro relazione.<br />

Oggetto, soggetto, individuo, sono tutti termini “moderni”, e indicano la<br />

separazione del reale; tutte parole che il Greco non poteva pensare.<br />

Per il moderno le cose sono autonome, a sé stanti, indipendenti, di conseguenza<br />

serve una “forza” per farle incontrare, cioè serve un causa che, in qualche modo,<br />

le “muova”. L’incontro è sempre qualcosa di “provocato”. La relazione tra<br />

oggetti è sempre “prodotta”, mai originaria. Gli oggetti, seguendo la loro natura,<br />

tenderebbero all’isolamento. 320 Ecco che torna l’immagine dell’universo<br />

disgregato. Questo vale anche per gli uomini: gli “individui” si associano con un<br />

“contratto”, con un atto di volontà collettivo. Serve sempre l’ “azione”, la<br />

volontà, per rompere la separazione naturale e creare la relazione.<br />

Per il greco antico invece la relazione è originaria, e le cose sono da sempre in<br />

armonia. Questo vale anche in ambito politico. Aristotele – il filosofo delle cause<br />

e del motore immobile – pensa ancora alla comunità come al luogo na turale della<br />

convivenza umana. Egli sostiene che solo le bestie e Dio (per ragioni differenti)<br />

possono prescindere dalla comunità. Aristotele non può pensare all’uomo come<br />

ad un “individuo” autonomo in grado di decidere se fondare la polis, ma lo<br />

ritiene un ente che non ha nemmeno la possibilità di essere al di fuori della<br />

comunità; essa lo precede e lo accoglie.<br />

Gli “individui”, invece, sono “causa” della società, la istituiscono attraverso un<br />

atto di volontà, e né sono quindi il fondamento. Gli individ ui decidono di<br />

costituire la società per il proprio vantaggio privato, per i benefici che essa può<br />

portare; la società per il pensiero politico moderno, nasce dal calcolo, dalla<br />

convenienza, non è sicuramente una necessità naturale.<br />

Nel mondo moderno tutto ruota intorno alla “volontà individuale” (come ha visto<br />

bene Nietzsche), alla “soggettività” e all’ “oggettività”; sostanzialmente, tutto<br />

ruota intorno all’idea di autonomia, di indipendenza e di separazione tra gli enti.<br />

320 Nella fisica tutto ciò viene espresso dal concetto di quiete, o di moto rettilineo uniforme. Per<br />

cambiare lo stato di un corpo serve una forza<br />

303


Soggetto e oggetto per essere non hanno bisogno di niente al di fuori di loro<br />

stessi.<br />

Una volta concepito un mondo disgregato, formato da “individui”, o da<br />

“soggetti” e “oggetti”, resta il problema di spiegare come possa avvenire il loro<br />

“incontro”. Come è possibile che si “incontrino” “oggetti” e “soggetti”? Come<br />

può lo “spirito” entrare in relazione con la “materia”? Quale tipo di rapporto è<br />

possibile tra sostanze che sono per definizione alternative? Perché si dovrebbero<br />

incontrare, o riunire, data la loro autonomia?<br />

Per di più, la filosofia moderna è fondata su due principi che sembrano<br />

inconciliabili: da un lato enti indipendenti e separati, dall’altro relazioni di<br />

dipendenza rispetto al loro comune fondamento. Come è possibile che cose con<br />

la stessa origine, vengano a trovarsi in uno stato di separazione?<br />

Ecco perché l’idealismo concepisce il soggetto creatore: in un contesto dualistico<br />

di questo tipo, falliti tutti i tentativi di soluzione precedenti, non restava che dare<br />

all’uomo questa facoltà “creatrice”, per cercare di risolvere la contraddizione<br />

insita nel dualismo. Se si fanno coincidere soggetto e fondamento si dovrebbe<br />

eliminare il problema, perché l’oggetto non è più qualcosa di esterno al soggetto<br />

ma dipende totalmente da esso; il soggetto non è accolto in una realtà che gli è<br />

estranea, ma è lui stesso ad ordinarla e a darle un senso. Questa soluzione,<br />

proposta dagli idealisti, dovrebbe permettere di superare sia il dualismo tra<br />

generante e generato, che quello tra sostanza pensante e sostanza materiale.<br />

Questo, del resto, è “il problema” della filosofia moderna. Per il pensatore<br />

moderno diventa fondamentale la questione del rapporto tra i “separati”.<br />

Anche lo scienziato si trova di fronte alla medesima questione: come nascono le<br />

relazioni tra i “corpi”? La meccanica nasce proprio in questo periodo e si pone il<br />

compito di indagare le “leggi” che presiedono al loro moto e alla loro quiete.<br />

Questa scienza si divide in tre parti: la Cinematica che studia il moto dei corpi<br />

indipendentemente dalle “cause” che lo “producono” (il moto di un “oggetto”<br />

può nascere solo se prodotto); la Dinamica che studia le relazioni tra i moti dei<br />

304


corpi e le cause che li determinano (la convinzione e che all’origine di un moto ci<br />

sia sempre una causa); e poi c’è la Statica che studia le loro condizioni di<br />

equilibrio.<br />

La meccanica, allora, usa il principio di causa come fondamento del rapporto tra<br />

gli enti: due corpi possono entrare in relazione solo mediante una causa. La fisica<br />

è una scienza che nasce per studiare cause ed effetti.<br />

Questa scienza non poteva che aver origine nel mondo moderno, ed essa mostra<br />

chiaramente quale sia lo scarto tra l’idea di cosmos come raccoglimento<br />

spontaneo degli enti, e quella di mondo come gigantesco meccanismo composto<br />

da parti separate.<br />

Il filosofo, dal canto suo, oltre a spiegare la relazione tra gli “oggetti”, deve<br />

affrontare la questione relativa al rapporto tra “soggetto” e “oggetto”. Se si<br />

“postula” l’esistenza di enti “a sé stanti”, all’interno di un “ambiente” neutrale,<br />

diventa automatico chiedersi come si realizzino le relazioni tra loro. Se si perde<br />

la relazione originaria (physis), e si pensa alla realtà come insieme di enti<br />

indipendenti all’interno di un “contenitore” neutro, si deve spiegare come tali<br />

enti possano entrare in relazione. L’idealismo trova forse l’unica strada plausibile<br />

per far coesistere soggetto e oggetto. L’ipotesi del soggetto “legislatore”, o<br />

addirittura “artefice”, della realtà sembra la più adeguata tra quelle proposte in<br />

quel periodo, per dare coerenza al quadro d’insieme.<br />

305


Capitolo terzo: La relazione “io-mondo” nella modernità<br />

“L’età moderna dei rapporti tra soggetto e verità comincia il giorno in cui noi postuliamo che, tale<br />

quale egli è, il soggetto è capace di verità, ma che a sua volta, tale quale essa è, la verità non è<br />

capace di salvare il soggetto” 321<br />

I) Introduzione<br />

In questo capitolo cercheremo di accennare, almeno nelle sue tappe principali, la<br />

questione della relazione tra l’io e il suo altro, (e quindi le soluzioni proposte<br />

nell’ambito del dualismo) dalla filosofia moderna. Partiremo dalla meditazione di<br />

Cartesio, che sostanzialmente pone il problema del rapporto tra soggetto e<br />

oggetto, e giungeremo alla soluzione proposta da Hegel.<br />

Non ci dilungheremo però in analisi sul pensiero di questi filosofi ma ci<br />

limiteremo a segnalare gli aspetti che riteniamo più importanti per i nostri fini.<br />

Cercheremo di evincere, dalle speculazioni di questi pensatori, il loro modo di<br />

intendere la relazione, e di conseguenza proveremo a capire come essi impostano<br />

quella tra l’uomo e il suo mondo.<br />

Sostanzialmente, affrontare tale questione significa cercare di conciliare i<br />

concetti di soggetto e di oggetto con quello di relazione.<br />

Il problema dei pensatori moderni è quello di rendere compatibile la dimensione<br />

spirituale con quella materiale. Essi devono mostrare come le due entità possano<br />

entrare in relazione, devono cioè spiegare come la realtà possa diventare<br />

accessibile all’uomo. 322<br />

321 M. Foucault, citazione tratta dall’inserto domenicale del Sole 24 ore di domenica 6 maggio 2001.<br />

322 Il compito è reso difficile anche dal continuo sorgere di correnti scettiche che mettono in dubbio<br />

proprio questa possibilità. Un gruppo agguerrito di pensatori – che va grossomodo da Montaigne a Hume<br />

306


Per i razionalisti si tratta di configurare una relazione di corrispondenza tra i due<br />

ambiti separati della mente e del mondo. Si parte dalla constatazione della loro<br />

indipendenza (che viene ritenuta un dato evidente), e si devono spiegare le loro,<br />

altrettanto evidenti, relazioni.<br />

L’uomo è un individuo che pratica e conosce il mondo. Ma può un “individuo”<br />

relazionarsi proficuamente a qualcosa ad esso esterno? Può egli conoscere la<br />

verità sul mondo che lo ospita, o tutte le sue ipotesi sono destinata a rivelarsi<br />

illusorie? Allora, il problema di fondo è proprio quello di capire che tipo di<br />

relazione si possa instaurare tra due sostanze diverse e separate.<br />

Se la relazione spirito-materia non fosse possibile, infatti, avrebbero ragione gli<br />

scettici: l’uomo elabora pensieri che non hanno alcuna attinenza con la realtà;<br />

sono solo ipotesi prive di qualsiasi fondamento, non c’è alcuna possibilità di<br />

avere un riscontro certo sulle nostre conoscenze, perché la realtà esterna, proprio<br />

in quanto esterna, non può essere raggiunta.<br />

Cartesio cerca di superare le critiche scettiche, e si impegna a costruire un<br />

edificio speculativo attraverso il quale dimostrare che la conoscenza umana è<br />

conoscenza veritativa. Ma il suo pensiero attira molteplici critiche, soprattutto<br />

tra gli empiristi, i quali attaccano il suo apriorismo, il suo dualismo, e il suo<br />

“sostanzialismo”. Locke, Berckeley e soprattutto Hume riescono a produrre<br />

critiche decisive contro l’impianto teoretico cartesiano, e più in generale nei<br />

confronti di tutto il razionalismo.<br />

Ci vorranno poi menti profonde come quelle di Kant e Hegel per uscire dalla<br />

deriva scettica aperta dalla filosofia di Hume. Kant che trasforma il soggetto in<br />

ordinatore e “legislatore” della natura; Hegel che lo fa diventare “assoluto”. Egli<br />

rinuncia all’idea che tra realtà e spirito ci sia una qualche relazione di<br />

corrispondenza, sostiene che tale ipotesi è contraddittoria, e imposta la sua<br />

filosofia sulla centralità e sulla esaustività della soggettività.<br />

– attacca e molto spesso demolisce le ipotesi avanzate dai filosofi razionalisti. Ogni soluzione proposta<br />

infatti lascia spazio a critiche corrosive, che riescono a evidenziare aporie e contraddizioni.<br />

307


II) Cartesio<br />

Allora, cominciamo col seguire il ragionamento di Cartesio: egli – sulla scorta<br />

delle provocazioni scettiche di Montaigne – comincia a dubitare di tutto ciò di<br />

cui non ha conoscenza “chiara e distinta”, allo scopo di scoprire se sia possibile<br />

qualche forma di “sapere”. Il problema di fondo riguarda appunto il modo nel<br />

quale l’uomo stabilisce relazioni col suo mondo, come egli entra in contatto con<br />

esso; la questione è se la sua mente possa avere conoscenza non illusoria della<br />

realtà.<br />

Già questo approccio, però, mostra l’esistenza di un dualismo originario, nel<br />

senso che, cercando “certezze”, Cartesio, implicitamente ammette la<br />

“separazione” tra l’ente che cerca (il soggetto dubitante) e l’oggetto cercato.<br />

Il dualismo cartesiano, in altre parole, è contenuto nelle sue premesse: il<br />

“soggetto” non può che dubitare dell’esistenza e della natura dell’ “oggetto”. Il<br />

filosofo francese è spinto a dubitare dell’esistenza del “mondo esterno” proprio<br />

perché lo considera “esterno”.<br />

Se il mondo è “esterno” a chi lo pensa, è naturale che sorga il dubbio sulla sua<br />

esistenza. Infatti, questa entità esterna (l’oggetto) è necessariamente “estranea” a<br />

chi cerca di pensarla (il soggetto). Il dualismo tra “pensiero” ed “estensione” è<br />

conseguenza dalla natura stessa dell’ente “soggetto”, e dell’ente “oggetto”.<br />

In sostanza date queste premesse, il “pensiero” sarà certo di sé “medesimo”, e<br />

non potrà che dubitare del “diverso”, che è anche “separato”. Il pensiero avrà<br />

conoscenza chiara e distinta del pensato (di “se stesso”) e dubiterà dell’esteso<br />

(l’estraneo).<br />

Del resto, come può l’ “inesteso” avere conoscenze chiare e distinte intorno all’<br />

“esteso”?<br />

Cartesio stesso, dopo aver riconosciuto le diverse sostanze di “mente” e<br />

“mondo”, ammette la necessità del dubbio. Egli argomenta in modo rigoroso: se<br />

il soggetto è sostanza pensante può conoscere solo pensiero, può “declinare” solo<br />

308


pensieri, e allora, che conoscenza può avere di ciò che per definizione è altro dal<br />

pensiero? Come può incontrare ciò che è diverso da sé stesso? Il pensiero<br />

potrebbe incontrare l’estensione solo assumendo estensione, ma questa sarebbe<br />

una contraddizione, perché, per definizione il pensiero non è esteso, non può<br />

avere il carattere dell’estensione. E, allora, quale tipo di corrispondenza ci può<br />

essere tra la cosa pensata e l’oggetto reale? Cosa si può dire intorno alla realtà<br />

fisica?<br />

Il dualismo delle sostanze produce notevoli complicazioni nel cammino<br />

filosofico di Cartesio, egli infatti, abbozza una prima risposta, (del tutto<br />

insoddisfacente) sostenendo che il pensiero coglie con chiarezza la “differenza”<br />

tra sé stesso e la realtà corporea.<br />

Questa risposta però, è debole perché si può cogliere tale “differenza” solo<br />

presupponendo di “conoscere” già le due sostanze; ma ciò sarebbe origine di<br />

contraddizione: se io colgo solo pensiero non posso concepire l’esistenza<br />

dell’estensione (anche questo, essendo un pensiero, come tutti gli altri, si riduce a<br />

pensiero di estensione, e quindi può essere illusorio. Infatti, se affermo che il<br />

pensiero dell’estensione è possibile solo in virtù dell’esistenza dell’estensione, è<br />

facile controbattere che il pensiero del drago non implica l’esistenza del drago).<br />

Quindi, Cartesio presuppone ciò che deve dimostrare.<br />

Il problema è quello di passare dal piano psicologico – che mi dà certezza sul<br />

mio pensiero – al piano ontologico – che mi permette di raggiungere la verità<br />

intorno alla realtà. Cartesio allora ricorre a Dio, in questo modo: gli uomini<br />

possono avere diversi tipi di idee in relazione alla causa che le genera. Le idee<br />

sensibili possono essere prodotte dalla realtà esterna, ma in merito a queste<br />

dobbiamo ammettere che ci possiamo ingannare; altre idee sono prodotte<br />

dall’uomo stesso, grazie alla sua immaginazione, ma anche queste possono<br />

essere illusorie; infine ci sono le idee “innate” le quali provengono da Dio, e<br />

come tali non ci possono tradire, altrimenti sarebbe Dio stesso ad imbrogliarci.<br />

Ma l’Essere onnipotente e infinitamente buono non può ingannare le sue<br />

309


creature. L’uomo si può sbagliare sull’esistenza dello spazio, ma non su quella di<br />

Dio.<br />

Allora, il “ponte” che consente di collegare res cogitans e res extensa, per<br />

Cartesio, viene gettato proprio da Dio. Qui, però, si instaura un circolo vizioso,<br />

che molti filosofi successivamente hanno rilevato; infatti, Dio è sia frutto della<br />

dimostrazione, che fondamento di quella stessa dimostrazione. Il tentativo, del<br />

pensatore francese, di legare sostanze diverse mostra molto chiaramente la<br />

difficoltà insita in questo progetto: come si diceva sopra, partendo dalla<br />

disgregazione è molto difficile uscire dalla disgregazione.<br />

La filosofia di Cartesio, per altro, assume una funzione rivoluzionaria perché egli<br />

concepisce (per primo) l’opposizione tra spirito (il mondo interiore) e materia (il<br />

mondo esterno). Egli, cioè, scopre la dimensione “mentale” della soggettività, nel<br />

senso che mostra la natura “riflessiva” dell’individuo.<br />

Per lui il soggetto è “sostanza pensante”: è “sostanza”, per cui totalmente<br />

autonomo rispetto a ciò che lo circonda; ed è “pensante”, cioè, in possesso di una<br />

facoltà che lo rende unico nell’universo: grazie al cogito l’uomo scopre il suo<br />

“essere”, ed il suo “esistere”. Così facendo, Cartesio isola l’uomo e lo rende<br />

indipendente dal mondo; anzi, scoprendosi “pensante” il soggetto subordina il<br />

mondo a sé stesso; infatti, innanzitutto e immediatamente, egli è sicuro del suo<br />

pensiero, e solo successivamente e mediatamente acquista sicurezza intorno al<br />

mondo esterno. È attraverso tale via che il “soggetto” diventa un ente “a sé<br />

stante”.<br />

Questa breve analisi è sufficiente per mettere in evidenza le difficoltà incontrate<br />

da Cartesio nel tentativo di mettere in relazione soggetto e oggetto; essa mostra i<br />

problemi da lui avuti per costruire un quadro coerente con gli elementi che aveva<br />

a disposizione.<br />

Egli cercò di concepire un modo per far incontrare il pensiero e realtà, ma alla<br />

fine dovette ricorrere all’intervento di Dio. Solo la bontà di quest’ultimo<br />

consente all’uomo di non vivere in un mondo totalmente illusorio.<br />

310


Tutta la sua conoscenza viene a dipendere dalle idee innate. In questo modo<br />

Cartesio non fa che proporre un altro tipo di fondazionalismo, il quale, a<br />

differenza dei precedenti, trova il suo principio, non più nella realtà esterna, ma<br />

nella mente umana (anche se le idee innate, come l’ens dei medievali, sono<br />

sempre un dono di Dio).<br />

D’altro canto però, abbiamo anche visto in quale misura si modifica la posizione<br />

dell’uomo nei confronti del suo mondo, proprio a partire dal pensiero<br />

cartesiano. 323<br />

III) Locke<br />

Un tentativo importante di superare le difficoltà lasciate aperte da Cartesio è<br />

quello di Locke, per il quale, qualsiasi forma di conoscenza è frutto<br />

dell’esperienza. Rimanendo fedele all’etimo della parola “soggetto” egli sostiene<br />

che l’uomo può solo percepire idee, può solo riceverle (con “idea” egli intende<br />

“qualsiasi oggetto dell’attività intellettuale umana”, quindi, sia pensie ri che<br />

sensazioni).<br />

Le idee allora derivano esclusivamente dall’esperienza e non possono essere il<br />

frutto di un’attività creatrice dell’uomo. Esse possono provenire dalla “realtà<br />

esterna”, o dalla “realtà interna”; nel primo caso, sono “sensazioni” (il fr eddo, il<br />

caldo, il dolce, l’amaro, ecc.), nel secondo caso, “riflessioni” (pensieri,<br />

percezioni, conoscenze, ecc.). Secondo Locke avere un idea è percepire un idea,<br />

323 Il tema dell’individualità e della soggettività si sviluppano contestualmente in epoca moderna col<br />

l’obiettivo di dare un ruolo nuovo all’uomo nel mondo. Entrambe considerano l’uomo, non più come<br />

elemento contenuto in un cosmo, in un ordine che lo comprende e lo sovrasta, ma come cosmo esso<br />

stesso; non più periferia ma centro del mondo. E questa è una conseguenza del pensiero umanista e<br />

rinascimentale.<br />

311


perché il pensiero è solo una forma di “riflessione”; ciò significa che le “idee<br />

innate” per Locke non esistono.<br />

Questa convinzione porta conseguenze notevoli; innanzitutto è un elemento di<br />

discontinuità netta col pensiero cartesiano, che invece le poneva a fondamento<br />

della sua teoria, secondariamente essa rappresenta un attacco esplicito ad ogni<br />

forma di apriorismo. In terzo luogo, se non esistono idee innate non esistono<br />

nemmeno principi innati, e quindi, a giudizio del pensatore inglese, il principio di<br />

non contraddizione (caposaldo della filosofia fino a quel momento) non è<br />

qualcosa di necessario.<br />

La conoscenza si fonda su “idee semplici” attraverso le quali è possibile<br />

“comporre” quelle “complesse”. Nel ricevere le idee semplici, il “soggetto” è<br />

completamente passivo rispetto alla realtà; mentre quelle complesse abbisognano<br />

di un’attività produttiva.<br />

Ci sono tre categorie di idee complesse: “modalità”, “sostanza”, “relazione”.<br />

Quindi queste categorie non sono innate, ma prodotte. Ciò significa che il<br />

soggetto possiede l’idea di sostanza in quanto da egli stesso prodotta, e non<br />

perché essa è apriori. Così Locke esclude che l’uomo possa conoscere il<br />

“substrato”, o l’essenza del reale, anzi afferma che se anche queste cose<br />

esistessero sono talmente oscure da essere totalmente inutili per l’uomo.<br />

Quindi, l’idea di sostanza è un idea complessa, prodotta dall’uomo in funzione<br />

della sua utilità, e non un fondamento della realtà, o del pensiero. Ciò significa<br />

che, nemmeno il “soggetto” può essere “substrato”, infatti, Locke lo considera<br />

solo come “entità percepente”; egli, cioè, si attiene strettame nte al significato<br />

latino: “chi è esposto ad un azione proveniente dall’esterno”. Certo, l’uomo<br />

riceve diverse sensazioni da uno stesso oggetto, ma ciò non significa che esse<br />

condividano, o che esse provengano da una cosa chiamata substrato.<br />

In altre parole, chi sostiene l’esistenza dei fondamenti confonde una sua esigenza<br />

di ordine con l’esistenza di entità necessarie. Locke insomma considera il<br />

concetto di sostanza arbitrario e si spiega in questi termini: «Se qualcuno<br />

chiederà che cos’è il substrato al quale il colore o il peso ineriscono, si risponderà<br />

312


che tale substrato sono le stesse parti estese e solide; e se si domanda a che cosa<br />

ineriscono la solidità e l’estensione non si potrà rispondere, nel migliore dei casi,<br />

se non come quell’indiano, il quale, dopo aver affermato che il mondo è<br />

sostenuto da un grande elefante, fu richiesto su che cosa l’elefante poggiasse; al<br />

che rispose: su una grande tartaruga. Ma essendogli ancora domandato quale<br />

appoggio avesse la tartaruga, rispose: qualcosa che io non conosco<br />

affatto…L’idea alla quale noi diamo il nome generale di sostanza non è altro che<br />

tale supposto, ma sconosciuto sostegno delle qualità effettivamente esistenti». 324<br />

L’attacco di Locke al concetto di sostanza è esplicito e senza riserve. Egli si<br />

rende conto che cercare l’inconcusso per spiegare il reale è contraddittorio; tutto<br />

si riduce ad un’operazione intellettuale che prima postula la relazione causale tra<br />

le sostanze e poi si deve arrendere di fronte alla sua contraddittorietà. Egli invita<br />

a limitarsi a ciò che realmente esperiamo, senza pensare di fondarlo su qualcosa<br />

di sicuro e stabile, che renda certa la nostra conoscenza; perché così facendo<br />

abbandoniamo la saggia via dell’empirismo, per avventuraci in peripezie<br />

intellettuali che si rivelano sempre insoddisfacenti e inconcludenti.<br />

Egli così vuole mettere in discussione l’intero impianto deduttivo cartesiano. A<br />

suo parere infatti, Cartesio non raggiunge nessuno degli obiettivi che si era<br />

prefisso; ed anzi, non solo non riesce a fondare la conoscenza su basi solide (in<br />

grado di sconfiggere il dubbio metodico), ma addirittura, si priva dell’unica fonte<br />

di conoscenza che l’uomo possieda: la sua esperienza.<br />

Locke supera il dualismo delle sostanze cartesiano, eliminando l’idea stessa di<br />

sostanza. Egli afferma che non c’è necessità di un incontro tra diverse sostanze<br />

perché si produca conoscenza, ma è sufficiente la nostra esperienza, cioè, quello<br />

che il soggetto riceve dalla realtà. Tutto il resto è ridondante è viene eliminato<br />

attraverso l’uso del rasoio di Ockham.<br />

Allora, la corrispondenza, tra “mondo” e “mente”, è dovuta, secondo il filosofo<br />

inglese, all’azione causale della realtà sul pensiero.<br />

324 J. Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Bari-Roma, 1972, II, 23, 2.<br />

313


In questo modo, però, egli non elimina il dualismo, ma lo modifica soltanto, in<br />

quanto, non è sufficiente negare il concetto di sostanza per superare il dualismo<br />

tra “interno” ed “esterno”, tra il mentale e il reale. Locke, in altri termini, non<br />

elimina la separazione tra realtà interna e realtà esterna, ma toglie soltanto la loro<br />

natura “sostanziale”. In più lascia aperto il problema della relazione tra idee<br />

semplici e idee complesse. Non ci dice infatti come possono scaturire le une dalle<br />

altre.<br />

L’idea di relazione tra uomo e mondo che mostra di avere Locke è ancora quella<br />

causale. Egli concepisce un rapporto di dipendenza tra la realtà esterna e la<br />

capacità percettiva dell’uomo. Egli combatte il concetto di sostanza, ma<br />

nonostante questo immagina ancora un rapporto di dipendenza, quando dipinge<br />

l’uomo come semplice recettore della realtà esterna. In sostanza, egli mette un<br />

principio inconcusso – la realtà – e poi descrive la nostra conoscenza come una<br />

funzione adeguativa della mente nei confronti di questo principio.<br />

Allora si tratta sempre dell’incontro tra due realtà indipendenti e separate, anche<br />

se private della loro natura sostanziale. Tra loro è ancora necessario stabilire (e<br />

poi provare) una qualche forma di corrispondenza. Locke assegna questo<br />

compito all’esperienza sensibile, senza però mostrare come essa possa<br />

effettivamente operare. Alla fine egli aggira la questione proposta da Cartesio,<br />

senza risolverla.<br />

314


IV) Berckeley<br />

Di tutto questo si rende conto Berckeley, secondo il quale, non si può sostenere<br />

l’esistenza di enti che non siano percepiti, se prima si afferma che la conoscenza<br />

è frutto dell’esperienza.<br />

Locke, a suo avviso, cade proprio in questa contraddizione, infatti, pur<br />

sostenendo che non esiste alcuna conoscenza che possa prescindere<br />

dall’esperienza, ammette poi l’esistenza della realtà esterna. Berckeley gli obietta<br />

che se così stanno le cose, è contraddittorio affermare l’esistenza di una realtà<br />

esterna di cui “per definizione” non si ha alcuna esperienza. Attraverso questa<br />

logica stringente, e un po’ paradossale, egli arriva ad affermare il celebre “esse<br />

est percepi” (principio che costituirà un riferimento per tutto l’idealismo<br />

successivo). Per il filosofo inglese non si può dire proprio nulla su ciò che non è<br />

percepito, e quindi, l’essere stesso delle cose coincide con il loro essere<br />

“percepite”.<br />

Berckeley esclude che al di fuori delle percezioni vi siano cose materiali che<br />

agiscono sulla mente, e che l’idea sia una copia della realtà. O meglio, afferma<br />

che non possiamo essere certi della realtà esterna, e che quindi ci dobbiamo<br />

limitare alle nostre impressioni. Allora, è necessario fermarsi al percepito e a ciò<br />

che lo fonda: il “soggetto”. L’unica cosa di cui non posso dubitare, per il filosofo<br />

inglese, è la mia natura spirituale, e la mia facoltà percettiva.<br />

Allora, qual è la causa delle idee, da dove provengono se non dal vengono dal “di<br />

fuori”? Esse sono prodotte da uno spirito superiore che è Dio, il quale ce le<br />

trasmette. Il soggetto non attinge più dalla realtà fisica, ma direttamente da Dio.<br />

Le cose, quindi, non hanno una realtà esterna allo spirito. In questo modo, egli<br />

nega che le idee siano legate tra loro da rapporti causali, proprio perché esse<br />

provengono da Dio.<br />

In sostanza, egli supera il dualismo eliminando la res extensa e mantenendo la<br />

res cogitans. Il dualismo diventa monismo. Allora, in Berckeley, c’è la<br />

consapevolezza che la “separazione” è la fonte di ogni problema. Egli sa che se<br />

affermo la separazione tra materia e spirito, e assumo come criterio di verità la<br />

315


loro “corrispondenza”, non avrò alcuna possibilità di produrre questo “incontro”.<br />

Tra la cosa percepita e la cosa in sé non c’è mediazione possibile, l’una esclude<br />

l’altra.<br />

Tutte le correnti scettiche, ad avviso di Berckeley, hanno avuto buon gioco nel<br />

falsificare ogni forma di conoscenza “corrispondentista”, perché non è possibile<br />

“sapere” se le cose percepite sono “adeguate” alle cose non percepite. È già un<br />

controsenso “pensare” alle cose “non pensabili”. Come posso, infatti,<br />

raggiungere ciò che è altro da me per definizione? Se non posso andare oltre il<br />

pensiero come posso raggiungere la materia?<br />

Queste sono obiezioni radicali contro ogni forma di dualismo. Obiezioni che<br />

fanno intuire la irreversibilità di una condizione originaria di separazione e di<br />

disgiunzione. Due “corpi” che si muovono su piani diversi non si possono<br />

incontrare assolutamente; allora, Berckeley cerca di farli appartenere ad un piano<br />

unico, quello spirituale.<br />

In altre parole, anche per il pensatore irlandese, se non c’è una natura condivisa,<br />

se non c’è un riferimento comune, non ci può essere relazione.<br />

Berckeley è il primo filosofo post-aristotelico ad avere una chiara percezione di<br />

questo fatto.<br />

La distinzione tra interno ed esterno non viene, però, completamente superata.<br />

Infatti, la mente di Dio non coincide con la mente umana, perché la precede, e ne<br />

sta a fondamento. Allora, anche per Berckeley, viene a porsi un rapporto tra<br />

qualcosa di esterno (la mente di Dio) e qualcosa di interno (la mente dell’uomo);<br />

e questo rapporto è di natura causale. Quindi, egli rifiuta il principio di causa tra<br />

le idee, ma lo ammette come base della relazione tra queste e Dio. Berckeley, in<br />

questo modo, continua a muoversi all’interno di una cornice moderna, fatta di<br />

“fondamenti” e “cause”, “oggetti” e “soggetti”.<br />

316


V) Hume<br />

Il concetto di causa come principio di relazione necessaria tra enti viene invece<br />

superato da Hume. Egli mostra che la causa non è che uno stratagemma inventato<br />

dall’uomo su basi totalmente induttive, e non la prova logica dell’esistenza di<br />

legami necessari tra enti, e nemmeno tra gli enti e il loro fondamento. «Quel che<br />

si vuol sapere è se ogni “oggetto” che comincia a esistere sia debitore della sua<br />

esistenza a una causa: io affermo che questo né intuitivamente né<br />

dimostrativamente è certo». 325<br />

Qui Hume condensa in una frase l’argomento che svilupperà nel lib ro: Egli<br />

afferma che il “cominciamento” di qualsiasi oggetto (la sua origine) non deve<br />

necessariamente essere riferito ad una causa generante. In questo modo egli<br />

mette contemporaneamente in questione i concetti di fondamento e di causa.<br />

L’inizio di un esistenza, egli dice, non deve senz’altro essere attribuita ad una<br />

causa: ovvero l’idea che a fondamento di qualsiasi oggetto, e quindi di qualsiasi<br />

fenomeno o evento, bisogna porre una causa generante, non ha alcuna evidenza<br />

assoluta. Non c’è alcun motivo, alcuna prova che ci induca a sostenere la<br />

presenza di relazioni di questo tipo. In altre parole, l’idea che ogni cosa provenga<br />

da qualcosa di precedente con la quale essa è in una relazione di derivazione è<br />

tutta da discutere, a meno che non si voglia considerare la nostra esperienza<br />

sensibile, quello che ci capita di vedere ogni giorno, una prova irrefutabile. Ma<br />

allora si finisce per confonde la filosofia con la chiacchiera quotidiana, perché tra<br />

ciò che osserviamo giornalmente è ciò che realmente accade in natura non<br />

abbiamo dimostrato alcuna corrispondenza. Anzi, lo scopo della scienza in<br />

genere dovrebbe essere proprio quello di indagare le relazioni esistenti tra<br />

sensazioni e fatti. Il problema allora sta nel verificare il modo nel quale la natura<br />

agisce sull’uomo; e secondo Hume si può escludere che esso sia configurabile<br />

come un rapporto di causa. Egli quindi vuol mostrare che il principio di causa<br />

325 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari, 1993, pag. 95. Corsivo aggiunto.<br />

317


non è responsabile né delle relazioni tra oggetti, e nemmeno di quelle tra<br />

soggetto e oggetto.<br />

Hume poi sostiene che, se si prescinde dall’esperienza personale, non è possibile<br />

prevedere l’effetto di una qualsiasi causa. Se non avessi mai visto una palla da<br />

biliardo colpirne un’altra (e niente di simile) non sarei in grado di prevedere<br />

l’effetto del loro incontro. Ciò significa che l’idea di causa efficiente non è né un<br />

principio naturale, né un principio di ragione, ma solo il risultato della nostra<br />

esperienza. Siamo abituati a osservare certi tipi di relazioni e pensiamo che esse<br />

si debbano verificare necessariamente, ma non abbiamo nessuna dimostrazione<br />

di ciò.<br />

Causa ed effetto sono eventi diversi, disgiunti, legati solo da una “vicinanza”<br />

temporale, e spaziale, non da una relazione logica, o fisica. Così la supposta<br />

regolarità della natura, che sarebbe origine del principio di causa non esiste, anzi,<br />

siamo noi che dopo aver formulato tale principio, lo abbiamo assegnato alla<br />

natura come il suo carattere fondativo. Così, la massima generale della filosofia,<br />

secondo la quale tutto ciò che comincia ad esistere deve avere una causa, non è<br />

sorretta da alcuna prova “scientifica”, ma è solo una supposizione senza<br />

fondamento alcuno.<br />

Questo, oltre ad essere uno scacco per il meccanicismo, è anche un attacco<br />

frontale a qualsiasi forma di fondazionalismo. Perché, se non riusciamo a<br />

dimostrare nessi di concatenazione causale tra enti, oggetti o fenomeni, non<br />

possiamo neanche risalire ad un principio primo.<br />

Ed è sostanzialmente per questo che Hume è stato considerato l’alfiere dello<br />

scetticismo moderno. Noi possiamo solo supporre che la realtà sia un insieme di<br />

“oggetti” legati necessariamente, e provenienti da un unico fondamento, non lo<br />

possiamo dimostrare. A suo avviso, intorno ad un mondo concepito in questo<br />

modo non avremo mai conoscenza certa.<br />

Quindi, se da un lato Berckeley dimostra che tra sostanze diverse non si dà<br />

alcuna relazione, dall’altro, Hume ci spiega che tali relazioni non sono possibili<br />

neanche tra semplici “oggetti”.<br />

318


Hume mostra con grande efficacia che quel tipo di enti, che noi chiamiamo<br />

“oggetti”, non possono essere collegati nemmeno dal principio di causa<br />

efficiente. Tra l’urto e il successivo movimento non c’è altro tipo di relazione se<br />

non quella attribuita dalla nostra esperienza; tra loro non esiste alcun tipo di<br />

collegamento necessario.<br />

Ciò significa che se la realtà è costituita di “oggetti”, noi non abbiamo alcuna<br />

speranza di trovare delle relazioni stabili e sicure tra loro.<br />

Un oggetto, data la sua natura, non è relazionabile con niente di ciò che lo<br />

circonda.<br />

Questo è un risultato analogo a quello raggiunto in precedenza ragionando<br />

sull’etimologia di questa parola. L’ “oggetto” è res obiecta e come tale non è<br />

collegabile al suo simile per definizione.<br />

Hume fornisce un supporto teoretico a questa convinzione. Egli sostiene che ogni<br />

tentativo di produrre legami tra “oggetti” e destinato a fallire, e lo dimostra il<br />

fatto che il più solido tra di essi, la relazione di causa, non è che l’estensione<br />

induttiva della nostra esperienza sensibile al campo della filosofia e della scienza,<br />

non una relazione fondamentale tra gli enti in natura. La relazione causale è il<br />

frutto di un ragionamento, è il risultato di una ricerca intellettuale, volta a<br />

spiegare quale tipo di legami si instaurino tra gli enti nel mondo. Ma questa<br />

ricerca ha confuso un aspirazione a colmare una lacuna della ragione, con una<br />

caratteristica della natura. Nessuno, a parere di Hume, ha dimostrato l’esistenza<br />

in natura di questo tipo di relazioni.<br />

319


VI) Kant<br />

Su questo background si sviluppa la filosofia di Kant. Egli condivide con Hume<br />

l’idea che non ci possa essere conoscenza certa della realtà esterna, e più in<br />

generale condivide con gli empiristi l’idea che ogni forma di sapere debba avere<br />

come incipit l’esperienza. Ma contro Hume, Kant sostiene che la conoscenza<br />

certa (della natura) non solo è possibile ma già esiste.<br />

Lo scopo principale della Critica della ragion pura è proprio quello di<br />

dimostrare che la matematica, e la fisica di Newton, sono scienze costituite da<br />

“giudizi sintetici a priori” (sono scienze, cioè, che ci danno informazioni certe e<br />

costruttive sulla natura).<br />

Allora, si tratta di distinguere tra ciò che si può conoscere – il “fenomeno” – e<br />

quello che non si può conoscere – la “cosa in sé” (o “noumeno”).<br />

Il fatto che, fenomeno e noumeno siano concetti inconciliabili, non significa che<br />

all’uomo sia preclusa la conoscenza della realtà che lo circonda, anzi, è la pretesa<br />

di conoscere le cose in sé stesse che porta fatalmente allo scetticismo. Infatti,<br />

qualsiasi ipotesi sulla realtà “esterna” al soggetto è destinata, per definizione, a<br />

rimanere tale. L’oggetto com’è in sé non può mostrarsi, perché ciò che si mostra,<br />

nel momento in cui si mostra, ha natura “fenomenica”, ed è solo in quanto<br />

“fenomeno” che noi lo possiamo percepire. Pensare di percepire (quindi di<br />

“incontrare”) la cosa in sé è contraddittorio. La cosa in sé (in quanto cosa in sé) è<br />

destinata a rimanere non-manifesta, e quindi inconoscibile; essa potrebbe essere<br />

oggetto solo di un’“intuizione intellettuale”, ma l’uomo non è dotato di tale<br />

capacità, e può conoscere solo a partire dalla sua funzione percettiva: egli, in<br />

definitiva, non può cogliere la realtà in sé stessa, con il puro atto del suo<br />

pensiero.<br />

Chiarito questo, Kant si dedica alla dimostrazione della fondatezza del sapere<br />

fenomenico. Egli vuol mostrare, primo, che i fenomeni non sono immagini<br />

sbiadite della realtà, ma corrispondono alla realtà stessa di tutto quello che ci<br />

circonda, (rimanendo “problematico” il concetto di “realtà in sé”) secondo, che la<br />

“realtà fenomenica” è fond ata su leggi necessarie che l’uomo conosce a priori.<br />

320


La conoscenza è basata su due “funzioni” del soggetto, una percettiva e passiva,<br />

l’altra attiva e ordinatrice. Nell’ “Estetica trascendentale” egli descrive la prima<br />

funzione: la cosa esterna agisce causalmente sulla sensibilità del soggetto<br />

provocando le “intuizioni empiriche”. 326<br />

Per poter ricevere delle sensazioni sono necessarie le forme a priori (o<br />

trascendentali) della sensibilità: lo spazio e il tempo. Quindi spazio e tempo non<br />

sono le strutture fondanti della realtà in sé stessa (come, invece, pensava<br />

Newton) ma sono i cardini della capacità percettiva del soggetto; esse sono<br />

“apriori”, cioè, colte dal soggetto prima di qualsiasi esperienza, e sono<br />

“trascendentali”, in quanto “condizioni di possibilità dell’esperienza”. Kant le<br />

definisce “intuizioni pure” per distinguerle dalle “intuizioni empiriche”.<br />

Per il filosofo tedesco, spazio e tempo sono il fondamento dei giudizi sintetici a<br />

priori della matematica.<br />

Nella “Logica trascendentale”, Kant si occupa della “funzione” intellettiva del<br />

soggetto, quella che determina i rapporti tra gli elementi del pensiero e gli oggetti<br />

dell’esperienza. Tali rapporti sono permessi dalle “categorie”, o “concetti puri”, i<br />

quali sono le condizioni di possibilità (trascendentali) per qualsiasi pensiero. Le<br />

categorie sono “leggi a priori” dell’intelletto che prescindono da qualsiasi<br />

esperienza, e consentono di formare qualsiasi pensiero compiuto; in buona<br />

sostanza, rappresentano la totalità delle articolazioni dell’ intelletto.<br />

La combinazione di “intuizioni” e “concetti puri” porta alla formazione dei<br />

“giudizi”; ad esempio: “la penna è sul tavolo”, è un giudizio possibile grazie<br />

all’incontro tra la molteplicità delle sensazioni che quell’immagine causa, e le<br />

categorie dell’intelletto. Così, per Kant pensare è “unificare”. Il molteplice<br />

sensibile diventa giudizio grazie alla facoltà “unificatrice” dell’intelletto. Ma<br />

cosa rende possibile tale fusione? Non può essere la sensibilità, dal momento che<br />

essa svolge un ruolo esclusivamente passivo, e affinché si verifichi questo<br />

incontro serve un’azione produttiva. Allora, la causa non può che risiedere<br />

326 Abbiamo già visto che il soggetto non può avere intuizioni intellettuali, se le potesse avere, non<br />

sarebbero necessarie quelle empiriche, quindi esse si escludono a vicenda.<br />

321


nell’intelletto. Quindi, è l’atto spontaneo del soggetto a causare l’unificazione tra<br />

intuizioni e categorie. 327<br />

La soggettività di cui parla Kant non è quella empirica, ma quella<br />

“trascendentale”. Il soggetto trascendentale, o “io penso” è il fondamento,<br />

l’origine, e la causa di ogni sapere. Ed è grazie ad esso che, Kant è in grado di<br />

mostrare l’esistenza dei “giudizi sintetici a priori”, quei giudizi cioè che<br />

caratterizzano la fisica newtoniana. 328<br />

Tutto l’edificio kantiano poggia sul concetto di “soggettività trascendentale”,<br />

data la sua natura “funzionale”, “unificatrice” ed “organizzatrice” della natura.<br />

Kant, in sostanza, capisce la contraddizione presente nell’idea dell’incontro delle<br />

diverse nature, e cerca di porvi rimedio, senza cadere nello scetticismo di Hume.<br />

Se considero il soggetto come natura pensante, lo caratterizzo in un certo modo, e<br />

lo pongo all’interno di ben delineati confini. Essere “pensiero” vuol dire, in<br />

primo luogo, non poter essere, e non poter diventare, altro al di fuori del<br />

pensiero. 329<br />

Se il soggetto è sostanza pensante, egli non potrà nemmeno “incontrare” nulla al<br />

di fuori del pensiero, pena il venir meno della sua stessa natura. Come può un<br />

ente di natura spirituale incontrare enti di natura materiale? Se il soggetto è nella<br />

sua essenza pensiero, non potrà produrre (e quindi incontrare) nulla al di fuori di<br />

pensieri. Nel momento in cui si popola il mondo di sostanze diverse, lo si<br />

condanna a rimanere un insieme disgregato di individualità diverse.<br />

La separazione è insita nelle premesse: se considero l’ente come ciò che è dotato<br />

di una certa “natura”, per poter “mantenere” quella natura, non lo potrò più<br />

“mescolare” con qualcosa di diverso da se stesso. Se l’individuo è sostanza<br />

327 L’ “io penso” di Kant ha una natura esclusivamente “funzionale”, nel senso che, è l’ “unità<br />

trascendentale” che unifica le sensazioni in oggetti di conoscenza; in altre parole, esso è l’ente che attua<br />

l’organizzazione della realtà fenomenica, è il “legislatore della natura formaliter spectata”; Cosa ben<br />

diversa dalla sostanza individua e indipendente di Cartesio.<br />

328 Anche Hume ammetteva l’esistenza di giudizi a priori, però secondo lui, non potevano essere<br />

sintetici, ma solo analitici.<br />

329 Ciò sembra banale, ma non lo è, se si pensa che ci sono volute le profonde intuizioni degli empiristi<br />

e le poderose argomentazioni kantiane per rendere chiaro questo concetto.<br />

322


pensante, per poter rimanere tale, non potrà mescolarsi alla sostanza materiale,<br />

altrimenti diventerà qualcosa di diverso dalla originale sostanza pensante. Egli<br />

tutt’al più potrà essere sostanza che pensa alla materia, e quindi il suo incontro<br />

con la materia non potrà darsi, sé non in modo indiretto. Ma, il pensare alla<br />

materia è un modo mediato di arrivare alla materia, e come tale non mi può dare<br />

la certezza che il pensiero di “qualcosa” coincida con quel “qualcosa”.<br />

I problemi sollevati dagli empiristi partivano tutti da queste considerazioni.<br />

Lo stesso Kant, allora, si trova a dover conciliare lo scetticismo di Hume – che<br />

egli reputava del tutto appropriato, date le precedenti premesse – con la certezza<br />

delle conoscenze prodotte dalla fisica di Newton. Da un lato, l’inconciliabilità<br />

della separazione tra le sostanze, dall’altro, le conoscenze della fisica, che egli<br />

reputava certe e definitive, sulla natura. La soluzione trovata fu quella di rendere<br />

“problematica” l’idea della cosa in sé stessa (così da sfuggire alla critica<br />

humiana), e di dimostrare la “scientificità” della conoscenza fenomenica (a<br />

sostegno dei lavori di Newton).<br />

In buona sostanza, il filosofo tedesco vuole dimostrare la possibilità, da parte<br />

della fisica, di produrre giudizi sintetici a priori.<br />

In sintesi, abbiamo visto che la filosofia di Cartesio si basa su di un insanabile<br />

dualismo tra res cogitans e res extensa. Dualismo che, a sua volta, trova origine<br />

nei concetti stessi di “soggetto” e “oggetto”: se per avere conoscenza è<br />

necessario l’incontro tra queste due sostanze, è impossibile che essa si produca.<br />

Hume lo dimostra con particolare efficacia: egli osserva che non esiste alcuna<br />

possibilità di provare che l’oggetto percepito corrisponda all’oggetto reale, cioè,<br />

non esiste possibilità di “creare” una relazione necessaria (causale) tra sostanza<br />

diverse. Kant attribuisce al lavoro di Hume una valenza “anti-dogmatica”, nel<br />

senso che, a suo avviso, Hume mostra, una volta per tutte, che l’idea di poter<br />

ottenere una conoscenza certa sul mondo esterno è solo un “dogma” (ereditato da<br />

secoli di pensiero metafisico che lo ha sempre accettato acriticamente).<br />

323


Il filosofo tedesco, a questo punto, si convince che l’unica strada per evitare lo<br />

scetticismo è quella di rimuovere il dualismo, non solo quello delle sostanze, ma<br />

più in generale ogni forma di contrapposizione tra realtà interna ed esterna al<br />

soggetto. Egli, cioè, individua nella opposizione “interno-esterno” l’origine di<br />

tutte le difficoltà della metafisica: se l’obiettivo è quello di conoscere ciò che sta<br />

al di fuori del soggetto, il fallimento è inevitabile. Kant, allora, concepisce la<br />

realtà in sé – quella esterna al soggetto – come “noumeno” cioè qualcosa che è<br />

solo pensabile.<br />

Egli quindi ammette l’esistenza di una realtà esterna (contro Berckeley), ma la<br />

ritiene del tutto inconoscibile. Il concetto di “noumeno”, allora, ha una valenza<br />

solo “negativa”, sta per ciò che non è oggetto di conoscenza; e non può essere<br />

inteso nemmeno come ciò che sta dietro al fenomeno, o ciò da cui il fenomeno<br />

proviene, perché anche questa sarebbe una caratterizzazione eccessiva; si<br />

stabilirebbe una relazione tra due entità (fenomeno e noumeno) che non possono<br />

essere correlate.<br />

Per Kant, il soggetto può conoscere a partire dai “trascendentali”, i quali si<br />

possono applicare alla sola realtà sensibile; così, il concetto di “cosa in sé”<br />

trascende le nostre possibilità di conoscenza. Kant scrive: «In conclusione, però,<br />

la possibilità di tali noumena non si può affatto comprendere, e l’ambito che si<br />

estende al di là della sfera dei fenomeni è (per noi) vuoto. Ossia, noi abbiamo un<br />

intelletto, che si estende p r o b l e m a t i c a m e n t e al di là di tale sfera, ma<br />

non possediamo affatto un’intuizione – anzi, neppure il concetto di un’intuizione<br />

possibile – mediante la quale possano esserci dati degli oggetti al di fuori del<br />

campo della sensibilità, e l’intelletto possa venir usato a s s e r t o r i a m e n t e al<br />

di là della sensibilità. Di conseguenza il concetto di noumeno è semplicemente<br />

un concetto limite per restringere le pretese della sensibilità e perciò è soltanto di<br />

uso negativo». 330<br />

330 I. Kant, Critica della ragion pura, Adelphi, Milano, 1995, pag. 329.<br />

324


Allora, egli ammette che non si dà relazione tra soggetto e cosa in sé, ma osserva<br />

anche che noi conosciamo tramite la nostra esperienza, quindi, ciò che ci<br />

circonda (e di cui abbiamo esperienza) non può che avere natura fenomenica.<br />

Il fenomeno (phainomenon), infatti, è ciò che appare, ciò che si manifesta al<br />

soggetto, ed è, in qualche misura, “già da sempre presso il soggetto”. In questo<br />

caso, la relazione non può non darsi, perché il fenomeno è tale solo nel momento<br />

in cui si manifesta al soggetto, né prima, né dopo; se il fenomeno esiste, esiste in<br />

quanto percepito. La sua relazione col soggetto è necessaria, è insita nel concetto<br />

stesso di “fenomeno”. A questo punto, Kant introduce i “trascendentali” – della<br />

sensibilità e dell’intelletto – per dimostrare che la conoscenza, oltre ad avere<br />

carattere fenomenico, possiede anche contenuto necessario, veritativo.<br />

In altre parole, il fatto che il soggetto debba fermarsi ai fenomeni non è una<br />

limitazione, ma una condizione “esistenziale”, bisogna rendersi consapevoli che<br />

al di là dei fenomeni tutto diventa “problematico”. Ogni tentativo di spingersi<br />

oltre genera solo contraddizioni. 331<br />

Abbandonata definitivamente la speranza di conoscere le cose in sé, ci si può<br />

dedicare alle forme adeguate, pertinenti della conoscenza.<br />

Se il soggetto “riceve” la natura grazie a “forme a priori”, e la ordina usando<br />

concetti puri, significa che la possibilità della loro relazione è originaria. E<br />

questo è un passo in avanti rispetto all’empirismo, che pensava l’esperienza<br />

come il frutto di relazioni a posteriori tra l’ente soggetto (il quale era inteso come<br />

tabula rasa) e gli oggetti della natura. L’esperienza sensibile non può nascere da<br />

un “incontro” tra entità estranee, e isolate, ma si costruisce a partire da una<br />

relazione contemplata a priori tra soggetto e fenomeno.<br />

Tale relazione, allora, non nasce con il singolo “soggetto empirico”, ma è una<br />

“funzione originaria” del “soggetto trascendentale”. Egli è il “legislatore” della<br />

natura, la ordina secondo forme a priori.<br />

Usando una terminologia aristotelica, si può dire che la relazione, l’unione, tra<br />

soggetto trascendentale e fenomeno c’è già da sempre “in potenza”, e si realizza<br />

331 Abbiamo già visto che l’idea di “cosa in sé” nasce solo da un uso improprio delle categorie.<br />

325


nell’ “atto” di ogni singola esperienza empirica. Così, la funzione “unificatrice”<br />

a priori del soggetto trascendentale, rende possibile l’azione conoscitiva del<br />

soggetto empirico. E, a sua volta, l’unificazione è possibile grazie alla<br />

“omogeneità” delle cose che si uniscono, grazie alla loro “tendenza originaria”<br />

all’unione.<br />

Kant conclude la “Critica” con la “Dialettica trascendentale” nella quale<br />

distingue tra un sapere veritativo basato sull’esperienza, e un sapere apparente<br />

che cerca di fare a meno dell’esperienza. Egli sostiene che la pretesa dell’uomo<br />

di andare oltre i fenomeni, per raggiungere la realtà in sé è ingannevole. La<br />

dialettica, allora, è una scienza “sofistica” che produce solo illusioni; infatti, noi<br />

possiamo avere esclusivamente quel tipo di conoscenza che si ottiene coniugando<br />

esperienza e condizioni a priori.<br />

Un sapere fondato sull’esperienza non può che rinviare ad altro da sé, a qualcosa<br />

che lo precede e ne permette la realizzazione; e questo è un limite invalicabile.<br />

Ma l’uomo tende, per sua natura, ad avventurarsi oltre tale limite e a cercare l’<br />

“assolutamente incondizionato”. In questo modo egli abbandona la struttura<br />

categoriale dell’intelletto (Verstand), e approda sul terreno infido ed ingannevole<br />

della ragione (Vernunft). Anche la ragione funziona su concetti puri (che Kant<br />

definisce “idee” per differenziarle dalle categorie), i quali però oltre ad essere<br />

trascendentali sono anche trascendenti. Essi allora, non sono raggiungibili<br />

dall’intelletto tramite i giudizi, ma si possono pensare solo per mezzo di<br />

sillogismi. Quindi, la ragione non può raggiungere alcun tipo di certezza.<br />

Il pensatore tedesco sostiene che se la metafisica è il tentativo di produrre<br />

conoscenza intorno alle idee della ragione essa non può che fallire; così alla<br />

domanda se sia possibile la metafisica come scienza si deve rispondere<br />

negativamente.<br />

Con quest’opera Kant riesce a risolvere un problema posto dal razionalismo, e<br />

nello stesso tempo a invalidare una delle obiezioni empiriste. Ma non riesce a<br />

risolvere altri problemi insiti nelle pieghe del pensiero moderno.<br />

326


La questione che rimane aperta è quella relativa ai rapporti tra enti, o meglio,<br />

quella relativa al principio di causa efficiente. Nella “Critica”, Kant sostiene che<br />

la realtà fenomenica funziona in base alle stesse leggi che un tempo si<br />

attribuivano alla realtà in sé. Anzi, afferma che proprio quelle leggi che si<br />

pensava caratterizzassero il mondo esterno, sono, invece, una prerogativa del<br />

mondo fenomenico: totalità, realtà, sostanza, accidente, causa, necessità, sono<br />

tutte categorie, non del mondo reale, ma di quello fenomenico. In questo modo,<br />

però, egli risolve un problema e ne lascia aperto un altro.<br />

In sostanza, il tentativo di rispondere allo scetticismo non riesce fino in fondo.<br />

Hume pone infatti due problemi: in primo luogo sostiene che non c’è alcuna<br />

evidenza, nessuna prova, che ci consenta di affermare che il percepito<br />

corrisponda al reale, e ciò è fonte di scetticismo. A questa critica Kant risponde<br />

“trasportando” la realtà con le sue leggi a livello fenomenico. Però, c’è un’altra<br />

obiezione di Hume: quella secondo la quale il principio di causa efficiente<br />

(fondamento della fisica e della filosofia), non è una necessità logica, né un<br />

principio della natura, ma solo un idea prodotta dall’uomo su basi del tutto<br />

induttive. A questa obiezione Kant non risponde, infatti, quando egli sostiene che<br />

la causa non fa parte del mondo reale, ma solo di quello fenomenico, non ha<br />

ancora detto nulla intorno al “concetto” di causa, e gli rimane sempre da spiegare<br />

perché la causa dovrebbe far “incontrare” i “fenomeni”, se non riesce a far<br />

“incontrare” oggetti.<br />

La critica che Hume rivolge alla fondatezza, e alla consistenza di quel principio<br />

non viene intaccata dalle argomentazioni kantiane. Se il principio di causa è<br />

induttivo a livello reale, continua a rimanere basato sull’induzione anche a livello<br />

fenomenico. E non serve, a risolvere il problema, la postulazione della sua<br />

aprioricità, e della sua necessità, perché così veniva inteso anche prima: un<br />

fondamento apodittico e inconcusso delle relazioni tra oggetti; ma dopo Hume,<br />

non ci si può più accontentare di un perentorio quanto superficiale “assioma”.<br />

Per poter considerare ancora la causa efficiente un “principio”, si dovrebbe<br />

327


mostrare che la critica humiana è senza fondamento. Ma Kant evita questo tipo di<br />

sfida. 332<br />

Quindi, sulla scorta del discorso di Hume, si può sostenere che le relazioni<br />

necessarie sono assenti anche dal mondo fenomenico, e che la fisica di Newton<br />

non un sapere necessario, ma una teoria costruita su una “legge” induttiva.<br />

In altri termini, la meccanica newtoniana non può essere applicata, come<br />

“scienza”, alle palle da biliardo di Hume, nemmeno dopo la difesa operata da<br />

Kant, mancando qualsiasi evidenza della sua fondatezza logica. Tutte le relazioni<br />

causali, anche quelle contemplate dalla meccanica di Newton, non sono<br />

dimostrazioni di legami necessari tra oggetti, ma generalizzazioni di<br />

osservazioni empiriche, le quali, del tutto arbitrariamente, vengono definite<br />

“leggi”. E questa critica non viene invalidata se al posto di enti materiali<br />

considero fenomeni. Se la causa non lega enti materiali, non può legare<br />

nemmeno fenomeni.<br />

Del resto, questo problema non poteva venir risolto da Kant, perché egli accetta<br />

l’idea di “oggetto” prodotta dal pensiero moderno, nel senso che, pur avendogli<br />

attribuito natura fenomenica continua a considerarlo come un ente “individuo”,<br />

“indipendente”, e “separato” dagli altri. Ne è prova proprio il fatto che poi egli<br />

deve ricorrere alla “categoria della relazione”, e in particolare al principio di<br />

causa, per tentare di legarli tra loro.<br />

Le contraddizioni del mondo moderno hanno la loro origine, in sostanza, a livello<br />

semantico e concettuale. Dopo la lunga evoluzione del pensiero occidentale, che<br />

ha portato a dimenticare concetti come quelli di logos, physis, e dike, e a<br />

sostituirli con quelli di causa, adaequatio, iustitia, e poi ancora con quelli di<br />

“corrispondenza”, “soggetto”, “oggetto” e “forza”, non potevano non nascere<br />

problemi di coerenza. Il bagaglio terminologico e concettuale moderno è un<br />

viatico sicuro verso la disgregazione del conoscibile.<br />

332 Kant considera il principio di causa una categoria della relazione, un a-priori dell’intelletto; egli<br />

quindi non ne mette assolutamente in questione la validità. Ciò mostra che egli non entra nemmeno nella<br />

questione sollevata da Hume.<br />

328


Nel momento in cui si vuole ottenere autonomia, e indipendenza la si deve<br />

accettare fino in fondo. L’uomo moderno si vuole emancipare dai lacci che<br />

tenevano legati gli antichi, vuole ottenere l’autosufficienza rispetto alle entità che<br />

soggiogavano i suoi antenati, e allora, comincia a considerarsi come “soggetto” e<br />

come “individuo”.<br />

Egli vuole anche superare le spiegazioni, considerate ingenue, che gli antichi<br />

davano del cosmo, allora elimina relazioni originarie (dike, e physis), ma anche<br />

“cause finali” e “universali”, e “perfeziona” (non conia) concetti come quelli di<br />

“oggetto” e “causa efficiente”. Il mondo, in questo modo, diventa un insieme di<br />

enti separati e isolati (soggettivi e oggettivi). Ma se non si accetta alcun tipo di<br />

relazione originaria tra gli enti, si devono creare le condizioni affinché tali<br />

relazioni si costituiscano a posteriori. La causa efficiente assume proprio questo<br />

ruolo. Essa dovrebbe far muovere, e far incontrare “oggetti”; causa e oggetto si<br />

completano a vicenda, nel senso che non possono sussistere l’una senza l’altro.<br />

VII) Hegel<br />

Alle difficoltà evidenziate dal discorso kantiano cerca di rispondere Hegel.<br />

Innanzitutto, egli capisce – primo pensatore moderno – di dover recuperare il<br />

pensiero presocratico, e si rifà soprattutto al polemos eracliteo. Intuisce la<br />

profondità di quel pensiero (a suo avvis o, ingiustificatamente dimenticato), e<br />

cerca, anche attraverso di esso, una via alternativa a quelle di chi lo ha<br />

preceduto.<br />

La filosofia di Hegel poggia su tre capisaldi; primo: la realtà è “spirito infinito”,<br />

ovvero essa non è “sostanza” ma “soggetto”. 333 Se la realtà è soggetto e non<br />

333 Egli riconosce a Kant il merito di aver aperto la strada a questa scoperta.<br />

329


sostanza, significa che essa non può essere intesa come permanenza, o presenza<br />

statica e immobile degli enti, ma deve essere concepita come “movimento”,<br />

“processo”, o meglio, “automovimento” (e questo è l’aspetto che Kant, invece,<br />

non ha colto); si giunge così al secondo punto: la struttura stessa dello spirito è<br />

“processuale”, “dialettica”, esso produce, attraverso il movimento, contenuti<br />

determinati, e quindi produce negazioni e opposizioni, che devono trovare una<br />

sintesi; 334 eccoci arrivati al terzo caposaldo: l’elemento “speculativo”, grazie al<br />

quale viene tolta e superata ogni opposizione, e si ritrova l’unità del vero. Questo<br />

è il movimento “circolare e interno” attraverso il quale l’assoluto si manifesta in<br />

tutte le sue forme.<br />

Hegel individua, così, i due difetti principali nel discorso kantiano: la<br />

contrapposizione tra fenomeno e noumeno che non risolve, ed anzi ripropone, i<br />

problemi del dualismo moderno; e in secondo luogo, il ruolo che Kant assegna<br />

alla ragione.<br />

Per Hegel il sistema trascendentale kantiano è minato dal suo soggettivismo: aver<br />

diviso la realtà tra fenomeni e noumeni non consente di acquisire certezza del<br />

sapere, ma costringe, invece, a rinunciare alla possibilità di conoscere la realtà.<br />

Ancora, il sistema delle categorie trascendentali non può garantire la sua<br />

completezza, e quindi non può essere utilizzato come fondamento di conoscenze<br />

certe, nonostante tutti gli sforzi argomentativi di Kant. 335<br />

Hegel è convinto che si debba tornare all’antica idea della metafisica per la quale<br />

il pensiero è perfettamente in grado di cogliere la verità delle cose (essendo<br />

unito, omogeneo ed conforme ad esse).<br />

Egli sostiene l’identità del pensiero e dell’essere, del reale e del razionale, e<br />

ritiene che considerarli alternativi sia un artificio; poi afferma che l’intelletto<br />

rappresenta solo una tappa e non la totalità del Sapere Assoluto. Fermarsi ad esso<br />

significa ottenere una visione del mondo statica e disgregata.<br />

334 Infatti, egli condivide con Spinoza l’idea che “omnis determinatio est negatio”.<br />

335 Un po’ la tesi che Umberto Eco difende nel suo Kant e l’ornitorinco.<br />

330


Per Hegel ogni cosa è fondata su opposizioni e si regge sulla convivenza delle<br />

polarità positiva e negativa. Si può conoscere l’essere grazie al non essere; ogni<br />

cosa è caratterizzata insieme da ciò che è, e da ciò che non è; o meglio, ogni cosa<br />

è determinabile solo per “differenza”: è l’opposizione che crea l’identità. 336<br />

Senza differenza si avrebbe, naturalmente, indifferenza e indeterminazione,<br />

quindi ogni essere si definisce in funzione degli altri, ed “è” in connessione con<br />

gli altri; positivo e negativo sono complementari. 337<br />

Allora, l’opposizione è necessaria ma non è sufficiente: il discorso kantiano si<br />

ferma troppo presto e così coglie solo l’inizio, il “cominciamento” del processo<br />

e, del resto, non può andare oltre poiché egli giudica la ragione “aporetica”.<br />

Hegel scrive: «la scissione necessaria è un fattore della vita, che si plasma<br />

eternamente mediante opposizioni, e la totalità è possibile nella più alta pienezza<br />

di vita solo quando si restaura procedendo dalla più alta divisione». 338 Quindi la<br />

“separazione” è un aspetto necessario della realtà e del pensiero, però è solo il<br />

loro momento iniziale, la prima tappa di un percorso che sfocia nella sintesi<br />

finale. La parte non può sussistere a prescindere dal tutto, e l’insieme delle parti<br />

compone il “sistema” nella sua totalità.<br />

Ciò che permette di cogliere la natura processuale del tutto, e di capire che ogni<br />

momento supera e nello stesso tempo raccoglie ciò che lo ha preceduto, è la<br />

ragione.<br />

Anche Hegel, allora, distingue tra intelletto e ragione ma li ritiene entrambi<br />

necessari per il raggiungimento del sapere assoluto. Egli sostiene che l’intelletto<br />

è causa di scissione e separazione – “l’attività dello scindere e del separare è la<br />

forza e il lavoro dell’intelletto” – mentre la ragione riporta alla totalità,<br />

annientando l’opposizione, la quale però, è un “momento costitutivo e<br />

permanente” della totalità.<br />

336 Appunto, “omnis determinatio est negatio”, ma allora, anche “omnis negatio est determinatio”.<br />

337 Tutto ciò ricorda le argomentazioni di Eraclito sull’origine del mondo, e la sua interpretazione del<br />

polemos.<br />

338 Hegel, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari, 1997, pag 9.<br />

331


Così intelletto e ragione – o riflessione e intuizione – sono elementi<br />

indispensabili per costruire la filosofia come sistema compiuto: l’intelletto senza<br />

ragione sarebbe fonte solo di disgregazione tra opposti che non potrebbero<br />

trovare occasione di sintesi a causa della loro staticità e della loro “paralisi”. La<br />

ragione senza intelletto mancherebbe della capacità di articolarsi e si ridurrebbe<br />

ad un punto indistinto, “non avrebbe come tale connessione interna e non<br />

costituirebbe una totalità oggettiva del sapere”.<br />

Hegel equipara questo modello a quello della tragedia greca: due principi di<br />

eguale forza si oppongono, in modo che l’uno non possa togliere quell’altro, e<br />

l’unica soluzione sta nella conciliazione, nella sintesi, e nel riconoscimento<br />

reciproco. La totalità così ottenuta è la composizione delle ragioni di entrambi e<br />

rappresenta il superamento delle iniziali contraddizioni. L’assoluto allora viene<br />

inteso come la totalità di ogni possibile relazione, e in questo senso esso è<br />

“unità”. Anche qui Hegel mostra di ispirarsi al pensiero dell’antica Grecia. Il<br />

concetto di archè greco ricorda infatti (con qualche ovvia differenza) l’assoluto<br />

hegeliano: l’indeterminato dal quale derivano le determinazioni (la physis<br />

presocratica), assomiglia all’ “assoluto che contiene tutte le opposizioni senza<br />

farsi imprigionare da nessuna di esse”.<br />

Tutto ciò mostra a sufficienza perché Hegel imputa a Kant di produrre<br />

disgregazione condannandosi a rimaner prigioniero della disgregazione.<br />

In altre parole, ad avviso di Hegel, il punto debole della filosofia kantiana sta<br />

proprio nella separazione irrisolta con la quale egli dipinge il reale. La realtà, così<br />

come la intende Kant, è in sé stessa contraddittoria perché mancante della<br />

possibilità di sintesi, perché paralizzata allo stadio di sviluppo iniziale.<br />

Così, Hegel continua a ritenere la separazione degli enti necessaria, ma avendone<br />

intuito la contraddittorietà, la pone solo come “il cominciamento” di un processo<br />

di sviluppo che deve portare alla totalità della sintesi finale.<br />

Allora nel processo dialettico, il primo momento è quello dell’intelletto che<br />

astrae concetti determinati e si ferma a questa determinazione. Esso separa e si<br />

ferma alla separazione, producendo rigidità e paralisi, e rimanendo prigioniero<br />

332


della separazione che genera. Oltre i limiti dell’intelletto si spinge la ragione la<br />

quale possiede un momento negativo e uno positivo. Quello negativo-dialettico<br />

consiste nel rimuovere le rigidità dell’intelletto opponendovisi. Ogni<br />

determinazione dell’intelletto viene così contraddetta e rovesciata. “La dialettica<br />

è l’immanente oltrepassare, in cui l’unilateralità e la limitatezza delle<br />

determinazioni dell’intelletto si esprimono per ciò che sono, cioè come la loro<br />

negazione. Ogni finito è il superare se stesso. La dialettica è quindi l’anima<br />

motrice del processo scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il<br />

contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così in esso<br />

in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca al di là del finito (cioè al di<br />

là di ogni singola determinazione del finito)”. Il terzo momento è quello<br />

“speculativo”, il quale produce l’unità delle determinazioni contrapposte, esso è<br />

la sintesi degli opposti. “È ciò che contiene in sé come superate quelle<br />

opposizioni a cui si ferma l’intelletto, e proprio così mostra di essere come<br />

concreto e come totalità”.<br />

Hegel, in sostanza, ritiene che Kant togliendo la ragione come fonte di<br />

conoscenza si sia precluso la possibilità di uscire dalla disgregazione prodotta<br />

dall’intelletto. In Kant manca, cioè, la dimensione processuale che caratterizza<br />

sia la realtà che il sapere. Ed è proprio per ovviare a questo inconveniente che a<br />

fondamento del suo “sistema” filosofico Hegel pone il movimento del processo<br />

dialettico, il quale – bisogna sottolinearlo – non ha nulla in comune con il<br />

concetto di “movimento” di cui si avvale la meccanica.<br />

Il movimento dialettico hegeliano non è uno spostamento fisico, né possiede<br />

nulla di “spaziale”; Esso è auto-riflessione. È senza presupposti (senza condizioni<br />

di possibilità), ed è senza fini (senza entità esterne da raggiungere, è a-<br />

teleologico). Tale movimento processuale non è mai movimento verso qualcosa,<br />

ma è un movimento autoreferenziale: esso non si pone l’obiettivo di raggiungere<br />

qualcosa che originariamente non gli appartiene e che lo dovrebbe giustificare. Il<br />

pensiero si auto-determina, esso non ha bisogno di cause o fondamenti esogeni.<br />

333


Hegel rifiuta nettamente la logica della ricerca del fondamento perché la ritiene<br />

intimamente contraddittoria. Secondo il suo punto di vista, ogni sorta di<br />

fondamento porta a conclusioni aporetiche, ed egli lo mostra chiaramente: se il<br />

fondamento ha bisogno a sua volta di essere fondato si accetta un rimando senza<br />

fine che toglie, esso stesso, la possibilità di una fondazione, se viceversa, si pone<br />

il fondamento come un infondato (e quindi come qualcosa di indimostrabile per<br />

definizione) la sua esistenza e del tutto ipotetica, e come tale, può essere accettata<br />

o rifiutata. Ecco che allora, sorge la necessità di spingersi oltre il finito e i suoi<br />

vincoli, e di raggiungere l’assoluto.<br />

Hegel è convinto che il concetto di “assoluto”, sfugga alle aporie dei discorsi<br />

fondazionalisti, poiché, esso non è un principio esterno dal quale derivano le<br />

cose, né una metà da raggiungere, ma l’intero che raccoglie in sé tutte le<br />

determinazioni, e tutte le loro possibili relazioni. Il metodo dialettico presuppone<br />

un pensiero che si auto-determina; cioè lo sviluppo dialettico non cerca qualcosa<br />

al di fuori di esso, ma il movimento è sempre interno a se stesso. Non c’è nulla al<br />

di fuori che lo possa giustificare, né esso serve per fondare qualcosa d’altro: il<br />

movimento è trasformazione immanente dell’unità, è una continua acquisizione<br />

di forme che fanno riferimento all’unica totalità. Allora, non si verifica il<br />

passaggio da una realtà ad un'altra, ma la manifestazione della “stessa” realtà<br />

nelle sue diverse forme. Lo sviluppo dialettico mostra i diversi aspetti della<br />

totalità, che solo attraverso questo movimento possono raggiungere la sintesi<br />

dell’ “in sé e del per sé”.<br />

Nella Fenomenologia dello spirito 339 Hegel espone le tappe che portano dalla<br />

coscienza empirica – il momento della disgregazione iniziale – al sapere<br />

assoluto, il momento della sintesi conclusiva, nel quale si manifesta la verità: «Il<br />

vero è il tutto. Il tutto, però, è solo l’essenza che si compie mediante il proprio<br />

sviluppo. Dell’assoluto, infatti, bisogna dire che è essenzialmente un risultato,<br />

che solo alla fine è ciò che è in verità. E appunto in ciò consiste la sua natura:<br />

339 Il titolo dell’opera si rifà al termine greco phainomenon, perché la fenomenologia dello spirito<br />

contiene la scienza che si occupa della “manifestazione” processuale dello “spirito”.<br />

334


nell’essere realtà, soggetto, divenire-se-stesso». 340 Qui si coglie la natura<br />

dinamica e autoriflessiva che Hegel attribuisce alla realtà. Egli mostra, sotto<br />

diversi punti di vista, (nei sei “momenti” e nelle diverse “figure”) come si<br />

realizza questo movimento: nella Fenomenologia sono presenti due piani, quello<br />

che riguarda direttamente lo spirito, il quale si manifesta nelle tappe della storia,<br />

e quello che si riferisce al singolo individuo che ripercorre le stesse tappe nella<br />

sua esistenza.<br />

Per Hegel la “coscienza” pone al di fuori di essa gli “oggetti” come enti<br />

indipendenti e autonomi, creando così la contrapposizione al “soggetto”, e la<br />

disgregazione tra di essi. L’opposizione soggetto-oggetto è la cifra caratteristica<br />

della coscienza (e di tutto il pensiero moderno); e l’itinerario della<br />

Fenomenologia consiste nella progressiva mediazione di questa opposizione fino<br />

al suo totale superamento. Hegel vuol mostrare che la scissione tra “coscienza” e<br />

“oggetto” è contraddittoria, e come tale va superata, anche se essa è un momento<br />

necessario per arrivare alla sintesi finale.<br />

Hegel sostiene che la contraddizione nasce perché ciò che la coscienza giudica<br />

un “in sé”, è in realtà un “in relazione”. La coscienza allora rimane nella<br />

contraddizione fino a quando non assume la consapevolezza di ciò. L’essere in sé<br />

dell’oggetto deve trasformarsi in un “essere per”; la “relazione” deve far premio<br />

sulla “separazione”. Ma a differenza di Kant, Hegel non pone la relazione come<br />

una categoria della soggettività che agisce sul mondo fenomenico, ma la intende<br />

come una manifestazione essenziale dell’assoluto. La relazione non è un<br />

trascendentale che rende possibile incontri tra enti ma è, piuttosto, una<br />

dimensione originaria dell’assoluto. Essa è nella natura delle cose, non si produce<br />

da, e non produce alcunché. La relazione è “il modo” della manifestazione dei<br />

diversi aspetti della totalità nel suo farsi dinamico. Allora, la relazione non viene<br />

intesa come una caratteristica soggettiva, che può essere o non essere messa in<br />

opera; cioè qui non si considera la relazione una semplice pertinenza del<br />

soggetto, una sua facoltà, che può essere o non essere utilizzata, ma essa è<br />

340 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Rusconi, Milano, 1995, pag. 69.<br />

335


concepita come una cifra dell’assoluto; qualcosa di originario e costitutivo; Ciò<br />

significa che il soggetto è prima di tutto un “essere in relazione” e non un<br />

“essere in sé”, essenzialmente il soggetto è un “essere-per”; egli non può<br />

prescindere dalla sua natura relazionale. Pertanto, ogni “in sé” è destinato a<br />

dissolversi e a risolversi nel “per-sé”.<br />

Per Hegel la realtà è l’insieme dei momenti processuali dell’assoluto, che si<br />

mostrano nel loro “essere in relazione”, come un farsi dialettico.<br />

Quindi, “la verità è il movimento di sé in se stessa”. Dunque, la possibilità di<br />

un’esistenza separata e permanente dell’oggetto è solo una chimera filosofica.<br />

L’oggetto di cui si fa esperienza è lo spirito stesso come altro da sé all’interno<br />

del movimento dialettico, cioè, è la propria negazione. Allora, l’oggetto non è<br />

mai “separato” dal soggetto, e non è altro dal soggetto. Essi dovranno pervenire<br />

finalmente ad una unità che li comprende entrambi. «La coscienza sa e<br />

comprende unicamente ciò di cui fa esperienza, e nell’esperienza essa incontra<br />

soltanto la sostanza spirituale come oggetto del proprio Sé. Se lo spirito diviene<br />

oggetto, però, ciò avviene perché esso è il movimento (a) del divenire un altro da<br />

sé, cioè del divenire oggetto del proprio Sé, e (b) del rimuovere questo essere<br />

altro». 341<br />

Emblematico e il modo in cui Hegel tratta il concetto di “forza” nella terza figura<br />

del primo momento della Fenomenologia: Egli sostiene che quello che dovrebbe<br />

essere il principio unificatore della natura secondo la fisica, non è altro che un<br />

“formalismo” vuoto e astratto che invece di eliminare, produce frammentazione.<br />

Così Hegel mostra che non ci sono principi che riescono a collegare ciò che non<br />

può essere collegato, e che l’intelletto non riesce a padroneggiare i dualismi che<br />

esso stesso crea. Se la forza deve passare dall’interno di un corpo ad un altro, per<br />

raggiungere qualcosa ad esso “esterno”, si pone un compito esorbitante; infatti, è<br />

semplicemente contraddittorio il concetto di “passaggio” (di qualcosa) tra enti<br />

indipendenti. Se due enti sono indipendenti non possono trasmettersi forze,<br />

proprio perché, in virtù del principio di non contraddizione, non può esistere il<br />

341 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, op. cit., pag. 91<br />

336


“punto” nel quale avviene il “passaggio” (quel punto, cioè, nel quale si realizza<br />

per definizione la contraddizione). Se, viceversa, essi non sono indipendenti non<br />

hanno bisogno di trasmettersi forze.<br />

Allora, l’idea di forza elaborata dalla meccanica, sotto le mani di Hegel, fa la<br />

stessa fine che Hume aveva riservato al principio di causa. Pezzo per pezzo viene<br />

smontato l’edificio di pensiero concepito dal razionalismo, e proveniente da<br />

secoli di speculazione metafisica.<br />

Hegel sa bene che i problemi del razionalismo nascono dalla falsa evidenza della<br />

separazione permanente tra gli enti, egli sa che se si vuol evitare l’aporia non si<br />

deve cercare il modo di unirli, stante la loro autosufficienza, perché così facendo<br />

non si può evitare la contraddizione; bisogna invece “cambiar loro natura”: non<br />

più enti permanenti di una realtà immobilizzata, ma momenti diversi all’int erno<br />

di un processo unitario. La separazione non può che essere una condizione<br />

momentanea, all’interno del “sistema” . Quindi, anche nel momento iniziale,<br />

quello della massima disgregazione, è già operante il principio unificatore del<br />

sapere assoluto. «Se la conoscenza fosse lo strumento per impadronirsi<br />

dell’essenza assoluta, si avrebbe il caso dell’applicazione di uno strumento che,<br />

invece di lasciare la Cosa così com’è, vi introduce una forma nuova e<br />

un’alterazione… Il mezzo produce l’effetto contrario a quello desiderato. Il<br />

controsenso consiste proprio nel servirsi di un mezzo, qualunque esso sia». 342<br />

Ciò significa che l’assoluto non può essere “raggiunto”: se esso ci fosse estraneo<br />

sarebbe irraggiungibile. Allora, esso non può che essere già presso di noi.<br />

In questo modo, si realizza il cammino che dalla “coscienza” alla “ragione”,<br />

attraverso lo “spirito” porta al “sapere assoluto”. Così si compie il percorso, per<br />

mezzo del quale Hegel nella Fenomenologia, toglie le contraddizioni della<br />

separazione iniziale (quelle che caratterizzano anche la filosofia kantiana) e<br />

raggiunge la sintesi del tutto.<br />

Questa è la grande intuizione di Hegel, aver visto come tutti i tentativi di<br />

risolvere l’aporia del dualismo moderno falliscono perché minati da una<br />

342 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, op. cit., pag. 147.<br />

337


contraddizione già presente nelle premesse: accettare che il mondo sia un insieme<br />

di “oggetti” che si incontrano, e che il “soggetto” arriva a conoscere. Non è<br />

possibile trovare un modo per far incontrare “oggetti”, e nemmeno per far<br />

incontrare “soggetti”.<br />

A fondamento del suo sistema filosofico Hegel pone la Scienza della Logica.<br />

Egli, però, per fondamento non intende (come abbiamo visto) qualcosa di<br />

esogeno e indipendente che in qualche modo produce, o causa ciò che lo segue,<br />

ma pensa all’ “immanente” che conferisce il carattere e la dimensione a ciò che<br />

fonda. La fondazione, allora, è “autofondazione” e il movimento non e rettilineo,<br />

e verso qualcosa, ma “riflessivo”, endogeno, e interno.<br />

La “logica” è inizio assoluto e privo di presupposti, essa è la forma del pensiero e<br />

della realtà, in virtù dell’identità postulata da Hegel tra reale e razionale.<br />

Anche qui si coglie un’analogia tra il modo di intendere il logos di Eraclito – che<br />

abbiamo visto in precedenza – e l’idea del “logico” di Hegel: Il logos di Eraclito<br />

conferisce il suo aspetto alla realtà, esso permette la manifestazione del reale,<br />

esso è raccoglimento originario; la logica per Hegel è inizio assoluto, essa dà<br />

forma al pensiero e alla realtà. Quindi il ruolo che Hegel attribuisce alla logica, è<br />

vicino a quello che Eraclito assegna al logos.<br />

La logica fornisce il “metodo” della filosofia perché essa coincide con la struttura<br />

della realtà e del pensiero. Allora, la filosofia non può che fondarsi sulla Scienza<br />

della logica. Il pensiero è logico, la sua articolazione e la sua comprensione sono<br />

la manifestazione del suo carattere logico. Ogni cosa esistente ha una<br />

configurazione logica, ha un carattere logico; “il logico” è la forma immanente<br />

del tutto. Il carattere logico appartiene non solo alla scienza della logica ma<br />

anche alla natura, allo spirito, all’arte e alla religione. Così, la Scienza della<br />

logica è lo studio della forma pura dell’essere, in ogni sua manifestazione. La<br />

logica si pone il compito di cogliere le relazioni profonde e originarie che si<br />

stabiliscono tra gli enti e che caratterizzano tutto ciò che esiste; essa studia il<br />

modo di porsi di tali relazioni, poiché ogni cosa esistente non è semplicemente<br />

338


un “essere in sé” ma è innanzitutto un “essere in relazione”. Attraverso la logica<br />

quindi si può capire il modo della manifestazione dell’assoluto nei suoi diversi<br />

aspetti.<br />

La logica, allora, non è una disciplina astratta, non è uno strumento nelle mani<br />

delle altre scienze, non è mero studio della forma, privata del suo contenuto. È<br />

una banale astrazione divedere tra forma e contenuto – ogni contenuto deve<br />

possedere una forma, e ogni forma è forma di qualche contenuto – quindi, la<br />

logica è scienza di “forma-e-contenuto”. Lo studio della logica non presuppone<br />

qualcosa che la precede, a cui essere applicata, essa è scienza dell’assoluto, e<br />

come tale non dipende da nulla. Il pensiero, per Hegel, si auto-determina, non ha<br />

bisogno di riferimenti esterni, così, la logica è scienza del pensiero che pensa sé<br />

stesso nella sua completa identità col reale.<br />

Del resto, se la realtà è l’insieme degli aspetti che assume l’ “unico” spirito, se la<br />

disgregazione non è che una tappa, destinata a venir superata, in ragione della<br />

sintesi unitaria finale, il movimento di sviluppo non può essere rettilineo, ma<br />

deve essere necessariamente circolare e “auto-riflesso”. Se la molteplicità, la<br />

divisione non sono la cifra (status) stabile del reale, ma anzi, quest’ultimo è<br />

considerato come qualcosa di unitario, il movimento si deve svolgere di necessità<br />

all’interno di tale unità: lo spirito non può che svilupparsi all’interno di sé stesso.<br />

Hegel scrive: «Ogni passo dell’avanzamento nell’ulteriore determinare, mentre si<br />

allontana dal cominciamento indeterminato, è anche un riavvicinamento ad esso,<br />

e perciò quello che dapprima può sembrar diverso, il regressivo fondare del<br />

cominciamento ed il progressivo determinarlo ulteriormente, cadono l’uno<br />

nell’altro e sono “lo stesso”». 343<br />

Nel passo citato risulta chiaro, ancora una volta, che l’idea del fondamento –<br />

come regresso verso qualcosa di autonomo e incausato, dal quale deriva tutto il<br />

resto, ma anche più semplicemente, come qualcosa d’altro, di esterno, a ciò che<br />

viene fondato – è per Hegel assurda e contraddittoria, proprio perché implicante<br />

343 G.W.F. Hegel, Scienza della Logica, Laterza, Roma-bari, pag. 954<br />

339


la necessità della separazione originaria e permanente. Lo sviluppo deve essere<br />

senza presupposti e senza fini, quindi, autofondantesi. Il movimento che porta da<br />

una determinazione alla seguente è una metamorfosi immanente dello “stesso<br />

termine”, il quale va ad assumere una nuovo “aspetto”.<br />

Bisogna chiarire, che il processo dialettico non è tautologico, non è una<br />

ripetizione pedante e pedissequa di sinonimi. Nel processo è presente sia<br />

l’aspetto analitico della conservazione del concetto, che il guadagno sintetico<br />

della “differenza” di contenuto tra la tappa successiva e la precedente. Non a<br />

caso, il movimento triadico comprende un “inizio” (Anfang), un “avanzamento”<br />

(Fortgang), e una “fine” (Ende). Ogni tappa rappresenta un aumento della<br />

determinatezza del medesimo concetto, non un sua ripetizione, né un suo<br />

cambiamento; e per questo che la struttura generale della Logica può essere<br />

definita come un “processo immanente di autodeterminazione del concetto”.<br />

Il processo autoriflessivo parte dall’ “essere in sé” del concetto, che è<br />

indifferenziata unità di essere e non essere; prosegue con l’ “essere fuori di sé”,<br />

cioè con l’affermarsi della negazione, e della distinzione; e si conclude con la<br />

ritrovata unità del concetto nell’ “in sé e per sé”. Il terzo è il momento della<br />

sintesi, il momento “speculativo” che è “la riaffermazione del positivo che si<br />

realizza mediante la negazione del negativo proprio delle antitesi dialettiche” e<br />

quindi, rappresenta il risultato “superiore e più ricco” rispetto a ciò che lo ha<br />

preceduto. La sintesi è il momento della ritrovata “unità”, è la manifestazione del<br />

senso proprio del concetto.<br />

L’aspetto fondamentale della Logica è il suo carattere riflessivo. Non si deve mai<br />

dimenticare che il movimento dialettico non è spaziale, non è paragonabile ad<br />

uno spostamento fisico; perché esso si svolge sempre all’interno dell’unità.<br />

Anche la “negazione”, allora, non implica una “uscita” dal concetto negato, ma<br />

una sua “metamorfosi”.<br />

La negazione non è mai scioglimento del legame, “abbandono del luogo”, ma è<br />

da intendere come la manifestazione di una “differenza immanente”. Il<br />

“differimento” implica sempre un “riferimento”, anche per Hegel, perché il<br />

340


processo dialettico è un movimento riflessivo della e nella totalità. La differenza<br />

non è una negazione dell’unità del in sé soggettivo, nel senso che non implica<br />

una separazione e una contrapposizione, ma comporta una sua “differente” e più<br />

ricca determinazione. La negazione non è mai assoluta, ma determinata, cioè,<br />

relativa ad un certo contenuto dello stesso concetto. La negazione è sempre<br />

“negazione di una negazione”, nel senso che è superamento di una negatività,<br />

quindi, rappresenta sempre il guadagno di una maggior determinazione. Negare<br />

una cosa non significa eliminarla, ma mostrarla sotto una diversa luce.<br />

Se il movimento è auto-movimento, non si può uscire dall’unità del concetto,<br />

allora, la negazione non è una “falsificazione” (un cedimento o un abbandono<br />

della “retta via”), ma una nuova determinazione. 344 Anche qui si può notare un<br />

recupero e una rivisitazione di temi e concetti che appartengono alla filosofia<br />

presocratica.<br />

Il processo dialettico porta ad una maggior determinazione del concetto per ogni<br />

negazione aggiunta. Ogni aspetto che viene messo in evidenza è “superiore e più<br />

ricco” (più determinato) di quello che lo ha preceduto, ed è quindi, una tappa di<br />

avvicinamento al risultato finale. La negazione non toglie, semmai, aggiunge<br />

qualcosa, perché ciò che viene negato non va perso, ma è mantenuto all’interno<br />

della negazione. Il negare è, nello stesso tempo, un superare ed un conservare.<br />

Hegel scrive: «L’unico punto per ottenere l’avanzamento scientifico è la<br />

conoscenza di questa proposizione logica: che il negativo è insieme anche il<br />

positivo, ovvero che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla<br />

astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto<br />

particolare, vale a dire che una tale negazione non è tutte le negazioni, ma la<br />

negazione di quella cosa determinata, che si risolve, ed è perciò negazione<br />

determinata». 345<br />

344 Bisogna ricordare il senso nel quale veniva usato, prima di Hegel, il concetto di “falsità”. Ne<br />

abbiamo parlato nei paragrafi precedenti, riferendolo, secondo l’etimologia, al cedimento rispetto a ciò<br />

che è vero, rispetto a ciò che è conforme al principio.<br />

345 G.W.F. Hegel, Scienza della Logica, op. cit. pag. 36<br />

341


Il termine usato da Hegel per caratterizzare il movimento logico è “Aufhebung”<br />

che significa insieme, “superamento” e “mantenimento”. Attraverso questo<br />

concetto Hegel vuole esprimere l’azione di “auto-toglimento” del termine<br />

precedente e la sua “sussunzione” in quello successivo, all’interno del processo<br />

dialettico. Egli vuol mostrare così che ogni toglimento, ogni negazione, non<br />

implica una rinuncia o una perdita del contenuto determinato di ciò che viene<br />

negato. Anzi, ciò che è stato tolto si ritrova positivamente contenuto all’interno<br />

della sua stessa negazione, dentro un armonia più vasta, più completa, e più<br />

profonda. La negazione non è distruzione, cancellazione, ma è insieme<br />

“superamento” e “conservazione”. Il “precedente” viene conservato nel<br />

“successivo” e stabilisce con esso una relazione più articolata e complessa di<br />

quella presente in precedenza. La Aufhebung permette così di conciliare lo<br />

sviluppo, che necessariamente deve avere il movimento dialettico, con la<br />

conservazione dei contenuti determinati che via, via vengono negati.<br />

In questo modo Hegel riesce a dimostrare che l’assoluto, cioè il risultato finale<br />

dello sviluppo dialettico, non deve rinunciare a nessuno dei contenuti determinati<br />

che hanno contribuito a formarlo, in virtù del fatto che li riassume tutti. 346<br />

Egli per spiegare il significato da attribuire a questo sostantivo dichiara di rifarsi<br />

al verbo latino “tollo”. 347<br />

Tollere è un verbo dai significati ambivalenti, come nel caso del “sollevare” che<br />

vuol dire “prendere in carico” quindi “portare il peso”, ma anche “essere<br />

346 In merito a questa parola egli scrive: «È qui il luogo opportuno per ricordare il doppio significato<br />

della nostra espressione tedesca aufheben. Aufheben da un lato vuol dire togliere, negare, e in tal senso<br />

diciamo ad esempio che una legge, un istituzione ecc. sono soppresse, superate(aufgehoben). D’altra parte<br />

però aufheben significa anche conservare, e in questo senso diciamo che qualcosa è ben conservato<br />

mediante l’espressione: whol aufgehoben. Quest’ambivalenza dell’uso linguistico del termine, per cui la<br />

stessa parola ha un uso positivo e uno negativo non deve essere considerata casuale, né addirittura se ne<br />

deve trarre motivo di accusa contro il linguaggio, come se fosse causa di confusione; al contrario, in<br />

questa ambivalenza va riconosciuto lo spirito speculativo della nostra lingua che va al di là della semplice<br />

alternativa “o-o” propria dell’intelletto» Hegel Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tratto<br />

da Reale/Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, terzo volume, Editrice la scuola, Brescia,<br />

1983, pag. 80.<br />

347 “Tollo” ha una derivazione indeuropea ed è inserito nel gruppo dei verbi che stanno per “cogliere” –<br />

come il verbo fero col quale, infatti, ha in comune alcune voci del paradigma: tollo, is, sus-“tuli”, sub-<br />

“latum”, ere.<br />

342


sollevati” da un “incarico” cioè “essere rimossi” licenziati, esautorati, quindi<br />

essere privati del carico. Esso vale sia nel senso di “sottrarre”, “togliere” che di<br />

“caricare”, di “sop-portare” il peso.<br />

Tollere sta sia per “allevare” (un bambino, quindi prendersi cura, farsi carico di<br />

esso), che per “togliere di mezzo”, come nel caso del tollere aliquem de medio.<br />

Oppure, tollere significa sia costruire (portare a compimento) che distruggere:<br />

Carthaginem tollere è distruggere Cartagine, mentre tectum tollere è costruire il<br />

tetto.<br />

Tollere può voler dire contemporaneamente sia guadagnare che perdere: diem<br />

tollere è “perdere un giorno per guadagnare tempo”. Ancora, tollere onus<br />

significa addossarsi (“portare”) un peso cioè acquisirlo, ma tollere aliquid ex…<br />

vale per rimuovere, “scaricare” (portare via).<br />

Infine, tollere predam è “raccogliere la preda”. Quindi con questo verbo si può<br />

intendere anche il “raccogliere” (probabilmente nel senso di sollevare la preda<br />

portandosela appresso, “avvicinarsela”).<br />

Il tollere è allora un togliere mediante “raccoglimento”, quindi è sia un<br />

“sollevare”, un “innalzare”, che un “levare” un “liberare”; ma può essere anche<br />

un raccogliere come conservare. Si può usare per dire “eliminare”, ma più<br />

propriamente dovrebbe corrispondere ad un “porre innanzi”.<br />

Il senso del verbo tedesco “Aufheben” (sollevare, raccogliere, immagazzinare,<br />

togliere) allora, deriva proprio da quello del latino tollere.<br />

Quindi, il togliere della dialettica hegeliana è quel processo di “avanzamento” nel<br />

quale ogni tappa riassume e nel contempo supera la precedente. Il toglimento di<br />

ciò che precede non è una eliminazione, ma una sorta di raccoglimento nel quale<br />

“il successivo” si fa carico, superandolo, dell’ “antecedente”: l’ultimo stadio<br />

“contiene” i precedenti, li “raccoglie”, ma nello stesso tempo li sopravanza, li<br />

supera; l’ultimo gradino aggiunge determinazione a quelli che lo hanno<br />

preceduto; sta in questo il concetto hegeliano di “negazione”.<br />

Hegel, ancora una volta, ha qui di mira la conciliazione del processo di sviluppo<br />

con l’unità del sistema. Nel cammino dialettico ogni momento è legato agli altri;<br />

343


ogni “negazione” manifesta caratteristiche più ricche di ciò che ha “negato”<br />

(altrimenti quest’ultimo non sarebbe stato negato), ma nello stesso tempo, lo<br />

accoglie “innalzandolo”.<br />

L’Aufhebung indica questo processo di contemporanea raccolta e innalzamento<br />

dello “stesso” che si trasforma; ad ogni stadio esso si mostra in modo diverso, è<br />

qualcosa di diverso, ma mantiene sempre il suo essere: «il bocciolo scompare<br />

nella fioritura, e si potrebbe dire che esso viene confutato da questa; similmente<br />

all’apparire del frutto, il fiore viene dichiarato una falsa esistenza dalla pianta, e<br />

il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si<br />

distinguono, ma ciascuna di esse si dilegua anche sotto la spinta dell’altra, perché<br />

esse sono reciprocamente incompatibili. Ma, in pari tempo, la loro fluida natura<br />

ne fa momenti dell’unità organica, nella quale esse non solo non si respingono,<br />

ma sono anzi necessarie l’una non meno dell’altra; e questa uguale necessità<br />

costituisce ora la vita dell’intero». 348<br />

Il processo dialettico implica l’idea dello sviluppo, dell’avanzamento, perché,<br />

nell’ottica hegeliana, solo se c’è miglioramento ha senso il movimento. E il<br />

movimento, a sua volta, è essenziale all’idea di processo.<br />

Ad Hegel interessa mantenere la natura relazionale del suo metodo: ogni tappa<br />

deve poter essere considerata sia come entità autonoma rispetto alle altre, che<br />

come momento particolare e dipendente all’interno della totalità dialettica; e il<br />

movimento deve essere giustificato dall’avanzamento.<br />

Quindi anche il sistema dialettico può essere considerato una sorta di<br />

coniugazione, nella quale le diverse forme afferiscono, tutte, alla stessa realtà.<br />

Anche il processo dialettico, infatti, si pone come un’alternativa alla separazione<br />

degli enti che risulta dal razionalismo moderno.<br />

In precedenza abbiamo detto a proposito del “coniugare”, e lo abbiamo<br />

interpretato come un mostrare i diversi aspetti di cui si compone “lo stesso”; tale<br />

accezione consente di superare le contraddizioni provocate dai concetti di<br />

“soggetto” e “oggetto” e la loro conseguente e inevitabile separazione.<br />

348 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, op. cit. pag 327<br />

344


Hegel è il primo filosofo che coglie con chiarezza qual è l’origine dei problemi<br />

del pensiero moderno. È il primo filosofo che vede e denuncia in quel pensiero il<br />

limite della disgregazione e della separazione. Kant si era fermato a denunciare<br />

l’alternativa tra fenomeni e noumeni, pensava di risolvere le contraddizioni<br />

trasformando la realtà esterna in un concetto problematico. Come se i problemi<br />

potessero essere risolti “nascondendo”, “obliterando”, la loro fonte: siccome la<br />

realtà esterna fa sorgere troppe contraddizioni la togliamo dal campo dei nostri<br />

studi. La consideriamo una sorta di eccedenza, una sovrastruttura problematica e<br />

nello stesso tempo ridondante. Non è così che Hegel intende risolvere la<br />

questione. Egli allora ricorre all’idea di “auto-movimento” e al concetto di<br />

Aufhebung.<br />

L’ “Aufhebung”, del resto, è il concetto cardine della Logica. Attraverso di esso<br />

Hegel chiarisce che l’unità del sistema non è alternativa alla necessità del suo<br />

movimento, egli dimostra la non contraddittorietà del movimento circolare e<br />

riflessivo, anzi lo caratterizza come una cifra della realtà, e l’unico mezzo per<br />

cogliere la verità.<br />

E’ solo grazie all’ Aufhebung che Hegel può superare la “totalità paralizzata”<br />

dell’universo kantiano, perché il movimento riflesso diventa possibile solo se il<br />

togliere implica anche un mantenere.<br />

Lo spostamento fisico è connaturato all’idea di una realtà frammentata e<br />

molteplice: in tale realtà spostarsi da un luogo significa procedere verso<br />

quell’altro; togliere qualcosa significa perderla, eliminarla. In questa realtà gli<br />

enti sono separati, e i rapporti tra loro vengono “prodotti” attraverso azioni e<br />

reazioni. Hegel combatte questa idea e la ritiene la causa delle molteplici<br />

contraddizioni generate dal pensiero moderno. Se posso togliere un contenuto<br />

rimanendo all’interno dello stesso concetto, significa che il movimento, è<br />

movimento del concetto su se stesso, significa che togliere è solo un modo di<br />

manifestare la differenza all’interno della totalità. Allora, questa azione del<br />

togliere è uno dei modi di mantenere e di sviluppare una relazione. Il movimento<br />

345


implicato dall’Aufhebung consente di superare l’isolamento originario, e di<br />

mantenere le parti collegate.<br />

Solo in questo modo la “negazione” può essere intesa come un “arricchimento” e<br />

non come una separazione.<br />

Da tutto ciò risulta un modo originale e innovativo di intendere la relazione. Non<br />

più “collegamento” tra enti separati, ma cifra dell’assoluto che raccoglie e<br />

manifesta i suoi diversi caratteri. Hegel cioè sostiene che la relazione non è la<br />

connessione posta tra entità indipendenti, non è un ponte che serve per mettere in<br />

collegamento due estremità che altrimenti starebbero separate. La relazione è<br />

invece la condizione che permette di configurare qualsiasi aspetto del reale, di<br />

dargli una connotazione razionale.<br />

Vedere la relazione come “ponte” tra oggetti significa fermarsi all’analisi<br />

“intellettuale” del fenomeno, cioè riferirsi alla realtà nella situazione iniziale di<br />

disgregazione. L’essenza della relazione si coglie invece rapportandola<br />

all’assoluto, al momento della sintesi finale, nella quale essa diventa condizione<br />

dell’esistenza, e modalità della presenza. La relazione caratterizza la realtà nel<br />

suo aspetto razionale, come raccoglimento del tutto nella sintesi finale. La<br />

relazione implica toglimento e contestuale conservazione, raccoglimento e<br />

disgiunzione, manifestazione e nascondimento della realtà all’interno dello<br />

sviluppo dialettico. Essa consente la conservazione del tutto pur nella<br />

progressione e nell’avanzamento del reale. Essa rappresenta appunto l’essenza<br />

dell’assoluto che si dà nelle sue diverse forme, nel succedersi delle tappe del<br />

processo.<br />

In sostanza, con Hegel si torna sulla strada del logos eracliteo, e di quel modo di<br />

intendere la relazione tra gli enti.<br />

Con Hegel si chiude la vicenda filosofica iniziata col cogito cartesiano. La sua<br />

filosofia può essere considerata un punto di sintesi (o un tentativo di mediazione)<br />

tra il realismo antico e il razionalismo moderno. Egli infatti considera assurda<br />

l’idea della separazione tra realtà e pensiero, e toglie questo dualismo<br />

346


proclamando la loro identità. Non esiste una realtà esterna al soggetto pensante,<br />

perché quella che veniva considerata una realtà esterna è invece un modo di darsi<br />

del soggetto pensante. L’uomo non ha bisogno di un mezzo per raggiungere la<br />

realtà perché è già presso di essa, non c’è alcun bisogno di mediazione.<br />

Hegel afferma di voler recuperare l’idea antica della perfetta omogeneità tra<br />

realtà e razionalità, ed è anche in questo senso che opera la sua filosofia.<br />

Egli sa che considerare la realtà come “esterna” al soggetto porta a inevitabili<br />

contraddizioni; capisce, del resto, che non è sufficiente la soluzione kantiana<br />

perché trasformare la realtà in una cosa in sé, irraggiungibile, non significa<br />

eliminare il dualismo, ma fornirne una nuova versione. L’opposizione tra<br />

fenomeno e noumeno non consente di dare una risposta definitiva alle questioni<br />

sollevate dai razionalisti. Il problema, infatti, è figlio dell’idea stessa di<br />

“opposizione”; allora, o si elimina l’opposizione, qualsiasi essa sia, o si<br />

ripresenta sempre lo stesso ostacolo.<br />

Hegel allora, da un lato, ammette che l’opposizione è una condizione evidente<br />

della realtà, dall’altro, cerca di dimostrare che non è una situazione definitiva, ma<br />

solo una tappa all’interno di un cammino che una natura in movimento è<br />

destinata ad affrontare e a superare.<br />

La realtà, come il pensiero, sono manifestazioni dello spirito assoluto: reale e<br />

razionale coincidono e sono entrambe sottoposte alle leggi di sviluppo del<br />

movimento dialettico.<br />

347


VIII) Alcune considerazioni finali su Hegel<br />

A questo punto bisogna affrontare le difficoltà in cui si imbatte il sistema<br />

hegeliano. Innanzitutto, il filosofo di Stoccarda cerca di risolvere le difficoltà<br />

sorte dal dualismo producendo una specie di monismo, cioè, egli pensa che<br />

considerando il soggetto come “assoluto”, ovverosia, togliendo qualsiasi altra<br />

realtà oltre ad esso, si possano conciliare tutte le contraddizioni.<br />

Una volta constatato che il dualismo è fonte inesauribile di problemi egli ha<br />

pensato di sacrificare una realtà a quell’altra. Così però, non ha rifiutato la logica<br />

che lo ha prodotto, anzi, vi si è completamente immerso.<br />

Il sistema hegeliano è sicuramente un geniale tentativo di superamento delle<br />

contraddizioni moderne, ma esso continua a muoversi all’interno dell’ambiente,<br />

del humus, che le ha prodotte. Infatti Hegel, sulla scia di Kant, ha potenziato a<br />

dismisura uno dei due opposti, il “soggetto”, e ha indebolito quell’altro, l’<br />

“oggetto”: Kant ha definito il soggetto “trascendentale”, e lo ha fatto diventare il<br />

“legislatore della natura”, Hegel lo ha considerato addirittura “assoluto” (cioè<br />

sciolto da vincoli e limiti, perfetto; unica realtà, e quindi totalità), e lo ha posto<br />

come “creatore” della realtà; d’altra parte, l’ “oggetto”, in Kant, perde la sua<br />

natura materiale e conserva solo quella fenomenica, mentre Hegel, lo riduce ad<br />

un aspetto della soggettività, un suo prodotto. Per quest’ultimo, l’opposizione tra<br />

reale e razionale può essere evitata solo postulando la loro identità. Questa idea<br />

mostra la sua filiazione alla modernità. In altri termini, egli non cerca di cambiare<br />

i presupposti del sistema per sfuggire alla contraddizione – l’idea stessa di<br />

soggettività e oggettività, la loro “essenza” – ma propone il completo<br />

assorbimento di una sull’altra. Quindi, da un lato individua chiaramente il<br />

problema, quello dell’opposizione, dall’altro cerca di risolverlo riducendo<br />

l’oggetto al soggetto. Così, egli è costretto ad accettare l’idea della separazione<br />

iniziale; la considera una situazione evidente, dalla quale però, sa che si deve<br />

uscire. Ecco la necessità di porre sia il movimento dialettico, che lo spirito<br />

assoluto.<br />

348


In aggiunta, Hegel costruisce un imponente struttura processuale per far vedere<br />

che il cosmo, partendo dalla disgregazione, attraverso sintesi successive, può<br />

pervenire all’unità finale. Però, egli non spiega perché gli opposti dovrebbero<br />

convergere nella loro sintesi, attraverso il divenire dialettico. E non dice<br />

nemmeno perché il cammino debba portare verso un continuo miglioramento.<br />

Hegel, sostanzialmente, prende spunto dalla dialettica platonica invertendone il<br />

senso di marcia: Platone parte da un’originaria perfezione che poi fa deteriorare<br />

progressivamente; Hegel, invece, pensa che dalla massima disgregazione e<br />

contraddizione si giunga alla sintesi finale grazie allo spirito assoluto; cioè, egli<br />

passa dalla massima imperfezione alla totale perfezione. Ma sia Platone che<br />

Hegel non dimostrano il perché, né del movimento, e neanche del senso di<br />

marcia, lo postulano soltanto. Platone pone l’iperuraneo come perfezione dalla<br />

quale deriva tutto il resto, descrive le tappe del processo, ma non le giustifica;<br />

allo stesso modo, Hegel stabilisce come punto d’arrivo lo spirito assoluto, ne<br />

delinea il cammino senza darne ragione.<br />

Hegel rappresenta la tappa finale di un lungo cammino partito dalle sollecitazioni<br />

di Cartesio; ma paradossalmente, l’idealismo, da un lato, risolve le contraddizioni<br />

causate dal dualismo cartesiano, e dall’altro lascia irrisolte proprio le questioni<br />

relative al realismo, che avevano spinto Cartesio al dubbio: ad esempio, se la<br />

realtà fosse di accesso così immediato, come sostenevano i realisti, perché dopo<br />

molti secoli ci si interroga ancora sulle medesime questioni? Se la realtà fosse<br />

davvero immediatamente disponibile, da dove provengono le difficoltà, gli<br />

ostacoli, ad una sua definitiva conoscenza? Ci deve pur essere, sostiene Cartesio,<br />

un filtro, uno schermo, comunque qualcosa, che non ci permette di raggiungerla<br />

con facilità.<br />

La scepsi del filosofo francese comincia proprio da queste considerazioni. Egli<br />

alla fine sostiene che l’individuo può accedere solo in modo mediato alla realtà e<br />

produce così il dualismo mente-mondo; ma la sostituzione del dualismo col<br />

monismo non risolve le questioni che avevano sollecitato Cartesio; eliminare<br />

349


l’opposizione tra esterno ed interno trasformando tutto in interno non è<br />

sufficiente per uscire dalle contraddizioni del pensiero moderno.<br />

In altre parole, l’idealismo ci mostra la contraddittorietà della soluzione<br />

cartesiana, sostituisce il dualismo col monismo, ma non affronta fino in fondo le<br />

questioni proposte dal pensatore francese.<br />

I problemi della speculazione cartesiana, come abbiamo visto, provenivano dal<br />

dualismo tra soggetto e oggetto, gli idealisti pensano di risolvere tali problemi<br />

rimovendo l’oggetto materiale, ma così facendo non cambiano di molto la<br />

situazione che si trovò di fronte Cartesio, il realismo.<br />

Per gli antichi infatti non esiste l’uomo in quanto “soggetto”, quindi, per loro,<br />

non si pone il problema del dualismo tra spirito e materia. L’uomo, per il filosofo<br />

antico, sta alla realtà materiale, come il soggetto sta, per l’idealista, alla realtà<br />

spirituale. Il dualismo spirito-materia lo ha creato Cartesio, separando res<br />

cogitans e res extensa, non c’era prima. Gli idealisti non hanno fatto altro che<br />

trasportare a livello ideale tutte le contraddizioni che Cartesio notava a livello<br />

materiale. Allora, il “monismo” delle idee non è migliore del “monismo” della<br />

materia. Nel momento in cui considero l’uomo un recettore neutro della realtà,<br />

come lo pensano i “realisti”, non sono lontano dalla situazione nella quale il<br />

soggetto è puro spirito che riceve, o produce spirito. Hegel aggiunge, è vero, la<br />

sintesi dialettica, e la geniale idea del movimento circolare e riflessivo, ma non<br />

spiega perché lo sviluppo dialettico dovrebbe produrre meno contraddizioni del<br />

Dio creatore di Cartesio. Ciò che rimane aperto, non chiarito nel discorso<br />

hegeliano è, in altre parole, il rapporto che lega l’ “assoluto” al “processo”, e<br />

quindi l’assoluto al soggetto; il perché del loro rapporto, e della loro identità.<br />

Un punto debole del discorso di Cartesio sta proprio nella postulazione di un Dio<br />

“che non ci può ingannare”, come fondamento del reale; Hegel ci dice, invece,<br />

che alla fine del processo dialettico si raggiunge la perfezione dello spirito<br />

assoluto, il quale comunque, operando fin dal principio, garantisce coerenza a<br />

tutto lo sviluppo. Tra il Dio di Cartesio e la spirito assoluto di Hegel non c’è,<br />

350


quindi, una differenza sostanziale (a parte il fatto che lo spirito assoluto è<br />

immanente al processo, il Dio cartesiano è trascendente).<br />

Hegel recupera la lezione di Spinoza, cerca di superarne le difficoltà, attraverso<br />

la dialettica; il suo sistema è sicuramente più organizzato, e robusto, dei<br />

precedenti, ma non è una confutazione dei presupposti che sostengono il pensiero<br />

metafisico, ne è forse la versione più coerente, più solida, e meno contraddittoria.<br />

Hegel rimuove molte delle difficoltà inerenti alla impostazione metafisica:<br />

attacca e confuta l’idea del fondamento infondato (della causa prima ingenerata),<br />

e della regressione indefinita, supera il dualismo tra reale e razionale, capisce che<br />

la disgregazione prodotta da qualsiasi concezione atomistica è una via senza<br />

uscita, toglie insomma molti dei luoghi che hanno caratterizzato la storia della<br />

metafisica; ma la sua dialettica, il suo logicismo, la sua idea di assoluto, lo<br />

mantengono ancora dentro l’alveo del pensiero “metafisico”.<br />

Un'altra questione è relativa al determinismo della dialettica hegeliana, la quale<br />

alla fine non ha effetti diversi dal determinismo della causa efficiente. Si tratta<br />

sempre di un movimento prigioniero e dipendente all’interno di uno schema<br />

imperativo: se la causa produce proprio quell’effetto, dall’unione di tesi e antitesi<br />

può scaturire solo una determinata sintesi. D’altra parte, Hegel rifiuta l’idea di<br />

fondamento, ma usa quella di spirito assoluto come principio motore della<br />

dialettica, e come ultima tappa (fine) del processo. Così, Hegel denuncia i limiti<br />

del fondazionalismo e del finalismo, mostra la loro deriva dualistica, e li confuta;<br />

però all’interno del suo monismo idealistico usa principi che conservano effetti<br />

simili a quelli dei principi confutati.<br />

Lo spirito assoluto che è presente in (e guida) ogni momento dello sviluppo<br />

dialettico, e si mostra nella sua totalità e perfezione alla fine del processo, ha la<br />

stessa “consistenza” e “autonomia” dei fondamenti tradizionali. Allora, il<br />

determinismo della dialettica non è meno ferreo del determinismo della causa.<br />

Hegel, in altre parole, coglie il limite del dualismo moderno, riesce a mostrare la<br />

contraddizione insita nei suoi presupposti: ad esempio l’attacco al concetto di<br />

fondamento e a quello di forza colgono nel segno, mostrato tutta la superficialità<br />

351


di quelle idee; ma nel contempo, elabora un impianto dialettico che mostra di<br />

essere condizionato dagli stessi vizi contestati ai suoi avversari. Se lo sviluppo<br />

deve avvenire necessariamente secondo leggi determinate, egli non fa che<br />

sostituire al determinismo della meccanica quello della dialettica, e diventa<br />

difficile stabilire quale dei due rappresenti la “verità”.<br />

Certo egli mostra che i concetti di movimento e di forza coniati dalla fisica sono<br />

contraddittori (cioè mina alla base quella che in quel periodo era ritenuta, anche<br />

da Kant, la scienza della verità), e propone l’alternativa del suo sistema<br />

dialettico; ma non riesce ad essere convincente sul perché si dovrebbe sostituire<br />

il secondo al primo.<br />

La necessità dello sviluppo dialettico è solo postulata. E così appunto egli non fa<br />

che sostituire un determinismo con un altro.<br />

Hegel non mostra perché la realtà dovrebbe svilupparsi triadicamente attraverso<br />

tesi antitesi e sintesi; anzi, la sua imponente struttura deterministica appare<br />

estremamente artificiale e quindi vuota (non rispondente alla realtà). Anch’egli<br />

alla fine propone una struttura con un’origine necessaria (il cominciamento), e<br />

uno sviluppo determinato da leggi ferree, che conducono verso quel preciso fine.<br />

Allora, la consequenzialità dialettica non si differenzia dalla consequenzialità<br />

meccanica, anzi egli sembra riabilitare oltre al concetto di causa efficiente anche<br />

quello di causa finale.<br />

Insomma, il determinismo (e lo storicismo) hegeliano è “moderno” quanto il<br />

causalismo che voleva combattere. Il sistema proposto da Hegel non consente di<br />

uscire da quella “frammentazione” che egli stesso aveva così ben evidenziato e<br />

denunciato.<br />

Quindi nel pensiero di Hegel si mescolano alcuni elementi di forte novità, con<br />

altri di fedele continuità rispetto al passato. Egli espone idee assolutamente<br />

geniali e dirompenti come quella di relazione, il concetto di Aufhebung e quello<br />

di “auto-movimento”, la critica al concetto di forza, ecc. ma esse vengono<br />

costrette all’interno del letto di procuste del suo rigido determinismo.<br />

352


In più, il suo monismo soggettivistico lo pone senza dubbio dentro l’alveo del<br />

pensiero moderno, perché con esso egli mostra di accettare (pur con tutti i<br />

distinguo del caso), la natura soggettiva dell’uomo, alla stregua di Kant e degli<br />

altri filosofi moderni. Ancora, la sua idea dell’assoluto, non rappresenta una<br />

discontinuità netta, (come lui vorrebbe) nei confronti del fondazionalismo,<br />

perché essa ne conserva alcune caratteristiche distintive.<br />

IX) Muovere e togliere<br />

Sulla scorta delle considerazioni appena fatte possiamo ora affrontare altre<br />

questioni importanti ai nostri fini. In primo luogo, discuteremo il tema del<br />

movimento; il quale ci servirà poi, per distinguere tra due modi di int endere la<br />

relazione. 349<br />

Abbiamo visto che Hegel ha un’idea particolare del movimento. Egli parla di<br />

“movimento dialettico”, o del “cammino compiuto dal soggetto”; Il movimento<br />

dialettico però non ha niente in comune con lo spostamento fisico dei corpi,<br />

poiché è “riflessivo”.<br />

Un corpo per la fisica si muove quando passa da un punto A ad un punto B nello<br />

spazio (oppure quando ruota intorno a se stesso). La definizione scientifica è<br />

questa: «Variazione nel tempo della posizione di un corpo, di un sistema di corpi,<br />

o in generale di una situazione fisica localizzabile nello spazio, rispetto a un dato<br />

sistema di riferimento». 350 Affinché ci sia movimento deve verificarsi un<br />

cambiamento di posizione. L’idea che ne ha Hegel è del tutto diversa, eppure egli<br />

la definisce sempre movimento. L’auto-movimento del soggetto non comporta<br />

349 Del movimento ci occupiamo in questo paragrafo, dei due modi di intendere la relazione (re-azione e<br />

re-lazione) nel prossimo.<br />

350 Mentre il movimento circolare è definito come “il moto di un punto lungo una circonferenza”. Cfr<br />

La nuova enciclopedia delle scienze, Garzanti, Milano, 1993<br />

353


alcuno spostamento perché esso non può spostarsi. Il soggetto assoluto è già<br />

presso tutto ciò che lo circonda, non ha la necessità di raggiungere qualcosa ad<br />

esso “esterno”. Il suo movimento è “dialettico” non fisico. Esso è<br />

originariamente in sé, poi si riflette fuori di sé, ed infine ritrova la sintesi del in sé<br />

e del per sé. Quando esso “si muove” verso la determinazione successiva non<br />

abbandona mai la precedente, ma la riassume all’interno di una nuova sintesi. Il<br />

corpo invece spostandosi deve necessariamente abbandonare il punto di partenza<br />

per poter raggiungere quello di arrivo. L’auto-movimento non avviene dentro un<br />

sistema di riferimento spazio temporale assoluto, ma è movimento dell’assoluto<br />

in se stesso; è auto-affermazione immanente della soggettività; è la<br />

manifestazione dialettica dei diversi momenti che compongono lo spirito<br />

assoluto. Abbiamo già visto che Hegel usa il concetto di Aufhebung (il<br />

contemporaneo togliere e conservare) per caratterizzarlo.<br />

Una conseguenza notevole di questo modo di intendere il movimento riguarda il<br />

concetto di relazione: un conto è mettere in relazioni due corpi isolati, collocati<br />

in luoghi diversi dello spazio, un’altra cosa è la relazione che si sviluppa tra i<br />

diversi stadi dello spirito assoluto.<br />

Il movimento riflessivo allora può essere utilmente avvicinato al concetto di<br />

trasformazione o a quello di mutamento. In effetti, il movimento è una delle<br />

possibili forme del mutamento; quella che riguarda esclusivamente la sua<br />

posizione spazio temporale. La cosa spostandosi rimane la stessa, conserva la sua<br />

natura, pur modificando la posizione. Il mutamento invece può comportare un<br />

cambiamento di stato, o di aspetto.<br />

Prima della “rivoluzione” operata dal pensiero moderno, si poteva intendere il<br />

movimento nei due modi indifferentemente; infatti, si poteva considerare<br />

movimento sia il trasferimento di un ente da un luogo ad un altro, che la<br />

trasformazione dell’ente da uno stato ad un altro. Erano presenti un’accezione<br />

“lineare”, e una “riflessiva”.<br />

Oggi esiste una netta differenza di significato tra l’una e l’altra, tanto che la<br />

seconda viene contemplata a stento come idea di movimento. Il vocabolario per<br />

354


esempio definisce in primo luogo il movimento come “condizione di ciò che è<br />

tolto dallo stato di quiete… si sposta da un luogo ad un altro”, e solo come<br />

decimo e ultimo significato associa ad esso il “mutamento”, riportando come<br />

esempio una frase del Boccaccio! Ciò significa, che oggi per movimento si<br />

intende lo spostamento, mentre rimane solo un lontano ricordo del mutamento.<br />

Il vocabolario di latino invece dà pari importanza e mescola le due accezioni:<br />

motus è sia il moto, il movimento fisico, che lo sviluppo (ad esempio delle<br />

piante), o il moto dell’animo, cioè il mutamento degli stati d’animo, ma anche il<br />

cambiamento delle usanze (nihil motum ex antiquo probabile est). Il verbo<br />

moveo significa mettere in movimento, agitare, scuotere, ma anche mutare,<br />

trasformare, cambiare, e poi turbarsi (moveri animo), turbare l’ordine (quieta<br />

movere), commuovere, e ancora manifestare, pensare, e, degno di nota, riflettere.<br />

Col verbo moveo i latini intendevano anche la riflessione – che esprime il<br />

mutamento nel senso più pieno, ed è l’accezione che più si avvicina a quella<br />

usata da Hegel (il quale non a caso si riferisce a tollo).<br />

Il verbo muto presenta una commistione di significati simile: esso vale sia per<br />

muovere, spostare (se luna mutat) la luna si muove, che per mutare, modificare<br />

(sentenziam mutare) cambiare parere (vestimenta mutare) cambiare d’abito,<br />

(incerta pro certis mutare) lasciare il certo per l’incerto, (mores mutaverunt) i<br />

costumi sono cambiati, ecc.<br />

Il movimento riferito al “mutare” è proprio quello riflessivo, nel senso che si<br />

rivolge e riguarda il soggetto (o più in generale l’ente) in se stesso: concerne una<br />

trasformazione “interna”, come appunto un cambiamento d’abito o d’opinione,<br />

oppure si può riferire anche alla “muta” degli animali.<br />

Questa ampia gamma di esempi mostra come per i latini non ci fosse separazione<br />

netta tra i due tipi di movimento.<br />

Degno di nota è anche il fatto che, dal verbo muto si risale all’aggettivo mutuus<br />

(reciproco, mutuo). L’idea della reciprocità è strettamente legata infatti a quella<br />

del movimento riflessivo. La reciprocità si dà sempre mediante un’azione riflessa<br />

(o un movimento riflesso), e a sua volta, un’azione riflessa comporta una sorta di<br />

355


eciprocità, nel senso che chi agisce è anche destinatario dell’azione, cioè riceve<br />

in modo direttamente proporzionale a quello che dà.<br />

O meglio, si tratta di distinguere la mutualità tra due o più elementi, da quella<br />

riferita ad una unità. Nel primo caso la reciprocità si dà come scambio tra questi<br />

elementi, nel secondo come complementarietà e raccoglimento di momenti o di<br />

aspetti. 351<br />

Nel primo caso il movimento non è riflessivo, ma lineare, prima in un senso, poi<br />

in quello inverso (c’è un andata e un ritorno); nel secondo caso c’è “riflessione”,<br />

c’è “auto-movimento”, c’è trasformazione (e nel caso hegeliano, c’è sviluppo). È<br />

sempre “lo stesso” che si dà con modalità diverse. Nel caso in cui la reciprocità<br />

(o la mutualità) si riferisca – come in Hegel – ad un unico termine, la relazione si<br />

sviluppa tra due dei suoi stati successivi, tenendoli legati, tenendoli insieme,<br />

riferendoli l’uno all’altro (e l’unità non può che essere una totalità di momenti).<br />

La mutazione concerne allora il cambiamento “endogeno” dell’ente, ed è<br />

riferita ad un’azione “autopoietica”, dovuta ad un “movimento riflessivo”.<br />

Reciproco viene dal latino reciprocu(m) – il quale significa “che ritorna al punto<br />

di partenza”. Quindi, il “ritorno al punto di partenza” si può ottenere sia nel caso<br />

della relazione binaria (o “ennaria”) che in quello della relazione “unaria”; e<br />

l’Aufhebung di Hegel ne è un esempio chiaro. 352<br />

Con l’imporsi del vocabolario moderno si è offuscato l’uso dell’accezione<br />

“riflessiva” del movimento; con questa parola oggi intendiamo prevalentemente<br />

lo “spostamento”, intendiamo cioè un cambiamento di luogo. 353<br />

351 Come avviene ad esempio nella Aufhebung hegeliana; infatti la negazione è sempre in funzione di<br />

ciò che è negato (è negazione di una negazione), e il negato trova la sua destinazione necessaria, la sua<br />

sede più propria nella sua stessa negazione.<br />

352 All’aggettivo mutuus si può far risalire, a sua volta, l’italiano “mutuo” nel senso di “reciproco”,<br />

“vicendevole” (che rende esplicita la natura riflessiva del termine). Quindi, esiste anche in italiano il<br />

modo riflessivo del movimento ma vi si arriva in maniera, per così dire, indiretta.<br />

353 Anzi, in questo periodo l’idea del movimento circolare, riflessivo, di cui parla ad esempio Hegel<br />

(cosa totalmente diversa rispetto al movimento circolare, o momento angolare, studiato dalla fisica)<br />

diventa un concetto contraddittorio: il “movimento riflessivo” diventa “circolo vizioso”, cioè aporia.<br />

356


In epoca moderna si sviluppa addirittura una “scienza del moto” , una scienza<br />

che si incarica di studiare leggi e forme dello spostamento dei corpi nello spazio<br />

e nel tempo. Scienza che si basa su concetti come quello di “forza”, di “inerzia”,<br />

di “accelerazione”, ecc. In effetti, solo un mondo di “oggetti” (o “corpi”) può<br />

permettere l’affermazione di scienze come la cinematica e la dinamica.<br />

Ma prima che si affermassero termini come “oggetto” e “corpo”, il movimento<br />

poteva essere indifferentemente “cambiamento di luogo”, o “cambiamento di<br />

stato”.<br />

Abbiamo visto che il primo filosofo moderno a rifiutare l’identificazione<br />

immediata del movimento con lo spostamento è Hegel, il quale si pone proprio<br />

l’obiettivo di recuperare concetti presenti nel pensiero antico per rielaborare quel<br />

concetto; egli voleva così sfuggire alle semplificazioni e ai problemi prodotti<br />

dall’impostazione razionalista.<br />

Hegel quindi concepisce l’idea dell’auto-movimento, per poter sostenere la tesi<br />

dello sviluppo dialettico della soggettività; ma tale movimento porta a<br />

riconsiderare altri concetti: quello di relazione, quello di toglimento e di<br />

negazione, quello di superamento, ecc.<br />

L’analisi del suo lavoro allora ha fatto emergere una simmetria tra il concetto di<br />

Aufhebung e quello di “movimento riflesso”. E di rimando ci ha fatto scorgere<br />

una relazione anche tra il verbo latino tollere e le accezioni riflessive del movere,<br />

e del mutare.<br />

Il toglimento dialettico implica infatti un movimento composto simultaneamente<br />

da un “avanzare” e da un “rimanere”. Ciò mette in luce la natura riflessa del<br />

movimento, perché solo attraverso la riflessione è possibile conciliare l’<br />

“avanzamento” con il “mantenimento”. Il “superamento” dell’Aufhebung si<br />

concilia solo con la natura riflessiva dell’auto-movimento – non può essere<br />

spostamento perché lo spostamento è sinonimo di abbandono, di lacerazione, di<br />

separazione.<br />

Così le diverse configurazioni (stati) dello “stesso”, proprio perché legate ad un<br />

comune denominatore (lo spirito assoluto) sono in mutua relazione tra loro.<br />

357


X) “Re-azione” e “re-lazione”<br />

E veniamo al secondo dei termini in esame; abbiamo già accennato al fatto che, a<br />

seconda del significato attribuito al verbo “muovere” cambia anche il concetto di<br />

“relazione”. Torniamo ora sulla questione: la relazione tra oggetti che stanno in<br />

luoghi diversi deve essere prodotta, in quanto essi originariamente sono<br />

indipendenti, c’è bisogno quindi di un agente che compia un’azione. Per questo<br />

nel mondo moderno diventano fondamentali i concetti di “causa” e di “forza”;<br />

solo per loro tramite, è possibile creare “relazioni” tra i corpi. 354<br />

Ma questo tipo di “relazione” comporta sempre un’ “azione” (da parte<br />

dell’oggetto “A”), e una “re-azione” (dell’oggetto “B”). La relazione diventa una<br />

“azione-reazione” tra enti autonomi. 355 Il movimento necessario perché si<br />

verifichi questa relazione è la dis-locazione, il cambiamento di luogo. Questo<br />

tipo di “relazione” è stato in precedenza definito “incontro”.<br />

La relazione tra i diversi aspetti (o stati) dello “stesso” invece è originaria (nel<br />

senso che non è l’ “effetto” di un incontro tra enti estranei). Non dipende da<br />

azioni e reazioni, non deve essere prodotta, “si dà” naturalmente e<br />

contestualmente a ciò che essa tiene in relazione. Coincide con le diverse<br />

manifestazioni della “cosa”, nel senso che quella “cosa” mostrandosi, mette in<br />

luce la sua natura “relazionale”.<br />

In questo tipo di relazione è implicita la mutualità, la reciprocità; ad esempio, un<br />

aspetto si mostra in virtù di quelli che “rimangono” nascosti. Il movimento<br />

implica sia un “avanzamento” (di ciò che si mostra), che un “mantenimento” (di<br />

ciò che “rimane” nascosto). Ma l’uno e l’altro si coimplicano, è solo dal<br />

354 È noto che Hume definisce la causa come “il cemento dell’universo”.<br />

355 Stabilita e governata dai principi della dinamica se riferita a “corpi”, dai principi del razionalismo e<br />

più in generale della metafisica se riferiti al rapporto “soggetto-oggetto”.<br />

358


nascondimento di un aspetto che si può ottenere la manifestazione di quell’altro.<br />

Il movimento allora è riflessivo. Il movimento è “mutazione”. 356<br />

Allora, ci sono due modi di intendere la relazione: il primo implica un “legame”<br />

stabilito e imposto tra enti originariamente estranei e separati (azione e reazione).<br />

Un legame che si produce attraverso un’azione causale, e che richiede l’impiego<br />

di una qualche forma di energia, o di una “forza”, (ma anche di un “potere”); il<br />

secondo tipo di relazione si dà nella manifestazione dell’ordine spontaneo che<br />

raccoglie le diverse forme dello “stesso” (e corrisponde all’idea di coniugazione).<br />

Il “comune” che unisce i differenti stati del “medesimo”, però, non è un substrato<br />

nascosto sul quale poggiano quelle manifestazioni, ma esso è, di volta in volta,<br />

ciò che si manifesta. Il “comune” e le sue “manifestazioni” coincidono.<br />

Abbiamo già detto che le coniugazioni del verbo sono tutto ciò che esso stesso è.<br />

Le coniugazioni sono i diversi modi d’essere del verbo, e non dipendono dal<br />

verbo, non trovano la ragione del proprio essere e del proprio esistere nell’entità<br />

“verbo”; nel senso che, il verbo non è né un substrato né una condizione di<br />

possibilità. Tra il verbo e le sue coniugazioni c’è perfetta identità. L’insieme<br />

delle coniugazioni è la totalità dei modi di darsi (e di essere) del verbo. Esso non<br />

si può disgiungere (non può prescindere) dalla sua coniugazione. Ogni voce del<br />

verbo è il verbo, è un modo di mostrarsi e di darsi del verbo. Al di là di queste<br />

non c’è nulla.<br />

Ogni voce del verbo quando si mostra, per il fatto stesso che si mostra, nasconde<br />

le altre, le “toglie” senza cancellarle, non si sovrappone, né si separa da esse. Il<br />

verbo si manifesta nella sua interezza di significato in ogni sua voce (in ogni<br />

“evento” comunicativo); e nello stesso tempo ogni forma del verbo si riferisce<br />

alle altre; anche in questo caso, nel reciproco riferimento emerge la differenza,<br />

ma la differenza si manifesta grazie al mutuo riferimento. 357<br />

356 Il greco antico ad esempio esprime tale concetto col termine “meta-bole”.<br />

357 La “verità” è data dall’insieme di manifestazione e nascondimento (ciò vale anche per l’ente). In<br />

questo modo si può recuperare l’antico insegnamento insito nel concetto di “aletheia”.<br />

359


Sappiamo che anche per Hegel la negazione non è “contrapposizione”, ma<br />

implica invece una maggior determinazione; è cioè funzionale allo sviluppo<br />

dialettico.<br />

Hegel usa l’idea del togliere e del mantenere, gli antichi quella del manifestare e<br />

del nascondere. L’ente non si può manifestare nella sua totalità (cioè mostrando<br />

simultaneamente tutti i suoi aspetti). Nonostante questo, ogni sua<br />

manifestazione, mostra interamente il suo essere, perché in ogni sua forma<br />

d’essere, si dà completamente il suo “essere”. Quello che rimane nascosto non è,<br />

per così dire, una porzione d’essere (o un qualche tipo di essenza o substrato), ma<br />

un diverso modo di darsi dello stesso essere. Per questo non si può concepire, o<br />

è contraddittorio concepire, una manifestazione completamente disvelante<br />

dell’ente. 358<br />

L’ente si mostra e nel contempo si nasconde, la sua manifestazione è legata al<br />

suo nascondimento e viceversa.<br />

Quella determinata voce è tutto ciò che di quel verbo può apparire in un certo<br />

momento, essa è tutta la verità di quel verbo, è tutto il suo essere. Ogni flessione<br />

è un cambiamento formale, legato dal riferimento comune del significato (la<br />

coniugazione collega le diverse forme dello stesso verbo). Ogni flessione mostra<br />

una forma del verbo, quindi rappresenta una determinata possibilità di usare quel<br />

significato, che è però compiuta; ciò significa che la forma verbale usata esprime<br />

il significato del verbo nella sua interezza, adeguandolo anche alle esigenze del<br />

caso; e quindi non è paragonabile alla funzione che la “parte” svolge nei<br />

confronti del “tutto”; infatti la parte non può per definizione stare per l’intero,<br />

non può mostrare l’intero. Nel primo caso ciò che si manifesta, nella misura in<br />

cui si manifesta, coincide con ciò che è; nel secondo, il tutto non può che essere<br />

quella determinata sommatoria (ed è sempre lo stesso tutto). Nel primo caso si<br />

358 Sarebbe molto interessante a questo proposito, confrontare le tesi delle correnti artistiche del<br />

novecento, prendere in esame ad esempio le idee che hanno spinto Picasso al cubismo, le convinzioni che<br />

stanno sotto l’astrattismo di Kandinsky, gli obiettivi del movimento surrealista; sarebbe importante cioè<br />

studiare le esperienze artistiche che non consideravano “realista” la pittura cosiddetta “figurativa”; ne<br />

deriverebbero sicuramente molti motivi di ispirazione per il nostro lavoro.<br />

360


contemplano diversi aspetti dello stesso tutto, nel secondo esiste un'unica forma<br />

del tutto, che coincide col darsi unico e stabile della totalità delle sue parti. Nel<br />

primo caso il togliere è sempre un manifestare “lo stesso” nelle sue diverse<br />

forme, nel secondo il togliere è un eliminare, un sostituire. Nel primo caso la<br />

verità si dà nel raccoglimento delle sue forme, ma di volta in volta (quindi<br />

manifestare è anche nascondere); nel secondo o si mostra o si nasconde, o c’è il<br />

vero o c’e il falso. Nel primo caso, il tutto è la relazione che raccoglie e nel<br />

contempo manifesta aspetti, nel secondo il tutto è la sostanza o l’essenza dalla<br />

quale la parte dipende o deriva.<br />

Il modo di essere del verbo, come quello dell’ente, non può che rendersi<br />

manifesto per esistere. Nel momento in cui appare, e nella misura i cui si dà,<br />

esso trova (e coincide con) il suo essere. Non ci sono substrati, essenze,<br />

condizioni di possibilità, apriori ecc., attraverso i quali si possa giustificare<br />

l’esistenza e l’essere di ciò che appare (anche perché nel momento in cui io<br />

pongo una condizione qualsiasi, legittimo chiunque a domandare quale sia e dove<br />

si trovi il fondamento di quella condizione). Perché il “manifesto” avrebbe<br />

bisogno di condizioni di esistenza e il “nascosto” no? Cosa fa della condizione di<br />

possibilità un “incondizionato”?<br />

La considerazione che il fondamento non può essere fondato non è nulla più di<br />

una semplice postulazione. E le postulazioni sono condizioni che si possono<br />

accettare, ma anche respingere. Ogni entità “sottostante” che si pone a<br />

fondamento di ciò che appare è una dannosa duplicazione che fa nascere<br />

problemi e contraddizioni.<br />

Allora l’essere dell’ente sta tutto in ciò che, di volta, in volta, si coglie nella sua<br />

manifestazione. 359<br />

L’ “oggetto” è l’ente che si dà nella sua interezza, in virtù della sua individualità<br />

e autosufficienza, grazie alla sua sostanza o essenza. L’ente che “sta”<br />

opponendosi, ciò che è a sé stante, e quindi, perfettamente compiuto. Con un<br />

359 Ecco perché la realtà ha carattere evenemenziale; ma su questo torneremo nel prossimo capitolo.<br />

361


mondo popolato da tali enti il movimento riflessivo diviene contraddittorio, il<br />

movimento non può che essere dislocazione, e cambiamento di posizione. Il<br />

perfettamente compiuto e manifesto non può possedere diversi aspetti, ma è<br />

sempre uguale a se stesso; non si può mostrare in modi diversi, non risulta dal<br />

contrasto tra manifestazione e nascondimento, anzi, ogni nascondimento è un<br />

allontanamento dal suo essere, dalla sua verità (il nascondimento in questo caso è<br />

“falsità”).<br />

In questo mondo non ci può essere l’auto-movimento. Ma come aveva già visto<br />

Hegel il mondo degli oggetti (il mondo dove non esiste auto-movimento) è una<br />

“totalità disgregata, e paralizzata”. Esso si condanna a rimanere nella<br />

contraddizione, perché, paradossalmente, è proprio la natura dell’oggetto a<br />

rifiutare qualsiasi movimento volto a produrre incontri. L’oggetto in virtù della<br />

sua autonomia e indipendenza rifiuta la relazione con “altro”, rifiuta l’unione con<br />

“altro” e quindi rinuncia al movimento (altrimenti esso sarebbe assurdo e<br />

costante girare a vuoto).<br />

Quello degli oggetti è il mondo concepito dall’intelletto, dice Hegel, un mondo<br />

destinato a rimanere frantumato e paralizzato, perché privo della possibilità del<br />

“cambiamento”, della trasformazione, dello sviluppo. È all’interno di questo<br />

mondo che diventa problematico spiegare le relazioni tra enti. 360 È il movimento<br />

locale, per il pensatore tedesco, ad essere contraddittorio non l’auto-movimento.<br />

Hegel allora, per salvare il movimento, elabora il concetto di sviluppo dialettico,<br />

cioè accetta gli “oggetti” solo come una tappa all’interno di un processo. Così<br />

ogni cosa si dà seguendo determinati stadi di sviluppo. Per questo il movimento<br />

hegeliano non può essere un movimento spazio temporale (non può essere un<br />

movimento fisico) ma è necessariamente “auto-movimento”, “auto-sviluppo”.<br />

Nella Scienza della logica questo diventa il movimento circolare del concetto su<br />

se stesso; che è possibile in virtù dell’ Aufhebung. L’auto-movimento si fonda<br />

sul simultaneo togliere e mantenere. Così non c’è movimento senza toglimento (e<br />

360 Celebre è la trattazione, alla quale abbiamo già accennato, del concetto di forza nella<br />

Fenomenologia.<br />

362


simultaneo mantenimento). Esso è trasformazione e sviluppo attraverso i quali si<br />

realizza l’auto-affermazione della soggettività assoluta.<br />

Nonostante i limiti che abbiamo denunciato a proposito del soggettivismo, e del<br />

determinismo, l’idea di auto-movimento (e tutti i suoi corollari) sono veramente<br />

un contributo geniale nella storia della filosofia. Con esso Hegel recupera e<br />

rielabora un aspetto importante del pensiero antico; e apre la strada a tutti quei<br />

tentativi, che come il suo, cercano di superare il dualismo e il fondazionalismo.<br />

E grazie ad esso noi possiamo spingerci verso ulteriori considerazioni.<br />

363


PARTE QUARTA<br />

Evento e relazione: unità e differenza<br />

Non c’è un ordine di precedenza tra evento e relazione. La relazione si dà come differenza, del<br />

riferimento mutuo e solidale è espressione l’evento. Nella differenza si nasconde l’unità e si<br />

manifesta l’alterità e nell’unità prevale il riferimento sul differimento.<br />

Primo capitolo: Relazione ed alterità<br />

I) Solidarietà tra esperienza e linguaggio<br />

Il problema sorto col dualismo moderno non si risolve né cambiando le cose<br />

materiali in entità mentali, e nemmeno trasformandole in parole; perché la<br />

difficoltà sorge proprio dalla natura che si attribuisce a queste entità: se si<br />

considera l’ente autonomo, individuo e permanente (sia esso reale, mentale o<br />

verbale) è chiaro che non lo si potrà congiungere (correlare) con nulla al di fuori<br />

di esso. Non c’è possibilità di produrre un incontro tra entità separate, isolate.<br />

È possibile invece raccogliere e quindi riunire (legare) le diverse configurazioni<br />

che può assumere “il medesimo” (il quale resta sempre “lo stesso” pur<br />

mostrandosi nelle sue diverse forme). La relazione tra i diversi aspetti dello<br />

“stesso” infatti non deve essere prodotta, ma è costitutiva della configurazione<br />

che si attribuisce a questa stessa realtà. I diversi aspetti del “medesimo” possono<br />

essere raccolti proprio in virtù della loro correlazione e co-appartenenza; gli<br />

oggetti invece, sono separati e non possono, per questo, essere correlati. 361<br />

361 Ci siamo occupati in precedenza delle locuzioni “il medesimo” e “lo stesso”, ma ci ritorneremo, per<br />

chiarirle ulteriormente, nel prossimo paragrafo, nel quale trattiamo del riferimento e del differimento.<br />

364


Una faccenda è raccogliere gli aspetti che afferiscono allo “stesso”, e che quindi<br />

condividono una matrice comune, un’altra, è unire i disgiunti. 362 Si possono<br />

raccogliere e manifestare aspetti, non si possono incontrare gli oggetti. 363<br />

Qualsiasi fenomeno considerato è sempre la manifestazione di un aspetto della<br />

realtà, non un aggregato di entità indipendenti e autosufficienti.<br />

Un ente possiede molteplici aspetti, sia nel senso che è l’insieme delle sue<br />

manifestazioni spaziotemporali (le quali hanno carattere evenemenziale), sia<br />

perché può essere osservato sotto molteplici punti di vista. La cosa è quella cosa,<br />

grazie al modo nel quale si mostra (e specularmente, al modo nel quale viene<br />

percepita); cioè, il suo aspetto dipende dalla relazione “osservatore-osservato”,<br />

che si determina di volta in volta; ma nello stesso tempo, il modo nel quale essa<br />

viene percepita caratterizza e configura anche chi la percepisce (il cosiddetto<br />

osservatore). Egli infatti non è né un recettore neutrale di una realtà data e<br />

indipendente, né il legislatore o il creatore di una realtà soggettiva. Ma è il<br />

termine di una relazione che si fa come evento. Egli, contestualmente, riceve e dà<br />

alla relazione. Egli “è” in virtù di essa, nel momento stesso in cui (e in ragione<br />

del fatto che) la fa sussistere. Sé e mondo si “realizzano” e definiscono uno in<br />

relazione all’altro. Sul riferimento reciproco nasce la loro differenza, e la loro<br />

differenza sorge dal mutuo riferimento.<br />

Non ci può essere ricezione neutra di entità esterne, esogene, né produzione<br />

endogena di fattori fenomenici o ideali. L’uomo non possiede apriori attraverso i<br />

quali legifera, né può essere l’assoluto che precede, comprende, e permette la<br />

totalità del reale. L’uomo si fa e si dà nelle relazioni, che sempre lo coinvolgono.<br />

La realtà si mostra in modo peculiare e in riferimento ai termini che la<br />

costituiscono; E tutto questo non è soggettivismo, né solipsismo, in quanto l’<br />

“elemento singolo”, non può prescindere dal “contesto” e dalla molteplicità che<br />

362 Per esempio, l’addizione, in matematica, è possibile solo tra numeri che condividono un “comune<br />

denominatore”, cioè essa è possibile solo tra entità che possiedono una “precedente disposizione” a farsi<br />

sommare, ad essere raccolti insieme.<br />

363 L’ “aspetto” è ciò che si mostra. Aspectum è il participio del verbo aspicere che significa guardare.<br />

Aspectum, ciò che è guardato, è il manifesto.<br />

365


lo circonda. L’ “elemento singolo” non può avere una consistenza indipendente<br />

dagli altri termini della relazione, nella quale è sempre inserito in modo<br />

evenemenziale. Esso cioè non è causa o principio di nulla.<br />

Dal nostro punto di vista, non ci sono elementi singoli indipendenti e<br />

autosufficienti dal contesto che li circonda; ognuno di essi è solo una<br />

configurazione, solo un modo di interpretare, o di raffigurare la medesima realtà,<br />

(o una rappresentazione di essa).<br />

Del resto, la realtà non dipende solo dall’esperienza soggettiva (non ha carattere<br />

esclusivamente soggettivo), perché per essere percepita deve poter essere<br />

comunicata. Ciò significa che la solidarietà non vige solo tra il singolo uomo e il<br />

suo “altro oggettivo”, ma anche tra uomini. La relazione io-mondo, mette in<br />

reciproca connessione, mette in rapporto di mutualità ogni suo singolo temine,<br />

per ogni evento nel quale si manifesta, senza eccezione per i rapporti tra uomini.<br />

I termini di questa relazione – nel loro darsi evenemenziale – possono avere<br />

qualsiasi tipo di natura. Anche un colloquio, ha carattere di relazione<br />

evenemenziale, anche la relazione tra uomini è un evento. Così anche quel tipo di<br />

relazione è caratterizzato dalla mutualità e dalla solidarietà dei suoi termini. In<br />

questo modo, la comunicazione e l’esperienza sono reciprocamente correlate. 364<br />

Senza “condivisione” (solidarietà) non ci può essere “percezione”. Gli uomini<br />

non sono un insieme di soggetti che percepiscono autonomamente la realtà<br />

esterna e poi si incontrano per trasmettersi le loro impressioni. Questo significa<br />

che la relazione tra l’uomo e il suo ambiente non è mai una relazione “privata”,<br />

individuale, (tra un soggetto e uno o più oggetti); l’uomo non può raggiungere i<br />

singoli oggetti in modo autosufficiente, prescindendo da tutti gli altri elementi in<br />

gioco. L’uomo è parte integrante di una rete di relazioni che sussistono una in<br />

funzione dell’altra. Così diventa importante anche la sua dimensione “sociale”, i<br />

riti collettivi, i simboli che caratterizzano ogni cultura, ogni società. L’uomo<br />

acquista consapevolezza di sé e del suo mondo solo nella comunità, solo nella<br />

364 Con percezione si intende sia l’osservazione, sia l’ascolto dell’ “altro”; cioè qualsiasi tipo di<br />

relazione che si manifesta tra un uomo e il suo mondo è in qualche modo legata alla percezione.<br />

366


condivisione, e nella solidarietà reciproca, infatti solo parlando può percepire e<br />

solo percependo può parlare.<br />

In particolare, le possibilità e le modalità dell’esperienza crescono e si<br />

implementano contestualmente alle possibilità e alle modalità della<br />

comunicazione. L’uomo “percepisce” (ascolta e osserva) in tanto e in quanto<br />

comunica; e comunica nella misura in cui percepisce. Né la percezione, né la<br />

comunicazione sono attività originarie dell’uomo. Esse si condeterminano e si<br />

coimplicano. La percezione e la comunicazione non sono facoltà esclusivamente<br />

“genetiche” o endogene di cui l’uomo è dotato originariamente (del resto, la<br />

comunicazione non è nemmeno riducibile ad un’attività solo “culturale”).<br />

Percezione e comunicazione sono in relazione di reciprocità. Sono entrambe un<br />

insieme di fattori filogenetici, ontogenetici e culturali.<br />

Così ogni “individuo” si forma a partire da un contesto e da un insieme di<br />

relazioni, che esso stesso rende possibili grazie alla sua esistenza. C’è sempre<br />

implicazione reciproca, c’è sempre solidarietà e mutualità tra tutti i termini che<br />

costituiscono questa relazione.<br />

La percezione non può sussistere indipendentemente dalla comunicazione perché<br />

non è una facoltà originaria apriori; nemmeno il linguaggio è una facoltà<br />

endogena e originaria dell’uomo, in quanto esso è inconcepibile a prescindere<br />

dalla percezione (e non ha senso interrogarsi sul loro ordine di precedenza; esse<br />

si costruiscono una sull’altra).<br />

Del resto, percezione e comunicazione sono i modi di darsi delle relazioni che<br />

coinvolgono l’uomo. L’uomo infatti è in relazione al suo “altro” grazie alla sua<br />

percezione e al suo linguaggio.<br />

Per rendere possibile la percezione e la comunicazione concorrono fattori<br />

genetici e sociali. La dimensione culturale (e quindi il linguaggio) e quella<br />

biologica (la filogenesi e l’ontogenesi) sono in funzione una dell’altra. È la nostra<br />

biologia che permette lo svilupparsi del linguaggio, e del resto, possiamo<br />

descrivere questa peculiarità biolo gica solo usando il linguaggio. In sostanza, noi<br />

descriviamo il nostro essere biologico con il linguaggio, il quale è un prodotto di<br />

367


questo stesso essere. Questa circolarità è imprescindibile. Ciò significa, che tale<br />

essere biologico (e il suo modo di relazionarsi al mondo) non ha un carattere<br />

oggettivo, che potrà un giorno essere scoperto nella sua essenza più profonda; o<br />

che potrà essere descritto in maniera definitiva, una volta per tutte, usando quel<br />

linguaggio che prima o poi diventerà uno strumento ne utro “non invasivo”<br />

tecnicamente e logicamente perfetto. Ma il linguaggio – lo strumento che usiamo<br />

per conoscere – è quello che è, in virtù della nostra dimensione biologica, e<br />

quest’ultima è quello che è (almeno nel modo in cui noi la conosciamo) 365 , in<br />

virtù del linguaggio col quale viene descritta.<br />

Ecco come il fenomeno del linguaggio viene spiegato dal punto di vista biologico<br />

da un studioso come Maturana: «Quando uno o più sistemi viventi avanzano<br />

nella loro deriva strutturale co-ontogenetica attraverso interazioni ricorrenti in un<br />

dominio consensuale, è possibile che nel loro comportamento consensuale si<br />

verifichi una ricorsività, e cioè la produzione di coordinazione consensuale di<br />

coordinazioni comportamentali consensuali. Quando questo accade dal punto di<br />

vista di un osservatore i partecipanti ad un dominio consensuale di interazioni<br />

operano nel loro comportamento consensuale producendo distinzioni<br />

consensuali, in un processo che trasforma ricorsivamente un azione consensuale<br />

in un simbolo consensuale, che sta al posto di una distinzione consensuale da<br />

esso occultata. Questo è ciò che avviene quando usiamo il linguaggio nella nostra<br />

prassi». 366 In questo passo, viene messa in primo piano l’interazione e la<br />

mutualità tra tutti i termini coinvolti. La deriva co-ontogenetica è la rete di<br />

relazioni che tiene uniti gli esseri viventi, queste ultime sono contestualmente<br />

biologiche e culturali (e quindi linguistiche); in tale rete di relazioni si verificano<br />

delle ricorsività nei comportamenti collettivi, attraverso le quali i partecipanti al<br />

dominio delle interazioni, producono delle distinzioni che vengono trasformate in<br />

365 Che è peraltro l’unico modo in cui essa può manifestarsi<br />

366 Per deriva strutturale co-ontogenetica l’autore intende l’interazione ricorrente di due o più sistemi<br />

autopoietici (sistemi viventi), quando ciascuno di essi possiede una struttura dinamica che segue un corso<br />

di cambiamenti contingente alla storia delle sue interazioni con gli altri.<br />

H. Maturana, Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina Editore, 1993, pag 83<br />

368


simboli. L’interazione biologica (la co-ontogenesi) determina le condizioni per la<br />

nascita del linguaggio; per altro verso, descriviamo tale fenomeno col linguaggio<br />

che questo processo ci ha messo a disposizione. Ciò spiega la circolarità tra<br />

l’aspetto biologico e quello linguistico.<br />

Quando ci interroghiamo sulla conoscenza, sul tipo di relazioni che l’uomo può<br />

stabilire col suo mondo, siamo per forza immersi in questa circolarità.<br />

L’acquisizione del linguaggio e lo sviluppo biologico hanno un andamento<br />

evenemenziale e relazionale nel senso si costruiscono uno sull’altro (in ogni<br />

istante della nostra vita, per ogni evento che ci riguarda).<br />

Allora, il linguaggio è una realtà sociale e culturale mutuamente legata alle<br />

derive strutturali co-ontogenetiche e alla filogenesi della nostra specie. La nostra<br />

consapevolezza (di noi stessi e del mondo) è linguistica, ma essa dipende dalla<br />

nostra configurazione biologica. Le due dimensioni si sono intrecciate durante<br />

tutto il corso della nostra storia.<br />

Anche la società, di conseguenza, è una “rete di esperienze linguistiche<br />

condivise” che si influenzano reciprocamente. La società è possibile solo nella<br />

mutualità dei termini che la costituiscono. Di questo parere è anche Maturana:<br />

«L’agire linguistico ha luogo nella prassi del vivere: noi esseri umani ci troviamo<br />

immersi in esso come esseri viventi. Nella spiegazione del linguaggio come<br />

fenomeno biologico diventa evidente che l’agire linguistico, quando nasce, nasce<br />

come una forma di coesistenza tra sistemi viventi. Se è così il linguaggio si attua<br />

come effetto di una deriva strutturale co-ontogenetica in cui si verificano<br />

interazioni consensuali ricorrenti». 367<br />

L’individuo non può sussistere non può stare o permanere in modo autonomo<br />

dalla società, perché egli è in una inscindibile relazione di solidarietà con essa.<br />

Quindi, l’autocoscienza non è un fattore innato e soggettivo, ma il frutto di<br />

relazioni mutue tra elementi solidali. L’autocoscienza si forma nella solidarietà<br />

tra i termini che caratterizza ogni singolo evento del quale essa stessa fa parte.<br />

367 L’immagine è proprio quella della rete, che noi svilupperemo – riconsiderando più compiutamene il<br />

pensiero di Maturana – nel capitolo quinto. H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag 84<br />

369


La società non è un gruppo di “soggetti”, ma un insieme (o una rete) di relazioni<br />

(in prevalenza linguistiche). Il mondo non è una serie di “oggetti”, ma un insieme<br />

(o una rete) di relazioni.<br />

La relazione reciproca tra percezione e linguaggio è un altro modo per mostrare<br />

la solidarietà che lega i termini all’interno di ogni singolo evento che coinvolge<br />

l’uomo.<br />

Percezione e linguaggio mostrano la solidarietà che esiste tra i termini all’interno<br />

della relazione che stiamo analizzando.<br />

II) La relazione e l’alterità; riferimento e differimento. 368<br />

A questo punto diventa importante confrontare i concetti di “riferimento” e di<br />

“differimento”, anche per capire cosa intendiamo quando usiamo parole come “lo<br />

stesso” o “il medesimo”. 369<br />

Quando diciamo che la relazione può stabilirsi esclusivamente tra aspetti del<br />

“medesimo”, intendiamo sostenere che, affinché essa si realizzi, è necessaria una<br />

solidarietà reciproca tra i suoi termini, è necessario cioè che tra di essi sussista<br />

una “disponibilità” alla relazione; o meglio, è necessario che tra loro “esista” una<br />

comunione, la quale allora deve solo essere “mostrata”, non “prodotta”.<br />

Esiste una differenza notevole tra la convinzione che una relazione possa essere<br />

prodotta tra cose precedentemente estranee, e l’idea che ciò non possa avvenire.<br />

368 Heidegger nell’Eraclito afferma: «Il διαφερεσθαι, il risultare in disaccordo, non è mai un dividere<br />

nel senso di separare cose diverse». M. Heidegger, Eraclito, op. cit. pag. 209<br />

369 Tali concetti sono importanti anche per altre ragioni: primo, perché sono legati al nostro modo di<br />

intendere la relazione, tema centrale di questo scritto; secondo perché basilari anche in pensatori che qui<br />

vengono abbondantemente citati, per la loro vicinanza alle nostre tesi.<br />

370


Secondo quest’ultima idea non c’è alcuna azione, alcun lavoro, alcuna<br />

condizione che possa permettere di collegare entità indipendenti (gli “oggetti”).<br />

L’estraneità reciproca è permanente, è una situazione immodificabile,<br />

definitiva. 370<br />

Se questa è la situazione, i termini possono essere considerati come facenti parte<br />

del “medesimo insieme” (il quale, a sua volta, può essere considerato “insieme di<br />

aspetti” non di “oggetti”); tali termini di conseguenza stanno “insieme” in virtù<br />

della loro mutualità, della loro contiguità, non in virtù o in conseguenza di<br />

un’azione causante o generante il legame. La relazione non è qualcosa che si<br />

aggiunge, ad un certo punto, ai termini, o che a partire da un determinato istante,<br />

li mette in contatto, ma essa è connaturata, cooriginaria e solidale ai termini<br />

stessi.<br />

Grazie a questa affinità reciproca (a questo essere complementari), tali elementi<br />

possono venir considerati aspetti “afferenti” ad un “qualcosa” di unitario, oppure<br />

come molteplici proprietà, o manifestazioni, della relazione stessa. 371 L’unità<br />

allora si mostra nella solidarietà e nella mu tualità degli elementi che la<br />

compongono. 372<br />

In questo senso usiamo parole come “il medesimo” o “lo stesso”.<br />

Vogliamo dire, in sostanza, che qualsiasi differenza tra termini deve poter essere<br />

riferita a un riferimento comune. Ciò significa che senza un comune riferimento<br />

non si può porre alcun differimento (che non diventi contraddittorio).<br />

Differimento e riferimento, nella nostra prospettiva, sono complementari. E<br />

questa è una caratteristica determinante dell’idea di relazione che stiamo<br />

proponendo.<br />

370 I più grandi ingegni del mondo moderno (come abbiamo visto, almeno per sommi capi, nel capitolo<br />

precedente) hanno cercato una soluzione a questa difficoltà, ma nessuna delle teorie da loro proposte ha<br />

effettivamente sconfitto l’isolamento e la separazione alla quale sono destinati “oggetti” e “soggetti”.<br />

“Soggettivismo” e “solipsismo” sono infatti le accuse più frequenti che vengono rivolte a queste filosofie.<br />

371 Quel qualcosa che noi definiamo “il medesimo” o “lo stesso”, comunque, non è assolutamente una<br />

sorta di sostrato o di essenza.<br />

372 L’idea può essere espressa anche col concetto di “ri-unione” analizzato in precedenza.<br />

371


Bisogna notare innanzi tutto che stiamo lavorando con parole che condividono la<br />

radice. Parole che provengono da quella inesauribile fonte di significati e di<br />

sfumature semantiche rappresentata dal verbo latino fero.<br />

Del riferimento abbiamo già detto, ora ci occuperemo del differimento. 373<br />

Ci sono due significati del verbo differire: “rinviare qualcosa ad un tempo<br />

successivo” e “essere diverso, distinguersi”. La prima accezione implica una<br />

differenza temporale la seconda una differenza locale, spaziale.<br />

Verbo e sostantivo derivano dal differo latino; scrive Deridda: «Il differre latino<br />

non è la semplice traduzione del diapherein greco. Poiché la distribuzione del<br />

senso nel diapherein greco non comporta uno dei due motivi del differre latino,<br />

cioè l’azione del rimandare a più tardi, di tener conto, di tener conto del tempo e<br />

delle forze in un’operazione che implica un calcolo economico, una deviazione,<br />

una dilazione, un ritardo, una riserva, una rappresentazione, tutti concetti che<br />

riassumerò qui in un termine di cui non mi sono mai servito, ma che si potrebbe<br />

iscrivere in questa catena: il temporeggiamento (temporisation)». 374<br />

Si può aggiungere a quanto affermato da Deridda, che il differire nel tempo<br />

manifesta – come spesso accade per fero e i suoi composti – una duplice valenza,<br />

perché esso significa contemporaneamente perdere e guadagnare (tempo). Si<br />

rimanda una cosa ad un momento più opportuno per attendere una situazione<br />

migliore, più proficua per, ad esempio, raggiungere uno scopo. In questo modo<br />

allora, il tempo è, per un verso, perso, perché si rinvia ad un momento successivo<br />

l’azione che poteva essere compiuta nel presente; dall’altro guadagnato, perché<br />

lo si fa a ragion veduta, per ottenere migliori risultati in futuro (avendo più tempo<br />

a disposizione).<br />

Oltre ai significati conservati in italiano (e in francese) però differo vuol dire<br />

anche spargere, disseminare, disporre (quindi significati in apparenza contrari a<br />

373 Nella trattazione che segue si è tenuto conto anche della celebre conferenza che Deridda ha<br />

pronunciato alla Società francese di filosofia il 27 gennaio 1968, dal titolo La “Differance” pubblicata nel<br />

“Bulletin de la société française de philosophie” (luglio-settembre 1968) e tradotta in italiano ne i<br />

Margini della filosofia, Einaudi, Torino, 1997.<br />

374 J. Deridda, Margini della filosofia, op. cit. pag. 34<br />

372


quelli di raccogliere, riunire). Differo è portare qua e là, 375 cioè spargere ciò che<br />

prima era “raccolto”, ciò che prima era “insieme”; oppure significa dare un<br />

diverso ordine a qualcosa. Nell’uno e nell’altro caso la disseminazione comporta<br />

non una separazione di elementi originariamente uniti, ma una loro diversa<br />

disposizione, un loro diverso rapportarsi gli uni agli altri. Ciò che cambia è il tipo<br />

di relazione che li lega e di conseguenza cambia la loro configurazione e il loro<br />

modo di mostrarsi.<br />

Come abbiamo visto in precedenza, l’ “insieme”, il “raccolto”, non è<br />

caratterizzato esclusivamente da vicinanza spaziale, ma anche da somiglianza, da<br />

affinità che non si perdono con l’allontanamento.<br />

Nello stesso tempo però, ogni nuova e “differente” configurazione “porta”<br />

elementi di novità – pur rimanendo nel domino dello stesso insieme – perché si<br />

tratta sempre di “ricontesualizzazioni originarie”. Lo sviluppo, la differenza, la<br />

varietà sono cioè garantiti dalle riconfigurazioni dei legami che possono<br />

manifestarsi tra gli elementi dell’insieme. La manifestazione di un nuovo aspetto,<br />

non è dovuta ad una particolare attività creatrice o produttiva, ma ad una<br />

differente modo di darsi della relazione. Ogni nuovo evento corrisponde ad una<br />

nuova manifestazione della relazione (tra gli elementi dell’insieme).<br />

È utile a questo punto, notare che anche “disseminazione” è una parola chiave<br />

per Deridda, che egli lega a “doppio vincolo” alla différance: 376 «Nel termine<br />

disseminazione riecheggia un’assonanza casuale con il sema e il semen; tanto<br />

basta a Deridda per connettere la logica del segno con quella della generazione.<br />

Ma la nozione di segno deve essere liberata dalla coppia concettuale<br />

significato/significante, e allo stesso modo la nozione di generazione viene<br />

375 L’italiano ha perso proprio il significato d’origine, quello che spiega la derivazione da fero.<br />

376 “Double bind” è la locuzione che egli dichiara di prendere da Bateson; e qui si potrebbero fare<br />

ulteriori e stimolanti considerazioni. Basti dire che per Deridda “double bind” segna l’ “in decidibile” del<br />

senso oltre il quale non si può andare: «Insolvibilità e irresoluzione, forse queste parole fanno appello<br />

anche a quello che si potrebbe chiamare l’economia del bind. Economia del legame o del collegamento<br />

(bind, tensione, double bind, e contro-tensione» J. Deridda, Speculare su “Freud”, contenuto in Posizioni,<br />

Bertani Editore, Verona, 1975. La disseminazione produce differenza insolvibile, incontrollabile; il senso<br />

è continuamente decostruito, perché evenemenziale. È solo nell’evento che emerge l’ “economia del<br />

legame”. Tutto ciò può essere ricollegato alla relazione che lega il differimento al riferimento.<br />

373


liberata dall’idea di una genealogia unilineare, continua e riferibile ad un origine<br />

paterna stabile. Il padre-senso platonico si presenta sempre solo nell’eredità<br />

filiale e sempre illegittima, disseminato e in decostruzione. La logica della<br />

disseminazione è quindi la logica dell’innesto; in primo luogo la disseminazione<br />

si produce attraverso innesti su innesti precedenti: il concetto innestato in un<br />

contesto inedito lo decostruisce, il concetto viene ricaricato di un nuovo<br />

significato e il contesto viene disaggiustato e nuovamente riarticolato, e cosi via,<br />

sempre di nuovo». 377<br />

In riferimento all’economia del presente lavoro però, bisogna precisare che il<br />

nuovo innesto che disaggiusta e ricostruisce non può che provenire dall’humus<br />

comune, dal contesto condiviso; ciò che decostruisce è comunque espressione<br />

emergente da quel mondo. Si tratta sempre di modi diversi di relazionarsi al<br />

proprio ambiente (e più in generale, al proprio “altro”).<br />

Allora, Deridda pone un analogia tra innesto testuale e botanico per dire che<br />

l’uso della parola è sempre e contestualmente generazione e differenza: in questo<br />

modo il senso non è mai chiuso e compiuto, ma in continua gestazione.<br />

Noi possiamo aggiungere che la generazione del nuovo non è mai separazione<br />

(sommatoria di significati dati, “polisemia”), ma filiazione continua. Nella<br />

“disseminazione” allora c’è sempre differimento e contestuale riferimento. Ogni<br />

singolo episodio comunicativo comporta decostruzione, disaggiustamento e<br />

riarticolazione. Perché ogni nuovo evento è il differente modo di darsi della<br />

relazione “io-mondo”.<br />

Ciò significa che, in senso figurato, il differire può comportare contestualmente<br />

lo spargere ma anche il raccogliere. 378<br />

377 Mario Vergani, Jacques Deridda, Bruno Mondadori, Milano, 2000. L’analogia con le cose dette più<br />

volte in precedenza a proposito della coppia “testo-contesto” sembra evidente. Del resto, sono ravvisabili<br />

altre analogie tra il nostro e il discorso Deriddiano, che però qui non possono essere ulteriormente<br />

approfondite. Si può solo sottolineare che anche Deridda fa della mutualità e della solidarietà tra gli<br />

elementi del suo pensiero un riferimento continuo.<br />

378 Ciò risulta chiaro anche dagli esempi latini: differre tempus significa proprio “guadagnar tempo”,<br />

differire aliqud in aliud tempus, è “rimandare una cosa ad altro tempo”, ad un tempo più opportuno;<br />

entrambi gli esempi mostrano bene la duplice valenza del differire.<br />

374


Per quanto riguarda la seconda accezione del differre sempre Deridda scrive:<br />

«L’altro senso del differire è il più comune e il più identificabile: non essere<br />

identico, essere altro, discernibile, ecc». 379 Sempre a vantaggio dell’economia<br />

del nostro discorso, precisiamo che nemmeno in questo caso il differimento è una<br />

separazione o un isolamento, ma tutt’al più, appunto, una distinzione, un<br />

discernimento. Il differimento spaziale non comporta automaticamente<br />

l’isolamento e l’indipendenza dei termini “differiti”. Anche in questo caso il<br />

differimento si sostiene e implica il riferimento. L’intervallo spaziale non ha<br />

caratteristiche diverse da quello temporale; anzi a ben vedere essi non sono<br />

nemmeno “disgiungibili”. Infatti, il “distinguere” non è mai un “disgiungere”. Io<br />

posso distinguere le diverse forme del “medesimo”, senza per questo doverlo<br />

disgregare (separare). La distinzione richiama la coniugazione (almeno nel senso<br />

in cui ne abbiamo parlato in precedenza). 380 Allora, una cosa è “distinguere”<br />

un’altra e “disgiungere” in virtù del fatto che differimento e riferimento si<br />

coimplicano.<br />

A questo punto possiamo chiudere il cerchio: «Ora la parola différence (con la e)<br />

non ha mai potuto rinviare né al differire come temporeggiamento né al dissidio<br />

(différend) come polemos. È questa perdita di senso che la parola différance (con<br />

la a) dovrebbe – economicamente – compensare». 381<br />

Interpretando questo passo potremmo dire che l’intervallo temporale e quello<br />

spaziale non possono essere a loro volta separati. La loro diversa natura la loro<br />

indipendenza emerge solo da un’astrazione concettuale. Différence e différend<br />

sono aspetti diversi e complementari dell’unico differimento possibile. Quando<br />

differisco nel tempo non posso non differire nello spazio (e viceversa), perché<br />

379 J. Deridda, Margini della filosofia, op. cit. pag. 34<br />

380 Anzi, la coniugazione è proprio una forma di distinzione e di discernimento: usando sempre<br />

l’esempio del verbo, io posso manifestare le sue forme solo distinguendole, ma esse non sono mai isolate<br />

o isolabili.<br />

381 J. Deridda, Margini della filosofia, op. cit. pag 35<br />

375


ogni differimento alla fine è contestualmente spaziale e temporale, è cioè<br />

differimento spaziotemporale.<br />

Deridda chiarisce il senso della sua affermazione in un (lungo) passo successivo<br />

che diventa necessario citare: «La différance è ciò che fa sì che il movimento<br />

della significazione sia possibile solo a condizione che ciascun elemento<br />

cosiddetto “presente”, che appare sulla scena della presenza, si rapporti a<br />

qualcosa di altro da sé, conservando in sé il marchio dell’elemento passato e<br />

lasciandosi già solcare dal marchio del suo rapporto all’elemento futuro, dato che<br />

la traccia si rapporta a ciò che chiamiamo il futuro non meno che a ciò che<br />

chiamiamo il passato, e dato che essa costituisce ciò che chiamiamo il presente<br />

proprio grazie a questo rapporto con ciò che non è tale: assolutamente non è tale,<br />

non è cioè nemmeno un passato o un futuro intesi come presenti modificati.<br />

Perché il presente sia se stesso, bisogna che un intervallo lo separi da ciò che non<br />

è tale, ma questo intervallo che lo costituisce come presente deve anche, al tempo<br />

stesso, dividere il presente in se stesso, spartendo così, insieme al presente, tutto<br />

ciò che si può pensare a partire da esso, cioè ogni ente, nella nostra lingua<br />

metafisica, in particolare la sostanza o il soggetto. Dato che questo intervallo si<br />

costituisce, si divide dinamicamente, esso è ciò che si può chiamare spaziamento,<br />

divenir-spazio del tempo o divenir-tempo dello spazio (temporeggiamento)». 382<br />

Allora, la différance è contestualmente spaziamento (e) temporeggiamento, è<br />

insieme différend e differénce. La conseguenza, rilevante ai nostri fini, di questo<br />

ragionamento è che, se non si può separare l’intervallo spaziale da quello<br />

temporale, se essi sono legati, allora il differimento non può mai essere una<br />

separazione ma tutt’al più una trasformazione una nuova manifestazione o<br />

configurazione (con carattere di evento) della medesima relazione.<br />

Il differimento ha natura spaziotemporale e quindi tutto ciò che differisce nello<br />

spazio-(e)-tempo, deve per forza avere un comune riferimento. Differimento e<br />

riferimento mostrano la stessa matrice. La separazione può esistere solo come<br />

disgregazione e isolamento spaziale di “oggetti” o di “corpi”, perché solo così<br />

382 J. Deridda, Margini della filosofia, op. cit. pag. 40. Corsivi aggiunti.<br />

376


essi possono “contrapporsi” (ma abbiamo visto che anche a queste condizioni la<br />

contrapposizione diventa contraddittoria).<br />

In altre parole, sosteniamo che non potendo prodursi e stabilirsi legame tra entità<br />

separate, autonome, la relazione si può sviluppare solo tra aspetti solidali di una<br />

“medesima” realtà, tra termini che possiedono affinità e reciprocità. La<br />

differenza chiama il riferimento come il riferimento chiama la differenza.<br />

Ma la solidarietà non implica identità, anzi è l’unico modo in cui può utilmente<br />

manifestarsi la differenza. Infatti, la relazione non può sussistere senza<br />

“differenza” (forse è anche per questo che i vocaboli “differenza” e “relazione”<br />

hanno la medesima origine).<br />

Corre una discontinuità assoluta tra il concetto di autosufficienza e quello di<br />

differenza. I diversi aspetti dell’evento, i molteplici termini della relazione<br />

differiscono pur essendo solidali; differiscono solo in virtù di un contestuale<br />

riferimento reciproco. La differenza non può prescindere dalla mutualità tra i<br />

termini correlati.<br />

Citiamo ancora Deridda: «La filosofia vive nella e della différance, rendendosi<br />

così cieca al medesimo che non è l’identico. Il medesimo è precisamente la<br />

différance (con la a) come passaggio deviato ed equivoco da un differente<br />

all’altro, da un termine dell’opposizione all’altro. Si potrebbero così riprendere<br />

tutte le coppie di opposti sulle quali è costruita la filosofia e di cui vive il nostro<br />

discorso per vedere in esse non cancellarsi l’opposizione ma annunciarsi una<br />

necessità siffatta che l’uno dei termini appaia come la différance dell’altro, come<br />

l’altro differito nell’ economia del medesimo (l’intellegibile come differente<br />

[différant] dal sensibile, come sensibile differito; il concetto come intuizione<br />

differita – differente [différante]; la cultura come natura differita – differente<br />

[différante]; tutto ciò che è altro dalla physis – techne, nomos, thesis, società,<br />

libertà, storia, spirito, ecc. come physis differita o come physis differente<br />

[différante])». 383<br />

383 J. Deridda, Margini della filosofia, op. cit. pag 46.<br />

377


La relazione si dà sempre con un aspetto, col suo aspetto. Allora, un conto è la<br />

molteplicità dei separati, che corrisponde a dis -unità e dis -giunzione, un altro è la<br />

molteplicità (differenza) degli aspetti che vuol dire unità, distinzione e<br />

riferimento reciproco (oppure coniugazione).<br />

In questo senso, si può sostenere che un evento è sempre una configurazione<br />

degli aspetti dello “stesso”; secondo questa prospettiva, ciò che noi comunemente<br />

definiamo “oggetto” può essere inteso anche come un “insieme” di “eventi”; nel<br />

senso che ogni osservazione coglie una certa manifestazione, configura una<br />

determinata relazione tra “osservatore” e “osservato”, o più in generale tra<br />

percepito e percepente, volendo così ricomprendere, nel senso più ampio<br />

possibile, la coppia “io-mondo”.<br />

E qualsiasi coppia di opposizioni è così risolvibile all’interno dell’evento che<br />

manifesta il medesimo, o come dice Deridda, ognuna di tali coppie non è altro<br />

che il medesimo differito e/o differente nel quale si riverbera e si manifesta la<br />

différance.<br />

III) Cos’è allora il fondamento?<br />

La separazione è uno dei presupposti della metafisica: del pensiero che<br />

concepisce il mondo come un insieme di enti autonomi e indipendenti, anche se<br />

“derivanti” da un unico principio. Infatti, tra il “fondamento” e il “fondato” c’è<br />

una “separazione” netta, dovuta alla loro diversa “essenza”: il fondamento è<br />

l’indipendente originario (in-fondato) che genera; il fondato invece è ciò che<br />

378


dipende e che è generato; giustificare una relazione tra termini così concepiti è<br />

estremamente difficile, se non impossibile. 384<br />

Ma anche tra la molteplicità che proviene dal fondamento regna la separazione:<br />

sia nell’ipotesi realista che in quella razionalista le cose sono concepite come<br />

enti, o come “oggetti” separati.<br />

L’idea di “coniugazione”, invece, è uno degli aspetti del pensiero anti-<br />

fondazionalista che cerca di sostenere l’impossibilità dell’esistenza di un<br />

fondamento dal quale derivi tutto il resto. Del pensiero che crede contraddittoria<br />

l’idea che qualcosa definito “fondamento” produca qualcos’altro definito “ciò<br />

che è fondato”.<br />

La generazione dal fondamento è possibile solo se si ammette il concetto di<br />

separazione. Perché se il fondamento genera (ma anche solo se rende possibile,<br />

come i trascendentali kantiani), genererà qualcosa di diverso da sé medesimo, 385<br />

qualcosa che da esso si dis-giunge (anche i trascendentali sono disgiunti – in<br />

quanto apriori – dall’esperienza fenomenica). Ma come è possibile la dis-<br />

giunzione? Come può il fondamento generare, produrre qualcosa di diverso da<br />

sé medesimo?<br />

O cambiando, solo parzialmente, i termini della questione (per adattarli<br />

all’impostazione moderna), come può lo spirito incontrare (percepire, ricevere,<br />

organizzare, articolare, o addirittura “creare”) la materia? 386 E come possono le<br />

cose prodotte e originariamente disgiunte avere una qualche relazione tra loro?<br />

Possono mostrarsi (darsi) e raccogliersi i molteplici aspetti del medesimo, ma<br />

non possono incontrarsi i diversi.<br />

Sia l’idea di “separazione” che quella di “incontro” sono contraddittorie, e infatti,<br />

sono state usate per sostenersi reciprocamente, ma da due errori non nasce una<br />

384 Come aveva già visto Hegel; anche se lui stesso ipotizza una separazione iniziale tra gli enti che<br />

dovrebbe essere superata dalla sintesi dello sviluppo dialettico. Ma la separazione originaria, qualunque<br />

sia il modo nel quale viene configurata, è destinata a rimanere tale.<br />

385 Proprio in virtù del fatto che il generato non è originario, ma appunto derivato; il generato è<br />

conseguenza dell’azione generante, subisce l’azione mentre il fondamento la compie; è evidente che lo<br />

statuto ontologico dei due termini diverge radicalmente.<br />

386 Questa del resto è un’obiezione che già Berckeley muove a Cartesio.<br />

379


verità. Se ammetto la separazione devo ammettere anche l’incontro. E allora,<br />

perché ammettere la separazione? Perché se accetto lo schema fondazionalista<br />

sono costretto ad introdurre il concetto di separazione, altrimenti l’idea di<br />

fondamento crolla. Qualsiasi teoria che pone fondamenti (siano essi motori<br />

immobili, trascendentali, idee semplici, e anche lo stesso Essere) dai quali fa<br />

derivare cose, enti, fenomeni, idee, (o dai quali deduce “differenze ontologiche”),<br />

di qualsivoglia natura è costretta poi a concepire produzioni, congiunzioni e<br />

incontri.<br />

L’unico fondamento possibile è quello che si forma contestualmente a ciò che<br />

fonda (ma allora non si può più parlare di fondamento). Se proprio voliamo<br />

continuare a usare questo termine, dobbiamo cambiare il nostro concetto di<br />

“principio”: non più origine inconcussa, ma “farsi contestuale”.<br />

Allora qualsiasi ricerca sull’origine (sia a carattere scientifico che filosofico), non<br />

è altro che un modo di porsi – cioè di mettersi in relazione – nei confronti di<br />

qualcosa di ipotetico, di qualcosa che – secondo ipotesi – ci ha “preceduto”; è un<br />

modo di essere, e di stare in relazione con ciò che interpretiamo.<br />

Ogni epoca ha avuto la sua “cosmogonia”: perché è così difficile arrivare a quella<br />

definitiva? Forse perché non c’è quella definitiva! Già il fatto di poter accedere<br />

ad un mondo fisico isolato, indipendente da chi lo pensa, è un idea<br />

contraddittoria – come hanno mostrato gli empiristi e gli idealisti – figuriamoci la<br />

pretesa di poterne svelare i segreti reconditi.<br />

Certo, se si parte dal concetto di “tempo cronologico” (tempo assoluto e separato<br />

dallo spazio), dobbiamo convenire che “qualcosa” ci ha preceduti, ciò però non<br />

implica che a quel “qualcosa” potremo dare una sembianza, una identità<br />

definitiva (questo è, in sostanza, l’intento di ogni filosofo, scienziato<br />

fondazionalista). Sarà mai possibile sapere “com’era o cos’era quel qualcosa”?<br />

Questa domanda è intrisa di metafisica, non è una domanda “neutrale”, essa<br />

assume e mostra un determinato paradigma speculativo: quello dualista fondato<br />

sull’idea di separazione tra soggetto e oggetto, tra ente indagatore ed ente<br />

indagato. Con questa domanda sono già entrato in un determinato ambiente, ho<br />

380


già ammesso che entrambi (soggetto e oggetto) possiedono una loro consistenza,<br />

e una loro autosufficenza; ho già configurato un mondo formato da enti separati<br />

che si susseguono nel tempo, collegati tra loro dal principio causale (o da<br />

qualsiasi altro principio di derivazione che non può cambiare i termini della<br />

questione); ho già accettato l’idea di una origine “originaria”, al di là della quale<br />

non si può andare e della quale non si può dare alcuna spiegazione perché essa è<br />

ciò in base a cui si spiega. Ho accettato, insomma, il modello fondazionalista<br />

della metafisica. Citiamo ancora Deridda: «L’uno non è che l’altro differito,<br />

l’uno differendo dall’altro. L’uno e l’altro in différance, l’uno è la différance<br />

dell’altro. È così che ogni opposizione apparentemente rigorosa e irriducibile (per<br />

esempio quella tra secondario e primario) la vediamo qualificata, una volta o<br />

l’altra, come “finzione teorica”». 387 L’opposizione tra secondario e primario è<br />

l’opposizione (tutta metafisica) tra sostanza e accidente o quella tra il<br />

fondamento e ciò che è fondato. “Finzione teorica”, secondo Deridda.<br />

Noi, infatti, non possiamo che ricostruire l’inizio in funzione dello stato delle<br />

nostre conoscenze, quindi indagare l’inizio non è mai il dire “oggettivo” di un<br />

“soggetto” sull’ “oggetto” della sua ricerca, ma è sempre una relazione tra due<br />

termini reciprocamente dipendenti. Quando mi occupo di fondamenti, stabilisco<br />

una relazione tra due termini, i quali si configurano proprio in funzione della<br />

relazione medesima; pensare che tali termini siano entità autonome, a sé stanti e<br />

contrapposte è ingenuo (in sostanza per dire qualcosa devo sempre usare una<br />

“griglia” sulla quale svolgere il ragionamento, e questo vincolo non mi consente<br />

di essere “oggettivo”). Ogni discorso pone (e sta su) una determinata<br />

configurazione del rapporto tra “parlante” e “parlato” (ciò di cui si parla) che non<br />

si ripete mai per più di una volta. La “riunione” (relazione) dei termini – e i<br />

termini stessi – è sempre funzionale alle caratteristiche di ciò che si riunisce.<br />

Tanto più che non si tratta mai di “incontri” tra enti estranei ed indipendenti, ma<br />

appunto, di riunioni tra aspetti dello “stesso”. Quando si parla del fondamento, si<br />

sta trattando di un problema al quale viene dato un determinato significato, che<br />

387 J. Deridda, la différance, op. cit. pag 47.<br />

381


dipende da ciò che è già stato detto a questo proposito, e non ci si sta occupando,<br />

invece, dell’inconcusso “termine” originario, del quale si vuole capire l’essenza.<br />

Si lavora, cioè, su di una “parola” che si vuol definire nel miglior modo possibile,<br />

la quale ha avuto molteplici interpretazioni nel corso della storia, che è già stata<br />

“declinata” in molti modi, e la cui ulteriore declinazione non può che tener conto<br />

delle declinazioni precedenti.<br />

Si tratta di capire che qualsiasi discorso, anche quello che vuol scoprire origini, o<br />

che vuol essere originario, è sempre un mettere in relazione “termini”.<br />

IV) Relazione come coniugazione<br />

Ma in che cosa consiste il “mettere in relazione termini”? C’è attinenza tra il<br />

mettere in relazione termini, e il coniugare lo “stesso”?<br />

Dire “relazione tra termini” e “coniugazione dello stesso” coincide, sono due<br />

modi di esprimere un unico concetto. Possiamo usare un esempio,<br />

apparentemente lontano, per chiarire: consideriamo l’organismo e l’ambiente<br />

(recuperando il senso in cui li usa Dewey), e analizziamo la funzione del<br />

“guardare” (o più in generale del percepire). Possiamo dire che essa è una<br />

“relazione” reciproca tra questi due “termini”. Questa relazione è possibile in<br />

virtù di un’osmosi filogenetica e ontogenetica che ha reso il termine –<br />

“organismo” – ciò che è in grado di “guardare”, di percepire, e l’altro termine –<br />

“ambiente” – ciò che viene guardato, percepito. L’organismo è l’ “essere” che<br />

percepisce, l’ambiente è l’ “essere” che viene percepito (essi sono i due aspetti<br />

dell’ “essere” 388 che si dà nel modo della percezione). Essi esistono perché (e in<br />

quanto) sono in relazione, (ma si può anche dire che essi esistono nel modo della<br />

“ri-unione”, o che il loro essere si dà e si manifesta nella loro coniugazione). Ciò<br />

388 Qui non c’è alcun riferimento all’ “Essere” di Heidegger<br />

382


significa, che non ci sarebbe “ambiente” senza “organismo”, e non ci sarebbe<br />

“organismo” senza “ambiente”. Quindi, è solo in virtù della congiunzione che si<br />

può riconoscere l’essere dell’organismo, e l’essere dell’ambiente, e nello stesso<br />

tempo, sono l’organismo e l’ambiente che “attivano”, (implementano) la<br />

relazione.<br />

Del resto, dire “organismo” è coniugare quell’essere in un modo, dire “ambiente”<br />

è coniugare lo stesso essere in un altro modo. Se si parte dal concetto di<br />

“relazione” verranno in luce i “termini” – ambiente e organismo – se, invece, si<br />

parte dall’idea di “coniugazione” risalterà la medesima natura del loro essere.<br />

Essi “sono” uno in funzione dell’altro. Allora, ambiente e organismo si possono<br />

definire tali, a partire dalla loro relazione, la quale, però, “c’è da sempre”, e si dà<br />

(manifesta) in ogni evento: non si può individuare un “prima” di questa unione.<br />

Non ci può essere stato un “organismo” che non percepiva l’ “ambiente” e che<br />

successivamente ha cominciato a percepirlo (questo pensiero è contraddittorio, è<br />

come pensare ad un cerchio senza circonferenza).<br />

Le configurazioni che questa unione ha assunto sono diverse, e si sono succedute<br />

nello spaziotempo, nel senso che “sono” le diverse manifestazioni dello<br />

spaziotempo. L’essere di tale unione è l’insieme di queste configurazioni, e non<br />

c’è nulla al di là o al di sotto di queste. Cioè, non bisogna assolutamente<br />

intendere l’ “essere comune” dei termini come un sub-strato o come fondamento,<br />

come qualcosa che sta sotto o precede, perché esso diverrebbe niente di più di<br />

un'altra causa o di un altro principio. L’essere comune – “lo stesso” – della<br />

relazione è la “ri-unione” dei termini (che si manifesta in ogni evento); tutto<br />

quello che conosciamo e che esiste è questa “ri-unione”, non c’è qualcosa di<br />

precedente, o di sottostante che permette questa relazione: da un lato, l’essere<br />

comune si costituisce a partire dalla relazione tra i termini (la relazione si<br />

costituisce grazie all’unione dei termini), dall’altro, i termini sono aspetti<br />

dell’essere comune, che in questo modo si raccoglie e si manifesta.<br />

Questa idea di relazione può prescindere dal concetto di “fondamento”. E può<br />

essere estesa a tutte le coppie di termini che nella filosofia hanno dato origine a<br />

383


dualismi. Coniugare (declinare o flettere), unire (o “ri-unire”) il medesimo è<br />

come mettere in relazione termini, sono tutte espressioni non-fondazionaliste.<br />

Abbiamo scelto l’esempio della relazione che coinvolge l’ambiente perché già<br />

l’etimologia di questa parola è indicativa: “ambiente” deriva dal verbo latino<br />

ambire che significa stare intorno, o girare intorno; l’ambitus è l’orbita dei<br />

pianeti. L’ambiente, allora, è – come recita il vocabolario – il “complesso delle<br />

condizioni esterne all’organismo in cui si svolge la vita”. Quindi, dall’etimologia<br />

e dal senso del verbo latino si intuisce una situazione di reciprocità e<br />

“complementarietà”: si sta sempre intorno a qualcosa, in altre parole, ciò che<br />

circonda, e il circondato (l’intorno e il centro, il testo e il contesto), sono<br />

complementari. Non ci può essere un organismo senza un ambiente sul quale<br />

stare, anche se esso fosse sospeso nel vuoto, avrebbe sempre un suo contesto.<br />

Pure dal punto di vista etimologico, quindi, la coppia “ambiente-organismo”<br />

implica relazione reciproca.<br />

Questi sono “termini” che non si possono scindere o dividere. Non sono elementi<br />

indipendenti che possono prescindere dalla relazione che li coinvolge. Non si può<br />

pensare ad un organismo senza il suo ambiente, e viceversa.<br />

L’ambiente svolge la funzione che sopra abbiamo attribuito al “contesto”,<br />

qualcosa che non è concepibile isolato e indipendente. Se c’è un “contesto”, ci<br />

deve essere anche un “testo”, se c’è l’ambiente, c’è anche l’organismo.<br />

Allora, tra queste coppie i rapporti non sono mai di dipendenza o di<br />

subordinazione, i termini di queste relazioni non sono mai legati da rapporti<br />

causali; in queste situazioni l’idea di un fondamento che “genera” , che<br />

“permette” o “rende possibile” è del tutto fuori luogo. Ma è improprio anche<br />

cercare l’ “originario”, ciò che viene prima, e in virtù del quale si dà il<br />

successivo, ciò che apre la strada.<br />

Non va bene niente di tutto questo, perché il modello qui proposto difende<br />

concetti come “contestualità”, “complementarietà”, “reciprocità”, “complessità”,<br />

i quali consentono di evitare lo schema metafisico del qualcosa che precede e<br />

fonda, e del qualcos’altro che viene fondato; essi permettono di sottrarsi allo<br />

384


schema che porta alla separazione irrimediabile tra gli enti, e quindi alla<br />

disgregazione; essi permettono di eludere lo schema che ha bisogno di alchimie<br />

quali la nozione di “forza”, o di “causa” per spiegare come si realizzino le<br />

relazioni tra i “corpi” o tra gli “oggetti”. 389<br />

Un altro esempio significativo (al quale abbiamo già fatto riferimento nella parte<br />

dedicata a Dewey) è quello “economico”: in economia, per “mercato” si può<br />

intendere l’insieme delle operazioni di compravendita. Perché si realizzi una di<br />

queste operazioni è necessario un venditore, un compratore e un bene (o servizio)<br />

da scambiare. Ma il venditore e il compratore non sono “soggetti” permanenti<br />

all’interno di un luogo stabile (il mercato) che si devono “incontrare” per<br />

scambiare “oggetti”. Il mercato non è un luogo all’interno del quale si incontrano<br />

dei “soggetti” che aspettano e cercano di scambiarsi dei beni che lì trovano<br />

disponibili. E questo perché non esistono “compratori” se non nel preciso<br />

momento nel quale comprano, non esistono venditori se non nel momento in cui<br />

vendono, e infine, non esistono beni economici se non quando vengono<br />

scambiati. Quindi “compratore” e “venditore” non si possono “incontrare” per il<br />

semplice motivo che essi non esistono prima dell’operazione economica. Pensare<br />

che nel mercato si verifichino incontri tra enti perfettamente costituiti che<br />

scambiano oggetti precedentemente disponibili significa connotare questa<br />

struttura sotto un determinato punto di vista (quello moderno), non dipingere la<br />

“realtà dei fatti”. Allora, letteralmente, non “esiste” un “bene economico” fino a<br />

quando esso non trova un acquirente: esiste un “oggetto” che non ha alcuna<br />

valenza economica e che si trasforma in “bene” solo quando viene comprato,<br />

cioè quando acquista un “valore”. Non si deve confondere un oggetto con un<br />

389 Lo schema che permette di considerare l’ente uomo come avulso e indipendente rispetto<br />

all’ambiente e al mondo che lo ospita. Che consente di dipingere l’individuo come l’ente<br />

“autosufficiente”, indipendente da ciò che lo circonda. L’idea di uomo costruita dai moderni, che può<br />

aver avuto un’utilità, ma che ora sta dimostrando tutti i suoi limiti, e la sua dannosità. L’approccio<br />

alternativo vuole mostrare l’uomo come il termine di una relazione che non può sussistere senza l’altro<br />

termine; di un uomo che non possiede autosufficienza, per il semplice fatto che non esiste qualcosa come<br />

l’autosufficienza. In questo senso, questo approccio vuol essere “anti-umanista”, non perché si pone<br />

contro l’uomo, ma perché si pone contro l’idea di “individuo” e di “soggetto”, nate a partire<br />

dall’umanismo.<br />

385


ene. Il bene ha sempre un valore economico, l’oggetto mai. L’oggetto che esce<br />

dalla catena di produzione non è un bene fino a quando non trova un acquirente<br />

disposto a pagare un certo prezzo, cioè ad assegnargli, effettivamente, un valore.<br />

Nel momento in cui una qualsiasi cosa viene scambiato sul mercato cessa di<br />

essere semplicemente una cosa e “nasce” come bene economico. L’oggetto è di<br />

per sé un ente neutro per il mercato, è come se non esistesse. Venditore, e<br />

acquirente, bene economico e mercato, si costituiscono simultaneamente per<br />

ogni operazione economica. Essi proprio non esistono fino a quando non si<br />

stabilisce la relazione economica (e cessano di esistere, in quanto tali, un attimo<br />

dopo). Essi “sono” uno in funzione dell’altro. Il momento nel quale si stabilisce<br />

la relazione non può essere considerato un “incontro” perché l’incontro può<br />

avvenire solo tra “individualità” pre-esistenti, mentre “acquirente” e “venditore”<br />

non preesistono alla loro relazione economica; essi hanno quindi natura<br />

evenemenziale.<br />

Il compratore è colui il quale compra, non chi possiede una generica disponibilità<br />

a comprare, e lo stesso vale per il venditore. Da queste considerazioni, allora, si<br />

evince che c’è una differenza netta tra il concetto di “relazione” e quello di<br />

“incontro”.<br />

La compravendita è un “evento”, cioè essa ha “vita” nel momento stesso in cui si<br />

perfeziona, né prima né dopo, ed è un “momento” unico, ed irripetibile. Sotto<br />

questa prospettiva allora, il mercato è un insieme composto di eventi.<br />

Anche questo esempio chiarisce abbastanza efficacemente che la configurazione<br />

data dai moderni alla realtà come qualcosa di permanente, abitata da enti<br />

autosufficienti e isolati, non è niente più che una possibile interpretazione della<br />

realtà, non un “dato di fatto” in possesso di un’evidenza assoluta.<br />

386


V) Evento<br />

A questo punto possiamo prendere in esame il concetto di “evento”.<br />

La realtà si compone di eventi. L’ “essere che si manifesta” non può che darsi<br />

come “evento”. E non c’è altro essere al di fuori di quello che si manifesta. Ogni<br />

suo aspetto fa parte o consiste di eventi. L’evento è il modo in cui la realtà si<br />

mostra.<br />

Ricorrendo al precedente esempio economico: ogni compravendita è un evento.<br />

L’evento è la manifestazione di una relazione, e siccome niente può avvenire al<br />

di fuori di qualche relazione, l’evento è la manifestazione della realtà nella sua<br />

interezza. Esso coinvolge i termini, i protagonisti, e l’azione compiuta.<br />

Abbiamo detto che “lo stesso” si manifesta in molteplici modi. Nell’esempio<br />

precedente, esso può essere considerato dal punto di vista del compratore, da<br />

quello del venditore, e infine nella sua totalità come “compravendita”, ma sempre<br />

dello “stesso evento” si tratta. L’acquirente, allora – lungi dall’essere un<br />

“soggetto” permanente che può decidere, prima o dopo, di comprare – è invece<br />

un aspetto circoscritto di un determinato evento, un modo in cui l’evento può<br />

essere considerato, una sua possibile manifestazione: quella relativa all’acquisto.<br />

Lo stesso vale per la vendita: un altro punto di vista, e quindi un’altra<br />

manifestazione dello stesso evento.<br />

Considerazioni simili si possono fare per la relazione “organismo-ambiente” (e<br />

per ogni altra relazione). L’organismo non è un ente di carattere soggettivo che<br />

sta in un luogo neutro, con il quale può relazionarsi (volontariamente).<br />

L’organismo, invece, è sempre l’aspetto di un evento, un modo per considerare<br />

una determinata relazione (abbiamo fatto l’esempio di quella percettiva).<br />

Ciò significa che tale evento si identifica con i suoi aspetti: non è possibile<br />

concepirlo a prescindere da essi. Quando penso all’organismo vedo quell’evento<br />

da un certo punto di vista, quando considero l’ambiente ho solo cambiato<br />

prospettiva. Si tratta proprio dell’idea di “coniugazione”.<br />

387


L’evento è la manifestazione della relazione nei suoi molteplici aspetti. Evento è<br />

la manifestazione di ogni singolo aspetto della relazione. Tutto ciò che “è”, e che<br />

accade, ha carattere evenemenziale. Estrapolare dall’evento (o da un insieme di<br />

eventi) soggetti e oggetti permanenti, e inalterabili, essenze e sostanze nascoste,<br />

condizioni di possibilità, è sempre una indebita manipolazione e sofisticazione.<br />

Queste cose non “accadono” e non “sono”.<br />

L’evento è ciò che si fa contestualmente. All’interno dell’evento tutto è un farsi<br />

contestuale; questo significa che non ci possono essere “soggetti” e “oggetti”<br />

dentro un evento. Tutto quello che “compone” un evento è irrimediabilmente<br />

legato a quell’evento, quindi nasce e muore con esso. L’insieme delle “parti” di<br />

un evento sono i diversi “aspetti” dell’evento, tutte vicendevolmente correlate, e<br />

“raccolte”. Nessuna di esse ha una consistenza, e una esistenza, autonome, cioè<br />

indipendenti dall’evento al quale è legata.<br />

Le persone che prendono parte ad un colloquio non sono “soggetti”<br />

(autosufficienti) che si incontrano, ma “parlanti” che condividono (o cercano di<br />

condividere), in quel determinato evento, “parole”; essi si dispongono, e “sono”<br />

nel modo che reciprocamente si consentono, e che il contesto “apre”. I “parlanti”<br />

si costituiscono, e sono per quel colloquio, e vengono meno dopo quel colloquio.<br />

La prossima occasione che vedrà coinvolta quella stessa “persona” non potrà più<br />

contare sul “parlante” del convegno precedente, perché quello si è legato a<br />

quell’episodio ed è tramontato con esso. La nuova occasione maturerà in<br />

condizioni diverse e si costituirà in modo diverso, sarà un nuovo evento. I<br />

“parlanti” di questa nuova riunione sono differenti dai “parlanti” di quella<br />

precedente, anche se ad essa prendono parte le stesse “persone”. 390<br />

390 Così nascono delle assonanze col significato latino della parola “persona”, non tanto nel senso della<br />

“maschera” (cioè di una contraffazione, o di una postura che un soggetto assume; la maschera che si<br />

indossa per proporre qualcosa che in realtà non esiste, qualcosa che nasconde la “vera natura” del sé); ma<br />

nel senso dell’instabilità, dell’impermanenza che l’idea di persona in latino manifesta. Le diverse<br />

rappresentazioni, cioè non sono finzioni, simulazioni, ma sono il modo di darsi dell’evento. Non c’è<br />

niente al di là di esso. La vita si compone di eventi. Siamo attori protagonisti degli eventi che ci<br />

coinvolgono, ed in ognuno di questi “siamo” il ruolo che interpretiamo.<br />

388


Non si deve confondere il concetto di “soggetto” con quello di “parlante”. Il<br />

primo vuole essere caratterizzato dalla permanenza, dalla invariabilità, il secondo<br />

ha, invece, un carattere “evenemenziale”. Il “parlante” non può mai essere<br />

genericamente “un parlante” ma sarà sempre proprio “quel parlante” che ha<br />

partecipato a “quel convegno”, a quella riunione. Esso deve essere identificabile<br />

sempre con precisione, esso si lega sempre ad una precisa situazione.<br />

Del resto, l’ente “persona” è un “farsi contestuale”; anche se preso nella sua<br />

“individualità”, esso cambia continuamente. L’uomo è in continua “osmosi” con<br />

i diversi contesti che lo “ospitano”. La cosiddetta “persona” è un insieme di<br />

relazioni, di rapporti, è impossibile estrapolarla dal suo (cangiante) ambiente<br />

circostante. Ogni sua azione, ogni suo pensiero, sono rivolti a… qualcosa (quel<br />

qualcosa con cui essa costituisce la relazione); così, la persona è sempre in<br />

relazione a…, è insieme a … ; Ma non è mai la stessa “persona” che stabilisce i<br />

rapporti con… ; per ogni evento che la coinvolge essa è, e “si dà” in modo<br />

diverso. L’evento stesso, come ciò che si manifesta della relazione, è irripetibile.<br />

Ogni evento, per così dire, costituisce un intero, un “cosmo” (in riferimento alla<br />

concezione pitagorica di cosmos come “mondo”, come insieme di elementi<br />

ordinati reciprocamente e spontaneamente).<br />

Noi siamo abituati a pensare a soggetti autosufficienti, “stabili” e “permanenti”<br />

nel tempo, che si “incontrano”. Noi stessi ci consideriamo in questo modo.<br />

Abbiamo la netta percezione della nostra “continuità”. Ed, in un certo senso, è<br />

proprio così. Ma non bisogna confondere la consapevolezza di sé (fatto<br />

indiscutibile), con la inalterabilità che costituisce la “soggettività”. L’andare<br />

“evenemenziale” della realtà non è in contraddizione con l’idea dell’identità<br />

individuale, è, invece, totalmente alternativo al concetto di “soggetto”. La<br />

soggettività è innata (si nasce “soggetti”), mentre, la consapevolezza di sé si<br />

acquisisce; La soggettività è un “dato”, l’ “autocoscienza” “muta” nello<br />

spaziotempo; saper riconoscere se stessi non significa essere sempre lo stesso<br />

ente, né significa essere autonomi e indipendenti rispetto all’ambiente.<br />

389


In altre parole, il soggetto è un ente a sé stante, che può stabilire relazioni<br />

rapporti, se lo desidera: egli se vuole, e quando vuole, può incontrare l’altro da<br />

sé; invece, qui si sostiene che noi siamo principalmente “relazione” ed “evento”;<br />

noi ci costituiamo a partire dalla relazione, quindi, non possiamo “incontrare”<br />

nessuno perché siamo sempre in relazione a…(anche quando siamo da soli nel<br />

luogo più isolato del mondo, per il fatto stesso che pensiamo a…, siamo in<br />

relazione a…) e il fatto di essere in relazione a… qualcosa, ci impedisce di<br />

incontrare… quel qualcosa (anche l’incontro di persone sconosciute è un evento<br />

di parole, una relazione legata alla possibilità del dialogo, e della comprensione<br />

reciproca; è quindi un colloquio, dello stesso tipo di qualsiasi altro colloquio).<br />

Il nostro è un “essere evenemenziale”, il nostro è un “comportarsi<br />

evenemenziale”, cioè la nostra personalità non è qualcosa di “interno”, attraverso<br />

cui noi ci caratterizziamo verso l’altro da noi. La nostra “personalità” non è<br />

qualcosa di compiuto e definito che condiziona il nostro modo di essere.<br />

È perfino dubbio che noi possediamo un “carattere”, nel senso fin’ora attribuito<br />

a tale concetto. Se siamo in relazione a … non possiamo essere enti autonomi che<br />

incontrano altri enti autonomi, e quindi, nemmeno il modo dell’incontro<br />

“dipende” da noi, dalla nostra “personalità”. Anzi, è la stessa nostra “personalità”<br />

che si definisce in relazione al contesto che ci coinvolge; anch’essa è un “farsi<br />

contestuale” (ad altro con cui siamo in relazione). Per ogni evento il nostro<br />

comportamento non dipende solo dal nostro, cosiddetto, carattere, ma dipende,<br />

invece, da una molteplicità di fattori, tutti quelli che costituiscono quel<br />

determinato evento.<br />

L’esperimento del “buon samaritano” di Bateson è indicativo: Egli chiese a degli<br />

studenti del seminario di teologia di Princeton di recarsi in un luogo a pochi<br />

minuti di strada per presentare un discorso improvvisato su un tema assegnato.<br />

Gli studenti avevano svariati orientamenti religiosi. Per metà degli studenti il<br />

tema era la parabola del buon samaritano. Ad alcuni di essi si diceva che<br />

potevano prendersela comoda, ad altri che erano in ritardo. La parte cruciale<br />

dell’esperimento avveniva sulla porta dell’edificio in cui gli studenti dovevano<br />

390


ecarsi. Una persona giaceva per terra e chiedeva aiuto. Alcuni studenti si<br />

fermavano a prestare soccorso altri non si fermavano. Bene, il risultato<br />

dell’esperimento mostra che solo il 10% degli studenti in ritardo si fermava,<br />

contro il 64% degli studenti in anticipo. Essere cattolici o protestanti, avere o non<br />

avere presente la storia del buon samaritano era del tutto ininfluente. Il fattore<br />

decisivo correlato con l’aiuto dato al bisognoso era il tempo a disposizione degli<br />

studenti. Ciò significa che nozioni quali “personalità” o “carattere” sono tutte da<br />

definire. Certamente, però, il “carattere” non è “l’insieme dei tratti psichici e<br />

morali che contraddistingue una persona dalle altre”, perché nel caso<br />

dell’esperimento gli studenti non si sono distinti in base ai loro “tratti psichici e<br />

morali”; né la “personalità” può essere definita come “l’ insieme dei tratti<br />

psicologici caratteristici di un individuo integrati tra loro in modo da costituire<br />

quell’unita tipica che si manifesta nelle varie situazioni ambientali” 391 perché,<br />

ciò che “si è manifestato in quella precisa situazione ambientale” non è dipeso<br />

dai “tratti psicologici” delle “cavie”.<br />

Questo, come molti altri esperimenti eseguiti, mostra chiaramente che il<br />

comportamento individuale non dipende solo da qualcosa di “interno”<br />

all’individuo, non dipende dai “tratti psichici” della persona, ma fa vedere che l’<br />

“aspetto ambientale” gioca un ruolo preponderante. Forse, si può sostenere che<br />

esiste una componente “pregressa” (di natura genetica o culturale) che influisce<br />

(resta da stabilire in che modo) sul comportamento degli individui, ma nello<br />

stesso tempo, non si può negare che l’efficacia di tale componente sia messa a<br />

dura prova dalla situazione nella quale l’individuo, di volta in volta, si trova.<br />

Alla luce di tali esperimenti diventa persino arduo sostenere che esista qualcosa<br />

come il “carattere” o l’ “indole” personale. E questo, ovviamente, mette in crisi<br />

soprattutto l’idea di “soggetto”, l’idea cioè che l’individuo sia qualcosa di “a sé<br />

stante” (indipendente) che prende decisioni “autonome” (interne a se stesso), in<br />

base al suo temperamento, alla sua indole, in riferimento alle situazioni che si<br />

391 Queste definizioni sono tratte, come abbiamo già detto, dal Vocabolario della lingua italiana di<br />

Nicola Zingarelli, della Zanichelli.<br />

391


trova ad affrontare. Questa idea di persona risulta, ancora una volta, frutto di una<br />

datata “visione del mondo”, e non un evidente dato di fatto.<br />

Ora, però, si tratta di capire se la consistenza persa dal “soggetto” caratterizzi,<br />

invece, l’ “ambiente” nel quale operano le persone; bisogna, cioè, di capire che<br />

cosa sia la cosiddetta “componente ambientale”. In sostanza, dobbiamo chiederci<br />

se il “contesto” sia una realtà data, in grado di determinare il comportamento<br />

della persona; se fosse così ci troveremmo di fronte ad un causalismo alla<br />

rovescia, una sorta di “determinismo ambientale” che non risolverebbe i<br />

problemi posti, ma li rovescerebbe soltanto.<br />

Quello che qui si vuol sostenere è che non esistono “dati di fatto”, entità<br />

perfettamente costituite, che vengono in qualche modo a collidere. L’errore sta<br />

nel pensare che la situazione precedentemente descritta sia composta come<br />

segue: un “soggetto” con la sua personalità ben definita viene a contatto con un<br />

altrettanto ben determinata “realtà”; in questa situazione il soggetto non può che<br />

reagire in un modo stabilito, come se la sua “azione” fosse l’effetto di una<br />

determinata causa (la causa può essere il suo carattere o l’ambiente). Al<br />

contrario, quella situazione costituisce un evento unico ed irripetibile (non si può<br />

escludere che lo stesso ragazzo possa reagire in modo completamente diverso se<br />

posto per la seconda volta di fronte ad una situazione analoga a quella<br />

dell’esperimento).<br />

Dentro quell’evento le entità coinvolte si determinano reciprocamente. Lo<br />

studente che rischia di saltare l’appuntamento sarà portato a dare una valutazione<br />

“conseguente” delle condizioni in cui versa il presunto “bisognoso”. Nel senso<br />

che, il bisognoso non è un “soggetto” caratterizzato da una situazione definita<br />

(non è “soggetto bisognoso”); la sua condizione non è “oggettiva”. Essa<br />

(nell’evento) è in relazione alla valutazione che quello studente, in quella<br />

determinata situazione, dà. Tale valutazione è influenzata, a sua volta dalle<br />

condizioni nelle quali si trova il nostro studente. Così quell’evento è appunto un<br />

farsi contestuale, dove non c’è niente di permanente e definito, 392 ma tutto è in<br />

392 Non ci sono né soggettività, né oggettività.<br />

392


elazione reciproca. Gli elementi dell’esperimento sono uno “mutuamente”<br />

connesso all’altro.<br />

Nemmeno il “contesto” è qualcosa di immutabile, e inalterabile, sul quale<br />

giacciono oggetti, e operano soggetti. Il contesto non può ricevere qualcosa senza<br />

esserne “influenzato”; anche perché se esso fosse qualcosa di invariabile e a sé<br />

stante, non potrebbe che “ospitare” qualcos’altro di altrettanto permanente e<br />

“oggettivo”. Se uno dei termini della relazione è caratterizzato dalla<br />

“oggettività”, sarebbe assurdo sostenere la “non oggettività” dell’altro. Il<br />

“contesto” di un evento è solo un aspetto di quell’evento, in reciproca osmosi con<br />

gli altri aspetti. “Contesto” e “contenuto” (come abbiamo già visto) si<br />

influenzano reciprocamente. I diversi elementi dell’evento sono in relazione<br />

reciproca.<br />

Ciò che si qui intende con “evento” è una realtà composta da una rete di termini<br />

che si costituiscono (e si destituiscono) contemporaneamente. Gli elementi<br />

componenti l’evento non sono parti, come se esso fosse un puzzle, ma “aspetti”,<br />

ed ogni aspetto mostra un certo lato dell’evento. Ogni prospettiva usata per<br />

guardare una qualsiasi cosa ci fa vedere la cosa in un certo modo (proprio perché<br />

non la si può mai vedere nella sua interezza). 393<br />

L’evento allora, non è l’incontro di “soggetti”, o di “oggetti” che alla fine si<br />

accomiatano, mantenendo la loro identità e individualità, ma è il costituirsi di<br />

“attori” che dopo aver interpretato la loro parte si eclissano – nel senso che<br />

quell’attore si è “trasformato” in un altro, è “mutato”. Appunto, i “parlanti” alla<br />

fine del colloquio non ci saranno più, in quanto “parlanti” di quel colloquio.<br />

Certo, quelle “persone” prenderanno parte ad altri eventi, saranno protagonisti di<br />

altre relazioni, interpreteranno altri ruoli, ma non ci saranno più i parlanti di quel<br />

colloquio.<br />

Questo comporta forse un darsi discreto della realtà? Sicuramente no. Anche in<br />

questo caso non si deve confondere la permanenza del “soggetto” con la<br />

393 Del resto, è proprio perché qualcosa rimane nascosto che qualcos’altro si mostra. Di un libro posso<br />

vedere o la copertina o il dorso, non entrambe le parti contemporaneamente.<br />

393


continuità del “sé” (la consapevolezza di sé). Ognuno di noi è continuamente e<br />

contestualmente attore all’interno di molteplici eventi. Ognuno di noi può essere,<br />

ad esempio, contemporaneamente figlio, fratello, amico, fidanzato, studente ecc.<br />

L’evento è sempre unico ed irripetibile, ma non è mai totalizzante. La<br />

connessione degli eventi si realizza nelle svariate parti interpretate da ogni<br />

persona nella sua vita. Anzi, è proprio la natura evenemenziale della realtà che ci<br />

permette di gestire diversi rapporti contemporaneamente; ed è proprio perché in<br />

ogni situazione che ci vede coinvolti noi siamo in grado di relazionarci al<br />

contesto, che possiamo definire la realtà evenemenziale. 394 Quello che importa<br />

sottolineare è che il “darsi evenemenziale” non è in contraddizione col “farsi<br />

complesso e processuale” della realtà, anzi né rappresenta la sua forma canonica<br />

(comunque quella più compatibile col discorso che stiamo facendo). 395<br />

L’essere in relazione a… del nostro “sé” è inconciliabile con “soluzioni di<br />

continuità” di qualsiasi tipo, in quanto, queste ultime porterebbero ad isolamento<br />

e separazione, condizioni che sono radicalmente alterative alla “situazione di<br />

relazione”. Semmai, è il “soggetto” che grazie alla sua struttura, può stare<br />

autonomamente e isolarsi dal contesto che lo ospita. È il “soggetto” che può<br />

giovarsi di una sua “realtà interna”, o di un suo “mondo privato”, che gli<br />

consentono di prescindere da qualsiasi relazione.<br />

Gli elementi che compongono un evento fanno della relazione (reciproca) la loro<br />

unica “modalità” di esistenza, e siccome qualsiasi relazione coincide col darsi<br />

dell’evento, non ci può essere momento della realtà senza eventi, cioè, non ci può<br />

essere soluzione di continuità nel darsi degli eventi (viceversa, la relazione è in<br />

funzione del darsi dei suoi elementi).<br />

La realtà è un insieme di relazioni che si combinano nei modi più diversi. La<br />

realtà è “relazionale” ed “evenemenziale”. Non ci sono enti autonomi, non ci<br />

sono “incontri”: tutto quello che è presente, è presente nel modo della relazione e<br />

394 Non è il caso ora di spingerci più in là, perché ciò porterebbe a considerazioni di carattere<br />

psicologico che esulano totalmente dagli intenti di questo scritto.<br />

395 Naturalmente bisogna distinguere tra la successione temporale degli avvenimenti con spazio e tempo<br />

assoluti, dalla struttura processuale spaziotemporale degli eventi.<br />

394


dell’evento; e oltre a ciò che è presente non c’è niente altro. Tutto quello che<br />

“è”, si manifesta in relazione a…; non ci sono condizioni di possibilità (o<br />

fondamenti) che permettono questo darsi evenemenziale.<br />

È utile, allora, precisare che l’evento è un “farsi contestuale complesso e<br />

processuale”.<br />

Fin’ora ci siamo limitati a utilizzare la formula “farsi contestuale” senza<br />

aggiungere “processuale” per non rischiare analogie col movimento<br />

deterministico della dialettica hegeliana. Il susseguirsi degli eventi non ha nulla<br />

di deterministico, di causale o di finalistico. Il darsi evenemenziale non segue<br />

leggi di sviluppo, né ordini prestabiliti. Gli eventi della realtà (e nella vita di<br />

ognuno) si susseguono, si intersecano e si sovrappongono, e il loro “ordine” può<br />

essere, tutt’al più, definito “spontaneo” o “cosmico”. 396<br />

Ogni evento è “unico” ma non “isolato”. La relazione “si dà” nell’evento, ma<br />

anche tra gli eventi, nel senso che, nello spiegare le relazioni tra eventi si<br />

possono ripetere le stesse considerazioni fatte a proposito delle relazioni che<br />

intercorrono tra gli “aspetti” (elementi, o termini) del singolo evento.<br />

Ovvero, ogni evento compone “insiemi” di eventi con le stesse modalità con cui<br />

i diversi “termini” entrano a far parte dello stesso evento. Quindi, l’evento – nel<br />

contesto dell’ “insieme” – ha le stesse caratteristiche dell’elemento – all’interno<br />

dell’evento; e la configurazione dell’insieme degli eventi è analoga a quella dei<br />

termini del singolo evento (non potrebbe essere altrimenti). L’insieme degli<br />

esami sostenuti da uno studente è l’insieme degli elementi dell’evento<br />

“laurea”. 397 Ancora, l’insieme dei colloqui di marito e moglie è un “farsi<br />

contestuale e progressivo”, nel senso che, esso ha un carattere evenemenziale e<br />

relazionale. Ognuno degli elementi di questo insieme è in relazione “osmotica” e<br />

“dinamica” con gli altri. I due coniugi saranno “reciprocamente influenzati” da<br />

396 Concetti trattati nei primi paragrafi della terza parte.<br />

397 L’esperienza fatta per l’esame “X” influenzerà la preparazione e il modo di porsi per l’esame “X +<br />

1”, a sua volta, dopo l’esame “X + 1” si valuterà in modo diverso l’esame “X”.<br />

395


ogni loro colloquio, e ciò li porterà a gestire la loro “relazione” in modo<br />

“dinamico”; nel senso che, tale relazione sarà una continua “osmosi” tra i due. Si<br />

possono fare considerazioni analoghe per tutti i rapporti che qualsiasi persona si<br />

trova a gestire nel corso della sua vita; la vita stessa è “un evento di eventi”;<br />

ognuno di noi è “un farsi contestuale e progressivo”, in continua relazione<br />

(reciproca) col suo mondo. 398<br />

Un insieme di eventi è un “ordine spontaneo” che si plasma e riplasma, che si<br />

combina e ricombina incessantemente. Quindi, l’evento (anche quello passato)<br />

non è mai qualcosa di “oggettivo” e “a sé stante” (come non è un “oggetto” il<br />

termine componente il singolo evento). Ogni evento della nostra vita non è una<br />

cosa ferma, statica (data una volta per tutte) incasellata nel nostro passato, perché<br />

anche tra noi e quell’evento ci sarà sempre una relazione osmotica.<br />

398 Si dovrebbe tenere presente questa cosa anche quando si valuta il lavoro di chi cerca l’ “assoluto”, “il<br />

principio”, “l’origine originaria”, o “l’inizio dell’universo”, “l’inizio della vita”, ecc. Le esperienze, i<br />

punti di vista, gli scopi individuali, giocano un ruolo fondamentale, e pregiudicano l’oggettività e la<br />

purezza, di qualsiasi sapere (il quale rimane sempre e comunque uno “strato” aggiunto a quelli precedenti,<br />

e come tale, non si può emancipare da essi). Ogni teoria, anche quelle che si occupano di questioni<br />

“principiali” dovrebbe essere valutata tenendo conto che ci sono delle condizioni imprescindibili sulle<br />

quali è stata formulata (una storia, un background, una certa prospettiva ecc.). Lo scienziato e il filosofo<br />

non possono estraniarsi dal contesto che li ospita, che li ha “influenzati”. La ricerca scientifica, in senso<br />

lato, non è mai indagine su “oggetti”, o su enti perfettamente dati, ma è, invece, commento di teorie<br />

precedenti, fatto da uomini dentro un determinato ambiente: il “principio”, “l’inizio dell’universo” non<br />

sono “enti oggettivi” ma concetti, elaborati da persone nel corso della storia. Questo non significa che<br />

ogni teoria sia solo un punto di vista, valido alla stessa stregua degli altri, né che il contesto “determini” le<br />

risposte degli uomini (di questo abbiamo già discusso in precedenza). L’umanità ha goduto di contributi<br />

notevoli nella sua storia, ha conosciuto esperienze di pensiero prodigiose e geniali (unanimemente<br />

ritenute tali). Purtroppo, nessuna di queste ha detto qualcosa di “oggettivo”, “ultimo”, e “definitivo” sulle<br />

questioni che tanto la assillano, perché l’ “oggetto” di qualsiasi ricerca scientifica non è un “oggetto”, ma<br />

qualcosa di molto più sfumato (e il “soggetto” ricercatore non è un “soggetto”). La ricerca non è una<br />

“caccia al tesoro”, perché non esiste alcun tesoro da scoprire. Le teorie, anche le più geniali, sono sempre<br />

costruite intorno a ciò che già si conosce. Le teorie scientifiche sono sempre commenti ad altre teorie.<br />

Commenti fatti da persone figlie di un determinato mondo.<br />

Anche la risposta più profonda, a proposito di qualsivoglia problema, non è mai definitiva, anzi, più<br />

profonda è la risposta, maggiori e più importanti sono le questioni che essa apre.<br />

396


VI) L’evento nella fisica<br />

Questa configurazione “flessibile” (“complessa”) del reale sembra in contrasto<br />

con quella (solida e apparentemente inattaccabile) data dalla fisica classica. Ma<br />

anche la rappresentazione fisica non è una descrizione “oggettiva” del mondo. La<br />

meccanica “interpreta” la realtà, non la “descrive” (e tanto meno la “spiega”). La<br />

meccanica non è la scienza della verità, e nemmeno l’esatta descrizione di ciò<br />

che accade; essa è piuttosto un sistema articolato di definizioni e teoremi con il<br />

quale si espone una coerente configurazione di ciò che si chiama “realtà”. Essa<br />

riproduce, attraverso l’uso dell’induzione e della deduzione, il risultato di<br />

opportune osservazioni con delle formule.<br />

La fisica moderna si fonda su una determinata “visione del mondo”: quella degli<br />

“oggetti” dei “corpi”, con le loro ormai note caratteristiche. Così, “forza”,<br />

“velocità”, “accelerazione”, “inerzia”, ecc. non sono proprietà della realtà in se<br />

stessa, ma concetti elaborati per tenere insieme “corpi”, o per costruire un<br />

sistema coerente di “oggetti”.<br />

Tali conoscenze hanno innumerevoli applicazioni pratiche, ma sono comunque<br />

figlie del procedimento empirico, perché trovano la loro giustificazione, la loro<br />

legittimazione, nell’esperimento; in altre parole, esse non colgono l’essenza della<br />

realtà, ma combinano in modo appropriato, “adeguato” osservazione e teoria.<br />

Anche la fisica, alla fine, è una interpretazione, una rappresentazione fondata su<br />

concetti, è una griglia interpretativa da “sovrapporre” alla cosiddetta realtà. Il<br />

fatto che sia molto utile, o che consenta previsioni abbastanza accurate dei<br />

fenomeni studiati, non la fa diventare la scienza del “Vero”.<br />

La fisica classica si basa per molti aspetti sull’induzione, cioè su di un<br />

procedimento che cerca di trarre conseguenze “generali” – chiamate “leggi” – da<br />

fatti “particolari”. In buona sostanza, una serie di osservazioni concordanti<br />

“corroborano” (o addirittura producono) una “legge”, nel senso che tali<br />

osservazioni fanno nascere delle “aspettative” sui comportamenti futuri del<br />

397


fenomeno in questione. Tale procedimento confida sulla cosiddetta “uniformità<br />

della natura”, che però non è stata, a sua volta, dimostrata, ma solo postulata.<br />

L’analisi induttiva dei fenomeni naturali, però, è un sistema di ragionamento<br />

piuttosto ingenuo, semplicistico, “immediato”, utilizzato soprattutto dai bambini<br />

ma anche dagli animali: un cane, ad esempio, è in grado di riconoscere benissimo<br />

una uniformità di comportamenti, e su tale uniformità riesce a farsi delle<br />

aspettative. Se egli è abituato a mangiare (o ad andare a passeggio), sempre alla<br />

stessa ora, egli a quell’ora comincerà a “chiedere” di mangiare (o di uscire).<br />

Anche il cane quindi è in grado di “estrapolare” da una serie di fatti particolari<br />

una “regola”, o meglio, una “abitudine”. Tutti quelli che possiedono un cane<br />

hanno fatto esperienze del genere. Purtroppo, le generalizzazioni tratte<br />

dall’induzione non sono niente più che, appunto, “abitudini”; esse non danno<br />

alcuna “conoscenza certa”, non sono “leggi” della natura, e non permettono di<br />

arrivare a toccare qualche tipo di “essenza”.<br />

A riprova che la fisica moderna non è una “descrizione” della realtà, ma solo<br />

una sua possibile “interpretazione”, sta il fatto che una teoria ad essa successiva –<br />

la Teoria della relatività – dà una versione completamente diversa della “stessa<br />

realtà”.<br />

Per Newton la natura è un insieme di “corpi” (o di “particelle”) inalterabili,<br />

indipendenti, e materiali; essi si muovono nel vuoto seguendo le “leggi” della<br />

geometria euclidea; lo spazio e il tempo sono i contenitori indipendenti e assoluti<br />

di tali oggetti, i quali si muovono grazie a delle “forze”, in un sistema totalmente<br />

causale; Per il fisico inglese, un corpo tende naturalmente a muoversi di moto<br />

rettilineo uniforme, e quando ciò non avviene significa che su di esso ha agito<br />

una “forza” (il concetto di forza serve quindi per giustificare i movimenti<br />

“accelerati”). 399<br />

399 “Il linguaggio di causa effetto (del quale la “forza” è un caso particolare) è soltanto una comoda<br />

scorciatoia per determinati scopi; non rappresenta niente che si possa realmente riscontrare nel mondo<br />

fisico”. Questa ad esempio, è l’opinione che in proposito esprime B. Russell. Cfr B. Russell, L’ABC<br />

DELLA RELATIVITA’, TEA, Milano, 1993, pag 170<br />

398


Grazie alla Teoria della relatività generale sappiamo che la “forza” è solo una<br />

brillante “invenzione” che consente di rendere coerente un sistema di pensiero,<br />

non una necessità della natura. Il concetto di forza e del tutto ridondante se al<br />

posto della fisica newtoniana e la geometria euclidea usiamo, per spiegare i<br />

fenomeni naturali, la Relatività e la geometria di Riemann. 400<br />

Le due teorie forniscono spiegazioni diverse dei fenomeni osservati, e le<br />

misurazioni effettuate mostrano che la descrizione relativistica è più accurata.<br />

La differenza più significativa tra le due teorie riguarda la loro diversa<br />

concezione dello spazio e del tempo: assoluti e separati per la prima, congiunti e<br />

relativi per la seconda.<br />

Ciò che è rilevante ai nostri fini è proprio l’idea relativistica di spaziotempo.<br />

Perché il fatto che una teoria fisica li consideri inscindibili può avere interessanti<br />

conseguenze filosofiche.<br />

Abbiamo già visto in apertura di capitolo, che anche Deridda li considera<br />

inseparabili: “spaziamento come divenir spazio del tempo, temporeggiamento<br />

come divenir tempo dello spazio”.<br />

L’interpretazione relativistica può servire a sviluppare e a chiarire il<br />

ragionamento. Secondo la teoria della relatività spazio e tempo non sono entità<br />

separate e assolute, in quanto dipendono dalla velocità della luce “C” (che è<br />

considerata una costante universale). Così se due sistemi di riferimento si<br />

muovono a velocità diverse, saranno caratterizzati da un diverso spaziotempo. La<br />

conseguenza notevole è che non è più possibile stabilire misurazioni<br />

spaziotemporali valide universalmente, e quindi cadono anche i concetti di<br />

passato, presente e futuro assoluti (tutt’al più le misurazioni continueranno a<br />

valere all’interno dello stesso sistema di riferimento).<br />

400 Scrive Russell: «Le formule che si riferiscono ai movimenti dei pianeti sono quasi identiche nella<br />

teoria di Einstein e in quella di Newton, ma il significato delle formule stesse è completamente diverso».<br />

E ancora: «La presunta necessità di attribuire la gravità ad una “forza” che attrae i pianeti verso il sole<br />

aveva origine dalla decisione di salvare ad ogni costo la geometria euclidea. Se ci ostiniamo a supporre<br />

che il nostro spazio sia euclideo, il che in realtà non è, ci troveremo poi costretti a invocare soccorso dalla<br />

fisica per rettificare gli errori della geometria» B. Russell, L’ABC DELLA RELATIVITA’, op. cit. pag<br />

168,e poi pag 161.<br />

399


Einstein definiva “una testarda illusione” la convinzione dell’esistenza di un<br />

passato, un presente e un futuro unici e assoluti. Convinzione che deriva dalla<br />

nostra esperienza sulla terra, la quale, con buona approssimazione, può essere<br />

concepita come un unico grande sistema di riferimento. Ma esperimenti accurati<br />

hanno ormai dimostrato che nei sistemi di riferimento che si muovono con<br />

velocità molto elevate gli orologi “frenano”, vanno più lentamente di quelli a<br />

“riposo”. Quindi, secondo la Teoria della relatività, le caratteristiche dello<br />

spaziotempo dipendono dalla velocità di ogni sistema di riferimento.<br />

Dal nostro punto di vista, l’idea dell’unità e della relatività spaziotemporale può<br />

avere altre conseguenze.<br />

Se tali dimensioni non possono essere concepite come unità di misura universali,<br />

assolute dei fenomeni, esse perdono anche la loro indipendenza dagli enti (anche<br />

dal lato semantico, se non sono “assolute” devono per forza essere “relative”).<br />

Ma relative a cosa? Secondo la teoria della relatività esse sono relative a “C”.<br />

A ben guardare però, emerge un altro tipo di relazione: quello tra l’unità di<br />

misura e le cose misurate (quello cioè tra contenitore e contenuto). 401<br />

Si vuol dire che, se spazio e tempo sono uniti, lo spazio evolverà assieme al<br />

tempo, quindi viene a mancare il contenitore neutro e stabile. Se non c’è più un<br />

contenitore separato come e dove evolve l’ente (come si misura il suo<br />

“spostamento”)? 402 Se non c’è contenitore stabile, l’ipotesi più probabile è che la<br />

realtà evolva su se stessa, nel senso che contenitore e contenuto non possono che<br />

essere congiunti. Se lo spazio nel quale è “contenuto” un ente “scorre”,<br />

401 E il paradosso dei gemelli può essere un esempio. Il gemello che si muove a velocità più elevata<br />

invecchia più lentamente; ciò significa che l’ente e il suo sistema di riferimento sono correlati. Anche se<br />

quello che qui si vuol sostenere non si riferisce direttamente a conseguenze di questo tipo.<br />

402 E in modo ancora più paradossale, se è lo stesso spaziotempo a evolvere, dove evolve? Se lo spazio<br />

“scorre”, dove scorre? E sufficiente dire che le misurazioni fatte dall’interno sono diverse di quelle<br />

operate dal di fuori del sistema? Se la configurazione dello spaziotempo dipende dalla velocità del<br />

sistema, come e da dove si stabilisce tale velocità? Dal di dentro o dal di fuori: non sono in entrambi i casi<br />

misure “relative”? Qual è allora la velocità effettiva? Ma ha senso chiedersi quale sia la “velocità<br />

effettiva”? E ancora, che tipo di spazio è uno spazio che evolve? È sufficiente rappresentarlo col “mazzo<br />

di carte”, o con la similitudine della pellicola del film?<br />

400


quest’ultimo scorrerà con esso (nell’ipotesi che siano entrambi caratterizzati<br />

dall’estensione).<br />

Allora, mentre “il mazzo di carte” nell’ipotesi newtoniana continua a descrivere<br />

un tempo e uno spazio separati, e questi ultimi a loro volta separati dai corpi<br />

contenuti; quindi il “mazzo di carte” diventa una pura – anche se legittima –<br />

astrazione concettuale; nel caso in cui spazio e tempo siano congiunti, lo stesso<br />

mazzo diventa il modo di descrivere una vera e propria “evoluzione<br />

spaziotemporale”.<br />

Se spazio e tempo sono legati la struttura che ne risulta è totalmente diversa da<br />

quella classica, perché cambia la natura stessa dei corpi, i quali vengono a<br />

perdere la loro struttura materiale e quindi la loro “permanenza” (non essendoci<br />

nemmeno più uno spazio permanente).<br />

L’ente, in buona sostanza, per il sistema newtoniano è un corpo materiale<br />

indipendente dal “contenitore” spaziale e temporale, mentre per quello<br />

relativistico può essere raffigurato come spaziotempo, e quindi sarà vincolato al<br />

suo sistema di riferimento. Tra loro, nel secondo caso, si porrà una relazione di<br />

reciprocità.<br />

Lo “scorrere” dello spaziotempo non potrà che essere rilevato in modo relativo,<br />

confrontando stadi successivi della successione. Ma anche il suo “essere” è una<br />

evoluzione spaziotemporale. Così ci troviamo immersi in un sistema molto<br />

difficile da immaginare e da descrivere.<br />

A questo punto diventa necessario approfondire alcuni concetti.<br />

Se manca il contenitore autonomo, “separato” dal contenuto, quest’ultimo sarà<br />

collegato al primo, subirà lo stesso “destino”. L’evoluzione spaziotemporale del<br />

contenitore coinciderà con l’ evoluzione del contenuto. L’ente dovrà per forza<br />

“seguire” il suo contenitore”. Tra contenitore e contenuto si viene a delineare una<br />

sorta di sovrapposizione, o meglio, tra i due si crea mutualità e solidarietà. Non è<br />

possibile rappresentarli separati (se non attraverso un’astrazione teorica). L’idea<br />

dell’esistenza di oggetti autonomi diventa contraddittoria, o al più una astrazione<br />

teorica basata sulla premessa dell’assolutezza di spazio e tempo.<br />

401


In questo modo, spazio e tempo non possono più essere considerati come un<br />

“contenitore” separato dagli avvenimenti del mondo (che serve per la loro<br />

misurazione oggettiva); ma diventano un tutt’uno con ciò che accade; La<br />

relazione che si viene così a delineare è paragonabile a quella già più volte<br />

menzionata tra testo e contesto. 403<br />

Del resto, tenendo conto di tutto quello che abbiamo affermato in precedenza, è<br />

improprio affermare che lo spaziotempo “scorre”. Si può dire che la loro unione<br />

“avviene”, “si manifesta” come “spaziotempo”. Ciò significa che, in qualche<br />

modo, “accade” non solo il tempo, ma anche lo spazio.<br />

Rimane il problema di stabilire come “accade” lo spaziotempo. L’unica prova del<br />

suo “passaggio” è riscontrabile negli enti, nel senso che essi non possono più<br />

essere considerati cose permanenti, ma “insiemi di momenti spaziotemporali” o<br />

“collezioni di eventi”.<br />

I cosiddetti “oggetti”, allora, non sono composti solo di spazio (la res extensa di<br />

Cartesio) ma anche di tempo; nel senso che le cose sono raffigurabili come<br />

insiemi di “momenti spaziotemporali”. Questo porta a riconsiderare anche la<br />

relazione “io-mondo”, perché il “soggetto” è coinvolto in questo sistema nella<br />

stessa misura degli “oggetti”.<br />

In questo tipo di realtà l’unità fondamentale non è più l’ente materiale ma l’<br />

“evento”; in quanto le cose non sono più qualcosa di “a sé stante”, misurate<br />

attraverso lo spazio e il tempo ma “sono” “spaziotempo” (testo e contesto che si<br />

“fondono”).<br />

Così, paradossalmente, non c’è più indipendenza tra la cosa e la sua unità di<br />

misura. E nemmeno tra soggetto e oggetto (che ne è allora dell’ “oggettività”<br />

della misurazione? In realtà, dal lato pratico, non cambia assolutamente nulla, le<br />

misurazioni continuano ad avere il loro significato e la loro “concretezza”. Certo,<br />

la concretezza non è oggettività, nel senso che non è validità universale. In<br />

403 Il primo è individuabile solo a partire dalla sua relazione col secondo e viceversa il contesto che si<br />

definisce solo in virtù del suo testo.<br />

402


sostanza, si misura “il darsi di una relazione”, il suo “modo di manifestarsi”, non<br />

una grandezza fisica assoluta).<br />

Da questa prospettiva, la realtà è un insieme di “eventi” spaziotemporali<br />

inseparabili dai cosiddetti oggetti (e dai soggetti). L’ “oggetto” non è ospitato<br />

all’interno di un contenitore, nel quale gode di assoluta autonomia, ma è una<br />

“parte” integrante della (e indissolubilmente “legata” alla) stessa “realtà<br />

spaziotemporale”. L’oggetto è un insieme di eventi.<br />

Un’interpretazione per alcuni aspetti simile alla nostra viene data da Russell, che<br />

scrive: «La verità è, credo, che la relatività impone l’abbandono della vecchia<br />

concezione di “materia”, che è inquinata da quel tanto di metafisico insito nel<br />

termine “sostanza”, e che rappresenta un’ipotesi non necessaria per affrontare lo<br />

studio dei fenomeni…Secondo le vecchie teorie, un pezzo di materia era una<br />

cosa che persisteva nel tempo e che non poteva mai essere in più di un posto a un<br />

momento dato. Questo modo di vedere era evidentemente legato alla totale<br />

separazione tra spazio e tempo in cui un tempo la gente credeva. Quando<br />

sostituiamo lo spazio-tempo allo spazio e al tempo, dobbiamo ovviamente<br />

costruire il mondo fisico con elementi che siano altrettanto limitati nel tempo<br />

come nello spazio. Gli elementi costruttivi sono quelli che chiamiamo “eventi”.<br />

Un evento non persiste e non si sposta, come il pezzo di materia tradizionale;<br />

esiste semplicemente per un suo breve attimo e poi cessa. Così un pezzo di<br />

materia si risolverà in una serie di eventi». 404<br />

Allora, l’oggetto che ho di fronte non è qualcosa di a sé stante, e separato, che sta<br />

nella sua autosufficienza e indipendenza come pensavano i moderni (“oggetto”,<br />

“ciò che mi sta di fronte”), ma è qualcosa dal quale io stesso non sono<br />

indipendente; nel senso che, in questo momento, entrambi facciamo parte dello<br />

stesso “evento”: non siamo “soggetto” e “oggetto” contrapposti, ma un evento<br />

“spaziotemporale” che si manifesta in un certo modo, tra me e l’ “oggetto” ora<br />

404 E così continua: « In base alle vecchie teorie, un corpo esteso nello spazio era composto di numerose<br />

particelle; così ora ciascuna particella, essendo estesa nel tempo, va considerata come composta di quelle<br />

che possiamo chiamare “particelle-eventi”. L’intera serie di questi eventi forma l’intera storia della<br />

particella, e la particella va intesa nel senso che è la sua storia, non nel senso di una entità metafisica alla<br />

quale capitano gli eventi» B. Russell, L’ABC DELLA RELATIVITA’, op. cit. pag 173. Corsivi aggiunti.<br />

403


c’è una relazione evenemenziale; o meglio, l’osservazione di un oggetto non è<br />

qualcosa di “oggettivo”, ma la manifestazione di una relazione che coinvolge<br />

determinati elementi (che potrebbero essere descritti come “stati particolari” di<br />

quelli che prima venivano definiti “soggetto osservatore” e “oggetto osservato”).<br />

La “realtà”, del resto, non è unica, con un determinato ritmo di sviluppo,<br />

scandito dal passare del tempo, ma è molteplice, perché molteplici sono i modi in<br />

cui può “occorrere” lo spaziotempo.<br />

Prendiamo il solito esempio delle palle da biliardo: nella fisica classica il corpo<br />

“P1”, movendosi su di una superficie “neutra”, va a colpire il corpo “P2”,<br />

provocandone lo spostamento; così si verifica la trasmissione di una forza tramite<br />

il contatto. Dal nostro punto di vista, invece (come conseguenza della nostra<br />

visione “relativistica”), questo è un “evento” composto da una serie di momenti<br />

nello spaziotempo.<br />

Secondo la nostra interpretazione allora, non si può parlare propriamente di<br />

“movimento” nello spazio di corpi, e sarebbe più corretto, invece, descrivere<br />

questa situazione come un “mutamento” di “regioni” spaziotemporali; ciò<br />

implica che, le “regioni spaziotemporali” non si “spostano” perché non hanno un<br />

posto dove muoversi (non c’è il contenitore), ma tutt’al più, si “susseguono”:<br />

esse “sono”, contestualmente, “spazio”, “tempo” e “corpi”, in rapporto tra loro.<br />

Questo significa che lo stesso “evento” unitario, preso in esame (partita di<br />

biliardo), è composto da un insieme di “momenti spaziotemporali”, non da<br />

oggetti che si muovono nello spazio e nel tempo. 405<br />

Alla fine, si può dire che tale successione ricorda il mutamento del “medesimo”<br />

descritto in precedenza.<br />

Riassumendo, abbiamo visto che si può mettere in questione l’impianto teorico<br />

basato sui concetti di tempo, spazio, corpo (o di “oggetto”), forza,<br />

“accelerazione”, ecc., attraverso l’interpretazione evenemenziale della realtà.<br />

405 In base a queste considerazioni, delle due accezioni di “movimento” (viste nei paragrafi precedenti)<br />

si deve privilegiare quella di “mutamento” su quella di “spostamento”.<br />

404


Il movimento locale dei corpi, allora, è solo un modo di descrivere il movimento.<br />

Il “fatto”, apparentemente evidente, della “dis-locazione” nello spazio di<br />

qualsiasi cosa (compreso il mio movimento), non è una incontestabile cifra della<br />

realtà ma una possibile, e in certi casi utile, interpretazione di ciò che accade. 406<br />

Una conseguenza notevole è che l’ “oggetto” stesso non è un ente presente<br />

sempre nella sua interezza, ma è invece un insieme di eventi spaziotemporali.<br />

In altre parole, quando osserviamo una “cosa” non vediamo un “oggetto” che si<br />

dà nella sua interezza e permanenza, ma vediamo una porzione di “spaziotempo”<br />

(e questo perché siamo solidali con (condividiamo) quella porzione di<br />

spaziotempo); con la terminologia usata in precedenza possiamo dire che “noi<br />

siamo in relazione solidale mutua con quella cosa e, assieme ad essa, costituiamo<br />

un evento unico ed irripetibile” (perché anche l’ “io”, come tutte le altre cose, si<br />

dà in modo evenemenziale).<br />

Ogni momento della nostra vita è configurabile nel modo dell’ “evento”.<br />

L’idea di ente come insieme di momenti spaziotemporali, ognuno dei quali<br />

indissolubilmente legato ad un osservatore, e con questo costituenti diverse<br />

regioni dello spaziotempo, rappresenta una rottura radicale rispetto al paradigma<br />

di pensiero moderno. Citiamo ancora Russell: «Il senso comune immagina che,<br />

quando vede un tavolo, vede un tavolo. Grossolana illusione. Quando il senso<br />

comune vede un tavolo, ciò significa che certe onde luminose hanno raggiunto<br />

gli occhi; si tratta di onde luminose del tipo che, nelle precedenti esperienze del<br />

senso comune, sono state associate con determinate sensazioni tattili nonché con<br />

la testimonianza d’altra gente la quale asseriva anch’essa di vedere un tavolo.<br />

Niente di tutto questo però ci ha mai ricondotto al tavolo stesso. Le onde<br />

luminose hanno provocato alcuni accadimenti nei nostri occhi, questi hanno<br />

provocato altri accadimenti nel nervo ottico, e questi a loro volta hanno<br />

provocato degli accadimenti nel cervello…(naturalmente, se la materia va<br />

406 Tale interpretazione non è però così rigorosa come quella “evenemenziale” della relatività, come<br />

mostrano le misurazioni fatte con gli strumenti appropriati.<br />

405


interpretata come un gruppo di avvenimenti, lo stesso criteri va applicato anche<br />

all’occhio, al nervo ottico e al cervello)». 407<br />

Il sistema di pensiero qui difeso mostra una realtà dove l’oggetto perde ogni<br />

consistenza e perfino la sua indipendenza.<br />

In questo modo, viene “smaterializzata” la realtà, nel senso che, ogni “oggetto” è<br />

descrivibile in termini evenemenziali.<br />

Del resto, sempre Russell definiva le particelle subatomiche come “pentagrammi<br />

di energia”, e le paragonava alle canzoni. In questo modo, la particella viene<br />

paragonata ad una collezione di note, (come una successione di suoni), perdendo<br />

così la sua “consistenza”. E se si può paragonare una particella ad una<br />

successione di note, per quale ragione non si può descrivere qualsiasi oggetto<br />

(indipendentemente dalle sue “dimensioni”) come una collezione di eventi? 408<br />

VII) Permanenza e divenire<br />

Alla luce di queste considerazioni sembra opportuno occuparci ora dei concetti di<br />

permanenza e di divenire. Concetti che hanno senso se riferiti al mondo degli<br />

oggetti e dei soggetti, ma che devono essere radicalmente ripensati nel contesto<br />

della realtà evenemenziale.<br />

Se da un lato, posso considerare l’ente una “collezione di eventi” non ha più<br />

cittadinanza l’idea della sua permanenza (almeno nell’accezione moderna) nel<br />

407 Del nostro rapporto con l’ “oggetto” tavolo, del modo cioè con cui la specie umana ha costruito la<br />

propria “relazione percettiva”, nel corso del tempo, con il cosiddetto “mondo esterno” ci siamo occupati<br />

nel paragrafo “ontogenesi e filogenesi”. B. Russell, L’ABC DELLA RELATIVITA’, op. cit. pag. 176.<br />

408 «Il mondo che la teoria della relatività prospetta alla nostra immaginazione non è tanto un mondo di<br />

“cose” in “movimento”, quanto un mondo di eventi. È vero che ci sono ancora particelle che sembrano<br />

persistenti, ma esse vanno concepite, in realtà, come catene di eventi connessi tra loro, quasi si trattasse<br />

della successione delle note di una canzone». B. Russell, L’ABC DELLA RELATIVITA’, op. cit. pag. 183.<br />

406


tempo; se dall’altro, lo posso pensare come un “insieme di manifestazioni dello<br />

stesso” non ha più senso quella di divenire, nello spazio e nel tempo.<br />

Ancora una volta, siamo giunti alla conclusione che non c’è separazione in<br />

natura, o nel mondo. L’errore sta proprio nel pensare che la natura si conformi<br />

alle tassonomie umane. Gli “oggetti” delle classificazioni, e più in generale tutti<br />

gli “oggetti”, sono concetti introdotti dall’uomo; e sono gli “oggetti” a<br />

contrapporsi e a stare isolati, non gli elementi naturali. Ogni divisione è stata<br />

prodotta per mezzo della classificazione e quindi esiste solo nel linguaggio. La<br />

natura, invece, è una totalità di relazioni reciproche. L’uomo stesso è parte di<br />

questa totalità, o meglio, è un aspetto di questa totalità.<br />

Nel mondo si danno eventi, non ci sono oggetti e soggetti. La natura non è un<br />

insieme di enti permanenti (o divenenti, secondo i punti di vista; infatti, il<br />

divenire è solo un determinato modo di permanere dell’ “oggetto isolato”).<br />

“Permanenza” è un altro concetto linguistico che non ha alcun legame con la<br />

realtà (concetto che è intimament e legato a quello di oggetto). La permanenza,<br />

come pure il divenire non sono “categorie” della realtà, ma strumenti che usiamo<br />

per “descriverla”. Servono per rendere il nostro ambiente comprensibile,<br />

descrivibile. Sono classificazioni che si adattano bene al mondo degli oggetti.<br />

Per “comprendere” qualcosa noi dobbiamo “definirlo”, dargli un contorno.<br />

Comprendere significa contenere, racchiudere, abbracciare. Per poter conoscere<br />

dobbiamo “significare”, dare senso, in sostanza dobbiamo “delimitare”. Ciò che<br />

rimane indefinito è senza misura, è incommensurabile, quindi è senza senso,<br />

appunto, incomprensibile.<br />

Non possiamo trasformare una nostra necessità in una peculiarità della natura. I<br />

nomi assegnati agli enti sono appunto dei nomi, sono il nostro modo di<br />

“ordinare” il mondo, sono la nostra chiave d’accesso all’ambiente che ci sta<br />

intorno; e non è detto che una nostra necessità possa essere trasformata<br />

nell’essenza del cosmo. Non sappiamo se le nostre tassonomie ci consentiranno<br />

mai di riprodurre la struttura dell’universo.<br />

407


Permanenza e divenire sono solo categorie linguistiche modi di catalogare, di<br />

mettere in rapporto entità diverse, perché è solo dal confronto che nasce il<br />

significato. Solo paragonando “questo” a “quello” siamo in grado di distinguere<br />

“questo” da “quello”, siamo cioè in grado di dar loro un senso.<br />

Il linguaggio, in questa prospettiva, diventa una struttura sovrapposta a quella che<br />

viene definita (sempre attraverso il linguaggio) “realtà”. Per mezzo del<br />

linguaggio possiamo ottenere una rappresentazione significativa della natura, ma<br />

tale “significatività” non è necessariamente “corrispondenza”, è solo possesso di<br />

senso, coerenza del modello. Abbiamo “ridotto” la natura a “significato” per<br />

nostra utilità, per il nostro consumo, non abbiamo trovato la chiave per svelare<br />

l’essenza del mondo. E del resto, ci sono più raffigurazioni possibili della stessa<br />

“realtà”, come stanno a dimostrare le diverse descrizioni di essa fornite nel corso<br />

della storia. La bontà di un modello non sta nella sua capacità di rappresentare il<br />

reale o nella misura in cui si avvicina all’ “originale” (anche perché è difficile<br />

stabilire questa misura), ma consiste invece nella sua “coerenza interna”.<br />

Le scienze usano classi per catalogare, usano categorie per delimitare, ma<br />

l’indagine dell’essere tramite categorie è l’indagine condotta attraverso strumenti<br />

linguistici di entità linguistiche. E in una struttura così concepita il legame con la<br />

“realtà” (che in questo modello non può che essere “esterna”) sfugge<br />

completamente. Qualsiasi sia l’ “oggetto” di studio, proprio in quanto “oggetto”,<br />

diventa irraggiungibile. L’idea che un’indagine categoriale possa accedere alla<br />

realtà in sé (o a quella fenomenica) è solo una postulazione, priva di qualsiasi<br />

riscontro.<br />

Quando si separa l’oggetto dal soggetto non c’è modo di ricongiungerli. Se il<br />

“soggetto” è un ente permanente e a sé stante che studia l’ “oggetto” (altro ente<br />

permanente e a sé stante) non c’è possibilità che lo studio raggiunga l’obiettivo<br />

che si era prefisso.<br />

In altre parole, l’indagine che si fonda sull’assegnazione di etichette (i nomi che<br />

diamo alle cose) alle parti che dovrebbero costituire il mondo (o che dovrebbero<br />

esservi “contenute”), che crede di poter produrre corrispondenze tra gli oggetti<br />

408


della natura e gli oggetti mentali (siano essi immagini, nomi o qualsiasi altra<br />

cosa) è destinata a fallire sempre perché crea un dualismo (una separazione tra<br />

questi due piani) impossibile da ricomporre.<br />

La permanenza e il divenire sono concetti relativi, ossia valgono solo sulla base<br />

di un rapporto precostituito: un ente permane se paragonato a quell’altro<br />

(all’interno di dimensioni spaziali e temporali assolute). Permanenza e divenire<br />

hanno significato solo se posti uno in relazione a quell’altro, non valgono in<br />

modo assoluto. Sussistono solo uno in funzione dell’altro.<br />

E il tipo di “relazione” che può instaurarsi tra enti permanenti (o divenenti) e<br />

quella di “re-azione”: un corpo si muove se spinto, un soggetto si sposta se<br />

esercita una forza, percepisce sensazioni ricevute dall’ “esterno”, pensa grazie<br />

alla sua mente “interna” che reagisce a stimoli “esterni” ecc. Un ente a sé stante<br />

non può che “reagire”, nei confronti di un altro ente a se stante. Tutte le azioni<br />

del soggetto sono in qualche modo reazioni a…, anche i pensieri più intimi (il<br />

mondo come un gigantesco “flipper” – la concezione meccanica della realtà – è<br />

una conseguenza necessaria del concetto moderno di “ente”). 409<br />

Permanenza e divenire si fondano sui concetti tradizionali di spazio e di tempo.<br />

Un oggetto permane o diviene nel tempo (o si muove nello spazio). Qui spazio e<br />

tempo sono intesi come assoluti. Essi non dipendono in alcun modo dagli enti.<br />

Essi sono il contenitore “intangibile” nel quale si manifesta la realtà.<br />

La permanenza è la stabilità ne l tempo, il divenire è il cambiamento nel tempo. È<br />

solo sulle categorie di spazio e tempo assoluti che sono concepibili la<br />

permanenza e il divenire degli enti. L’oggetto può “stare” a se stante solo nel<br />

tempo e nello spazio. Se si cambiano queste categorie perde di senso anche il<br />

concetto di permanenza. La disputa metafisica tra sostenitori della permanenza, e<br />

sostenitori del divenire, è il risultato di un determinato paradigma di pensiero; il<br />

mondo non permane e non diviene. La realtà si dà in modo eveneme nziale. 410<br />

409 In questa situazione, l’alternativa è il “solipsismo”, cioè l’assenza di qualsiasi tipo di relazione.<br />

410 Abbiamo già visto che anche Russell per descrivere una realtà dove spazio e tempo non sono più<br />

assoluti e separati ricorre al concetto di “evento”. Secondo la sua interpretazione, nello spaziotempo della<br />

relatività oggetti e corpi sono sostituiti da eventi collegati all’interno di determinate “regioni<br />

409


L’evento è un farsi contestuale reciproco, non permane e non diviene, esso non<br />

ammette soggetti e oggetti. Nell’evento la “relazione” è un “riferimento mutuo”,<br />

è “rimando reciproco”, la relazione è contestuale e simbiotica ai (nel senso che<br />

“con-vive” con i) propri termini. Essi, cioè, non sopravvivono alla relazione che<br />

li vede coinvolti, nel senso che per ogni evento cambiano i protagonisti (e<br />

viceversa quella relazione si dà solo tra quei termini).<br />

Invece, sappiamo che, il rapporto di “re-azione” avviene tra enti permanenti –<br />

nel senso che essi esistono prima e dopo del verificarsi della relazione).<br />

Nell’evento tutto è un farsi contestuale e reciproco. Tutto nell’evento si dà e si<br />

toglie contestualmente. In questo modo le tradizionali categorie di permanenza,<br />

di divenire, di spazio e di tempo non hanno più senso.<br />

L’oggetto perde la sua inalterabilità e la sua indipendenza. Come abbiamo già<br />

detto, senza tempo assoluto, non ci sono nemmeno oggetti permanenti (o<br />

divenenti), ma tutto “è” in relazione a…<br />

VIII) “Spostamento” e “mutazione”, un approfondimento.<br />

Abbiamo già fatto riferimento alla distinzione tra due tipi di “movimento”. Alla<br />

luce di ciò che abbiamo detto a proposito dell’ “evento”, è però necessario<br />

tornare sull’argomento. Sappiamo che fin dall’antichità si contemplano due<br />

accezioni: il movimento come spostamento e il movimento come mutazione e<br />

trasformazione. Il primo consiste in un cambio di posizione, il secondo in una<br />

“riflessione”.<br />

spaziotemporali”. Scrive il filosofo inglese: «La maggior parte degli eventi del mondo non sono<br />

avvenimenti isolati, ma membri di gruppi di eventi più o meno simili, tali che ciascun gruppo è connesso<br />

in maniera determinabile con una certa regione limitata dello spazio-tempo». B. Russell, L’ABC DELLA<br />

RELATIVITA’, op. cit. pag 166<br />

410


Secondo la meccanica c’è movimento quando un “corpo” cambia posizione, cioè<br />

cambia la sua collocazione spaziale nell’unità di tempo. Perché ciò possa<br />

avvenire ci deve essere uno spazio dato, un tempo uniforme – entrambi assoluti –<br />

e un “corpo”, cioè una particella inalterabile.<br />

Tali concetti (spazio, tempo, ente) hanno avuto nel corso della storia del pensiero<br />

occidentale diverse interpretazioni. Accenniamo ora alle più significative, per<br />

poterle poi confrontare con quella consentita dalla relatività.<br />

Per Platone lo spazio è un’entità originaria (chòra) in cui la materia primordiale e<br />

le forme ideali si compenetrano dando vita all’universo, esso è quindi l’area nella<br />

quale avviene l’incontro tra le idee e la materia; per Aristotele invece lo spazio è<br />

il luogo che determina il confine dei corpi (tòpos), esso allora è una estensione<br />

finita che coincide con l’ultimo cielo delle stelle fisse.<br />

Quindi Platone mette in evidenza l’indipendenza dello spazio, Aristotele invece<br />

lo lega all’esistenza degli enti.<br />

Nel mondo moderno l’idea di spazio si piega alle descrizioni della fisica:<br />

Cartesio considera lo spazio come l’attributo specifico della materia (res extensa)<br />

governata dalle leggi della meccanica e del moto.<br />

Una contrapposizione simile a quella antica tra Platone e Aristotele, sul concetto<br />

di spazio, si ripete (mutatis mutandis, con tutti i distinguo del caso) tra Newton<br />

che lo considera un “assoluto”, e Leibniz che lo definisce come “l’ordine di<br />

coesistenza dei corpi” e dunque qualcosa di relativo e non separabile da essi.<br />

L’idea di Newton, del resto, viene criticato anche da Hume, secondo il quale lo<br />

spazio ha solo una valenza psicologica.<br />

E così si arriva al grande tentativo di Kant di salvare l’impostazione newtoniana<br />

tenendo conto delle critiche humiane. Ciò che preme a Kant, in altre parole, è di<br />

salvare l’ “oggettività” dell’impostazione newtoniana (grazie alla quale si può<br />

conservare la natura veritativa della fisica), pur concedendo a Hume che lo<br />

spazio sia in effetti un’ “entità” intellettuale.<br />

Lo spazio, per la meccanica (ma in buona sostanza anche per la metafisica), è il<br />

luogo dove stanno i corpi, o l’ “estensione” nella quale sono situati gli oggetti<br />

411


(ed è ovviamente anche l’estensione della quale sono costituiti gli oggetti).<br />

Spazio è infatti un concetto cardine della geometria euclidea, che descrive<br />

l’ambiente con le sue proprietà di estensione, forma e posizione delle particelle.<br />

Così, dal concetto euclideo viene ricavato quello della fisica classica che lo<br />

considera appunto come il luogo all’interno del quale si collocano e si muovono i<br />

corpi materiali.<br />

Lo spazio può essere definito allora come “l’entità illimitata e indefinita nella<br />

quale sono situati i corpi”, oppure come “l’ente fisico costruibile concettualmente<br />

con sole misure di lunghezza” (ma questa definizione presuppone ciò che vuol<br />

definire). 411<br />

Nella meccanica newtoniana tale spazio si identifica con “l’insieme di tutte le<br />

possibili relazioni spaziali tra gli oggetti costruite sulla base di un sistema di<br />

riferimento spaziale assoluto, che viene pensato come un sistema solidale alle<br />

stelle fisse”. 412<br />

Se confrontiamo le precedenti definizioni con la concezione einsteniana ci<br />

accorgiamo che esse si assomigliano, nel senso che tutte lo concepiscono come<br />

qualcosa di dato stabilmente e assolutamente, in modo indipendente dal tempo. 413<br />

Esse sono tutte inquadrabili all’interno di un determinato paradigma, al quale si<br />

oppone invece l’idea di Einstein. La vera rivoluzione allora, nella storia di questo<br />

concetto, è avvenuta proprio grazie alla Teoria della relatività.<br />

Il secondo fondamento del concetto di spostamento è l’idea pre-relativistica di<br />

tempo; anch’essa può essere considerata “omogenea” da Platone fino a Kant. Ci<br />

riferiamo in particolare all’idea newtoniana secondo la quale il tempo è una serie<br />

idealmente reversibile di istanti che consente la riduzione del movimento a leggi<br />

411 La prima definizione è tratta sempre dal Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli,<br />

Zanichelli, 2000.<br />

412 Cfr La nuova enciclopedia delle scienze, Garzanti, Milano, 1993. E qui si nota immediatamente la<br />

tautologia della definizione: lunghezza, estensione, spazio sono tutti sinonimi che vengono usati nelle<br />

definizioni in modo reciproco. L’estensione serve per dire cosa sia lo spazio e viceversa si usa spazio per<br />

determinare il concetto di estensione; ma cosa sono spazio e estensione?<br />

413 Abbiamo già notato che le definizioni fornite cadono spesso nella tautologia perché usano<br />

l’estensione per definire lo spazio, e lo spazio per determinare l’estensione. E così la concezione del fisico<br />

svizzero emerge come assolutamente innovativa.<br />

412


quantitativo matematiche. Esso così diventa un “assoluto”, svincolato da<br />

qualsiasi rapporto diretto con gli enti; in questo modo può essere usato come<br />

unita di misura dello spostamento. 414<br />

In meccanica classica (che si basa sui postulati della geometria euclidea), la luce<br />

si propaga in linea retta a velocità costante e istantanea, quindi gli orologi di due<br />

osservatori si possono sincronizzare scambiandosi segnali luminosi. Così il<br />

tempo diventa una grandezza fisica assoluta indipendente dall’eventuale moto<br />

relativo degli osservatori stessi.<br />

Secondo Newton infatti, esiste un “tempo assoluto” che scorre<br />

indipendentemente dal verificarsi di fenomeni atti a consentirne la misura, e un<br />

“tempo relativo” che viene effettivamente misurato dall’orologio. Questo<br />

concetto di tempo è sostanzialmente la traduzione “scientifica” dell’idea<br />

aristotelica, ed è solo con Einstein che essa verrà messa seriamente in<br />

discussione;<br />

Allora, spazio e tempo sono concepiti come i “contenitori neutrali della realtà”:<br />

tutto si dà secondo l’ordine di questi due assoluti, i quali di conseguenza non<br />

possono essere minimamente influenzati dagli oggetti o dagli enti del mondo<br />

fisico.<br />

Il terzo cardine del movimento come spostamento è l’idea di “corpo”; idea che è<br />

riconducibile nella sostanza al concetto di oggetto (res obiecta): “ciò che si<br />

contrappone a…, conservando la sua autonomia e inalterabilità”. 415<br />

414 Sono celebri le concezioni platonica e aristotelica, le speculazioni agostiniane, ma per il nostro fine<br />

esse sono tutte riassumibili nell’idea moderna del tempo come “assoluto” per la misura del movimento<br />

degli enti (idea che peraltro proviene da Aristotele secondo il quale appunto il tempo è “il numero del<br />

movimento secondo il prima e il poi”). Sappiamo che alla concezione newtoniana si oppongono gli<br />

empiristi che ribadiscono il carattere psicologico del tempo. La loro critica vuol evidenziare l’astrattezza<br />

del tempo fisico, e ricondurre la realtà a pura e sola percezione. Sappiamo del tentativo di conciliazione<br />

kantiano, e di tutte le speculazioni successive, ma ciò che qui interessa è mettere in risalto la discontinuità<br />

tra il tempo della relatività e quello pre-relativistico.<br />

415 Di questo concetto ci siamo già occupati nel secondo capitolo della terza parte, al quale rimandiamo.<br />

413


Del resto, se si concepiscono spazio e tempo come assoluti, il corpo non può che<br />

essere un entità inalterabile e indipendente, altrimenti si cadrebbe subito in<br />

contraddizione.<br />

Usando i tre concetti appena esposti, il movimento può essere definito come la<br />

variazione di posizione (spazio) di un corpo nell’unità di tempo. Allora tale<br />

definizione è una conseguenza dei concetti di spazio, tempo e corpo appena<br />

esposti. Tutta la meccanica si costruisce sul fondamento di queste tre grandezze.<br />

E ciò grazie alla loro natura di assoluti; essi infatti non subiscono alterazioni per<br />

nessun tipo di relazione che li riguardi.<br />

L’unico tipo di movimento che può interessare i corpi è il cambiamento di<br />

posizione, non essendo possibile, date le premesse, instaurare altro tipo di<br />

relazione tra loro.<br />

I tre elementi di “spazio”, “tempo” e “corpo”, e il relativo concetto di<br />

“movimento”, così come sono usati nella scienza e nella filosofia moderne, sono<br />

il risultato di una lunga evoluzione speculativa, che comincia ad essere contestata<br />

solo a partire da Hegel. Fino a Kant compreso, quelle idee sono accettate e<br />

difese; anzi sono trattate come i cardini di ogni sapere che voglia avere per<br />

oggetto la verità.<br />

Nessuno prima di Hegel mette in discussione l’idea che il movimento possa<br />

essere concepito anche in maniera diverso rispetto a quella fornita dalla fisica,<br />

nessuno prima di lui contesta il carattere veritativo attribuito a questa<br />

“scienza”. 416<br />

Il pensatore tedesco è il primo (in epoca moderna) ad avanzare una critica al<br />

moto meccanico. 417<br />

416 Anche gli empiristi che contestano la possibilità di conoscere direttamente la realtà (fino all’ “esse<br />

est percepi” di Berckeley) non mettono certo in questione quell’idea di movimento.<br />

417 E’ chiaro che egli, non disponendo dei concetti introdotti solo più tardi dalla Relatività, non può<br />

raggiungere il livello di definizione einsteniano. In particolare non può fruire del concetti di<br />

“spaziotempo” e di “evento”, che il quella teoria si enucleano; ma questo rende ancora maggior merito<br />

all’intuizione del filosofo tedesco. Egli in sostanza comprende la contraddittorietà dei concetti di spazio e<br />

tempo tradizionali, usando solo argomentazioni filosofiche, all’interno di un ambiente culturale che<br />

chiamava “leggi” le ipotesi di Newton.<br />

414


Dal canto suo, Einstein dimostra che non esiste il tempo assoluto. Come abbiamo<br />

già detto, la sua teoria afferma che ogni sistema di riferimento possiede un<br />

determinato tempo. Ciò significa che il tempo si determina in relazione ad altre<br />

grandezze. È per questo che cade il concetto di simultaneità, perché due eventi<br />

appartenenti a due diversi sistemi di riferimento non sono sincronizzabili in<br />

modo assoluto.<br />

In altre parole, due osservatori in moto relativo misurano il tempo in modo<br />

diverso perché sono vincolati alla velocità di propagazione della luce – “C” – e<br />

quindi ad uno sfasamento temporale che non permette la simultaneità. In questo<br />

modo vengono a cadere anche i concetti di “passato”, “presente” e “futuro”: se<br />

non c’è il tempo assoluto, se non c’è la possibilità di sincronizzare gli eventi<br />

secondo un’unica unità di misura, diventa impossibile anche stabilire relazioni<br />

temporali assolute. 418<br />

In particolare, secondo i risultati della teoria della relatività, si nota che il tempo<br />

si “dilata” o “restringe” in funzione della velocità del suo sistema di riferimento.<br />

Un discorso analogo può essere fatto per lo spazio, il quale sempre secondo<br />

Einstein, non è un assoluto rigido e immodificabile, ma viene stabilito nella sua<br />

struttura sempre dalla velocità del suo sistema di riferimento: quindi spazio e<br />

tempo dipendono da “C”.<br />

Ciò significa che il movimento non viene determinato da unità di misura assolute<br />

e separate, ma da un'unica grandezza quadridimensionale lo spaziotempo, che<br />

varia in relazione alla velocità della luce.<br />

E anche se non c’è alcun collegamento tra Hegel e Einstein le forme di movimento che essi elaborano<br />

hanno almeno una somiglianza: entrambi pensano che spazio, tempo e corpi non siano entità assolute<br />

(autonome e separate).<br />

Il limite della critica hegeliana è che essa si fonda sull’idea della soggettività assoluta, sull’idea cioè che il<br />

movimento sia sempre interno al “soggetto”; in questo modo – nonostante la profondità dell’intuizione<br />

dell’ Aufhebung – egli rimane prigioniero del paradigma moderno, perché sostituisce un assoluto ad altri<br />

assoluti, perché non si libera dei parametri cardinali di quella scuola di pensiero. Allora, la sua rimane<br />

una filosofia fondazionale e soggettivistica.<br />

D’altra parte, Hegel apre la strada alla possibilità delle critiche successive, egli mostra come sia del tutto<br />

plausibile dare del movimento un’immagine diversa da quella del mero spostamento.<br />

418 Non posso sapere, in linea di principio, se un determinato evento sia precedente contemporaneo o<br />

successivo ad un altro appartenente ad un diverso sistema di riferimento, perché i loro “tempi” sono<br />

diversi.<br />

415


Al di là dai tecnicismi della fisica, si coglie la portata rivoluzionaria che riveste<br />

questa teoria anche ai fini filosofici. Se si eliminano gli incondizionati (in<br />

particolare le unità di misura incondizionate) il concetto di corpo (e quindi di<br />

oggetto) cambia di conseguenza; non è più possibile configurarlo come una realtà<br />

indipendente e immodificabile rispetto al contesto di riferimento.<br />

Ecco perché usando la teoria della relatività possiamo scorgere tutti i limiti del<br />

concetto di “spostamento”. Il cambiamento di posizione nel tempo di un oggetto<br />

non è possibile in un sistema dove spazio e tempo non sono né assoluti ne isolati.<br />

Un corpo non può cambiare posizione nello spazio in un determinato tempo,<br />

perché appunto:<br />

- spazio e tempo non sono separati, cioè non possono essere misurati<br />

indipendentemente uno dall’altro – usando per di più due diverse unità di<br />

misura e due diversi strumenti di misurazione (così facendo si ottengono<br />

solo misure parziali e approssimative); 419<br />

- lo spaziotempo non è un assoluto, cioè non varia in modo uniforme e<br />

stabile;<br />

- lo spaziotempo non è indipendente da ciò che ad esso inerisce, quindi non<br />

è nemmeno separato dal corpo, ma costituisce con esso un unico sistema<br />

di termini correlati.<br />

Ed ecco anche perché il tipo di “relazione” che lega questi elementi cambia a<br />

seconda che si consideri il contesto (che potremmo definire) “classico”, o quello<br />

relativistico: nel primo gli oggetti “re-agiscono” l’uno all’altro nello spazio (con<br />

il quale non hanno alcun tipo di “complicità” 420 ), e nel tempo ( che evolve in<br />

modo del tutto autonomo). Nel secondo, essi sono inscindibilmente “ri-uniti” (nel<br />

senso che “sono” e “fanno” unità), sono momenti della stessa realtà.<br />

419 Quando lo si fa si ottiene solo una misura approssimata, utile in moltissime applicazioni, non la<br />

rappresentazione della dimensione cosmica. In altre parole, Einstein ha mostrato che lo spazio e il tempo<br />

di Newton (che corrispondono a quelli della metafisica) sono solo una astrazione teorica non la cifra<br />

della realtà.<br />

420 Nessun rapporto. Lo spazio appunto è solo un contenitore “esterno”; e qui torna la differenza vista in<br />

precedenza tra la relazione “contenuto-contenente” e quella tra “contesto” e “testo”.<br />

416


Lo “spaziotempo” e il “corpo” hanno il carattere del “raccoglimento” e non dell’<br />

“isolamento”. Il tipo di relazione che li coinvolge è di tipo “riflessivo” (ha la<br />

natura della “coniugazione”, o del “riferimento”), nel senso che essi sono aspetti<br />

dello stesso “evento”, legati tra loro come lo sono ad esempio le diverse forme di<br />

un verbo.<br />

Ciò significa che l’oggetto non è più una unità materiale contenuta all’interno di<br />

un contenitore spaziale (e temporale) ad esso “esterno”, ma diventa un insieme di<br />

“regioni” spaziotemporali (che coinvolgono anche il suo “contesto”).<br />

Il movimento allora non può più essere descritto come lo spostamento di una<br />

particella da un luogo ad un altro (perché appunto viene a mancare<br />

l’indipendenza dell’ “ente” corpo rispetto all’ “entità” spazio), ma potrebbe<br />

essere definito invece come una “traslazione dello spaziotempo”, cioè come una<br />

(continua) “trasformazione” spaziotemporale; esso quindi assomiglia più a un<br />

“mutamento” che a movimento locale, perché viene a mancare la “separazione”<br />

tra le grandezze che lo misurano.<br />

Non c’è più il cambiamento di posizione dell’oggetto in tempi diversi, ma un<br />

“avvicendarsi” di “regioni”, che conservano l’unità relazionale dei loro termini,<br />

grazie alla loro natura evenemenziale. 421<br />

421 Questa è la seconda grande critica, che abbiamo esaminato, rivolta all’idea di spostamento: da una<br />

parte Hegel che propone l’idea del movimento riflessivo del togliere e del contestuale mantenere,<br />

dall’altra Einstein che parla di spaziotempo.<br />

417


IX) La regione spaziotemporale<br />

A questo punto, per chiarire, è forse utile spiegare cosa intendiamo col termine<br />

“regione”. 422<br />

Il termine regione assume qui un significato parzialmente diverso da quello<br />

tradizionale, proprio in conseguenza dei discorsi svolti in precedenza a proposito<br />

dei concetti di evento e di relazione.<br />

Cominciamo quindi col darne una breve etimologia: 423 la parola viene dal latino<br />

“regione(m)” che significa “direzione”, “linea di confine” e poi “territorio”. 424<br />

Il concetto che viene espresso dal termine latino ha a che fare con ciò che è<br />

“retto”, ovvero ciò che procede (proviene, tende) in linea retta. Retto, lo abbiamo<br />

già detto, è ciò che si adegua alla norma, alla regula, e si contrappone a ciò che<br />

invece devia, non segue la norma e quindi è storto. 425<br />

Regio è la linea retta o il punto che si raggiunge in linea retta, il punto raggiunto<br />

da una linea tracciata per terra e per cielo. Può essere anche lo spazio compreso<br />

tra linee rette tracciate in sensi diversi; in questo caso le linee sono le frontiere e<br />

lo spazio compreso è la regione nel senso di “paese”, “territorio”.<br />

Regere fines infatti significa alla lettera “tracciare le frontiere in linea retta”. 426 È<br />

l’operazione che compie il sacerdote per la costruzione del tempio, o della città, e<br />

che consiste nel segnare sul terreno lo spazio consacrato.<br />

422 L’analisi che segue, comunque, non vuole fornire un’interpretazione del significato storico, o una<br />

etimologia corretta della parola, ma intende indicare, anche attraverso l’uso dell’etimologia, il senso nel<br />

quale essa viene qui impiegata.<br />

423 Per questa analisi ci siamo avvalsi del saggio, già citato, di E. Benveniste Il vocabolario delle<br />

istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino, 1976. Le definizioni dal latino sono invece tratte dal<br />

Vocabolario della lingua latina “IL”, Castiglioni-Mariotti, op. cit.<br />

424 La radice della parola, secondo Benveniste, è *reg di derivazione indoeuropea, da cui vengono<br />

anche i latini rex, rectus, rego.<br />

425 Contestualmente tale “rettitudine” assume anche un significato morale e poi giuridico, così diventa<br />

sinonimo di “giustizia”. Iustus e rectus sono infatti sinonimi. Sono coloro i quali si confanno alla norma.<br />

426 Cfr Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Editions Klincksieck, Paris 1979,<br />

pag 567<br />

418


Rex allora è colui che traccia la linea, cioè la via da seguire, chi incarna la<br />

rettitudine. Ma anche colui il quale divide il sacro dal profano, e quindi il giusto<br />

dall’ingiusto. È, in sostanza, il “principio” da seguire. Fissare la regola significa<br />

dare origine, e quindi in senso lato, essere origine della regola; ciò significa<br />

essere l’origine dell’ordine, cioè essere “principio”. 427<br />

La missione del re, prima del comando, è quella del fissare le regole, cioè di<br />

determinare ciò che è retto (e anche giusto). Egli è la fonte di legittimazione delle<br />

azioni dei cittadini, egli stabilisce le regole, ed è quindi il tutore della convivenza<br />

sociale. Egli è l’elemento che distingue e determina. Egli dà forma e rende<br />

evidente la struttura della società; cioè fissa i confini politici della regione, fa in<br />

modo che essa si distingua rispetto all’ “esterno”. Anche in questo senso il rex<br />

stabilisce le frontiere e traccia i confini. 428<br />

La regione è allora uno spazio definito, all’interno del quale esiste una certa<br />

omogeneità, uno spazio che si distingue da tutto ciò che lo circonda in virtù delle<br />

sue caratteristiche.<br />

In latino regio vuol dire innanzi tutto “direzione”, e poi “linea retta”, o “dalla<br />

parte opposta”; da cui “frontiera”, “confine” e successivamente “luogo”, “zona”,<br />

“regione”.<br />

La regione è il limite entro il quale si dà qualcosa, è ciò che determina il confine,<br />

il contorno, i tratti distintivi della cosa; in questo modo essa mostra la sembianza,<br />

l’aspetto che assume quel qualcosa; infatti, avere dei contorni dettagliati significa<br />

avere una fisionomia precisa. L’identità di una cosa, la possibilità di distinguerla,<br />

427 Le parole princeps e principium mostrano meglio la loro funzione “generatrice” (di regole e di<br />

ordine); lo abbiamo già visto in precedenza.<br />

428 La natura principiale, originaria che ha il rex, la si può intuire meglio se si avvicina il verbo rego al<br />

verbo orior che significa proprio sorgere, cominciare; ma anche “discendere”, “derivare”, (questi ultimi<br />

mostrano più chiaramente l’accezione del “provenire” o del “tendere”).<br />

L’accostamento tra i verbi rego e orior è possibile perché si è venuta a creare, nel corso del tempo, una<br />

affinità semantica; tanto è vero che secondo l’Ernout -Meillet i composti di rego, surgo e subrigo, col<br />

significato di alzarsi, drizzarsi, sono venuti a sostituire nella lingua latina proprio orior. Cfr Ernout-<br />

Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, op. cit. pag 567<br />

419


di riconoscerla, è data infatti dalla sua forma, dalla sua cornice, la quale ne fissa<br />

l’aspetto. Ciò che è indistinto, non ha sembianze definite, è sfumato.<br />

Allora dal nostro punto di vista, la regione fissa il limite, il confine all’interno del<br />

quale si verifica un determinato evento, o meglio è il limite dell’evento, e quindi<br />

in qualche modo, si identifica con l’evento.<br />

Ai nostri fini essa però non è più intesa solo in senso spaziale, ma<br />

“spaziotemporale”; cioè la regione ha natura spaziotemporale, e i suoi “confini”<br />

hanno di conseguenza un aspetto diverso rispetto a quello dei tradizionali confini<br />

territoriali, o più in generale spaziali.<br />

La regione è quadridimensionale, è un entità che si “estende”<br />

spaziotemporalmente senza che sia possibile separare (mentre è ancora possibile<br />

distinguere), 429 l’aspetto spaziale da quello temporale. I fenomeni, gli<br />

accadimenti, gli oggetti, sono composti spaziotemporali.<br />

L’evento spaziotemporale ha contorni e quindi sembianze quadridimensionali;<br />

cioè non solo fisiche, ma anche e contestualmente, temporali. 430 L’aspetto fisico<br />

dell’oggetto (la sua estensione) non è più sufficiente per dare un volto, un<br />

confine all’evento.<br />

Se si considera solo l’estensione sfugge l’evento e quindi sfugge la realtà (in<br />

questo caso, tutt’al più, se ne ricava una determinazione insufficiente,<br />

incompleta).<br />

Allora, considerare il solo aspetto spaziale della realtà è un modo improprio di<br />

trattarla e di rappresentarla. La sola estensione consente una trattazione parziale e<br />

astratta della cosa.<br />

Per meglio dire, si deve distinguere l’ “aspetto” (che noi definiamo “fisico”) della<br />

cosa dalla sua estensione, cioè dalle sue caratteristiche spaziali; e si dovrebbe<br />

cercare di considerare la sua realtà “spaziotemporale”. L’aspetto è l’insie me di<br />

429 Sulla diversa accezione del “distinguere” e del “separare” abbiamo già detto.<br />

430 Lo sforzo che deve essere fatto allora è quello di immaginare dei confini che non riguardino più la<br />

sola estensione, ma anche e contestualmente, il tempo. Si deve cercare di vedere una “regione” non solo<br />

spaziale ma spaziotemporale.<br />

420


spazio e tempo, è la manifestazione dello spaziotempo. La configurazione<br />

dell’evento deve tener conto di questa nuova dimensione “plurale”.<br />

Nell’evento si manifesta lo spaziotempo, i termini dell’evento non possono<br />

essere separati nella loro estensione senza tener conto della loro temporalità. In<br />

sostanza, non possono più essere considerati “oggetti”.<br />

Di conseguenza, la relazione tra gli elementi dell’evento non può più essere una<br />

“re-azione” che lega corpi isolati, ma deve essere concepita come “relazione<br />

spaziotemporale”.<br />

Ecco perché diventano cardinali i concetti di “regione” e di “evento”. La regione<br />

non è il luogo dove un insieme di oggetti separati possono stare immobili o<br />

spostarsi, possono entrare in relazione o stare autonomamente. Ma è un’entità<br />

spaziotemporale, in cui il tempo svolge un ruolo analogo allo spazio nella<br />

definizione dei suoi confini.<br />

Allora la realtà, dal nostro punto di vista, è un farsi continuo che coinvolge<br />

contestualmente tutti gli elementi in questione. Ciò significa, che dentro la<br />

regione cade il concetto di moto (e anche quello di quiete). Gli oggetti non<br />

possono spostarsi perché il tempo non è separato dallo spazio – abbiamo già visto<br />

che per la fisica il corpo che si muove possiede una certa velocità, che è data<br />

dallo spazio percorso nell’unità di tempo. Ma se le due unità di misura sono<br />

inseparabili, nel senso che condividono una stessa natura, diventa impossibile<br />

estrapolare una terza grandezza dal loro rapporto. Per descrivere il movimento si<br />

devono quindi cercare altre strade.<br />

Il concetto di moto allora è un modo improprio di descrivere il movimento, un<br />

modo che non tiene conto della natura unitaria dello spaziotempo. 431<br />

Le regioni (nel modo in cui le abbiamo descritte) costituiscono tutti i fenomeni<br />

della realtà, per questo diventa improprio parlare di “incontri” tra oggetti nella<br />

431 Questo è un altro motivo per il quale la fisica classica deve essere considerata una approssimazione<br />

inadeguata della Relatività: essa separa cose che dovrebbero rimanere “insieme”, separa artificialmente<br />

ciò che in realtà è unito; considera come autonomi e indipendenti termini appartenenti ad un’unica entità,<br />

confonde gli “aspetti del medesimo”, con grandezze isolate e autosufficienti.<br />

421


“stabilità” dello spazio e del tempo, diventa improprio parlare di “moto” dei<br />

“corpi”, perché la realtà assume una veste spaziotemporale e “regionale”.<br />

I fenomeni allora coincidono con tali regioni, o sono “successioni” di tali regioni,<br />

le quali mostrano, di volta in volta, determinati “aspetti” di quelli che venivano<br />

definiti oggetti (e dei loro contesti).<br />

Per questo possiamo anche paragonare la regione all’ evento. E di conseguenza,<br />

possiamo affermare che un oggetto non è qualcosa di unitario, stabile e continuo,<br />

separato dal suo contesto (almeno nel modo in cui questi aggettivi venivano<br />

intesi prima della Relatività), se non in funzione del suo carattere “regionale” ed<br />

“evenemenziale”.<br />

X) Regione ed evento<br />

È chiaro che la possibilità di descrivere le relazioni tra “enti” 432 a prescindere dal<br />

concetto di spostamento, è molto importante per il nostro discorso. Se è possibile<br />

affermare che non è necessario lo spostamento per mettere in relazione gli enti,<br />

diventa plausibile concepire la relazione come un raccoglimento di aspetti<br />

afferenti alla medesima cosa, o una manifestazione di termini solidali, invece che<br />

un “incontro” di “corpi” o di “oggetti” estranei.<br />

Se si può considerare il movimento come una maniera di rappresentare il<br />

mutamento, si ottiene come conseguenza la solidarietà degli elementi<br />

considerati.<br />

432 In questo caso il significato attribuito a tale parola è diverso da quello di “oggetto”. Si intende “la<br />

cosa” così come si manifesta, al di là delle caratterizzazioni scientifiche o filosofiche.<br />

422


A queste condizioni possiamo dire che non ci sono oggetti separati, presenti nello<br />

spazio, per un certo tempo, ma regioni di una relazione che si svolge come<br />

spaziotempo. E così risulta il carattere “unitario” e “solidale” della realtà.<br />

Il movimento allora può essere rappresentato anche come una “traslazione” di<br />

“piani” spaziotemporali, ognuno dei quali mostra un determinato aspetto del<br />

fenomeno, il quale pur essendo “un certo aspetto di qualcosa” ha il carattere della<br />

interezza, e della completezza, ed è comunque correlato sistematicamente agli<br />

altri “piani” (anche se “piano” è un termine inadeguato a descrivere il concetto di<br />

regione in virtù della sua connotazione euclidea). 433<br />

La relazione tra le regioni è allora profondamente diversa dalla relazione che si<br />

viene a porre tra le parti e il tutto (nella logica meccanica dell’intero come<br />

somma delle sue parti).<br />

Ogni volta che noi consideriamo una regione 434 abbiamo un tutto compiuto e<br />

pienamente significante (come è significante l’ente considerato nella sua<br />

interezza) che nello stesso tempo è legato alle altre regioni in modo solidale. Ciò<br />

implica che l’unità non si ottiene solo “in verticale”, a livello dei singoli enti<br />

(della loro presunta permanenza, durata), ma anche “in orizzontale”, a livello dei<br />

diversi termini costituenti la regione; 435 l’unità si ha sia e contestualmente in<br />

verticale e in orizzontale.<br />

L’unità è solidarietà “spaziale -temporale” (questo è l’effetto dello spaziotempo);<br />

così gli enti non sono “unitari” e “individuabili” al loro interno (concetto di corpo<br />

o di oggetto) e separati dal loro “esterno”, 436 perché la coesistenza<br />

spaziotemporale della regione assicura anche l’unità dell’elemento orizzontale: a<br />

433 L’immagine dei “siti” della “rete” che vedremo nel prossimo paragrafo è sicuramente più<br />

appropriata.<br />

434 Che può anche essere paragonata all’aspetto dell’evento, ma anche all’evento medesimo, di cui si<br />

parlava in precedenza.<br />

435 “Verticale” e “orizzontale” sono usati a titolo esemplificativo, al fine di dare una visione prospettica<br />

del discorso. Non dovrebbero quindi essere intesi nella loro sola accezione spaziale.<br />

436 In sostanza viene superata la rigida separazione tra interno ed esterno.<br />

423


titolo di esempio, si può dire che in qualsiasi “momento” considerato vi è l’unità<br />

orizzontale tra i termini costituenti quella regione, allo stesso modo in cui si<br />

ottiene l’unità verticale dell’ente nel tempo. Ancora, si può paragonare l’unità<br />

attribuita solitamente all’ente (oggetto) a quella che possiede la regione, quindi<br />

essa vale sia per il singolo ente (intra ente), che tra i diversi “enti” (o meglio<br />

“termini”) in una determinata regione.<br />

Una conseguenza notevole riguarda proprio la separazione “interno”-“esterno”;<br />

secondo la logica appena enunciata, si può distinguere un dentro e un fuori,<br />

(dell’ente) nella stessa misura in cui è concesso dividere tra un prima e un poi; se<br />

il prima e il poi ineriscono al medesimo ente, cioè sono configurabili come<br />

passato e futuro di quella cosa, allora anche l’interno e l’esterno mantengono tra<br />

loro lo stesso tipo di legame. Quindi non c’è separazione ma solo distinzione.<br />

All’ente che si estendeva nel tempo attraverso le scansioni temporali<br />

(mantenendo la sua autonomia rispetto al contesto), corrisponde la regione che si<br />

“estende” simultaneamente nello spazio e nel tempo, perché è spaziotempo. Non<br />

si dà più l’individualità fisica degli enti, ma essa è individualità regi onale,<br />

evenemenziale, spaziotemporale.<br />

Noi siamo abituati a considerare l’individualità del singolo ente, e la separazione<br />

tra enti, mentre seguendo tale prospettiva, dovremmo considerare l’unità<br />

dell’ente alla stessa stregua dell’unità della regione. Quest’ ultima, per intendersi,<br />

lega i diversi elementi da cui è costituita con lo stesso legame che si instaura tra i<br />

diversi momenti nella vita di ogni “singolo” “oggetto”. Si ha lo stesso tipo di<br />

relazione nella regione e tra le regioni; i termini della regione sono i suoi aspetti,<br />

allo stesso modo dei diversi momenti nella vita di un ente.<br />

Il cosiddetto oggetto e il suo contesto, allora, possono essere considerati come un<br />

insieme di aspetti correlati sia in senso verticale che in senso orizzontale.<br />

L’oggetto non può prescindere dal suo contesto, perché tra i due esiste una<br />

relazione di mutualità.<br />

Allora, ogni oggetto è testo del proprio contesto. Le due entità sono inseparabili<br />

proprio in ragione del fatto che la solidarietà si sviluppa allo stesso modo e<br />

424


contestualmente in orizzontale e in verticale. Quello che risulta è un reticolo<br />

dove ogni nodo è nello stesso tempo aspetto ed elemento della totalità, dove la<br />

relazione si sviluppa contemporaneamente in tutte le direzioni e per qualsiasi<br />

dimensione. 437<br />

Noi stessi ci concepiamo come enti che hanno una continuità nel tempo, che<br />

hanno passato presente e futuro, ai quali però è “estraneo” ciò che li circonda.<br />

Abbiamo visto che tale impostazione è conseguenza della separazioni postulate<br />

tra interno ed esterno, tra spazio e tempo, ecc.<br />

Secondo l’ottica evenemenziale, noi siamo “continui” e “stabili” non solo nel<br />

tempo ma anche nello spazio; o meglio, non c’è quel tipo di stabilità che<br />

pensiamo di avere nel tempo (quella postulata dalla metafisica), e nella stessa<br />

maniera, è falsa anche quella separazione che crediamo di avere rispetto a ciò che<br />

ci circonda. Il legame c’è nei due sensi ed ha la stessa natura (anche in virtù della<br />

inseparabilità dello spaziotempo; noi cioè siamo solidali a ciò che ci circonda).<br />

Allora, la persona è il suo “tempo” (passato, presente e futuro) nella misura in cui<br />

è il suo “spazio” (mondo). Col “mio tempo” ho lo stesso rapporto che ho con il<br />

“mio ambiente”. Il legame che mi lega a ciò che sono stato è lo stesso che mi<br />

relaziona al mio mondo. Esso è la cifra del mio stare al mondo. C’è lo stesso tipo<br />

di “complicità”, lo stesso tipo di “relazione”. Anche la persona è testo nel suo<br />

contesto. Testo-e-contesto sono spazio-e-tempo.<br />

Abitare il mondo implica molto di più della frequentazione e della presenza,<br />

implica “legame”, “raccoglimento”, e “condivisione”. Il mondo non è un oggetto<br />

esterno alla persona, ma tra loro c’è totale “solidarietà”. 438<br />

Dalle precedenti considerazioni risulta l’analogia tra l’idea di evento vista in<br />

precedenza e quella di regione. L’evento, come la regione, è un relazione mutua<br />

di aspetti (e il legame tra eventi, come abbiamo detto, possiede la stessa natura).<br />

Quest’idea di regione ci consente di concepire la relazione come un<br />

437 Per approfondire il concetto di rete rimandiamo al prossimo paragrafo.<br />

438 Tutto ciò verrà chiarito meglio in seguito quando ci tratteremo la cosa nel suo aspetto biologico.<br />

425


accoglimento di elementi tutti “afferenti” alla medesima realtà, ci consente di<br />

collegare termini senza bisogno di spostarli, e quindi ha caratteristiche analoghe<br />

a quelle dell’evento.<br />

Questo si intende per relazione spaziotemporale: un’unità dei fenomeni che vale<br />

contestualmente nei due sensi, e che tiene i termini della realtà uniti in solido,<br />

nelle loro diverse dimensioni.<br />

Ecco perché la realtà “muta” e gli enti non si “spostano”. Perché la coincidenza,<br />

l’unione del piano spaziale e temporale rende una astrazione del pensiero, una<br />

cosa “artificiale” lo spostamento.<br />

Certo il concetto di spostamento può essere impiegato abitualmente, sapendo<br />

però che esso non è la cifra della realtà, non riproduce, non dice, ciò che avviene<br />

in natura, ma è soltanto il frutto di un astrazione teorica. È un’approssimazione<br />

che funziona a livello pratico, che ha delle applicazioni importanti e utili. E lo<br />

stesso dicasi per i concetti di oggetto e di soggetto.<br />

In realtà, non c’è nulla di “oggettivo” e di “individuale” (nel senso moderno dei<br />

termini), ma per comodità possiamo continuare ad usare questi vocaboli. Il loro<br />

impiego è senz’altro conveniente (almeno per adesso), basta essere consapevoli<br />

che essi sono appunto concetti, parole a cui è stato attribuito un significato, non<br />

sono la rappresentazione della realtà, né la verità del cosmo.<br />

Ogni modello teorico (anche il nostro, ovviamente) ha natura linguistica, e non<br />

può prescindere da tale natura. Così le descrizioni proposte non sono in grado di<br />

raggiungere la cosiddetta realtà esterna, ma rimangono comunque all’interno<br />

dell’ambito linguistico.<br />

Ecco tutto quello che è implicato nelle locuzioni “solidarietà orizzontale” e<br />

“solidarietà verticale”: nel modello proposto rappresentano il modo di esprimere<br />

il “modo d’essere” della realtà evenemenziale. 439<br />

439 Facendo un passo indietro, possiamo esprimere lo stesso concetto tornando ad occuparci del nesso<br />

tra il concetto di movimento come “mutazione” e il modo della relazione come “mutualità”. Essi possono<br />

essere correlati perché la mutazione riguarda gli stessi termini che sono in relazione di mutualità<br />

(nell’evento).<br />

Si può dire che, in “orizzontale” si mostra la mutualità, in “verticale” la mutazione. Ma ciò che risulta è<br />

sempre lo stesso. Gli aspetti che si mostrano sono termini in relazione reciproca, essi possono figurare<br />

426


1) Premessa<br />

Secondo capitolo: il logos della rete<br />

Il contributo di Maturana<br />

Una via interessante per presentare la nostra idea di relazione viene dal concetto<br />

di rete; la rete infatti possiede un codice del tutto particolare. Vedremo che la sua<br />

topografia è totalmente diversa da quella di qualsiasi altro spazio; tanto che per<br />

sviluppare questo concetto è necessaria una revisione di tutti quei vocaboli che si<br />

usano in genere per definire l’estensione; anzi a rigor di termini, essa non ha<br />

nemmeno una estensione, non occupa uno spazio definito e determinato, non ha<br />

insomma le caratteristiche che generalmente si attribuiscono ai corpi e agli<br />

oggetti; ad esempio, la rete non ha interno ed esterno, non ha un centro e una<br />

periferia, non è nemmeno separabile in un insieme di parti. Essa quindi, lega gli<br />

elementi che la compongono in modo del tutto originale.<br />

Per affrontare il logos della rete abbiamo bisogno di una nuova topologia che<br />

tenga conto di tutte le cose dette in precedenza a proposito di evento e di<br />

relazione, di riferimento e di differimento, di contesto e testo, a proposito del<br />

movimento, della regione spaziotemporale, ecc.<br />

Questa nuova topologia potrebbe essere allora una “cronotopologia”, in virtù del<br />

fatto che nella rete non vale la tradizionale separazione tra spazio e tempo, e<br />

quindi le relazioni spaziali non possono essere isolate dalle relazioni temporali; i<br />

nel modo della mutazione (di evento in evento), oppure nella maniera della mutualità (nella loro relazione<br />

reciproca).<br />

La coniugazione raccoglie le forme o gli aspetti dello stesso che si trovano “mutuamente” legati. La<br />

“mutazione” può avvenire tra aspetti dello stesso che si trovano “mutuamente” in relazione. Tale<br />

mutazione ha l’aspetto dell’evento, e dell’insieme di eventi.<br />

427


nodi della rete sono in relazione spaziotemporale; o meglio, come vedremo, sono<br />

essi stessi relazioni spaziotemporali. Ecco perché il logos della rete configura<br />

un’idea di relazione lontana da quella usuale.<br />

Inoltre (e come conseguenza), la rete raccoglie i suoi elementi, stabilendo con<br />

essi rapporti di mutualità e di solidarietà.<br />

Ciò significa che dal concetto di rete si può ricavare un modo originale di<br />

rappresentare la regione spaziotemporale e l’evento. Esso allora, può essere<br />

usato, da un lato, come una buona esemplificazione delle affermazioni e delle<br />

argomentazioni viste sopra, dall’altro, come un’importante premessa alle cose<br />

che diremo in seguito. L’idea di rete, quindi, ci permette di collegare tra loro –<br />

proprio come in una trama reticolare! – le diverse parti dello scritto.<br />

Proviamo ad approfondire.<br />

II) “Cronotopologia” della rete<br />

La rete possiede alcune caratteristiche distintive:<br />

1) La rete è “a-centrata”: essa non si sviluppa da un centro a una periferia, in<br />

modo concentrico. Anzi, essa non ha un centro e una periferia; non è una<br />

struttura ordinata secondo schemi rigidi. Le relazioni al “suo interno” avvengono<br />

in modo spontaneo, non vincolate da nessun principio e da nessuna forza o potere<br />

(non c’è quindi il “centro” come luogo prioritario, non c’è una relazione di<br />

dipendenza tra centro e periferia, non ci sono condizioni di precedenza tra un<br />

luogo ed un altro).<br />

Non esiste nemmeno una struttura a prescindere dalle relazioni che si verificano;<br />

così sono queste ultime a determinare di volta in volta l’architettura della rete.<br />

2) La rete è “non-gerarchica”: viene superata la sequenzialità, tutti i nodi sono<br />

collegati tra loro, quindi ogni nodo può comunicare – interagire – con tutti gli<br />

428


altri. Non ce n’è uno più importante degli altri. Nessuno di essi occupa posizioni<br />

strategiche. Non ci sono quindi percorsi vincolati. Ogni elemento della rete è<br />

connesso con l’intero (direttamente o indirettamente), fa parte dell’intero e<br />

costituisce l’intero. La relazione che si viene a creare nella rete è olistica, non<br />

meccanicistica (e neanche organicistica). La sua struttura non è costituita da una<br />

somma di parti isolate e individuabili, rigide e definite, ma tra nodo e rete il<br />

rapporto è di reciprocità, nel senso che essi stanno in relazione di mutuo<br />

scambio: la rete esiste se e in quanto si stabiliscono delle connessioni; la rete<br />

esiste solo là dove sono in essere delle connessioni; d’altra parte le connessioni<br />

sono possibili solo in quanto esiste la rete. Di conseguenza, ogni connessione (e<br />

quindi ogni relazione), ha il carattere dell’evento. La rete è un insieme di<br />

relazioni che si manifestano come eventi. Ogni evento è la manifestazione della<br />

rete (quindi essa si dà in modo spaziotemporale).<br />

Il singolo nodo è in relazione (in “contatto”) con tutti gli altri nodi della rete<br />

(anche quelli molto “lontani nello spazio”), mentre la parte del meccanismo è in<br />

“contatto” solo con le parti circostanti. Ciò significa che il tipo di relazione<br />

esistente tra nodi è totalmente diverso dal tipo di relazione esistente tra parti<br />

fisiche. In questo modo, cambia anche il concetto di “luogo”: il luogo della rete è<br />

diverso dal luogo dello spazio. 440<br />

Ecco che emerge la somiglianza con la regione spaziotemporale: anch’essa è<br />

costituita da un insieme di termini tutti mutuamente collegati; così il concetto di<br />

“luogo” appropriato alla rete assomiglia all’idea di regione vista nei paragrafi<br />

precedenti.<br />

Nella rete non c’è spostamento perché la rete non è un’area fisica, non ha<br />

estensione spaziale. I siti non sono accostati o giustapposti come i luoghi<br />

geografici. La sua topografia è diversa da quella geografica, ed è diversa anche la<br />

sua topologia: la sua unità di misura non è la lunghezza; il suo riferimento non è<br />

l’estensione. Le relazioni reticolari sono spaziotemporali e si manifestano,<br />

avvengono nel modo dell’evento.<br />

440 Si deve precisare che “nodo” e “sito” vengono qui usati come sinonimi.<br />

429


3) La rete è non-spaziale (extra territoriale), non è legata ad una precisa<br />

posizione, non ha bisogno di riferimenti locali. I tradizionali concetti di vicino e<br />

di lontano non hanno più significato nel sistema reticolare. Il riferimento<br />

spaziale, geografico, topografico è superato. 441<br />

L’idea di posizione e di spostamento non hanno più cittadinanza nella rete. Un<br />

sito non ha una collocazione spaziale, ma solo “reticolare”; il sito cioè non è<br />

presente nello spazio fisico ma solo in rete. Ciò significa, che esso c’è senza<br />

avere una posizione fissa, stabile. Non è possibile quindi riprodurre i siti della<br />

rete come punti della carta geografica, perché essi non sono localizzabili tramite<br />

coordinate spaziali: il sistema degli assi cartesiani riproduce uno spazio diverso<br />

rispetto a quello reticolare. Tra spazio e cyberspazio vi è una discontinuità netta.<br />

4) La rete non è permanente, fissa, rigida. Le strutture materiali sono ritenute<br />

stabili, definitive. Esse hanno una e ben determinata forma, non modificabile. La<br />

rete non è caratterizzata dal possesso di una forma, ma dallo svolgimento di<br />

rapporti e relazioni, i quali sono mutevoli, flessibili, avvengono a prescindere dal<br />

possesso di una conformazione precisa. Anzi è proprio il verificarsi delle<br />

connessioni che rende visibile la rete, che dà forma alla rete.<br />

E anche questa caratteristica mostra la reciprocità tra la rete e i suoi nodi. Tra di<br />

loro esiste lo stesso rapporto che c’è tra testo e contesto: il nodo è il testo nel<br />

contesto della rete. Ogni sito è correlato sistematicamente agli altri siti.<br />

Interrompere una connessione non significa spostarsi nella rete, ma cambiare la<br />

sua morfologia. La rete è l’insieme delle connessioni attive, che muta<br />

continuamente; in altre parole, la rete è un insieme di eventi. 442 Ciò rivela<br />

441 Nella rete telematica, ad esempio, ci si connette alla velocità della luce, così il messaggio che il<br />

ragazzo invia al suo amico in rete può arrivare prima del “messaggio” che la madre dello stesso ragazzo<br />

gli sta inviando dalla cucina.<br />

La rete rispecchia l’idea di “cyberspazio” inventata da William Gibson. Essa però non è più solo un<br />

ingrediente dei romanzi di fantascienza, ma un concetto fondamentale per molte scienze. Essa è già una<br />

realtà in campo biologico, economico, tecnologico, ed è destinata ad avere molta importanza anche per la<br />

filosofia.<br />

442 Ad esempio, quando “navigo” non mi sposto in una superficie data che mi contiene, ma cambio,<br />

muto la conformazione della rete; cioè cambio i suoi confini, il suo aspetto.<br />

430


un’altra analogia col concetto di regione visto in precedenza: la rete è una<br />

regione costituita da una serie di nodi in relazione reciproca e dinamica, cosicché<br />

la sua struttura è in continua trasformazione (o meglio, si rinnovano<br />

continuamente gli eventi che la costituiscono).<br />

Le relazioni reticolari sono spaziotemporali, nel senso che si danno su regioni<br />

spaziotemporali nel modo dell’evento.<br />

5) Allora, la rete è un insieme di nodi correlati. Il nodo è un’entità prettamente<br />

relazionale, nel senso che non è costituito di materia. In linea di principio non<br />

occupa spazio. Il nodo è in funzione della relazione. Il nodo non può essere<br />

definito come “parte” della rete. Tra rete e nodi si crea una relazione diversa<br />

rispetto a quella esistente tra le parti e il tutto. 443<br />

Il nodo della rete non è come la parte della macchina perché la parte non può<br />

sussistere senza le altre parti, perde di senso. La parte è in sé insignificante,<br />

acquista senso solo all’interno dell’intero (questo del resto è il concetto di parte);<br />

a sua volta l’intero è tale solo come insieme di tutte le parti, ne mancasse anche<br />

solo una, l’intero non sarebbe più tale (ed esso ha sempre una ben determinata<br />

configurazione). Se manca una tessera del puzzle la figura non è compiuta,<br />

rimane un buco, che fa perdere significato a tutto il resto. Così, se manca un<br />

ingranaggio della macchina, essa non funziona. Ogni parte implica le altre parti.<br />

Ogni parte è in relazione costitutiva con l’intero. Ogni parte possiede una sua<br />

specifica “posizione”, ed è indispensabile all’intero.<br />

Tutto ciò in virtù di un principio fondamentale del pensiero moderno: la legge di<br />

associazione. Secondo questa massima ogni cosa, per quanto complessa, è<br />

scomponibile nei sui costituenti; quindi ogni cosa è composta da parti semplici;<br />

appunto, come si diceva, il tutto è l’insieme delle parti. E la relazione che si<br />

viene a delineare tra le parti, secondo il pensiero moderno (filosofico e<br />

scientifico), è di dipendenza: non può darsi il tutto senza ogni sua parte.<br />

443 Oppure quella tra ingranaggi nel “meccanismo”, o tra organi nell’ “organismo”.<br />

431


Collegato a questo c’è un altro principio fondamentale di questo sistema di<br />

pensiero: quello di causa efficiente. 444 Principio che come sappiamo è il<br />

fondamento del meccanicismo, perché consente di affermare che le relazioni tra i<br />

corpi sono necessarie.<br />

In questo modo di concepire il mondo, come sappiamo, un posto importante<br />

tocca anche al concetto di forza (introdotto molto più avanti), inteso come<br />

“potere efficiente”. Esso è per la meccanica ciò che la causa è per la filosofia,<br />

infatti è ciò che ha il potere di creare la relazione tra gli enti, o tra i fenomeni.<br />

I costituenti semplici della natura sono autonomi e quindi il mondo è<br />

parcellizzato e “frantumato”. Ma gli elementi che formano il mondo, in origine<br />

indipendenti, possono successivamente entrare in relazione proprio grazie<br />

all’azione della forza. 445<br />

Così, per la fisica moderna le relazioni tra fenomeni sono regolate dal principio<br />

di causa efficiente, e la relazione causale è possibile in virtù della trasmissione di<br />

una forza. 446<br />

Ma questo modo di concepire il mondo fa sorgere molti dubbi: come avviene la<br />

trasmissione di tale forza? È sufficiente il semplice contatto? O, è possibile la<br />

relazione a distanza? Soprattutto, cos’è questa forza?<br />

444 Anche questo come il precedente, introdotto da Leucippo (fondatore dell’atomismo greco) nel quinto<br />

secolo avanti Cristo. La sua idea era che ogni cosa fosse composta di atomi, cioè di parti indivisibili e<br />

incorruttibili (legge di associazione), che si muovevano nel vuoto; l’ordine del cosmo era garantito dalla<br />

sua struttura deterministica e causale.<br />

445 Due palle da biliardo, fino a quando non si toccano, non hanno nessun rapporto, sono enti “separati”,<br />

(atomici) la relazione si crea automaticamente col contatto, ed è costituita da una trasmissione – o da uno<br />

scambio – di forze. Il trasferimento dell’energia “contenuta” in una palla e ritenuta la “causa” dello<br />

spostamento dell’altra. Nel caso dei pianeti la spiegazione della relazione è ancora più oscura: il sole e i<br />

pianeti si attraggono senza contatto, si stabilisce cioè una sorta di relazione a distanza. Il sole riesce a<br />

trasmettere la forza rimanendo immobile nei confronti dei pianeti. Almeno, la palla trasferisce una “parte<br />

della sua capacità di spostamento” all’altra grazie all’impatto. Nel caso del sistema solare, la cosiddetta<br />

“forza gravitazionale” è in grado di propagarsi nel “vuoto”, e di dirigersi verso l’oggetto interessato<br />

“spontaneamente”. Ciò, effettivamente, ha del miracoloso (ma non bisogna dimenticare che il concetto di<br />

forza ebbe vasta diffusione nella magia rinascimentale).<br />

446 Kant sosteneva che la causa fosse un principio “sintetico a priori”, in buona sostanza, una legge<br />

indubitabile e costitutiva del mondo fenomenico. Newton pose il concetto di forza a fondamento delle sue<br />

leggi.<br />

432


Sappiamo ad esempio, che Hume negò il principio di causa; ed Hegel criticò<br />

radicalmente l’idea di forza, perché non credeva nella possibilità della sua<br />

trasmissione. 447<br />

Ecco da dove viene l’esigenza di cercare parti sempre più piccole per spiegare<br />

come sono formati gli enti, e da dove arriva la convinzione che sia la relazione<br />

causale ciò che muove l’universo. Ecco spiegata anche la necessità di trovare,<br />

nell’ordine:<br />

- il costituente ultimo e indivisibile della materia, ciò che venne definito<br />

“atomo”, 448 e che al tempo presente viene – senza consenso unanime – chiamato<br />

“stringa”: se ogni cosa è un composto, ci dovrà essere l’elemento semplice e<br />

originario, che consente la formazione di tutti gli altri. 449 Questa potrebbe essere<br />

definita come “modalità di associazione spaziale”<br />

- l’origine dell’universo; perché se gli enti sono in rapporto di causa e quindi<br />

derivano uno dall’altro si dovrà per forza scovare quello che li ha generati tutti<br />

(oggi chiamato “big bang”, secondo una teoria che lascia aperti però molti<br />

dubbi); 450 Qui il principio di associazione è legato al tempo.<br />

447 Allora, ricapitolando: principio di associazione, secondo il quale ogni ente è un composto di parti; e<br />

principio di causa, secondo il quale ogni ente trova la ragione del suo “movimento” (e più in generale<br />

della sua azione) grazie ad un impulso, endogeno o esogeno. In ogni caso le relazioni tra enti sono sempre<br />

“re-azioni” a stimoli ricevuti. Su questi principi sono fondate la filosofia e la scienza moderne.<br />

448 Ma oggi sappiamo che l’atomo è un sistema molto complesso, composto da un gran numero di forze<br />

e parti interagenti!<br />

449 L’alternativa infatti è la divisione all’infinito che crea però ingombranti paradossi, come mostrò già<br />

nell’antichità Zenone di Elea.<br />

450 Almeno Aristotele ammetteva oltre alla causa efficiente anche la causa finale. Distingueva tra il<br />

modo e il perché della relazione. Innanzitutto egli spiegava il perché: le cose entrano in contatto perché<br />

ognuna di loro ha un “luogo naturale” al quale tende. Il motivo del movimento è l’aspirazione a ritrovare<br />

la condizione originaria. Aristotele ipotizzava una relazione primigenia tra tutte le cose – il loro luogo<br />

naturale – ognuna aveva il proprio posto assegnato nel cosmo, e se per qualsiasi ragione veniva rimossa,<br />

era lì che essa voleva tornare. Il cosmo era, quindi, la configurazione necessaria del mondo, una sorta di<br />

ordine spontaneo (divino) del quale le singole cose facevano parte, e in funzione del quale si generavano<br />

le relazioni tra di esse.<br />

Di conseguenza, la causa efficiente serviva solo a spigare il modo della relazione.<br />

Per quanto oggi possa sembrare ingenua, questa idea è forse più plausibile di quella newtoniana che<br />

assegna al principio di causa efficiente un potere quasi taumaturgico (verrebbe da dire “alchemico”).<br />

Ai dubbi sorti nei confronti della teoria della gravitazione universale newtoniana risponde, come<br />

sappiamo, Einstein. Egli sostiene che il legame tra i pianeti e il sole non è provocato dalla forza<br />

gravitazionale che si propaga nel vuoto, ma i pianeti nelle loro orbite seguono rotte imposte dalla<br />

433


- il fondamento ultimo (l’Essere), e il legame necessario tra gli enti; (o la forma<br />

epistemica del sapere, il linguaggio in grado di funzionare veritativamente e<br />

universalmente, ciò che lega soggetto e oggetto, o in termini più attuali il legame<br />

tra la mente e il mondo ecc..).<br />

Altro principio fondamentale del pensiero moderno è quello della “ripetibilità”.<br />

Standardizzare gli elementi costitutivi del corpo consentiva una semplificazione<br />

nell’indagine su di esso. Lo sforzo cartesiano di ridurre lo spazio ad una<br />

formalizzazione geometrica (la geometria analitica) aveva l’intento di facilitarne<br />

lo studio. E la fisica grazie al piano cartesiano fece effettivamente un enorme<br />

balzo in avanti. 451<br />

morfologia dello “spazio”. In sostanza, secondo il fisico svizzero, si viene a creare una relazione<br />

reciproca (dovuta all’energia) tra superficie e massa (così fisica e geometria diventano discipline<br />

sovrapposte). Da un lato è la massa che impone una determinata configurazione allo spazio, dall’altro è la<br />

superficie così risultante che impone le traiettorie ai pianeti. L’esempio è quello di una palla di ferro<br />

appoggiata su di una di un tappeto di gomma. La palla provocherà una concavità sulla superficie, che<br />

influenzerà il movimento degli altri corpi sul tappeto. Ora, tale configurazione è sicuramente più vicina<br />

al concetto di cosmo aristotelico che all’idea cosmologica newtoniana, infatti, nella Relatività generale si<br />

sostiene che è la superficie cosmica a determinare la relazione tra le masse planetarie, cioè si sostiene<br />

l’idea di una sorta di relazione tra gli enti.<br />

Lo spazio (e il tempo) non sono più considerati dei contenitori neutrali e indipendenti rispetto ai corpi, ma<br />

viene teorizzata una loro relazione reciproca. Ciò in completo dissenso rispetto alle idee di Newton.<br />

Aristotele, indubbiamente, non era arrivato a tanto, però aveva intuito che la sola causa efficiente non<br />

poteva spiegare il perché di questa relazione; la sua causa finale era un tentativo di chiarire il motivo per<br />

il quale enti, in apparenza indipendenti, entrano in relazione. Ed il motivo era che essi “sono”, e non<br />

“entrano” in relazione, anche se questa non appare.<br />

451<br />

Insomma, l’idea che il mondo fosse un aggregato di parti semplici creava problemi al pensiero<br />

moderno, però aveva anche indubbi vantaggi.<br />

La parcellizzazione e la standardizzazione consentivano una infinita riproducibilità degli oggetti e quindi<br />

una loro indefinita produzione, e in base a questo principio si è sviluppata l’industria moderna:<br />

parcellizzare era economicamente conveniente. La rivoluzione industriale è figlia di questo modo di<br />

pensare e di operare. La riduzione del prodotto a standard definiti consentiva di costruire macchine di<br />

produzione in grado di ripetere le operazioni indefinitamente e sempre più velocemente. Il concetto di<br />

produzione artigiana, che consisteva nella produzione di pezzi unici, irripetibili venne subito<br />

abbandonato. L’uomo non era più il produttore della cosa, ma diventava il costruttore e il controllore<br />

della macchina, e soprattutto, il consumatore dei prodotti.<br />

La legge di associazione venne applicata anche nella filosofia politica. Lo stato nazionale sovrano, così<br />

come teorizzato da Hobbes, era proprio la trasformazione socio-politica delle leggi di associazione e di<br />

causa. Infatti lo stato era la somma di tutti i cittadini, e funziona in base a leggi necessarie, alle quali i<br />

cittadini stessi si devono conformare.<br />

Lo stato era il frutto di un contratto, un atto di volontà collettiva, quindi esso si costituiva in virtù di un<br />

accordo. Da questo punto di vista, esso non era diverso dalle macchine che l’uomo costruiva grazie alla<br />

sua tecnica. Lo stato era un prodotto dell’azione umana. Molto diversa era la concezione che gli antichi<br />

avevano della società. Essi consideravano la Polis come una forma naturale, come qualcosa di originario.<br />

L’uomo non aveva il potere di costruire lo stato, egli era socievole per natura e si trovava a convivere<br />

nella società naturalmente; cioè l’uomo antico non poteva violare le leggi della natura, ad esse egli si<br />

sentiva sottoposto. L’uomo moderno invece percepiva la natura come qualcosa da assoggettare, da<br />

434


Anche in questo caso però si notò col tempo che l’idea cartesiana di spazio era<br />

solo il frutto di un’astrazione teorica, non la scoperta di una verità cosmica; e<br />

questo grazie alle geometrie non euclidee e alla meccanica quantistica che hanno<br />

profondamente modificato e diversificato quel concetto di “spazio”.<br />

Ma la stessa rete rifiuta radicalmente lo spazio cartesiano (ed euclideo). Il sito<br />

della e nella rete non corrisponde assolutamente al punto del piano cartesiano,<br />

infatti come abbiamo visto, il sito non possiede proprio “posizione” in senso<br />

classico.<br />

Allora, è possibile distinguere tra la nozione di “posizione” (luogo fisico) e<br />

quella di “sito” (luogo telematico): la posizione è “permanente”, nel senso che<br />

rimane fissa, è “univoca” quindi possiede delle coordinate proprie e singolari,<br />

modificare a proprio vantaggio. Egli si sentiva costruttore della propria fortuna. Il concetto di Homo faber<br />

è tipicamente moderno.<br />

La teoria antica aveva affermato che lo stato esiste per natura. La teoria moderna, invece, affermava che<br />

lo stato era un prodotto dell’uomo. A questo proposito, non si deve confondere la polemica sulla natura<br />

umana che divise Platone ed Aristotele con la, apparentemente, medesima questione sorta tra Hobbes e<br />

Rousseau. Il problema si poneva su piani diversi: né Platone, né Aristotele avrebbero potuto considerare<br />

l’organizzazione sociale come qualcosa di dipendente della capacità creativa dell’uomo. Avevano<br />

sicuramente le loro preferenze sulla scelta della “migliore forma di governo”, ma per loro il rapporto<br />

uomo-comunità era fuori discussione. Mentre l’Emilio di Rousseau poteva vivere benissimo a<br />

prescindere dalla società; anzi per Rousseau il “contratto sociale” era solo una toppa che diventava<br />

necessaria dopo che l’uomo aveva perso la sua naturale purezza. E Hobbes sosteneva che gli uomini<br />

decidono per la coesistenza dopo aver sperimentato i pericoli e i rischi dell’originario “stato di natura”<br />

(dove gli uomini vivono isolati). In Hobbes e Rousseau è evidente l’idea che lo stato è una produzione<br />

dell’uomo e che, quindi, la convivenza in società è una scelta. Tanto è vero che, per loro, il diritto è<br />

positivo, le leggi vengono stabilite dall’organo sovrano (sia esso l’Assemblea o il Leviatano), mentre per<br />

gli antichi il diritto è un insieme di leggi di natura.<br />

Nel mondo moderno lo stato verrà paragonato o a un gigantesco meccanismo (dal razionalismo), o a un<br />

enorme organismo (dall’idealismo).<br />

L’uomo per l’economia e per la politica moderna è la parte semplice del tutto, sia esso il mercato o lo<br />

stato. Una parte del tutto standardizzata. Ogni parte, infatti, sottostà alle medesime leggi generali e<br />

astratte. L’uomo diventa una sorta di ingranaggio, e viene trattato come tale.<br />

La parte vale meno dell’intero, quindi è l’uomo ad essere in funzione dello stato (e del mercato) e non<br />

viceversa. Lo stato attraverso il principio di sovranità può imporre all’uomo determinati comportamenti,<br />

lo può “legittimamente”, o meglio legalmente, soggiogare.<br />

Queste teorie ebbero sicuramente degli aspetti positivi, perché consentirono di uscire dall’arbitrio e dal<br />

dominio della forza che caratterizzava la società medievale. Ma oggi esse mostrano tutti i loro limiti.<br />

Il potere dell’autorità sovrana, fa sorgere dubbi sulla sua legittimità, e ancora di più sulla sua utilità.<br />

Importante è, comunque, tenere presente che il principio di sovranità e la conseguente organizzazione<br />

politica basata sullo stato nazionale è solo il portato di un determinato sistema di pensiero – quello<br />

moderno – e non una necessità assoluta. Non è nemmeno la migliore organizzazione politica possibile,<br />

come dimostrano ampiamente le difficoltà nelle quali esso versa ai giorni nostri.<br />

Ecco che sui principi di causa e di associazione si fondò, possiamo dire, tutto il mondo moderno.<br />

(E’ interessante notare che nella lingua tedesca il potere coercitivo dello stato nei confronti del cittadino è<br />

definito come “gevelt” cioè come violenza, anche se, naturalmente, legittima! Implicitamente si ammette<br />

che il diritto pubblico è una sorta di “codificazione della violenza”, cioè esso è il modo in cui lo stato può<br />

usare legalmente violenza nei confronti del cittadino).<br />

435


(che permettono la sua ubicazione), è “estesa”, cioè “occupa” un determinato<br />

spazio. Il sito si avvicina di più al senso ideale del termine luogo (nel senso che<br />

luogo può significare anche “situazione”, “condizione”, “circostanza”), perché<br />

non occupa una posizione dello spazio, non possiede una collocazione fisica, per<br />

“essendo” nella rete. 452<br />

La relazione tra siti e tra di essi e la rete, è profondamente diversa rispetto a<br />

quella tra posti fisici nello spazio.<br />

Il nodo della rete è relazione con l’intero senza essere indispensabile all’intero<br />

stesso, quindi il singolo nodo non ha un carattere costitutivo. Esso non è un<br />

pezzo di materia che compone un insieme di pezzi. Il nodo è privo di qualsiasi<br />

proprietà materiale è privo di permanenza, ed è privo di sostanza, esso implica<br />

relazione; e per questo, col venire meno della relazione non sarà più presente<br />

nemmeno il sito. Però esso nella relazione possiede una sua fisionomia definita<br />

non dipendente dagli altri nodi, o dalle “parti” circostanti, contigue. Esso è un<br />

intero completo che ha la facoltà di relazionarsi con altri interi per dar vita ad<br />

insiemi più complessi. 453<br />

Quindi nel momento della sua esistenza – nell’evento in cui si svolge la relazione<br />

– il nodo è un che di completo, di “pieno”, che però esiste solo in virtù della<br />

relazione. Il nodo senza relazione non esiste perché è immateriale, ed<br />

evenemenziale (del resto, non bisogna mai dimenticare la reciprocità, che fa<br />

esistere la relazione in virtù della connessione tra i nodi).<br />

La parte invece esiste anche separata dal tutto – in assenza di relazione – perché è<br />

materiale, e perdurante nel tempo. Ma se isolata essa è incompleta e priva di<br />

senso. Nemmeno nel tutto materiale la parte singola ha significato, infatti la sua<br />

452 Ad esempio, l’indirizzo che permette di collegarsi al sito non coincide con le coordinate spaziali<br />

dell’istituzione o della persona corrispondente, piuttosto rappresenta la sua identità telematica. Si può<br />

accedere ad un sito da qualsiasi computer, nel senso che, ognuno può “entrare” nel proprio sito da<br />

qualsiasi parte del mondo, e usando qualsiasi computer. Ogni luogo fisico nel mondo può trasformarsi<br />

nella mia residenza telematica (pur rimanendo invariato il mio indirizzo elettronico). Ecco perché il sito<br />

non ha una unica ubicazione spaziale. Ad ogni sito in genere corrisponde una persona o una istituzione,<br />

ma tra l’uno e l’altra c’è una certa differenza.<br />

453 Ricorda in qualche modo il rapporto tra sistema psichico e sistema sociale in Luhmann.<br />

436


funzione dipende comunque dall’intero; 454 (mentre il nodo nella rete è<br />

significante, è completo).<br />

L’identità del sito dipende inoltre dalla sua natura evenemenziale, quindi esso è<br />

“differente” per ogni relazione che lo coinvolge. 455<br />

La rete non viene “modificata” dall’assenza di quel nodo, o dalla mancanza della<br />

relazione che coinvolge anche quel nodo. Essa si configurerà altrimenti<br />

rimanendo pur sempre rete. Proprio in virtù del fatto che non si fonda su di una<br />

struttura fissa, non possiede una forma fissa, o meglio le è estraneo quel concetto<br />

di struttura o di forma. La rete non è nulla di permanente, ma come ogni suo<br />

nodo ha carattere evenemenziale (ha una “cronotopologia evenemenziale”). Essa<br />

si dà nei modi e nelle forme delle relazioni che di volta in volta si manifestano.<br />

La sua struttura consiste nell’insieme astratto (non fisso) delle opportunità di<br />

relazione (comunicazione) possibili. Essa non implica un qualcosa di permanete;<br />

la rete non ha sostrato e non è sostrato nel senso aristotelico. Non è descrivibile<br />

ilemorficamente come sinolo tra una materia e una forma. La rete è polimorfica,<br />

multicentrica (o meglio a-centrica), e relazionale. 456<br />

Così la rete non si costruisce per aggregazione successiva di parti ma è formata<br />

da rapporti di mutualità. I nodi della rete non possono essere sommati, in quanto<br />

ognuno di loro non può ricevere nulla dagli altri che già non possegga, i nodi<br />

quindi possono essere solo correlati.<br />

Nella rete viene meno il concetto di materia come qualcosa di permanente.<br />

Per queste ragioni non vale più il principio di associazione: la cosa come insieme<br />

delle sue parti costituenti è un concetto “meccanico” non “reticolare”. Nella<br />

rete non è possibile scindere in parti, non ci sono funzioni e ruoli diversi che<br />

454 Ecco perché nel mondo moderno si sono affermate teorie (in ogni ambito del sapere, dalla filosofia,<br />

alla politica, fino all’economia) che sostenevano la superiorità del tutto rispetto alle sue parti. Teorie che<br />

hanno dato esiti funesti (basti ricordare i totalitarismi del ventesimo secolo).<br />

455 A proposito del concetto di “differenza” rimandiamo al paragrafo secondo del quarto capitolo.<br />

456 La relazione, osmotica, di reciprocità e compenetrazione, tra nodo e rete ricorda quindi la relazione<br />

tra “io” e “mondo”, che abbiamo visto nei paragrafi precedenti.<br />

437


contribuiscono a far lavorare il tutto. Il tutto del meccanicismo (ma anche il tutto<br />

metafisico) è completamente diverso dal tutto della rete.<br />

Inoltre, cambiano in rapporto ad essa anche i concetti di spazio e di tempo.<br />

Questi ultimi infatti, come abbiamo visto, non possono più essere considerati<br />

contenitori indipendenti rispetto al contenuto, ma entrano a far parte attivamente<br />

della relazione. Le connessioni infatti sono eventi spaziotemporali (così ognuna<br />

di esse avviene in regioni spaziotemporali omogenee). 457<br />

Le considerazioni fatte nei paragrafi precedenti a proposito del movimento e della<br />

mutazione, allora, ricevono un’implementazione chiarificatrice proprio grazie ai<br />

concetti di rete, e di nodo. L’idea di rete amplifica i concetti fin qui esposti, e può<br />

quindi essere usata come un esempio delle conclusioni tratte in precedenza. Ciò<br />

che succede nella rete mostra l’aspetto pratico della nostra teoria, aiuta a capirne<br />

le conseguenze.<br />

Così “rete” diventa un concetto filosofico, prima che uno strumento tecnico. Un<br />

concetto che permette di riconsiderare idee come quella di “tutto”, di “parte”, di<br />

“permanenza” e di “divenire” di “relazione”, di “luogo”, di “movimento”, di<br />

“tempo” e di “spazio”. 458<br />

457 Ciò significa, ad esempio, che la “navigazione” in rete perde le caratteristiche dello spostamento.<br />

Ogni relazione reticolare è un evento unico, come unici sono i termini che di volta in volta vi si<br />

manifestano.<br />

458 Si può aggiungere che anche la tecnologia fa uso di “strutture reticolari”. Strutture che stanno<br />

dimostrando una grandissima efficienza e versatilità. Strutture che, allo stato dei fatti, sembrano avere<br />

enormi possibilità di sviluppo, in ogni campo del sapere.<br />

438


III) La relazione in riferimento al nostro essere biologico<br />

Un altro modo interessante di considerare (e di esemplificare) la nostra idea di<br />

relazione viene dalla biologia. Abbiamo già trattato tale questione nella seconda<br />

parte, 459 ma adesso è il momento di tornarci in virtù delle cose dette nel<br />

frattempo.<br />

Qualsiasi epistemologia fa riferimento ad una determinata biologia. Noi<br />

conosciamo (e più in generale, siamo in relazione all’altro) attraverso il nostro<br />

organismo: cervello, sistema nervoso, organi di senso, ecc. Allora qualsiasi teoria<br />

della conoscenza (ma anche qualsiasi scienza che abbia per oggetto i rapporti tra<br />

l’uomo e il suo mondo) non può prescindere dal “dato” biologico. Noi viviamo in<br />

un mondo, siamo in relazione con esso praticamente dal momento del nostro<br />

concepimento. E l’unica via consentita per lo sviluppo di questa relazione è il<br />

nostro corpo (per quanto astratta, spirituale, possa diventare tale relazione in<br />

seguito, la base di essa è sempre organica). Così diventa determinante sapere in<br />

che modo esso può interagire con l’ambiente, e quali sono le vie che esso ha a<br />

disposizione per relazionarsi a ciò che lo circonda; infatti dalla sua struttura<br />

dipende la dinamica del suo essere in relazione.<br />

Si deve necessariamente anteporre una “interpretazione” sulla struttura e sulla<br />

organizzazione del cervello a qualsiasi teoria filosofica, e si deve disporre di una<br />

teoria biologica sui rapporti tra organismo e ambiente per poter sviluppare una<br />

teoria della conoscenza. 460 Ad esempio, che si pensi al soggetto come ad un<br />

recettore neutro della “realtà esterna” (con il cervello che quindi ha la funzione di<br />

459 Cfr il paragrafo 2 del capitolo sulla transazione “filogenesi e ontogenesi”.<br />

460 Anzi questa è una condizione necessaria per ogni scienza. Anche la fisica ad esempio non può<br />

prescindere da considerazioni di questo tipo: una scienza che fonda la validità delle proprie leggi sulla<br />

verifica empirica infatti, denuncia una precisa concezione del cervello e della sua capacità di interagire<br />

con l’ambiente. Sarebbe opportuno chiedersi invece se questa concezione possa essere assunta così<br />

liberamente. Ma questo è un altro problema.<br />

439


icevere stimoli “oggettivi” provenienti dal di fuori); 461 o che si pensi al soggetto<br />

come parte “attiva” nella elaborazione di questi segnali (ai vari livelli previsti<br />

dalle diverse teorie idealistiche) rimane comunque sullo sfondo una certo modo<br />

di intendere il “soggetto” (e quindi il suo cervello).<br />

Quando si affrontano argomenti come la natura umana, il mondo, l’alterità, la<br />

loro relazione, si denuncia sempre un certo tipo di approccio biologico. Non è<br />

possibile fare filosofia rimanendo neutrali su tale questione. Tanto è vero che, il<br />

realismo e l’idealismo si configurano, da questo punto di vista, in modo piuttosto<br />

netto.<br />

In sostanza, queste teorie filosofiche non hanno mai messo in questione<br />

l’indipendenza del cervello umano rispetto al suo ambiente; che “riceva” o<br />

“produca” esso è comunque considerato come una struttura autosufficiente<br />

rispetto a ciò che lo circonda. Il concetto di soggetto è fondato proprio su questa<br />

indipendenza. Ecco perché diventa importante investigare anche questo aspetto.<br />

Oggi molti studiosi mettono in dubbio la “rappresentazione” del cervello come<br />

organo neutrale nei confronti del mondo. Studi di biologia, di neurologia, di<br />

neurofisiologia, ecc. mostrano che tra ambiente e cervello ci sono costanti e<br />

complesse interazioni reciproche, tanto da interessare tutte le fasi della vita di<br />

una persona.<br />

La relazione organismo-ambiente viene da qualche tempo studiata sia a livello<br />

filogenetico che ontogenetico. Si sono scoperte mutue influenze e adattamenti,<br />

che non consentono più di dipingere il cervello come una macchina che elabora<br />

dati alla stregua di un calcolatore. Di conseguenza, si deve aggiornare anche il<br />

concetto di mente. Se cambia il modo di intendere la relazione organico-<br />

ambientale, diventa necessario rivedere anche il modo in cui funziona la<br />

razionalità umana.<br />

E un modo che sembra adeguato per descrivere la complessità dei rapporti<br />

organismo-ambiente sembra proprio quello offerto da Dewey. Egli imposta<br />

461 L’idea di riferimento in altre parole era quella meccanicistica: tra soggetto e oggetto si stabiliscono<br />

contatti quantificabili, determinabili con la massima precisione perché essi non subiscono durante il<br />

tragitto esterno-interno nessuna alterazione.<br />

440


questa relazione evidenziando la reciproca dipendenza tra questi termini. 462<br />

Organismo e ambiente sono per il filosofo americano il conoscente e il<br />

conosciuto; l’uso di questa terminologia mostra bene tale correlazione, perché<br />

non ci può essere un “conoscente” senza un riferimento necessario a ciò che<br />

viene “conosciuto”; e viceversa perché qualcosa possa essere definito<br />

“conosciuto” ci deve per forza essere un’entità “conoscente”. I due termini<br />

stanno uno in funzione dell’altro.<br />

Dewey è un filosofo che tratta della conoscenza, cioè del modo in cui l’uomo fa<br />

esperienza del suo mondo, e abbiamo già visto che il suo approccio<br />

all’argomento assomiglia a quello in cui lo stesso argomento viene trattato dal<br />

biologo Maturana.<br />

Infatti anche Maturana si interessa di conoscenza, anche la sua può essere<br />

definita “epistemologia” anche se affrontata in termini biologici. 463<br />

Abbiamo già mostrato che tra l’idea di transazione e quella di accoppiamento<br />

strutturale ci sono delle analogie. Esse riguardano soprattutto la reciprocità che<br />

viene assegnata alla natura del rapporto tra l’organismo e l’ambiente.<br />

Ovviamente, il taglio dato dallo studioso cileno è più tecnico, si riferisce in<br />

maniera più diretta all’aspetto biologico, egli tratta delle forme di vita<br />

unicellulari e pluricellulari in generale, delle quali ricostruisce compiutamente<br />

l’interazione col rispettivo ambiente, sia a livello ontogenetico che a quello<br />

filogenetico; il metodo di Dewey è più filosofico, e quindi più astratto, più<br />

attento cioè a considerazioni di carattere logico ed epistemologico.<br />

Resta il fatto che entrambi combattono contro qualsiasi forma di dualismo.<br />

Maturana infatti sostiene che: «Da un lato abbiamo la trappola costituita dalla<br />

supposizione che il sistema nervoso operi usando rappresentazioni del mondo.<br />

Ed è una trappola perché preclude la possibilità di renderci conto di come<br />

462 Sull’idea di mente esposta da Dewey ci siamo soffermati nella parte a lui dedicata.<br />

463 Anzi per questi autori diventa perfino difficile distinguere tra epistemologia e ontologia, perché a<br />

questo livello, il modo in cui l’uomo conosce il suo ambiente corrisponde al modo in cui egli si relaziona<br />

al suo altro, cioè in ultima analisi, corrisponde al suo modo di essere, e di esistere (e questo è l’unico<br />

“essere” che valga la pena di indagare).<br />

441


funziona il sistema nervoso nella sua azione di momento in momento, da sistema<br />

determinato con chiusura operativa 464 … Dall’altro lato abbiamo l’altra trappola,<br />

quella della negazione dell’ambiente circostante, della supposizione che il<br />

sistema nervoso funzioni completamente nel vuoto, per cui tutto vale e tutto è<br />

possibile. È l’estremo dell’assoluta solitudine o solipsismo». 465 E Dewey<br />

afferma: «Nel nostro procedimento generale d’indagine, osservato e osservatore<br />

non vengono affatto separati radicalmente così come invece si fa di solito in<br />

epistemologia…al contrario, osservatore e osservato vengono considerati tali da<br />

formare un unico organismo…Il nostro punto di vista consiste semplicemente in<br />

questo: dal momento che l’uomo, in quanto organismo, si è evoluto tra altri<br />

organismi in una evoluzione cosiddetta “naturale”, ci proponiamo di considerare<br />

per ipotesi tutti i suoi comportamenti non come attività esclusivamente sue, o<br />

anche solo come principalmente sue, ma come processi della situazione<br />

organismo-ambiente, nel suo complesso». 466<br />

L’obiettivo comune allora è proprio quello di superare tutte le teorie fondate su di<br />

una separazione ontologica tra l’uomo e il suo contesto – tra le quali vengono<br />

comprese (da entrambi) tutte le forme di realismo e di idealismo – e di mostrare<br />

invece quanto sia profondo il loro livello di integrazione e di reciprocità. 467<br />

464 Con l’espressione “chiusura operativa” Maturana si riferisce al modo di funzionare del sistema<br />

nervoso, il quale “è costituito in modo che, quali che siano i suoi cambiamenti,questi generano altri<br />

cambiamenti al suo stesso interno, e il suo operare consiste nel mantenere invariate certe relazioni tra i<br />

suoi componenti in risposta alle continue perturbazioni che producono in esso tanto la dinamica interna<br />

quanto le interazioni dell’organismo di cui fa parte. In altre parole, il sistema nervoso funziona come una<br />

rete chiusa di cambiamenti di relazioni di attività tra i suoi componenti”. Maturana, Varela, L’albero della<br />

conoscenza, op. cit. pag 145. “Chiusura operativa” è un concetto cardinale della proposta epistemologica<br />

di Maturana e riguarda sostanzialmente la capacità del sistema nervoso di mantenere l’equilibrio nelle<br />

relazioni tra organismo e ambiente attraverso la gestione di una complessa rete di aggiustamenti reciproci.<br />

465 H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag. 122<br />

466 J. Dewey, Conoscenza e transazione, op. cit. pag 124. “Osservatore” è uno dei termini che Dewey<br />

utilizza al posto di “soggetto”, mentre “osservato” è una delle definizioni usate per sostituire la parola<br />

“oggetto”. Ed è proprio dalla “separazione radicale” tra soggetto e oggetto che nasce ogni forma di<br />

dualismo. Ciò significa che, pur nella diversità di approccio, i due autori citati stanno combattendo la<br />

stessa battaglia.<br />

467 Non stiamo affermando che le tesi di Dewey e di Maturana sono sovrapponibili. Le differenze ci<br />

sono, e sono evidenti (anche se questo non è il luogo adatto per elencarle); nonostante questo, emergono<br />

442


Dewey parla addirittura di “un unico organismo” come risultato dell’evoluzione<br />

“naturale”, e Maturana osserva che le organizzazioni degli esseri viventi sono<br />

tutte variazioni di un unico percorso, all’interno di una processo di adattamenti<br />

reciproci tra loro e l’ambiente: “Tutti gli esseri viventi pluricellulari che<br />

conosciamo devono essere considerati come elaborate variazioni sullo stesso<br />

tema dell’organizzazione e della filogenesi della cellula” e “l’accoppiamento<br />

strutturale è sempre reciproco: organismo e ambiente subiscono entrambi<br />

trasformazioni”. 468<br />

Una conseguenza notevole derivante da queste posizioni, è che entrambi negano<br />

l’esistenza di relazioni di causa-effetto tra organismo e ambiente. Per Maturana è<br />

l’osservatore esterno che si immagina tali relazioni, mentre ogni organismo sta in<br />

accoppiamento strutturale col suo ambiente attuando una chiusura operativa in<br />

ogni sua azione. In altre parole, l’organismo registra sicuramente le perturbazioni<br />

ambientali, ma (finché rimane in vita) si adegua ad esse curandosi<br />

esclusivamente di mantenere il suo equilibrio interno. Ci sono molteplici<br />

esperimenti che dimostrano come l’ambiente non sia assolutamente un insieme di<br />

enti oggettivi che l’organismo percepisce in modo neutrale (non ci sono oggetti<br />

in natura che il soggetto vede come essi “realmente” sono). Se si modificano<br />

determinate condizioni organiche cambierà anche la risposta dell’organismo allo<br />

stimolo “esterno”: quindi l’ambiente non agisce sull’organismo come la causa<br />

col suo effetto.<br />

Ciò che l’organismo percepisce è il frutto di un adattamento reciproco:<br />

l’organismo è descrivibile come un sistema chiuso che tende alla propria<br />

conservazione (quindi non in contatto diretto con l’esterno: concetto di “chiusura<br />

operativa”), pur avendo costruito con l’ambiente una sorta di comunione, nel<br />

corso della storia, basata su scambi e adattamenti reciproci (“accoppiamento<br />

molte analogie nella loro comune battaglia contro il dualismo soggetto-oggetto. Analogie interessanti per<br />

il concetto di relazione che stiamo esponendo.<br />

468 E più avanti aggiunge: «La presenza di questo elemento comune nell’organizzazione di tutti gli<br />

organismi non interferisce con la ricchezza della loro diversità poiché questa dipende dalla variazione<br />

strutturale. Inoltre esso ci permette di vedere che tutta la variazione avviene attorno ad un modello<br />

fondamentale». H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag 84 e 89.<br />

443


strutturale”). Così descrive la situazione Maturana: «Come osservatori abbiamo<br />

distinto l’unità, che è l’essere vivente, dal suo sfondo e l’abbiamo caratterizzata<br />

con una organizzazione determinata. Con ciò abbiamo deciso di distinguere due<br />

strutture che vanno considerate operativamente indipendenti l’una dall’altra,<br />

essere vivente e ambiente, fra le quali si realizza una congruenza strutturale<br />

necessaria. In tale congruenza strutturale una perturbazione dell’ambiente non<br />

contiene in sé la specificazione dei suoi effetti sull’essere vivente, ma è questo<br />

con la propria struttura che determina il suo stesso cambiamento in rapporto alla<br />

perturbazione. Tale interazione non è istruttiva perché non determina quali<br />

saranno i suoi effetti. Abbiamo usato di proposito l’espressione “innescare un<br />

effetto” proprio perché vogliamo riferirci al fatto che i cambiamenti prodotti<br />

dall’interazione tra essere vivente e ambiente sono innescati dall’agente<br />

perturbante e determinati dalla struttura del perturbato. Lo stesso vale per<br />

l’ambiente, per cui l’essere vivente è una fonte di perturbazioni e non di<br />

istruzioni”. 469<br />

Da questo punto di vista, è proprio grazie alla chiusura operativa che è possibile<br />

individuare qualsiasi organismo; cioè l’identità individuale non è qualcosa di<br />

sostanziale, ma qualcosa di funzionale. L’organismo non è un ente autonomo in<br />

virtù della sua soggettività, ma per il fatto che l’insieme delle sue funzioni<br />

costituiscono un sistema (chiuso) in grado di adattarsi alle perturbazioni<br />

ambientali. E la particolare struttura organica che svolge tali funzioni,<br />

corrisponde all’essere vivente in questione. Bisogna aggiungere che tale<br />

adattamento è possibile proprio grazie all’accoppiamento strutturale, cioè grazie<br />

a quella infinita storia di relazioni reciproche che si riverbera nella filogenesi.<br />

Allora, ad un certo livello (quello operativo) abbiamo la distinzione (mai<br />

separazione) tra organismo e ambiente, ad un altro (quello strutturale) c’è<br />

congruenza. La loro differenza sta nella loro autonomia operativa, che però è<br />

inconcepibile senza il loro comune riferimento strutturale. Tutto ciò non permette<br />

di considerare i loro rapporti come relazioni di causa-effetto.<br />

469 H. Maturana F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag 93<br />

444


Se cambia il modo di intendere queste due entità, si modifica di conseguenza<br />

anche il loro modo di stare in relazione. Al “naturale” isolamento subentra una<br />

“naturale” solidarietà tra questi elementi. E, come abbiamo cercato di mostrare<br />

nei paragrafi precedenti, elementi solidali si relazionano in modo diverso rispetto<br />

ad elementi separati.<br />

Ciò significa che l’idea della mutualità, difesa da questi pensatori, porta a<br />

concepire un diverso tipo di relazione. In altre parole, sulla scorta delle loro<br />

speculazioni, cambia il concetto stesso di relazione.<br />

Allora, la vicinanza che si ravvisa tra Maturana e Dewey sta, da un lato, nella<br />

discontinuità tra la loro e la concezione moderna, dall’altro nel modo che essi<br />

adottano per superarla. Che si tratti di accoppiamento strutturale o di transazione<br />

rimane il tentativo comune di oltrepassare il dualismo attraverso una nuova<br />

concezione dei rapporti organico-ambientali, fondata su una loro costitutiva<br />

mutualità.<br />

Si può cogliere, allora, una sostanziale somiglianza nella qualità e nel tipo di<br />

relazione che entrambi pensano esistere tra organismo e ambiente. 470<br />

Ora quindi si tratta di tornare a considerare la questione della relazione, tentando<br />

di collegare le cose dette a proposito di Dewey e Maturana (anche nel terzo<br />

capitolo della seconda parte), con le altre sostenute in questo scritto.<br />

Per fare ciò tentiamo di mostrare le analogie esistenti tra la nostra idea di rete, e<br />

quella del biologo cileno (nei prossimi due paragrafi), e di legare infine tutto<br />

attraverso i concetti di evento e relazione che abbiamo esposto in precedenza (nel<br />

quinto e nel sesto paragrafo).<br />

470 Ed è proprio sullo spunto offerto da teorie come queste che si sviluppa il presente scritto.<br />

445


IV) Il concetto di rete applicato al sistema vivente<br />

Maturana usa sovente nei suoi scritti l’idea della rete. In particolare egli usa la<br />

metafora della rete sia per rappresentare il sistema nervoso, sia, più in generale,<br />

per raffigurare il sistema vivente in relazione al suo ambiente. Visto che di questa<br />

idea ci siamo occupati in un paragrafo apposito, possiamo ora approfondire il<br />

discorso.<br />

Egli sostiene che il sistema nervoso è paragonabile ad una rete nella quale le<br />

arterie principali rimangono immutate (la configurazione è quasi sempre la stessa<br />

per ogni membro della stessa specie), mentre cambiano incessantemente le<br />

diramazioni locali; 471 in altre parole, la macrostruttura rimane costante nel corso<br />

della vita dell’organismo, mentre cambiano le disposizioni dei contatti sinaptici<br />

tra neurone e neurone (ma può variare anche il numero stesso delle sinapsi). 472<br />

Quindi l’organizzazione del sistema nervoso rimane sostanzialmente inalterata<br />

per tutto il corso della vita dell’essere vivente, cambia invece la sua struttura a<br />

livello locale. Non si pensi però che queste variazioni abbiano un importanza<br />

marginale. Anzi, da esse dipende l’efficacia del funzionamento del sistema nel<br />

suo complesso; del resto, i messaggi tra neurone e neurone sono trasmessi<br />

proprio grazie all’attività chimica delle sinapsi. Si è notato, ad esempio, che la<br />

differenza tra un grande pianista e una persona che non ha alcuna conoscenza<br />

musicale, sta proprio nella conformazione e nella diffusione delle sinapsi in<br />

alcune aree della corteccia cerebrale; ciò significa che tutte le differenze tra<br />

individui della stessa specie, riguardo alle loro facoltà mentali, si determina<br />

proprio a livello della struttura locale e periferica del suo cervello.<br />

Così si esprime Maturana: «Si può dire che il cambiamento strutturale del<br />

sistema nervoso non si verifica generalmente mediante modificazioni radicali<br />

471 Il sistema nervoso è un reticolo chiuso di elementi neuronali (neuroni, effettori e recettori) attivi e in<br />

interazione tra loro, che sono dal punto di vista strutturale componenti cellulari dell’organismo.<br />

H. Maturana, Autocoscienza e realtà, Raffaello Cortina Editore, 1993, pag. 99<br />

472 Questa del resto, è un opinione diffusa tra neurologi, neurobiologi e neurofisiologi.<br />

446


delle sue grandi linee di connessione. Queste, in generale, sono invarianti e di<br />

solito sono le stesse in tutti gli individui della stessa specie…Dove si realizzano<br />

allora i cambiamenti strutturali se non sono a carico delle grandi linee di<br />

connessione? La risposte è che avvengono non nelle connessioni che uniscono<br />

gruppi di neuroni, ma nelle caratteristiche locali di tali connessioni. Avvengono<br />

cioè a livello delle ramificazioni finali e delle sinapsi. In queste sedi i<br />

cambiamenti molecolari portano a modifiche nell’efficacia delle interazioni<br />

sinaptiche, che possono influenzare drasticamente il modo di operare delle grandi<br />

reti di neuroni». 473<br />

Allora, il sistema nervoso è una rete che mantiene la sua organizzazione e le sue<br />

arterie principali, ma è in continua trasformazione a livello locale, ed è proprio<br />

questa trasformazione locale a decidere del suo livello di operatività. Sono cioè le<br />

relazioni che avvengono localmente a decidere della qualità e dell’efficienza<br />

complessiva della rete. La quale quindi non è una struttura fissa ma in continuo<br />

cambiamento. Ed è notevole che essa riesca a specializzare le parti che vengono<br />

stimolate, cioè quei settori che sono maggiormente attivi.<br />

Tale rete è quindi paragonabile a un sistema che non solo riesce a mantenere il<br />

proprio equilibrio interno, ma che addirittura riesce a specializzare le parti<br />

maggiormente coinvolte nella sua attività. In altre parole, la ripetizione dei<br />

contatti sinaptici in una certa zona innesca una azione di adattamento che porta<br />

ad un incremento della loro efficienza. Ecco perché alcune zone della corteccia<br />

del pianista sono più sviluppate di quelle della persona comune.<br />

Tutto ciò avviene in una situazione di chiusura operativa; quindi la rete non è in<br />

relazione diretta con l’ambiente: certo, essa riceve perturbazioni ambientali, ma<br />

queste vengono interpretate come segnali che interferiscono con l’equilibrio<br />

interno, ai quali il sistema cerca di adattarsi cercando di preservare il suo<br />

equilibrio. Allora, per un verso il sistema nervoso è in relazione con l’ambiente,<br />

tanto che quest’ultimo provoca nel primo continui cambiamenti strutturali,<br />

dall’altro il sistema nervoso interpreta in maniera autonoma le perturbazioni<br />

473 H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag 148<br />

447


ambientali; cioè non ci sono relazioni di causa-effetto tra i due. «Qualsiasi<br />

perturbazione del medium che investa l’organismo sarà una perturbazione<br />

strutturale del sistema nervoso, non un input alla sua dinamica di stati. Se questa<br />

dinamica cambia, è grazie al fatto che la struttura del sistema nervoso cambia in<br />

maniera contingente con la perturbazione, e non perché esso ammetta un input<br />

nel proprio funzionamento». 474 Tra organismo e ambiente non c’è né completo<br />

isolamento, tanto che le perturbazioni ambientali vanno ad incidere sulla struttura<br />

stessa del sistema nervoso; né relazioni di dipendenza diretta, dal momento che le<br />

perturbazioni ambientali vengono sempre mediate dall’organismo. Del resto,<br />

nemmeno l’organismo può intervenire direttamente sull’ambiente. La sua azione<br />

avviene, come si diceva, in chiusura operativa, quindi senza possedere alcun<br />

nesso causale sulle eventuali modificazioni ambientali. «L’organismo nel suo<br />

funzionamento non agisce su un ambiente, né il sistema nervoso, nel generare il<br />

comportamento adeguato dell’organismo, opera in base ad una rappresentazione<br />

dell’ambiente. L’ambiente esiste solo per un osservatore, e dunque è un<br />

fenomeno riguardante l’agire linguistico». 475<br />

Come si diceva sopra è errata sia l’immagine offerta dall’idealismo che quella<br />

offerta dal realismo. La chiusura operativa del sistema consente l’autonomia<br />

nella gestione delle perturbazioni, pur essendo sicuramente influenzato da queste<br />

(le perturbazioni non hanno carattere istruttivo): il modo in cui si implementano<br />

le relazioni organismo-ambiente (grazie al sistema nervoso) è governato dal loro<br />

accoppiamento strutturale; per questo motivo diventa improprio separare una<br />

realtà interna da una esterna.<br />

La rete quindi gode al livello operativo di un’autonomia funzionale e<br />

morfologica, che è la condizione della sua capacità di adattamento e quindi della<br />

sua stessa sopravvivenza. «La cosa migliore è quindi riconoscere al sistema<br />

nervoso lo status di unità definita dalle sue relazioni interne, sulle quali le<br />

474 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 99<br />

475 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 100<br />

448


interazioni agiscono solamente modulando la dinamica strutturale, come in una<br />

unità con chiusura operativa. Detto con altre parole, il sistema nervoso non<br />

“prende informazioni” dall’ambiente, come spesso si sente dire, ma al contrario<br />

governa la situazione determinando quali configurazioni dell’ambiente sono<br />

perturbazioni e quali cambiamenti esse provocano nell’organismo. La metafora,<br />

tanto usata, del cervello come elaboratore è non solo ambigua ma completamente<br />

errata». 476<br />

Il sistema nervoso, concepito come una rete, può mantenere la sua autonomia<br />

senza che siano pregiudicate le sue relazioni con l’ambiente. Esso è in grado di<br />

rispondere alle sollecitazioni ambientali sia innescando le opportune funzioni, sia<br />

modificando la sua struttura. Ciò significa che ogni individuo ha il suo cervello, e<br />

quindi ogni individuo è il risultato di un ben determinato processo ontogenetico;<br />

l’accoppiamento strutturale tra ambiente e organismo realizza un sempre diverso<br />

modo di stare e di vivere la loro relazione.<br />

Il fatto che Maturana escluda la possibilità di rappresentare il reale come una<br />

composizione tra un interno (organico, mentale, spirituale, ecc.) e un esterno<br />

(mondo, materia, ambiente, ecc.) non è privo di conseguenze.<br />

Una di queste è proprio il concetto di rete, con il quale si può oltrepassare tale<br />

dicotomia. L’idea di rete infatti permette di configurare una realtà che non sia né<br />

una versione del dualismo, e neanche una del monismo. Attraverso questo<br />

concetto il biologo cileno infatti intende superare sia il rappresentazionismo che<br />

il solipsismo (come lui li definisce).<br />

La rete è una struttura che può operare in autonomia – grazie alla sua chiusura<br />

operativa – senza essere isolata dal suo contesto – in virtù dell’accoppiamento<br />

strutturale, che caratterizza la relazione organismo-ambiente.<br />

Mentre le ipotesi formulate dalle varie teorie idealistiche (ma anche da quelle<br />

realistiche) portano necessariamente ad una disgiunzione tra la mente e il mondo,<br />

476 H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag 149<br />

449


in quanto fondate su un idea di separazione ontologica (separazione sostanziale e<br />

definitiva tra soggetto e oggetto). 477<br />

La proposta di Maturana riformula radicalmente le modalità attraverso le quali<br />

può darsi la relazione uomo-mondo, ricorrendo proprio ai concetti di rete,<br />

chiusura operativa, accoppiamento strutturale e autopoiesi. In questo modo, egli<br />

può “camminare sul filo del rasoio” che divide il soggettivismo dal realismo.<br />

Il biologo cileno riesce così a salvare anche la congruenza tra uomo e ambiente<br />

senza dover abbracciare nessuna di queste scuole di pensiero: «La ricchezza<br />

plastica del sistema nervoso non risiede nel fatto che esso conserva<br />

rappresentazioni “schematiche” delle cose del mondo, ma piuttosto nel fatto che,<br />

nella sua continua trasformazione, resta congruente con le trasformazioni<br />

dell’ambiente come risultato dell’influenza di ogni interazione». 478 La<br />

congruenza tra l’uomo e il suo ambiente non è data né dalla ricezione passiva di<br />

messaggi provenienti da fonti esterne, né dalla elaborazione (“idealistica”) di<br />

questi messaggi, ma è il risultato della flessibilità operativa e strutturale della<br />

rete, nel suo continuo rapportarsi all’ambiente. E ciò vale sia a livello<br />

ontogenetico che a quello filogenetico; nel senso che, la deriva filogenetica del<br />

sistema nervoso è la storia dei suoi continui adattamenti all’ambiente, i quali si<br />

implementano e aggiustano in ogni momento della sua ontogenesi.<br />

La rete adatta la propria struttura per ogni perturbazione ricevuta, per ogni<br />

interazione che la coinvolge. La sua flessibilità consiste proprio in questa<br />

dinamica, che è quindi la condizione della sua sopravvivenza. Questo però<br />

significa che il sistema nervoso (visto come rete) cambia per ogni singola<br />

interazione che lo vede coinvolto. E di conseguenza ogni essere umano cambia<br />

ad ogni sua esperienza, cioè per ogni sua interazione con l’ambiente.<br />

In questa dinamica consiste la nostra capacità di adattamento. La persona allora<br />

non è un’entità stabile e permanente, ma una sorta di collezione di relazioni.<br />

477 Da Kant che separa la realtà fenomenica da quella noumenica e considera il mondo come un’idea<br />

della ragione, fino a Hegel che teorizza l’assolutezza del soggetto.<br />

478 H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag 151<br />

450


«Non c’è interazione né accoppiamento che non abbia effetto sul funzionamento<br />

del sistema nervoso come risultato dei cambiamenti strutturali che provoca in<br />

esso. Noi stessi, in particolare, veniamo modificati da ogni esperienza, anche se a<br />

volte i cambiamenti non sono completamente visibili». 479<br />

La raffigurazione del soggetto come ente stabile e permanente viene<br />

completamente ribaltata. Ci troviamo cioè di fronte ad un modo di trattare la<br />

relazione io-mondo molto simile a quella presentata in questo scritto. Ogni<br />

autocoscienza è il risultato di una storia particolare, di una deriva filogenetica che<br />

somma momenti di continuità e momenti di discontinuità con le altre derive<br />

filogenetiche. Ogni ontogenesi condivide con la sua specie una comune deriva<br />

filogenetica, la quale però dà ampi spazi di discrezionalità nella configurazione e<br />

nella realizzazione delle diverse ontogenesi.<br />

L’individuo non è identificabile esclusivamente col proprio organismo, ma è una<br />

particolare organizzazione reticolare che accoppia in modo, in parte, sempre<br />

originale e innovativo, un organismo col proprio ambiente. Del resto, né<br />

l’organismo né l’ambiente sono enti dati una volta per tutte, né l’organismo né<br />

l’ambiente sono cose oggettive, permanenti, che ogni osservatore non può che<br />

cogliere allo stesso modo.<br />

Ciò significa, che tale relazione si realizza in ogni istante; o meglio, la relazione<br />

si costituisce di volta in volta tra un certo organismo e un certo ambiente.<br />

L’immagine che risulta è allora proprio quella di una rete di nodi intrecciati dalla<br />

quale scaturisce di volta in volta una particolare relazione. A sua volta,<br />

l’organismo è un insieme determinato di nodi, che sta in relazione di reciprocità<br />

con la rete che lo comprende. L’individuo può anche essere definito allora come<br />

una rete di reti.<br />

479 H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag 150<br />

451


V) Il concetto di rete applicato alla la relazione tra sistema<br />

vivente e ambiente<br />

È evidente allora che l’idea della rete, utilizzata per rappresentare il sistema<br />

nervoso, può essere applicata anche alla descrizione delle relazioni tra il sistema<br />

vivente e il suo ambiente: «Ogni sistema vivente è ad ogni istante, così com’è e<br />

la dove si trova, un nodo in un reticolo di derive ontogenetiche che coinvolge<br />

necessariamente tutte le entità con cui esso interagisce nel dominio in cui è<br />

costruito dall’osservatore nella sua prassi. Di conseguenza, un osservatore come<br />

sistema vivente può distinguere un’entità solo come nodo del reticolo di derive<br />

co-ontogenetiche cui essa appartiene e con cui è accoppiata strutturalmente». 480<br />

In questo passo Maturana spinge l’analogia tra sistema vivente e rete molto a<br />

fondo. Egli sostiene che la vita di un essere vivente (o la sua deriva ontogenetica)<br />

può essere vista come un insieme di momenti, ognuno dei quali rappresentabile<br />

alla stregua di un nodo in una complessa rete di derive ontogenetiche che si<br />

intrecciano. Ad ogni istante si viene a porre una relazione reticolare che tiene<br />

legati osservatore ed ente osservato; ciò significa che essi stanno in relazione<br />

proprio in quanto osservatore e osservato, in quel determinato momento; di<br />

conseguenza, essi possono correlarsi proprio in quanto facenti parte della<br />

medesima rete. Questo comporta l’esistenza di una solidarietà di rete tra tutti i<br />

termini in questione (ogni volta che si effettua un’osservazione). La loro<br />

relazione è cioè possibile solo in virtù di questa solidarietà, che si ottiene per via<br />

filogenetica come storia di accoppiamenti strutturali (ma di questo abbiamo già<br />

parlato), e che si implementa in ogni singolo istante di ogni deriva ontogenetica:<br />

«I sistemi viventi, interagendo in maniera ricorrente tra di loro ed anche con il<br />

medium non-biotico, formano necessariamente sistemi co-ontogenetici e co-<br />

filogenetici di derive strutturali intrecciate, che durano fino a quando essi<br />

480 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 64<br />

452


conservano la loro autopoiesi attraverso i loro accoppiamenti strutturali<br />

reciproci». 481<br />

È chiaro che seguendo questa prospettiva, ogni osservazione è rappresentabile<br />

come una relazione, nella quale i termini sono correlati alla stessa maniera di<br />

nodi all’interno della rete. E così diventa determinante per l’esito<br />

dell’osservazione la struttura che in quel momento viene ad assumere quella<br />

stessa rete. 482<br />

In questo modo, emerge anche la flessibilità che caratterizza la rete. Essa infatti<br />

non è una strutta rigida e permanente che permette le relazioni tra i nodi, ma è<br />

l’insieme delle relazioni che di volta in volta si realizzano. La sua struttura<br />

dipende da ciò che accade, nella misura in cui ciò che accade dipende dalla rete<br />

esistente. La rete ha la configurazione che gli eventi le hanno dato, ma gli eventi<br />

succedono, sono modulati, dalla struttura che la rete di volta in volta possiede.<br />

Pertanto, usando le nostre categorie per interpretare il pensiero di Maturana,<br />

possiamo dire che la relazione è figlia degli eventi, e l’evento è figlio delle<br />

relazioni. Ancora una volta, siamo in presenza di una totale reciprocità tra il<br />

“tutto” e la “parte”; o meglio, siamo in presenza di una struttura – la rete – che fa<br />

della mutualità una sua caratteristica costitutiva. 483<br />

Tradotto in termini biologici, ciò significa che, l’organizzazione di un sistema<br />

vivente proviene dalla sua storia filogenetica, la quale però può subire in ogni<br />

ontogenesi trasformazioni decisive che possono portare alla sua disintegrazione<br />

o anche ad una sua proliferazione (cioè ad un cambiamento strutturale della rete).<br />

E tutto ciò come risultato della complessa e mutevole dinamica di rapporti dei<br />

quali è parte, in ogni istante, ogni ontogenesi.<br />

481 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 63. Corsivi aggiunti.<br />

482 La solidarietà tra nodi della rete appena descritta assomiglia alla solidarietà della regione<br />

spaziotemporale di cui ci siamo occupati sopra. Ma di questo parleremo meglio nel sesto paragrafo.<br />

483 Abbiamo già visto che essa, tra le altre cose, non ha centro e periferia, non ha un interno e un<br />

esterno, non ha una configurazione piramidale, quindi non ha un alto e un basso, non è permanete e non è<br />

rigida.<br />

453


Abbiamo visto che essa (il nodo) può essere considerata a sua volta una rete, che<br />

dal punto di vista operativo, è indipendente dal suo ambiente, ma che rimane con<br />

esso accoppiata strutturalmente. Questa, allora, diventa una relazione tra sistemi<br />

che si influenzano reciprocamente.<br />

La rete risente della variazioni occorrenti ad ogni singolo nodo, quindi ogni<br />

evento che riguarda uno o più sistemi viventi modifica, non solo il sistema<br />

vivente, ma la rete nel suo complesso. La trasformazione della rete porta<br />

conseguenze per ogni altra relazione successiva, cioè va ad influire sulla<br />

dinamica di quelle relazioni.<br />

Allora, più che osservare enti o fenomeni noi osserviamo relazioni, nel momento<br />

stesso in cui siamo coinvolti in quelle relazioni, essendo noi stessi l’insieme di<br />

quelle relazioni.<br />

Ed è proprio la flessibilità (strutturale e funzionale) della rete che garantisce sia<br />

l’adattamento che la varietà. Se vengono a mancare la flessibilità e la mutualità<br />

finisce la relazione, cioè si perde una determinata filogenesi: «Le derive<br />

ontogenetiche dei membri di una filogenesi riproduttiva hanno luogo in<br />

accoppiamento strutturale reciproco con molti sistemi, viventi e non viventi,<br />

diversi e continuamente in trasformazione, che fanno parte del medium in cui si<br />

realizzano le loro nicchie. Come risultato, ogni ontogenesi individuale nei sistemi<br />

viventi segue un corso inserito in un sistema di co-ontogenesi che costituisce un<br />

reticolo di derive strutturali co-filogenetiche». 484<br />

Da questa mutualità non sfugge, ovviamente, nemmeno l’osservatore; le sue<br />

osservazioni saranno sempre influenzate dalla complessità di questa architettura;<br />

quindi egli mentre osserva si trova inserito in questa dinamica reticolare. Egli, in<br />

altre parole, non è un osservatore neutrale che osserva il fenomeno dall’esterno<br />

ma, mentre osserva, è parte di ciò che sta osservando; è nodo della rete, in<br />

relazione di mutualità con la rete. 485<br />

484 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 68<br />

485 La situazione è quella del quadro di Escher “La galleria delle stampe”: «Il quadro che il ragazzo<br />

guarda, gradualmente e impercettibilmente, si trasforma nella città in cui si trova la galleria! Non<br />

sappiamo dove situare il punto di partenza: fuori o dentro? La città o la mente del ragazzo? Il<br />

454


Egli è nello stesso tempo rete (come sistema vivente) e nodo di rete (nella<br />

relazione che lo lega all’ambiente). La sua osservazione non è uno sguardo<br />

oggettivo su quello che lo circonda, ma una relazione reticolare (in<br />

accoppiamento strutturale) tra sé e il suo ambiente. 486 Maturana sostiene infatti<br />

che: «L’osservatore come sistema vivente non fa eccezione a tutto ciò che si è<br />

detto. A causa di questo, egli può compiere soltanto quelle distinzioni che,<br />

realizzate come distinzioni nella sua prassi, si attuano nel presente del dominio di<br />

coerenze operative costituito dal reticolo di derive strutturali co-ontogenetiche e<br />

co-filogenetiche cui egli appartiene». 487<br />

Ciò significa, ad esempio, che non esiste un’unica verità che lo scienziato deve<br />

cercare di scoprire, ma ogni teoria è un modo di mettere i relazione nodi. Non<br />

esiste un unico universo, ma molteplici multiversi ognuno dei quali è una<br />

configurazione attribuibile alla rete in un certo momento e ad un certo stato della<br />

relazione.<br />

E ogni teoria è formulata dall’interno, nessuno può osservare la rete dall’esterno,<br />

senza essere egli stesso in ogni istante “nodo di un reticolo di derive<br />

ontogenetiche”. Ciò significa, che non esistono oggetti in natura ma ogni unità e<br />

determinata nel modo in cui l’osservatore cerca di determinarla. Tutto dipende<br />

dalla posizione occupata in ogni istante all’interno della rete, e quindi tutto<br />

dipende dalla configurazione che ogni osservatore attribuisce alla rete. Non ci<br />

sono oggetti separati, ma relazioni attraverso le quali si distinguono le unità,<br />

all’interno della rete.<br />

E questo non è assolutamente relativismo, perché tale posizione è completamente<br />

specificabile e una volta specificata, essa consente previsioni esatte del fenomeno<br />

in osservazione. Questa impostazione consente di determinare le grandezze del<br />

riconoscimento di questa circolarità conoscitiva non costituisce tuttavia un problema per la comprensione<br />

del fenomeno della conoscenza, ma in realtà fissa il punto di partenza che permette la sua spiegazione<br />

scientifica».<br />

H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, op. cit. pag 201<br />

486 Relazione che si manifesta sempre come evento.<br />

487 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 69. Corsivi aggiunti.<br />

455


sistema in oggetto con totale precisione: «Se prendiamo seriamente le nostre<br />

spiegazioni come scienziati, allora dobbiamo accettare come caratteristica<br />

ontologica della nostra attività di osservatori che ogni entità da noi costruita<br />

nelle nostre distinzioni è dove è ed ha la struttura che ha nell’unica maniera<br />

possibile nel dominio di coerenze operative (dominio di determinismo) che è il<br />

suo dominio d’esistenza, anch’esso costruito da noi nella sua distinzione». 488<br />

Quindi ognuno dei multiversi costruiti da un dato osservatore permette previsioni<br />

accurate (se concepito con coerenza), perché e totalmente determinato.<br />

È chiaro che non si deve ignorare che il sistema è costruito, quindi relativo ad un<br />

certo osservatore (in un certo momento). Ma si deve anche tener conto del fatto<br />

che l’osservatore appartiene ad un certo reticolo di derive strutturali, e quindi la<br />

teoria è costruita all’interno di un dominio di coerenze operative relativo a quelle<br />

derive ontogenetiche e filogenetiche; di conseguenza, il dominio di distinzioni<br />

usato è condiviso, ed è l’unico possibile all’interno di quel reticolo.<br />

Ciò che Maturana intende confutare allora è l’idea dell’esistenza di un unico<br />

universo uguale per ogni osservatore e permanente nella sua essenza; cioè, l’idea<br />

di un universo indipendente dall’osservatore (materiale, esterno), che potrà prima<br />

o poi essere descritto nella sua vera ed unica struttura, del quale potranno essere<br />

conosciute prima o poi le sue leggi fondamentali. Questa è un’idea basata sulla<br />

separazione tra un interno ed un esterno – entrambi completamente e<br />

univocamente determinati, nella loro unica ed inalterabile struttura (idea come si<br />

capisce, opposta a quella della rete inclusiva e flessibile, dalla quale non si può<br />

uscire, e dalla quale non si può prescindere).<br />

488 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 52. Corsivi aggiunti<br />

456


VI) Autocoscienza e realtà<br />

Bisogna sottolineare che, ognuno dei multiversi è, ovviamente, una struttura<br />

linguistica. È una teoria sul mondo. E non si deve confondere la coerenza che<br />

deve possedere una teoria, con la presunta corrispondenza tra una struttura<br />

linguistica e una struttura materiale. Ogni dualismo è il frutto del tentativo di<br />

stabilire una corrispondenza tra il contenuto normativo di una teoria e le<br />

cosiddette leggi di natura. Operando in questo modo si dimentica che, la teoria è<br />

una descrizione operativa in campo linguistico e, come tale, non può uscire da<br />

tale ambito.<br />

Abbiamo già ricordato, nel primo paragrafo del primo capitolo 489 , che per<br />

Maturana il linguaggio è frutto di interazioni ricorsive co-ontogenetiche, le quali<br />

consentono di trasformare azioni consensuali in simboli consensuali; i simboli<br />

sostituiscono e occultano tali azioni consensuali. Quindi, l’ambito di azione<br />

linguistico è definibile come un dominio di accoppiamento strutturale co-<br />

ontogenetico di perturbazioni strutturali reciproche.<br />

La conseguenza più importante di questo modo di intendere il linguaggio è la<br />

smaterializzazione degli oggetti. Infatti, se il linguaggio è frutto di relazioni<br />

ricorsive, attraverso le quali si operano distinzioni consensuali sui domini<br />

d’esistenza degli esseri viventi, gli oggetti non possono che essere altrettante<br />

relazioni consensuali determinate da tali distinzioni. In altre parole, gli oggetti<br />

non sono entità stabili presenti in natura, che prima o dopo vengono percepiti dal<br />

soggetto (e ai quali egli attribuisce un nome), ma “relazioni operative nell’agire<br />

linguistico”. «Gli oggetti sorgono nel linguaggio come coordinazioni consensuali<br />

di azioni che, in un dominio di distinzioni consensuali, stanno per altre<br />

coordinazioni d’azioni più fondamentali da esse occultate. Senza linguaggio e al<br />

di fuori del linguaggio non ci sono oggetti, perché gli oggetti sono costituiti<br />

489 Dove ci siamo occupati della reciprocità tra l’aspetto biologico e quello linguistico.<br />

457


unicamente come coordinazioni consensuali di azioni nella ricorsività di<br />

coordinazioni consensuali che è l’agire linguistico». 490<br />

Uscire dal dualismo significa abbandonare la convinzione dell’oggettività, del<br />

mondo. Significa sostituire alla sostanza la relazione, perché ogni cosa per<br />

quanto solida possa apparire, è il frutto delle relazioni tra l’io e il suo mondo (che<br />

sono anch’esse strutture relazionali e linguistiche). 491<br />

Se questo è vero, la conoscenza non è, né rappresentazione, né descrizione del<br />

mondo esterno, ma è una riflessione su quello che stiamo facendo; la conoscenza<br />

cioè non ci permette di raggiungere la realtà esterna nella sua unicità e<br />

oggettività, ma ci consente “solo” di avere consapevolezza della nostra esistenza<br />

. Infatti, anche l’esistenza è qualcosa che si ottiene nel linguaggio. L’io quindi,<br />

lontano dall’essere un ente indipendente nello spazio e nel tempo assoluti, è il<br />

frutto di un’azione ricorsiva in un dominio consensuale di distinzioni. La nostra<br />

autocoscienza dipende dal linguaggio che usiamo; la percezione di sé è<br />

direttamente proporzionale allo strumento linguistico che si ha disposizione.<br />

L’autocoscienza si manifesta nel linguaggio, come ogni altro oggetto che ci<br />

circonda. Allora, coscienza di sé e mondo sono concetti che si formano uno in<br />

relazione all’altro. Non ci sono interno ed esterno, ma distinzioni ricorsive<br />

consensuali che si coimplicano. Il mondo – così come lo conosciamo – non ci<br />

precede, ma nasce e si sviluppa contestualmente all’autocoscienza in relazione al<br />

linguaggio che via, via si ha a disposizione. 492 «Il sé nasce linguisticamente<br />

nella ricorsività linguistica che costruisce l’osservatore come entità spiegandone<br />

il funzionamento entro un dominio di distinzioni consensuali…La realtà sorge<br />

insieme con l’autocoscienza linguisticamente come spiegazione della distinzione<br />

490 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 91<br />

491 Lo abbiamo visto trattando di relazione e di evento da una prospettiva filosofica, ci è stato<br />

confermato interpretando la fisica della realtà spaziotemporale, e ci viene ribadito ancora una volta dalle<br />

considerazioni che stiamo facendo in ambito biologico.<br />

492 E queste, lo ricordiamo, sono conclusioni che abbiamo già raggiunto usando altri percorsi.<br />

458


tra sé e non-sé nella prassi dell’osservatore». 493 Il rapporto tra sé e non-sé<br />

(mondo), manifesta direttamente la sua natura linguistica, ma nello stesso tempo<br />

rimanda alla relazione reticolare tra organismo e ambiente. Quest’ultima è una<br />

relazione linguistica, perché ogni distinzione operativa consensuale è linguaggio.<br />

D’altra parte, la produzione del linguaggio, come ricorsività di coordinazioni<br />

consensuali è possibile quando la “ricorsività interna della dinamica di stati del<br />

sistema nervoso si associa al ripetersi di coordinazioni comportamentali sociali”.<br />

Ciò significa che, la relazione organismo-ambiente è si linguistica, ma nel<br />

contempo è condizione per il sorgere il linguaggio. Da un lato, abbiamo<br />

consapevolezza della distinzione tra sé e non-sé grazie al linguaggio (o meglio,<br />

questa è una distinzione esclusivamente linguistica); dall’altro, il linguaggio è il<br />

frutto degli intrecci delle nostre derive co-ontogenetiche e co-filogenetiche.<br />

Allora, sistema nervoso, e linguaggio sono in accoppiamento strutturale. Si<br />

influenzano reciprocamente.<br />

Non ci sono fondamenti o sostrati sui quali costruire una struttura piramidale che<br />

funzioni come descrizione della realtà. Non esiste un principio primo, inconcusso<br />

e assoluto dal quale partire: «Usando il linguaggio noi restiamo nel linguaggio, e<br />

perdiamo il substrato non appena tentiamo di esprimerlo linguisticamente». 494<br />

Sbaglia chi pensa che il mondo preceda il soggetto, ma sbaglia anche chi crede<br />

che sia il soggetto a precedere l’oggetto. Non si può costruire nessun ordine di<br />

precedenza assoluto, essendo noi derive co-ontogenetiche (e co-filogenetiche)<br />

immerse nel linguaggio.<br />

Se tutto ciò di cui parliamo, compresi lo spazio, il tempo, la materia, sono entità<br />

linguistiche, è chiaro che esse esistono solo nel linguaggio, come tali dipendono<br />

dall’accoppiamento strutturale che si realizza tra l’ambiente e ogni singolo<br />

organismo. «Noi non esistiamo in un dominio d’esistenza fisico pre-esistente, ma<br />

lo costruiamo e lo definiamo attraverso il nostro esistere come osservatori.<br />

493 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 121<br />

494 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 110<br />

459


L’esperienza del fisico, che si occupi di fisica classica, relativistica, o quantistica,<br />

non riflette la natura dell’universo, ma riflette l’ontologia dell’osservatore come<br />

sistema vivente, in quanto egli opera linguisticamente mentre realizza le entità<br />

fisiche e le coerenze operative dei loro domini d’esistenza». 495 Secondo tale<br />

prospettiva ogni osservatore, nell’ambito del suo accoppiamento strutturale,<br />

costruisce uno dei multiversi possibili, usando le operazioni ricorsive di<br />

distinzione consensuale che costituiscono il suo domino d’esistenza. Allora, non<br />

esiste un unico universo che contiene tutte le esistenze, al quale ogni osservatore<br />

deve cercare di adeguarsi, ma ogni osservatore è in accoppiamento strutturale<br />

con uno dei multiversi. Quindi “senza osservatori non esiste nulla, e con gli<br />

osservatori tutto ciò che esiste, esiste nella spiegazione…Nulla esiste prima di<br />

essere distinto. In questo senso le case, le persone, gli atomi o le particelle<br />

elementari non fanno differenza”. 496<br />

Questa è un’altra versione del solipsismo? Abbiamo già visto che ogni sistema<br />

vivente e quindi anche gli esseri umani sono sistemi chiusi dal punto di vista<br />

operativo, ma sono in accoppiamento strutturale col loro medium. L’agire<br />

linguistico non cambia questa condizione costitutiva. Di conseguenza, ognuno<br />

dei multiversi e differente ma commensurabile rispetto agli altri. Ed è proprio la<br />

comune prassi linguistica accoppiata alle nostra condizione di derive co-<br />

ontogenetiche e co-filogenetiche che determina la commensurabilità. Noi siamo<br />

nodi di una rete, e i nodi sono tutti in relazione reciproca tra loro.<br />

Un’altra conseguenza importante di questa impostazione, viene dalla seguente<br />

considerazione: se il linguaggio è frutto di un accoppiamento strutturale tra<br />

l’ambito organico e quello ambientale (in questo caso sociale) significa che,<br />

come ogni accoppiamento strutturale, esso provoca modificazioni strutturali in<br />

entrambe le parti coinvolte; in altre parole: «Con il cambiare del corpo, cambia<br />

l’agire linguistico, e con il cambiare dell’agire linguistico cambia il corpo. Qui<br />

495 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 114<br />

496 E anche da queste affermazioni si capisce che la distinzione implica il riferimento, ed essa è<br />

tutt’altro dalla separazione interno-esterno (soggetto-oggetto) postulata dal dualismo.<br />

460


isiede il potere delle parole. Le parole sono entità astratte nell’agire linguistico,<br />

ma sono interazioni strutturali nel linguaggio, ed è per questo che il mondo che<br />

noi realizziamo nell’agire linguistico entra a far parte del dominio in cui hanno<br />

luogo le nostre derive ontogenetiche e filogenetiche». 497 Il linguaggio non è solo<br />

uno strumento di riflessione, o un semplice canale di trasmissione d’informazioni<br />

tra parlanti, ma il suo uso provoca cambiamenti strutturali tanto nell’ambiente<br />

quanto nell’organismo. Non si tratta solo della dipendenza che l’osservatore ha<br />

nelle sue osservazioni, e nelle sue descrizioni, nei confronti di questo strumento;<br />

ma si tratta del fatto che, da un lato, l’azione linguistica va a incidere sulle<br />

strutture che essa chiama in causa, dall’altro, la struttura biologica condiziona<br />

l’agire linguistico; tale circolarità è ineliminabile: ad un corpo diverso<br />

corrisponde un linguaggio diverso. Anche tra linguaggio e organismo c’è una<br />

totale mutualità.<br />

Quindi l’uomo come osservatore nel dominio dell’agire linguistico, è al centro di<br />

un'altra circolarità tra il suo modo di descrivere il mondo e le conseguenze che<br />

tali descrizioni comportano. Il linguaggio viene influenzato dall’uso che ne viene<br />

fatto, ma nello stesso tempo, influisce su quest’uso. E non solo a livello<br />

semantico, ma addirittura a livello di strutturale. «Operare nel linguaggio non è,<br />

come si pensa solitamente, un’attività astratta. Agire linguisticamente significa<br />

interagire dal punto di vista strutturale…Sebbene l’agire linguistico avvenga nel<br />

dominio sociale come una danza ricorsiva di relazioni di coordinazione<br />

comportamentale, le interazioni nel linguaggio innescano nella corporeità dei<br />

partecipanti nuovi cambiamenti strutturali che trasformano tanto lo sfondo<br />

fisiologico (situazione emozionale), su cui il loro agire linguistico è portato<br />

avanti, quanto il corso che questo assumerà». 498<br />

497 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 93<br />

498 E continua così: «Ne deriva che le coordinazioni comportamentali sociali dell’agire linguistico,<br />

come elementi di un dominio di operazioni ricorsive in situazioni di accoppiamento strutturale, entrano a<br />

far parte del medium in cui i partecipanti conservano l’organizzazione e l’adattamento grazie ai<br />

cambiamenti strutturali dovuti alla loro partecipazione a qual dominio».<br />

H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 92<br />

461


E questo è un altro elemento contro il relativismo e il solipsismo: se il mondo che<br />

realizziamo nel linguaggio entra a far parte delle derive ontogenetiche e<br />

filogenetiche, significa che non c’è spazio per il relativismo; infatti, non esiste la<br />

possibilità di produrre infinite descrizioni linguistiche dello stesso mondo<br />

esterno, tutte ugualmente valide perché manca il criterio di verifica universale;<br />

ma tra linguaggio e mondo c’è un accoppiamento strutturale, che va ad incidere<br />

sulla nostra struttura ontogenetica e filogenetica (e che contestualmente dipende<br />

da queste); allora, a determinate ontogenesi non potranno che corrispondere<br />

certe strutture linguistiche, e quindi uno spettro compatibile di descrizioni<br />

possibili (vale sempre l’immagine della rete).<br />

È vero che tutto si gioca all’interno dell’agire linguistico, ma è anche vero che<br />

tale agire non è del tutto incondizionato. Il linguaggio non è uno strumento<br />

neutro, una sorta di apriori uguale per ogni essere umano; ma esso dipende e<br />

nello stesso tempo influenza sia l’ontogenesi, sia la filogenesi. Si viene a porre<br />

quindi una coerenza strutturale e operativa tra l’aspetto linguistico e quello<br />

biologico.«Il nostro vivere ha luogo in accoppiamento strutturale con il mondo<br />

che noi stessi realizziamo, e il mondo che noi realizziamo è quello che facciamo<br />

come osservatori nel linguaggio, operando in accoppiamento strutturale<br />

linguistico nella prassi del nostro vivere». 499<br />

Resta, allora, la convinzione che la configurazione reticolare, uscita da queste<br />

considerazioni, non implica incertezza e provvisorietà. L’ assenza della causalità<br />

non porta fatalmente nella casualità. Anzi, una volta provata l’inefficienza della<br />

spiegazione causale, non resta che affidare le prerogative della scienza, le sue<br />

aspirazioni descrittive, la sua tensione predittiva, a modelli meno pretenziosi, ma<br />

anche meno artificiosi.<br />

La reticolarità e la relazionalità sono le proprietà di questo modello. Modello che<br />

si basa sulla convinzione che: «Ogni sistema vivente, inclusi noi osservatori, in<br />

ogni istante si trova dove si trova, ha la struttura che ha, e fa quello che sta<br />

499 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 125<br />

462


facendo in quell’istante, in quanto immerso in una situazione strutturale e<br />

relazionale che costituisce il presente di una deriva ontogenetica, che comincia<br />

nel momento stesso in cui il sistema nasce come tale, in un luogo particolare con<br />

una struttura particolare, e segue l’unico percorso che può seguire». 500 E che<br />

quindi è ancora determinabile, è ancora scientifico, ma è impostato su un diverso<br />

paradigma epistemologico.<br />

I multiversi non sono sinonimo di caos, ma più matura consapevolezza della<br />

irriducibile complessità del reale. Sono il risultato di una prospettiva<br />

epistemologica che rifiuta il riduzionismo, perché consapevole della artificiosità<br />

del riduzionismo.<br />

500 E continua dicendo: «diversi tipi di sistemi viventi differiscono rispetto alla gamma di ontogenesi<br />

che per ciascuno di essi appaiono possibili (ad un osservatore nel suo discorso) come risultato delle<br />

differenze di struttura iniziale e di punto di partenza, ma ogni ontogenesi che si attua avviene come una<br />

deriva ontogenetica unica, in un processo che non ha alternative». Maturana, Autocoscienza e realtà, op.<br />

cit. pag. 54<br />

463


Conclusioni<br />

Si tratta ora di fare un ultimo collegamento tra quanto detto in questo capitolo e<br />

le cose sostenute in precedenza.<br />

Abbiamo parlato di evento e di regione spaziotemporale, per poter sostenere che<br />

l’essere vivente si dà e si fa evenenzialmente nelle relazioni che lo coinvolgono.<br />

Abbiamo riconsiderato il concetto di relazione per poter uscire dalla prigione del<br />

dualismo, e per poter impostare la relazione io-mondo su basi nuove, per poter<br />

dire che ognuno di noi partecipa da sempre ad un mondo col quale è in rapporto<br />

di mutualità e solidarie tà.<br />

A nostro avviso, per esprimere questa idea sono necessari proprio i concetti di<br />

evento e di relazione; i quali consentono di mostrare come si combinano la<br />

coscienza di sé con questo incessante sviluppo organico-ambientale; del resto,<br />

abbiamo visto che la stessa idea di rete (che ci coinvolge a più livelli) è un modo<br />

(efficace) di mostrare il darsi delle relazioni evenemenziali.<br />

Come osservatore io sono inserito in una continua trasformazione<br />

spaziotemporale che si manifesta nel modo dell’evento (di evento in evento). La<br />

realtà è un insieme di relazioni evenemenziali nel quale io stesso sono coinvolto;<br />

quindi l’evoluzione spaziotemporale riguarda anche l’osservatore, mentre<br />

osserva.<br />

Anche il mio essere biologico è inserito in questo contesto, anche il mio<br />

organismo (e in particolare il mio cervello) evolve in modo evenemenziale e<br />

regionale. Esso è (e io sono) una collezione (un insieme) di eventi tenuti insieme<br />

dalla mia autocoscienza. La quale, a sua volta, si afferma nello spaziotempo<br />

come conseguenza delle relazioni evenemenziali nelle quali è coinvolta.<br />

Queste sono considerazioni che abbiamo già fatto nel primo capitolo, dedicato al<br />

tema dell’evento. L’idea della relazione evenemenziale, infatti, mette in primo<br />

piano la mutualità e la solidarietà tra tutte le strutture coinvolte nella relazione<br />

tra l’io e il suo altro. In questi ultimi due capitoli abbiamo cercato proprio di<br />

evidenziare questa reciprocità; quindi il percorso tracciato si è aperto, nel primo<br />

464


capitolo, con le considerazioni a proposito della solidarietà tra percezione e<br />

linguaggio, e si chiude ora, trattando temi analoghi; con l’ausilio però, di tutto<br />

ciò che si è detto nel frattempo, a proposito del riferimento e del differimento,<br />

dell’evento, della solidarietà, della coniugazione, della rete, ecc.<br />

Siamo ricorsi alla biologia perché ci sembra che proprio da questa disciplina<br />

vengano le immagini più forti e più convincenti a sostegno del nostro punto di<br />

vista. Ci sembra che le considerazioni di Maturana non possano non essere<br />

considerate filosofia, perché vanno a toccare l’uomo nella sua struttura più<br />

profonda. Noi, almeno, ci siamo sentiti chiamati in causa dalla sua speculazione,<br />

e abbiamo cercato di rispondervi.<br />

I) Relazione evenemenziale ed essere biologico<br />

Nel decimo paragrafo del primo capitolo, abbiamo accennato alla solidarietà<br />

verticale e orizzontale che possiedono gli elementi nello spaziotempo.<br />

Tale solidarietà allora (l’ insieme dei termini della regione) può essere<br />

considerata anche dal punto di vista biologico. Il nostro ponte verso “l’altro” 501 ,<br />

la nostra maniera di correlarci all’altro – cioè innanzitutto di “sentirlo”, di<br />

“percepirlo”, e il modo nel quale questo avviene – è il risultato di una evoluzione<br />

filogenetica durante la quale organismo e ambiente si sono reciprocamente<br />

adattati. 502<br />

La relazione si è implementata nel corso dei millenni, si è trattato di una<br />

evoluzione (spaziotemporale) che ha portato l’uomo e il suo ambiente ad<br />

“essere” quello che “sono”. Infatti, è indubbio che l’uno e l’altro “siano”<br />

501 Tutto quello che ci circonda, tutto quello con cui siamo in relazione nella nostra vita.<br />

502 Nel senso che si sono commisurati uno all’altro. Il concetto di “adattamento” qui sta ad indicare<br />

l’affinità tra gli elementi in questione, che si costituisce e si implementa nello spaziotempo.<br />

465


qualcosa di determinato, consistente, presente, ma è altrettanto vero che “non<br />

sono” niente di assoluto, indipendente, unico, autonomo e “oggettivo”. Non si<br />

deve perciò confondere la soggettività con l’individualità. 503<br />

Il fatto che sia possibile distinguere (discernere) un determinato ente (dagli altri)<br />

non significa che esso sia isolato, e a se stante nel mondo. Non occorre che l’ente<br />

sia una sostanza indipendente e autonoma perché sia possibile “individuarlo”. 504<br />

Allora, tra il concetto di individuo e quello di soggetto – alla luce di quello che si<br />

è finora sostenuto – è possibile affermare una completa discontinuità.<br />

Il mondo che l’uomo percepisce è qualcosa di particolare, relativo<br />

esclusivamente alla sua specie, e frutto di una complessa serie di fattori organici<br />

e ambientali. Gli aggiustamenti reciproci e in progress, prodotti dalla relazione<br />

organismo-ambiente, hanno avuto una dinamica spaziotemporale; e quindi, la<br />

loro solidarietà reciproca non è cominciata ad un certo punto, o in un certo<br />

momento, ma è una caratteristica intrinseca alla relazione.<br />

La struttura evenemenziale caratterizza da sempre i rapporti tra i termini delle<br />

diverse relazioni. Così, risalire nel tempo significa in realtà “risalire” nello<br />

spaziotempo; significa riferirsi agli elementi come sono nella loro configurazione<br />

spaziotemporale, e quindi chiamare in causa la loro solidarietà (verticale e<br />

orizzontale).<br />

Non sappiamo precisamente in che modo si sia formata la Terra, come si siano<br />

originate le prime forme di vita, ma possiamo comunque asserire, con una certa<br />

sicurezza, che l’essere umano “proviene” da quelle; 505 nel senso che, appunto,<br />

nello spaziotempo si manifesta la solidarietà tra tutti gli elementi coinvolti in<br />

entrambe le direzioni. Allora, per un verso, si mostra la solidarietà filo e<br />

ontogenetica tra gli organismi (infatti ogni forma di vita pluricellulare proviene<br />

503 Errore commesso dalla modernità che appunto considerava l’individuo alla stregua di un “soggetto”,<br />

cioè come qualcosa di assolutamente autonomo e separato rispetto al suo contesto.<br />

504 Nel senso di dargli una sembianza, un’identità.<br />

505 Senza voler dare una connotazione troppo stringente al verbo “provenire”, per non addentrarci, ora,<br />

in problemi troppo complicati; che sono stati comunque oggetto di discussione in alcuni dei precedenti<br />

paragrafi.<br />

466


da quelle unicellulari); per l’altro, quella spaziotemporale (dal momento che la<br />

loro relazione avviene in modo evenemenziale). 506<br />

Ognuna di esse fa emergere l’originarietà della relazione tra i termini, comunque<br />

essi vengano considerati. E se si considerano contestualmente si manifesta la<br />

natura evenemenziale della relazione.<br />

L’uomo può essere considerato un risultato, ciò che tiene insieme una<br />

determinata serie di mutamenti, e di relazioni ambientali; queste hanno portato<br />

ad una sempre maggior specializzazione funzionale ed organica, la quale ha<br />

consentito l’individuazione (il riconoscimento, ovvero la distinzione linguistica)<br />

di questa precisa “specie” (che può naturalmente essere definita solo a posteriori<br />

e attraverso procedimenti tassonomici). Allo stesso modo, l’evoluzione ha<br />

permesso una crescente presenza di organismi, una crescente varietà biologica,<br />

(organismi che possono anche essere considerati come termini costituenti<br />

particolari regioni).<br />

In altre parole, se ammettiamo l’esistenza della cosiddetta “razza umana”,<br />

individuabile per una serie di caratteristiche e peculiarità, essa è appunto il frutto<br />

di una storia genetica, e (contestualmente) di un certo tipo di relazioni<br />

spaziotemporali. Nel senso che, le diverse relazioni organico-ambientali<br />

avvengono come evento. L’uomo è qualcosa di determinato, l’ambiente è<br />

qualcosa di determinato, ma tali determinazioni sono totalmente relative; riferite<br />

cioè l’una all’altra.<br />

Si è passati dalle prime forme organiche all’attuale varietà, grazie ad una<br />

proliferazione e ad una modificazione costante e continua di forme viventi<br />

verificatasi a livello ontogenetico e filogenetico. Ognuna di esse rappresenta un<br />

“modo di essere” sempre più distinto e caratteristico; ognuna di esse è la<br />

configurazione di un rapporto che si è evoluto in modo del tutto peculiare e<br />

unico. 507<br />

506 Il tutto sempre e comunque in una configurazione che non può non essere linguistica.<br />

507 Maturana parla di uniformità della organizzazione e di modificazioni della loro struttura.<br />

467


Per ogni organismo esiste il relativo ambiente, tanto che sarebbe opportuno non<br />

separare le due entità ma riferirsi sempre a quella relazione distintiva. 508<br />

Tra le sempre più numerose ontogenesi, quindi, c’è una provenienza comune, e<br />

tra le molteplici ontogenesi presenti e le relative filogenesi, c’è una sicura<br />

reciprocità. Ogni ontogenesi, raccoglie 509 l’insieme delle ontogenesi che l’hanno<br />

preceduta, e “contiene” così diverse diramazioni filogenetiche. Tutto ciò fa<br />

emergere una struttura di tipo reticolare, nel senso che, l’intreccio che si viene a<br />

creare tra le une e le altre ricorda l’architettura della rete.<br />

Ciò che importa sottolineare è che questo sviluppo è avvenuto in modo<br />

spaziotemporale, cioè attraverso il concatenarsi continuo di regioni<br />

spaziotemporali; e che tale concatenamento mostra una struttura reticolare (cioè<br />

relazionale, solidale e flessibile). Le molteplici filogenesi sono rappresentabili<br />

anche come una successione di “piani” 510 per i quali solidarietà verticale ed<br />

orizzontale stanno una in funzione dell’altra, per le quali non è possibile separare<br />

nettamente lo spazio dal tempo.<br />

La solidarietà verticale può essere paragonata allora alle singole filogenesi, alla<br />

loro molteplicità; queste ultime possiedono un’autonomia solo apparente,<br />

essendo il risultato della proliferazione delle relative ontogenesi; ogni forma<br />

vivente condensa un insieme ontogenetico che corrisponde alla sua filogenesi,<br />

508 Il cane ad esempio non è solo l’organismo del cane, ma un rapporto organico-ambientale preciso,<br />

tale per cui è possibile distinguere, prima della morfologia del suo corpo, quella relazione, rispetto alle<br />

altre. È ormai noto quanto diverso sia il “mondo del cane” rispetto al nostro. Esso diverge profondamente<br />

rispetto agli odori, ai colori, ai rumori presenti. Non è solo il fatto che il cane ne percepisce più o meno di<br />

noi, ma che tale “percezione” gli mostra un mondo diverso dal nostro; Ciò significa che si viene a<br />

configurare una relazione del tutto peculiare tra quell’organismo e quel mondo. Allora, è corretto<br />

affermare che il mondo è sempre lo stesso, cambia soltanto la quantità di cose che l’uno o l’altro<br />

organismo percepiscono? Una affermazione del genere, è evidente, parte dal preconcetto soggettivistico.<br />

È costruita cioè su di un determinato paradigma filosofico, le cui caratteristiche sono state più volte<br />

criticate in precedenza. Modello che separa, isola, gli enti dal loro contesto, e non riesce poi a farli<br />

ricongiungere.<br />

509 Per il concetto di raccoglimento accolto in questo scritto si rimanda al primo capitolo della terza<br />

parte.<br />

510 L’idea della successione di “piani” non deve però essere fuorviante, non c’è alcuna relazione – lo<br />

ribadiamo – tra il piano bidimensionale (spaziale) cartesiano, e il piano inteso come regione<br />

spaziotemporale.<br />

468


ma tale filogenesi raccoglie una varietà ontogenetica che retrospettivamente<br />

accomuna sempre più numerose caratteristiche biologiche. Viceversa questa<br />

proliferazione organica è il risultato dei diversi percorsi filogenetici (torna<br />

l’immagine della rete). Le une sono quindi irrimediabilmente legate alle altre, e<br />

questo non solo in virtù della loro solidarietà biologica, ma anche di quella<br />

spaziotemporale, nel senso che l’evoluzione è avvenuta ed avviene secondo<br />

parametri spaziotemporali.<br />

In altre parole, l’individualità di un organismo oggi (l’insieme dei suoi<br />

“caratteri” 511 distintivi) non deve essere confusa con la sua presunta<br />

indipendenza dall’ambiente (la famigerata soggettività), essendo l’individuo<br />

riconducibile (spaziotemporalmente) a tutto ciò che la circonda. 512<br />

Allora, la solidarietà orizzontale (che in tale circostanza può essere definita<br />

“percezione”: quel tipo di relazione che ci lega al contesto attraverso i cosiddetti<br />

organi di senso), è la manifestazione di una struttura reticolare che tiene tutto<br />

unito nello spaziotempo. Tale solidarietà non può prescindere da quella verticale,<br />

quella cioè, che tiene insieme le diverse filogenesi.<br />

Noi viviamo nel mondo che la nostra evoluzione biologica ci ha messo a<br />

disposizione, e conosciamo il mondo che la nostra struttura linguistica ci<br />

consente di conoscere. I due aspetti sono inscindibili e mutuamente collegati.<br />

Risulta così ancora una volta, da un lato, la peculiarità dei diversi percorsi, e<br />

quindi l’esclusività di ogni rapporto organismo -ambiente, dall’altro la solidarietà<br />

genetica e spaziotemporale che caratterizza l’insieme. 513<br />

La percezione quindi non è quella funzione organica che permette l’incontro tra<br />

due entità separate, autonome, reciprocamente estranee (definite proprio in virtù<br />

511 Abbiamo visto che dipingere l’individuo come un insieme di caratteri definiti oggettivamente e<br />

magari geneticamente è per lo meno azzardato.<br />

512 Abbiamo più volte fatto riferimento al rapporto tra testo e contesto che può servire anche in questo<br />

caso.<br />

513 Il concetto di insieme è trattato nel primo capitolo della terza parte assieme a quello di raccoglimento<br />

e legame<br />

469


di tale estraneità “soggetto” e “oggetto”), ma è ciò che mostra una rete di<br />

relazioni spaziotemporali, le quali si sono sedimentate attraverso le filogenesi,<br />

nelle diverse ontogenesi. La percezione non collega l’ “interno” e l’ “esterno”<br />

del “soggetto” ma manifesta una “solidarietà” tra termini reciprocamente<br />

correlati.<br />

Alla fine, infatti, nella solidarietà orizzontale si riverbera quella verticale, allo<br />

stesso modo in cui ogni ontogenesi raccoglie e mostra la propria filogenesi. Ed è<br />

questo fatto che rende possibile la percezione. O meglio, questo tipo di relazione<br />

evenemenziale corrisponde al nostro modo di percepire il mondo, è la nostra<br />

percezione.<br />

La storia di ogni insieme di relazioni organismo-ambiente (ciò che siamo abituati<br />

a definire “soggetto”) deve essere considerata, non solo come il risultato<br />

dell’evoluzione genetica che un corpo ha subito nel corso del tempo, ma come il<br />

raccoglimento e la manifestazione di aspetti che costituiscono una rete<br />

spaziotemporale, nella quale non è possibile separare l’elemento spaziale da<br />

quello temporale (non ci sono unità di misura assolute); e nella quale non è<br />

possibile isolare il percepente dal percepito, cioè l’interno dall’esterno (mentre è<br />

sempre possibile distinguerli); così da far emergere la solidarietà<br />

(evenemenziale, relazionale, spaziotemporale) tra tutti gli elementi considerati.<br />

Tutto ciò, abbiamo detto, avviene in modo evenemenziale in una determinata<br />

configurazione spaziotemporale, la quale non ha nulla a che fare né col tempo<br />

misurato orologio, né con lo spazio misurato dal metro.<br />

Il tempo cronologico infatti è solamente un concetto elaborato dall’uomo, esso<br />

vive nel linguaggio e non ha alcuna consistenza al di fuori del linguaggio. Esso<br />

semplicemente non esiste se non nel linguaggio. Il tempo cronologico è legato<br />

allo spazio euclideo, e costituisce con questo le unità di misura del mondo<br />

classico. L’evento è qualcosa di diverso, è un concetto alternativo allo spazio e al<br />

tempo classici. L’evento non dipende dalla sua durata temporale, anzi a rigor di<br />

termini non ha neppure senso misurarla: se la potessi misurare infatti dovrei<br />

ammettere l’esistenza del tempo assoluto (esterno e indipendente da ogni<br />

470


evento). L’orologio che dovrebbe misurare l’evento, è sempre parte dell’evento<br />

misurato. È parte della stessa regione spaziotemporale che vorrebbe misurare, è<br />

solidale con essa, quindi il tempo che misura vale solo al suo interno, e solo se si<br />

conviene nella validità e nella modalità della sua misurazione. In altre parole, il<br />

tempo cronologico non misura l’evoluzione dell’universo, ma può valere come<br />

unità di misura all’interno dell’evento, se si specificano prima le condizioni di<br />

attuabilità della misurazione. È qualcosa di artificiale che vale solo se preceduto<br />

da un protocollo d’intesa.<br />

Il tempo misurato dall’osservatore non raggiunge la realtà esterna, ma rimane un<br />

concetto linguistico valido solo nell’agire linguistico. Il tempo, allora, è solo un<br />

utile strumento elaborato dall’uomo, che non possiede alcuna “oggettività”; serve<br />

come può servire una zappa, un carro, un servizio bancario, o la rete telematica.<br />

Facciamo l’esempio dell’uomo che cammina: secondo l’interpretazione moderna<br />

l’ente stabile “corpo” si sposta nello spazio allo scorrere del tempo; questo è il<br />

fenomeno che la meccanica cerca di descrivere e di spiegare. Secondo il nostro<br />

modello non c’è l’ente stabile, né ci sono lo spazio e il tempo assoluti; si<br />

verificano invece mutamenti di regioni spaziotemporali. Queste considerate nel<br />

loro insieme danno l’immagine dell’uomo che si sposta da un punto (che<br />

possiamo chiamare “A”) ad un altro (definito “B”), entrambi ritenuti fissi.<br />

Allora, la persona che si sposta rappresenta per noi un evento descrivibile come<br />

una successione di regioni spaziotemporali. Anzi essa coincide con quello<br />

spaziotempo, non è assolutamente indipendente da queste dimensioni come<br />

vorrebbe la meccanica. La struttura spaziotemporale posseduta dal corpo in “A”<br />

è diversa da quella di “B”; cioè non passa solo del tempo (al permanere dello<br />

spazio e del soggetto), ma “passa” (nel senso che muta) spaziotempo.<br />

Ogni regione può essere identificata con un evento, ma si può chiamare evento<br />

anche l’intero “movimento” 514 da “A” a “B”. Il gruppo degli elementi che<br />

514 Secondo la meccanica “movimento”, secondo il nostro punto di vista “mutamento”.<br />

471


determina la situazione “A” costituisce un insieme solidale, legato al gruppo “B”<br />

da una relazione “coniugativa”. 515<br />

“B” è un altro insieme, che pur coinvolgendo gli stessi elementi, mostra<br />

l’evoluzione spaziotemporale di questa relazione. 516<br />

La relazione costituisce, una solidarietà orizzontale tra termini (regione) – che<br />

può anche essere definita insieme, e una solidarietà verticale tra aspetti – che<br />

possiamo chiamare coniugazione. La prima e la seconda formano l’unione<br />

spaziotemporale dell’evento in questione. 517<br />

Per l’uomo che osserva, che percepisce, la situazione non cambia; La percezione<br />

avviene sempre su piani spaziotemporali solidali. Essa è una coniugazione<br />

regionale che mostra la relazione organismo-ambiente (nel modo visto appena<br />

sopra).<br />

La situazione è la stessa anche per l’uomo che pensa, che “riflette”. La<br />

“riflessione” mette in relazione, anche in questo caso, due piani spaziotemporali<br />

solidali. L’uomo che riflette infatti parla a se stesso, nel senso che comunica ad<br />

un sé traslato nello spaziotempo.<br />

515 Nel senso che, seguendo l’esempio fatto in precedenza, i diversi momenti della relazione sono<br />

correlati come lo sono le forme di un verbo.<br />

516 A e B sono insiemi ma anche coniugazioni di aspetti. Insieme e coniugazione sono usati sempre nel<br />

senso specificato nei capitoli precedenti.<br />

517 Allora, schematizzando (con tutti i limiti che può avere uno schema) si può dire: “solidarietà<br />

orizzontale” = “insieme”; “solidarietà verticale” = “coniugazione”. Entrambe unite e reciprocamente<br />

correlate danno l’evento. Tutto ciò vale anche a livello biologico. L’insieme degli aspetti che assume<br />

nello spaziotempo una determinata filogenesi è la manifestazione di una solidarietà verticale; e in ogn i<br />

evento che la compone si dà anche la solidarietà orizzontale.<br />

472


II) Autocoscienza e linguaggio<br />

Allora, in questo scritto, abbiamo prodotto e fornito descrizioni, usando altre<br />

descrizioni (consapevoli di essere un nodo all’interno di una rete che può essere<br />

guardata solo da dentro). Abbiamo provato a spiegare la nostra idea a proposito<br />

della relazione tra l’io e il suo altro, cercando di uscire dal dualismo mente-<br />

mondo. Abbiamo considerato tale dualismo un modo sbagliato di impostare il<br />

rapporto tra il sé e il non-sé, perché basato su una errata interpretazione di questa<br />

alterità.<br />

Il dualismo infatti è fondato su una separazione ontologica tra un interno e un<br />

esterno, tra un mentale e un corporeo, tra individuo e mondo; esso è fondato<br />

sull’idea che l’uomo in quanto soggetto, agisca in un ambiente esterno che egli in<br />

qualche modo deve cercare di conoscere. Ogni teoria che postula l’esistenza di<br />

due domini separati, e poi cerca di metterli in relazione è a nostro avviso<br />

contraddittoria. Per questo ogni dualismo è contraddittorio.<br />

Abbiamo visto che tale separazione non c’è nemmeno a livello biologico:<br />

«L’organismo nel suo funzionamento non agisce su un ambiente, né il sistema<br />

nervoso, nel generare il comportamento adeguato dell’organismo, opera in base a<br />

una rappresentazione dell’ambiente. L’ambiente esiste solo per un osservatore, e<br />

dunque è un fenomeno riguardante l’agire linguistico». 518 La differenza tra<br />

ambiente e organismo è in ultima analisi una differenza linguistica.<br />

In buona sostanza, il dualismo tra soggetto e oggetto (nelle infinite versioni fino<br />

ad oggi fornite) non fa altro che separare descrizioni (linguistiche) da altre<br />

descrizioni (linguistiche) senza averne consapevolezza. Gli oggetti sono tutti<br />

descrizioni linguistiche, il soggetto è una descrizione linguistica. La loro<br />

opposizione e sorta nel dominio dei comportamenti linguistici della razza umana,<br />

e quindi né l’uno ne gli altri possiedono essenze nascoste (sostrati) che li<br />

determinino in modo univoco e definitivo. Citiamo ancora Maturana:<br />

518 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 100<br />

473


«L’individuo esiste solamente nel linguaggio, il sé esiste solamente nel<br />

linguaggio e l’autocoscienza come fenomeno di distinzioni autoriferite ha luogo<br />

anch’essa solamente nel linguaggio. Inoltre, dal momento che il linguaggio come<br />

dominio di coordinazioni comportamentali consensuali è un fenomeno sociale,<br />

anche l’autocoscienza è un fenomeno sociale, che non avviene entro i confini<br />

anatomici della corporeità dei sistemi viventi che lo generano. Al contrario è<br />

esterno ad essi e riguarda il loro dominio di interazioni come una maniera di co-<br />

esistere». 519<br />

Il sé lungi dall’essere qualcosa di isolato, possiede invece un riferimento sociale<br />

esplicito. Il sé non riguarda direttamente un corpo, non costituisce con esso una<br />

unità soggettiva indipendente, ma esiste come fenomeno sociale che riceve dal<br />

linguaggio e nella prassi linguistica la sua implementazione. L’autocoscienza si<br />

costituisce nella solidarietà e nella mutualità delle relazioni reticolari ed<br />

evenemenziali che la coinvolgono; non c’è alcun soggetto possibile al di fuori di<br />

queste relazioni.<br />

Ogni descrizione del mondo (sia scientifica che filosofica) è fondata su concetti,<br />

che provengono da questo stesso dominio. Ogni osservatore è un nodo<br />

all’interno della rete linguistica. Egli ha innanzitutto consapevolezza di sé grazie<br />

al suo essere socio-linguistico, e il suo tentativo di raggiungere l’oggettività si<br />

scontra col fatto che anche il concetto di oggettività è una descrizione linguistica.<br />

Ogni descrizione fornita quindi si muove all’interno dello stesso alveo e non può<br />

raggiungere nulla al di fuori di esso. L’idea che esista una separazione ontologica<br />

(tipo quella tra mente e mondo) non è una cifra della realtà ma è il risultato di<br />

un'altra descrizione, che però finisce per essere contraddittoria (o tautologica). 520<br />

519 H. Maturana, Autocoscienza e realtà, op. cit. pag. 95<br />

520 Nel senso che il dualismo produce o tautologie – perché invece di collegare ambiti, o realtà separate,<br />

si muove sempre ed inconsapevolmente all’interno dello stesso alveo linguistico, e così facendo non<br />

riesce a produrre descrizioni sintetiche né del mondo, né dell’uomo – o contraddizioni – perché prima o<br />

dopo, pensando di usare il mentale (la dimensione interna) per descrivere il mondo (la dimensione<br />

esterna), si finisce sempre per congiungere o equiparare descrizioni linguistiche inconciliabili.<br />

474


Il dualista prima postula l’esistenza di entità oggettive (isolate), alle quali vuole<br />

conferire un essere proprio, indipendente, appunto, oggettivo (tenta cioè di<br />

eliminare la loro qualità di descrizioni), e poi si mette alla ricerca di questa vera<br />

natura… non riuscendo, ovviamente, a trovarla.<br />

Allora, tutto quello che si può fare è tentare di costruire teorie che abbiano una<br />

coerenza interna, che siano funzionali e operative; che abbiano una possibilità di<br />

implementazione; in altre parole, teorie che facciano della loro natura linguistica<br />

un punto di forza e non di debolezza.<br />

475


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